Guerra uscì dalla sala. Jeanne Moreau, vestita con una corta tunica candida, impugnava arco e frecce, nello studio del pittore Fergous. Curioso, pensò Arcieri, come per Truffaut la morte fosse vestita di bianco. Anche per lui, a volte, era stato così: una bambina, sua compagna di giochi, era morta di morbillo nel 1907, non lontano da quel cinematografo, che allora era un teatro di varietà. Sua madre lavorava nel mondo dello spettacolo, era una costumista... L'aveva rivestita con un abito meraviglioso, trapunto di perline, così candido che quasi splendeva. La mamma di Arcieri l'aveva portato controvoglia nella camera ardente. Lui aveva guardato a lungo, turbatissimo, il volto della bambina, che era ancora più esangue dell'abito e del lenzuolo... Anche Mata Hari, la vera spia del 1917, era vestita di bianco, davanti al plotone di esecuzione, a Vincennes. Arcieri pensò a Nanette... Cosa le avevano fatto? L'avevano seguita fino a casa, oppure avevano simulato un incidente fuori? Non riusciva a credere di essere stato causa anche della sua fine...

La freccia scoccata da Moreau trafisse il petto del pittore, colpevole eppure candido e innamorato. La morte era sempre ingiusta.

Guerra rientrò in sala poco prima della fine del film, quando la vedova in nero veniva arrestata dalla Polizia, al funerale della sua penultima vittima. «È tutto a posto. Simone e la ragazza vado a prenderli io. Tu intanto vai subito da Aldovrandi, ti aspetta.»

«Si chiama così, il tuo amico dell'esercito?»

«Sì, Giovanni Aldovrandi. Sembra il nome di un nobile, ma è un ragazzo qualsiasi. Ha trent'anni, eppure gli piace tanto quel rumore assordante che i ragazzi d'oggi chiamano musica...»

«Devo andare a casa sua?»

«No, lo trovi alla Siesta...»

«Dove?» chiese Arcieri, stupito.

«In via de' Cimatori, vicino a piazza della Signoria.»

«Sì, ma che cos'è?»

«È un locale notturno. Ci fanno musica dal vivo: cantanti, complessi beat... Lui ci passa le serate, un giorno sì e uno no, poi dorme la mattina, in caserma. Chiedi di lui al buttafuori.»

«Cosa gli hai detto, di me?»

«Non ti preoccupare, sei ancora Marcello Vanzetti, un amico della comune, ti cercano i Carabinieri per una cazzata che hai fatto.»

«È più o meno la verità...»

L'orchestra scoppiò nella marcia nuziale di Mendelssohn, mentre sullo schermo appariva la parola FINE. Il poco pubblico si alzò stancamente dalle poltroncine. Anche Bruno e Guerra si avviarono all'uscita.

«Dopo mi racconterai com'era il film...»

«Ti scriverò da San Sebastian.»

 

 

Arcieri arrivò intorno a mezzanotte in via de' Cimatori. Avvertì una specie di tremore già all'inizio della strada medievale. Poi, all'altezza della tettoia liberty del cinema Nazionale, quella vibrazione divenne un piccolo terremoto. La strada era piena di ragazzi, assiepati davanti a una porta dipinta con la vernice rossa, sotto un arco di pietra: giovanotti coi capelli lunghi che indossavano giacche nere senza bavero e camicie con gli sbuffi; altri che portavano strani soprabiti, simili a divise militari del Settecento. Le ragazze erano per lo più in minigonna e avevano tutte il trucco pesante, i capelli a caschetto e gli occhi segnati di nero, come attrici del muto. Qualcuno ballava per strada. Una specie di giovinezza dorata. Si fece largo tra loro. Lo guardavano ridendo, un po' scandalizzati per la sua età, il maglione nero e la barba lunga.

Davanti al locale avvertì una pulsazione profonda, che pareva venire dalle viscere della terra. La porta rossa si aprì d'improvviso e lo assalirono i colpi di batteria di una potente musica dal vivo, come un muro di suono. Apparve un tipo muscoloso alto due metri, barbuto, con un maglione a girocollo più nero del suo.

Fece passare quattro ragazzi, ma fermò lui sulla soglia. «Non si può più scendere, è pieno.»

«Devo vedere il signor Aldovrandi...»

«Chi è, lei?»

«Mi manda Guerra.»

Il buttafuori alzò il capo e guardò sopra le teste dei ragazzi, dietro Arcieri, poi gli fece un cenno, invitandolo a seguirlo. Richiuse la porta dietro di sé e iniziò a scendere una ripida scalinata.

Ad Arcieri parve di essere inghiottito da un inferno accogliente, caldo e fumoso. La musica pulsava sempre più vicina, per lui sconosciuta ma simile a quella di Andrea e di Simone. La scala, strettissima e ripida, si avvitava su se stessa, in una specie di pozzo dipinto di rosso. Incrociarono un paio di ragazzi con gli occhi segnati, che risalivano verso l'uscita.

Alla fine si ritrovò in una stanza piena di gente. La musica era una presenza fisica, come fossero immersi nell'acqua. Da un'altra parte del locale, arrivò all'improvviso il canto di una voce, con accento inglese:

Prendi la chitarra e vai

se ti fermi invecchierai.

Oggi il mondo si burla di te

forse un giorno ascolterà.

Il buttafuori fendeva la folla di ragazzi come un rompighiaccio. La seconda stanza era ancora più affollata. L'odore dolciastro di sudore si mischiava al fumo delle sigarette e a un profumo vagamente orientale. Nella calca, qualcuno cercava di ballare.

Prendi la chitarra e vai

tu sei giovane e perciò

non fai male a nessuno perché

senti tutti uguali a te...

In fondo c'era un varco che mandava bagliori, come se dall'altra parte ardesse un gran fuoco. Il gigante scostava i ragazzi come fossero fuscelli.

La terza stanza, molto più grande, ospitava un piccolo palco. Tutti i ragazzi erano seduti per terra e facevano ondeggiare le lunghe chiome al ritmo della musica di un complesso di cinque ragazzi barbuti, alle chitarre e alla batteria.

Il buttafuori, evitando a stento di calpestare i ragazzi, lo guidò verso una piccola porta nera, a fianco del palco. Bussò.

Entrarono in un ufficio pieno di carte, con strumenti musicali posati per terra e una piccola scrivania, in fondo, con due uomini che parlavano tra loro. La porta doveva essere insonorizzata, perché quando venne chiusa, la musica si ridusse a un sordo tappeto ritmato.

In piedi, da un lato della stanza, c'erano Simone e Sandra. Lui guardava lei, come fosse incantato. Come cambiano presto gli amori, pensò Arcieri... Era l'età, d'altra parte, gli ormoni. La ragazza, invece, aveva l'espressione sconvolta.

Arcieri aveva già varcato la soglia, quando Simone finalmente lo vide e gli si scagliò contro, con la mano destra stretta a pugno: «Che cazzo mi hai fatto...»

Uno degli uomini che erano alla scrivania lo afferrò per il colletto: «Niente stronzate, qui, d'accordo?»

Era calvo, coi lineamenti forti, e doveva aver superato i cinquanta. Il proprietario del locale, pensò Arcieri. Sicuramente doveva qualcosa a Guerra e al suo amico, ma era evidente che lo faceva molto malvolentieri.

Simone si calmò subito, ma restò impalato di fronte ad Arcieri. Si alzò dalla scrivania un uomo sui trent'anni, magro e barbuto. Gli venne incontro con la mano tesa: «Io sono Aldovrandi.»

Quel nome gli si addiceva. Indossava una specie di divisa da ussaro, con grandi bottoni dorati. Sembrava davvero un giovane aristocratico, anche nei modi. Non aveva proprio l'aria di un maresciallo dell'esercito.

«Marcello Vanzetti...» mormorò Arcieri.

«Guerra mi ha spiegato ogni cosa. Ora devo andare di là, questa è una serata speciale, ma appena finisce lo spettacolo vi porto io tutti e tre in un posto sicuro. È meglio che nel frattempo restiate qui, c'è una brandina e la ragazza può stendersi.» Aldovrandi ispirava fiducia, forse per la voce gentile ma ferma. Prima di uscire dall'ufficio, insieme al proprietario del locale, si girò un'ultima volta verso Simone, con aria preoccupata: «Mi raccomando...»

Restarono soli. Sandra sembrava terrorizzata, stava in piedi appoggiata alla parete con lo sguardo basso. Simone guardava Arcieri e fremeva, come avesse la febbre. «Non provare più a toccarmi...»

«Mi dispiace per il pugno che ti ho tirato, a casa. Non lo farò più, se non ce ne sarà bisogno. Ma ora devi stare calmo. È essenziale che stiate tutti e due nascosti, stanotte. Farò in modo che chi mi cerca non vi faccia del male.»

Il gruppo musicale si esibì fino alle due di notte, alternandosi con un altro complesso beat locale.

Verso la fine, Aldovrandi tornò nell'ufficio. Aveva gli occhi pesti per la stanchezza: «Adesso ce ne andiamo. Ho la macchina in piazza de' Cerchi, qui accanto, vi porterò a casa mia. È una zona fuori mano, per un po' ci starete tranquilli, vivo da solo.»

Uscirono tutti e quattro dallo studio. Nella saletta del palco, i membri del complesso stavano mettendo via gli strumenti. Pochi ragazzi indugiavano nelle stanze successive. Arcieri fu attratto da una ragazza con indosso una specie di calzamaglia scura, aderente: era alta e bruna, pallidissima. Fumava una sigaretta e aveva gli occhi segnati di nero. Gli ricordò Musidora, la vamp degli anni Dieci. Da ragazzino, alcuni amici lo avevano portato, un po' recalcitrante, a vedere il serial cinematografico dei Vampiri di Feuillade, e la bellissima attrice francese era stata il primo turbamento dei suoi tredici anni...

Il fumo denso e acre che aleggiava nel locale gli irritava la gola. Nell'ultima stanza erano ancora assiepati dei giovani. Sembrava che qualcosa impedisse di risalire le scale.

Aldovrandi chiamò uno che conosceva, in mezzo alla calca: «Che succede?»

«Pare ci sia gente che fa casino, in strada.»

«Chi sono?»

«Non si sa.»

Una specie di onda umana si propagò all'improvviso tra i corpi dei ragazzi. Molti si fecero indietro, e dal pozzo di scale che portava all'uscita giunsero delle voci concitate. Poi fu il caos. Alcuni scesero di corsa, facendo indietreggiare tutti gli altri. Aldovrandi cercò di risalire il fiume di gente, tirandosi dietro Arcieri e i due ragazzi, ma fu costretto subito a rinunciare. Due giovanissime scoppiarono a piangere, qualcuno cadde per terra e fu perfino calpestato. Finalmente venne aperta un'uscita di sicurezza e la folla trovò uno sfogo.

Si ritrovarono in una piazzetta quadrata, al fresco della notte. C'era fumo e voci impazzite, la gente fuggiva in ogni direzione. Una ragazza non riusciva a rialzarsi da terra e chiedeva aiuto. Un gruppo di dimostranti aveva occupato tutta la zona tra piazza della Signoria e via Calzaioli: brandivano catene e bastoni e gridavano contro i figli dei borghesi. Arcieri vide un gruppo vestito di nero che cercava di rovesciare il pulmino Volkswagen del complesso musicale: i giovani artisti cercavano di difendersi, ma vennero picchiati e infine si dispersero in mezzo alla folla.

Aldovrandi prese in braccio Sandra e urlò a Simone e ad Arcieri di seguirlo. Cercarono di rompere l'accerchiamento dei provocatori, che avevano bloccato la piazza dei Cerchi trasformandola in un cul de sac. Arcieri vide qualcuno che appiccava il fuoco sotto il pulmino e gli parve di udire perfino un colpo di pistola. Era uno scenario del tutto simile a quello in cui era stato coinvolto Andrea, a Viareggio, anche lui all'esterno di un locale...

Fu bloccato da un gruppo di imbavagliati, con le spranghe. Simone e Aldovrandi sgusciarono via e raggiunsero l'automobile. Gli gridarono qualcosa dal finestrino aperto, ma l'aria era lacerata dalle sirene della Polizia, e Arcieri non capì. Fece in tempo a vedere la macchina andare via, in salvo.

Poi gli arrivò un colpo di bastone tra capo e collo.

 

 

Bruno sognava. Era sempre la stessa scena, ma stavolta non si svegliò, quando la Giulia raggiunse il fondo della scarpata. Non ci fu alcuno schianto, nessun dolore, nemmeno paura. Le rocce si aprirono come sbuffi di schiuma bianca. La terra lo inghiottì dolcemente, e lui continuò a scendere. Entrò in un mondo sotterraneo, abitato da tutti i suoi morti: gli amici di Milano e quelli di Firenze, le donne e le ragazzine, i professori e i maestri di scuola... Una carrozza col cavallo lo aspettava a un angolo di strada e una mano femminile sporgeva dal calesse, facendogli cenno di salire. Vide un viale alberato, una rivoltella giocattolo coi fulminanti, un libro dalla copertina meravigliosa. E poi di nuovo il volto sorridente di Elena, e quello dolce di Marie.

Si svegliò quasi paralizzato dal mal di testa, sdraiato su un divano, ma con una sensazione familiare.

Era come se riconoscesse la morbidezza dei cuscini e il vago profumo sospeso nella stanza. In contrasto col caos di poco prima, c'era uno strano silenzio. Gli pareva di sentire il ticchettio di un orologio.

Appena aprì gli occhi non vide niente, ma in breve riuscì a distinguere delle linee sul soffitto, simili a travature. Sì, erano proprio travi di legno. Mosse piano il capo verso destra, c'erano due finestre semichiuse. Dalla strada filtrava un po' di chiarore.

Ebbe la consapevolezza improvvisa di dov'era, come un pugno allo stomaco: a casa sua, in via Ricasoli.

Non ricordava nulla. Anche se era a poche centinaia di metri dal locale dell'aggressione, dovevano averlo portato lì a braccia, salendo tutte le rampe di scale. Chi aveva aperto? Guerra era l'unico a sapere di quella casa e ad avere gli attrezzi giusti per forzare la serratura. Ma il maresciallo non c'era, al locale notturno... Forse Aldovrandi l'aveva chiamato subito dopo l'aggressione. Perché l'avevano portato proprio lì? Era come andare nell'occhio del ciclone, incontro ai suoi sicari. Scosse il capo, aveva la mente confusa.

Si alzò, tutto dolorante. C'era davvero qualcosa di strano, nell'aria. Chissà che ore erano, forse le tre di notte. Si massaggiò la nuca, doveva aver preso una bella botta. Andò nel bagno a piano terra. Non sapeva se avevano attaccato la luce, ma il chiarore che entrava dalla finestra gli bastò per guardarsi allo specchio: tutto bene, a prima vista. Un vecchio con la barba lunga, gli occhi pesti e infossati...

Aprì il rubinetto, l'acqua c'era ancora. Si sciacquò il viso e il collo. Aveva la sensazione di una presenza, in casa. Ma un eventuale sicario lo avrebbe già ucciso. Era soltanto immaginazione, nutrita dalla paura.

Si frugò in tasca, i documenti e la relazione che aveva battuto a macchina per il povero Mario c'erano ancora. Gli era venuta la balzana idea di provare a fare uno scambio, con Aneipoti e i suoi: avrebbe potuto depositare tutto da un notaio e vendere il suo silenzio. Sorrise con malinconia di quella fantasia tanto idiota quanto vigliacca: l'avrebbero fatto fuori lo stesso. No, era condannato davvero a fuggire di nuovo, a San Sebastian e poi chissà dove, inseguito dai sicari, fino a quando l'avrebbero di certo trovato.

Salì le scale. Se doveva attendere la morte, preferiva farlo nel suo studio, guardando sorgere il sole sui tetti rossi di Firenze. Gli scalini di legno gemevano appena, sotto i suoi piedi. Sentì ancora qualcosa di dolce e di remoto, nell'aria, più forte di prima.

Se ne rese conto all'improvviso, e il cuore gli frullò in petto: era il lieve profumo della sua giovinezza.

L'aveva sentito per la prima volta trent'anni prima, alla galleria degli Uffizi. Un giorno saliva lo scalone monumentale, infagottato nella sua divisa di ufficiale dei Carabinieri. L'avevano trasferito da poco, e non aveva trovato più nessuno dei suoi amici dell'infanzia: i pochissimi con cui aveva parlato erano ormai degli estranei. Passava i suoi vuoti pomeriggi cercando di scoprire, da solo, il senso profondo della città rinascimentale. Si era innamorato della Primavera del Botticelli, e ogni volta che andava in quel museo le faceva visita. Restava in piedi anche un'ora intera, di fronte al grande quadro. Una strana sentinella, la guardia armata alla bellezza del mondo. Finché, un pomeriggio di sole, gli si era affiancata una ragazza...

La guerra era ancora lontana, appena un'ipotesi, e lui non era proprio infelice: malinconico, piuttosto, perché solo, senza amici e senza una donna. Quella bellissima ragazza bionda, vestita di bianco, gli aveva sfiorato la mano, riportandolo alla pienezza della vita.

Aprì la porta della stanza ricavata nell'antica torre. Il cuore prese a battergli veloce. Le tende erano tirate, il buio quasi totale. Andò verso le grandi finestre che davano sui tetti, come agli Uffizi. Aveva comprato l'appartamento soprattutto per quello. Tirò la cordicella e la tenue luce della falce di luna calante rischiarò la stanza. Si girò piano, col cuore in tumulto. Sapeva già su quale poltrona era seduta.

«Ciao, Bruno...»

 

 

«Elena... come sei entrata?»

«Ho le chiavi, non ricordi?»

Indossava un abito bianco, come la prima volta che l'aveva vista, nel 1938, e teneva le gambe accavallate con eleganza. Nella penombra, non aveva affatto cinquant'anni. Era ancora Elena Contini ventenne.

Arcieri si avvicinò alla poltrona. Quasi non osava toccarla. Tutta quell'attesa, tutto quel sognarla, e ora provava una strana sensazione, come se lei fosse dietro un vetro.

Elena si alzò. Lo prese per mano e lo portò sotto le finestre. La luce della poca luna le rischiarò il volto, i suoi occhi chiari erano quelli di sempre. «Come stai, Bruno? Fatti vedere meglio...» Gli passò la mano fresca sulle guance ruvide. «Perché questa brutta barba?»

Bruno avvicinò le labbra per un bacio leggero. Finalmente l'abbracciò e la strinse forte. «Non sai quanto avrei voluto far questo, quando mi assistevi all'ospedale e non potevo nemmeno parlare...»

Elena gli passò le dita tra i capelli, come per consolarlo. Bruno la vedeva di nuovo accanto al suo letto di sofferenza, quando aveva lasciato tutto ed era volata a Viareggio, subito dopo l'incidente con la Giulia. All'inizio lui era ancora incosciente ed Elena si era fatta portare una poltrona, nella camera d'ospedale. Lo aveva vegliato tutte le notti. Quando Bruno aveva riaperto gli occhi, per prima cosa aveva visto il suo dolce sorriso.

Si erano separati tante volte, per poi ritrovarsi... Dopo che l'armistizio dell'8 settembre 1943 l'aveva sorpreso a Roma, si erano potuti incontrare di nuovo soltanto quando il fronte passò da Firenze, nel caldissimo agosto dell'anno dopo. Lei si nascondeva in una casa del centro, da una vecchia signora legata alla sua famiglia da rapporti di clientela, come in un mondo antico.

Elena gli carezzò di nuovo la barba lunga e ispida. «Sei diverso, così...»

Bruno le baciò le lunghe dita sottili. Si erano ritrovati di nuovo a Venezia, nel '45, quando lui aveva seguito le orme di un improbabile colonnello delle SS. Dopo la Liberazione erano stati finalmente insieme a Roma, con le bandiere per le strade e la voglia di ricominciare tutto daccapo, ma si erano dovuti lasciare di nuovo. Arcieri vedeva quel continuo perdersi e ritrovarsi come un gioco assurdo... Non credeva al destino e a tutte quelle sciocchezze, ma era davvero come se una forza esterna, oscura e ostile, avesse deciso di rendere impossibile un grande amore.

«Non ho mai creduto che tu mi abbia lasciato per un altro...»

«Non l'ho mai fatto davvero, Bruno. Sono sempre stata accanto a te, quando ti sei cacciato nei guai.»

«Non è la stessa cosa, perbacco... Ma sì, è vero, c'eri sempre.»

«Anche tu lo hai fatto per me. Quella storia terribile in Sicilia, nell'estate del '57... È stato a quel tempo che ho deciso di andarmene davvero. Sono un'altra donna, da allora.» Elena si liberò dolcemente dalla stretta. «Ti hanno fatto tanto male, fuori di quel locale notturno? Fammi vedere.»

Lo aiutò a togliersi il maglione e gli sbottonò la camicia. Gli accarezzò la nuca, dove lo avevano colpito, e poi passò la mano fresca e leggera sulle cicatrici delle vecchie ferite.

Bruno la poteva guardare e toccare, ma era inafferrabile. Non perché stava con un altro, da tanto tempo: conviveva con quel dolore da vent'anni e ormai gli faceva compagnia. «Mi hai pedinato, Elena?»

«Diciamo che sono arrivata al momento giusto. Hai dei giovani amici molto forti e molto svegli...»

«Hai scoperto anche dove mi nascondevo?»

Elena scosse il capo. «No. Ti ho beccato quando sei andato da Lucilla. Sei un sentimentale, non potevi fare a meno di passare davanti a quella casa...»

«Sono soltanto uno sprovveduto...»

Lei accostò le labbra alle sue. «No, stai tranquillo. Sei stato bravo, credimi... Sei sempre il più bravo.»

Bruno pensò di prenderla in braccio e portarla di sotto, in camera da letto. Elena era la sua giovinezza, rappresentava tutte le donne che aveva conosciuto. Era un po' Nanette, un po' la sua prima ragazzina innocente. L'aveva rincorsa per tutta la vita. La baciò, mordicchiandole le labbra. Ma cominciò a tremare.

Vacillava, ed Elena lo sorresse: «Aspetta». Lo prese per mano e insieme scesero le scale di legno.

Si stesero sul letto. Si abbracciarono e si tennero stretti, senza parlare, senza fare niente. Per un po' di tempo, furono di nuovo a Firenze, nella primavera del 1938, e poi a Roma, nella piccola casa che avevano condiviso.

Filtravano i primi raggi del sole nascente, quando Arcieri si alzò e rimase ad ammirarla, mentre ancora dormiva. Erano passati vent'anni, dall'ultima volta che avevano trascorso una notte insieme.

Lei aprì gli occhi e gli baciò la punta delle dita. «Stai un po' meglio?»

«Sì. Ma quelli che mi vogliono morto tengono d'occhio questa casa. Aspettavano proprio che ci rimettessi piede...»

Elena sospirò e si alzò dal letto. Arcieri la vide andare verso il bagno e sentì che apriva il rubinetto. La sua voce sovrastò lo scroscio dell'acqua. «E l'hai fatto, no? Sei tornato per prendere l'impianto stereo. Ti ha visto il vicino di casa.»

Arcieri si sentì un bambino ingenuo. Sorrise di un'idea buffa che gli era saltata in mente: «Ti hanno mandato loro, per uccidermi? Fallo subito, ti prego».

Elena tornò in camera, avvolta in un suo vecchio accappatoio. Si spazzolava i lunghi capelli biondi e rideva. «Non dire stupidaggini. Sei molto fortunato che ti abbiano trovato prima i buoni dei cattivi. È stato un lavoro delicato, ma abbiamo fatto credere loro che tu abbia lasciato Firenze. Ora questa è una casa sicura, la controlliamo noi...»

«Noi chi, Elena? Per chi lavori?»

«Pensavano che sarei riuscita ad adescarti. Ma sono tornata soltanto per te. Non ti fidavi di nessuno, e facevi bene. Ti avevano messo in camera con quel povero ragazzo, all'ospedale di Viareggio. Speravano che con te parlasse... Quando sei fuggito ti hanno cercato ovunque...»

«Chi ti ha reclutata? Dimmi i nomi.»

Elena si sedette accanto a lui, sulla sponda del letto. Gli disse chi era stato a cercarla, tra i funzionari del SID, dopo che lui era stato ricoverato all'ospedale ed era scomparso senza lasciare traccia. Mentre parlava, gli accarezzava le guance, con affetto.

Ma non era quello, che Bruno aveva sognato per tanto tempo. Si sorprese a pensare con nostalgia a Parigi e a Marie. «Mi sono addosso. Hanno eliminato i miei contatti a Firenze...»

«Sì, lo so... Povero Bernard. Ma in questo modo, gli uomini di Aneipoti ci hanno portato fino a te.»

«Cos'hanno fatto a Nanette?»

«È scomparsa... Potrebbero anche averla rapita, ma non credo. Prima di sparire, ieri, ha lasciato i suoi gatti a una vicina. È un vecchio arnese, lo sai...»

Arcieri si sentì come se gli avessero tolto un macigno dal cuore. Dunque almeno Nanette, forse, era viva... Si alzò dal letto sospirando e raccolse in fretta i suoi abiti. Faceva freddo, in quella casa senza riscaldamento.

«Ho bisogno di un caffè. Tu ne vuoi?»

Elena fece cenno di sì: «Vai, intanto mi rivesto anch'io».

Bruno andò in cucina. Da qualche parte doveva aver lasciato un barattolo... Lo trovò, in un mobiletto semivuoto. Ne annusò il contenuto e decise che era ancora buono. Sciacquò la macchinetta e la riempì.

Elena si affacciò sulla soglia. «Come ai vecchi tempi...»

Bruno sorrise. Era tutto uguale e tutto diverso... «Cosa sapete delle trame di Aneipoti?»

«C'è lui, dietro la morte di Andrea e di Carboni. Ma sei stato tu a collegarlo all'uomo che ti voleva morto, in Versilia... Sei sempre il migliore, Bruno.»

Arcieri pensò alla sua giacca, abbandonata su una sedia: «Hai letto i miei appunti».

«Dovevo farlo, Bruno...»

«Che intenzioni avete?»

«I tuoi amici veri stanno manovrando l'uomo politico che controlla il flusso di denaro, per costringerlo a mollare. Creano un nuovo intermediario, un uomo di paglia. Aneipoti dovrà cedere, verrà trasferito e reso innocuo.»

«Insomma la farà franca. E i miei stimati colleghi negozieranno nuovi compromessi con le stesse persone...»

«Sai molto meglio di me come funziona. Ma adesso ascoltami, Bruno, devi andare comunque via di qui. Quello che hai fatto è prezioso, ma il tuo ruolo in questa faccenda è finito.»

«Dove mi vogliono mandare?»

«Ti metteranno in un posto sicuro, finché non sarà tutto a posto. Ormai è giorno, tra poche ore verrà a trovarti un agente del tuo vecchio ufficio romano.»

«Chi è?»

«Non so il suo nome. È uno molto giovane, non credo che tu lo conosca. Ma stai tranquillo, Bruno, nessuno ti tradirà...»

Il rumore della macchina da caffè lo distrasse. Elena trovò due tazzine e le sciacquò sotto il rubinetto. Le asciugò con cura e le mise sul tavolo.

Tradimento era una parola che turbava Arcieri in modo profondo. Mentre versava nelle tazzine il liquido nero e caldo, pensò a un vecchio episodio. Aveva avuto un agente doppio, nel '48, col nome in codice di Marco. Dopo la fine della guerra era rimasto in Grecia coi partigiani comunisti dell'ELAS, per combattere contro inglesi e monarchici. Ne aveva viste di tutti i colori, da una parte e dall'altra: una guerra civile forse più cruda di quella spagnola, ma rimossa dall'Occidente. Marco era stato catturato dagli inglesi e schedato dall'MI5. Arcieri aveva notato il suo dossier quando ancora faceva l'ufficiale di collegamento coi britannici. Lo aveva trovato interessante, perché apparentemente quel partigiano non aveva mai tradito i suoi compagni, nonostante le torture degli inglesi.

Ma non era vero. Marco era omosessuale e aveva venduto il suo amante, un commissario politico dei rossi, in cambio di un passaggio in nave per l'Italia. Gliel'aveva raccontato proprio lui, nel '46. Prima di partire, i monarchici avevano portato agli inglesi le mani mozzate dei comunisti, presi in un'imboscata. Un commercio usuale, a quel tempo. Lui, in una cesta insanguinata, aveva riconosciuto quelle del suo grande amore.

Tradimento... Arcieri bevve il caffè, ma ebbe un po' di nausea. «Va bene. Lo aspetterò qui.»

Elena si era già messa il soprabito. Stringeva la borsetta tra le mani e lo guardava con un sorriso malinconico. «Fidati di loro. Vogliono le stesse cose che vuoi tu.»

«Vai tranquilla. Aspetterò leggendo un libro. Peccato che non ci sia più il mio impianto stereo...»

Elena aprì la borsa e gli mostrò un paio di chiavi legate da un nastrino rosso. «Queste è meglio che te le tenga ancora io. Ciao, Bruno. Abbi cura di te.»

Arcieri evitò di guardarla. Preferiva mantenere il ricordo del suo corpo steso sul letto, nella penombra della stanza.

La sentì richiudere la porta. Andò allo spioncino in tempo per vederla sparire sulle scale.

Chissà perché, in quel momento gli venne voglia di leggere il biglietto che gli aveva lasciato Marie, a Parigi. Doveva trovare il coraggio per aprire la busta...

 

 

Di uscire di casa come se nulla fosse non se ne parlava nemmeno: chiunque avrebbe potuto vederlo.

Tornò nello studio e aprì la grande finestra che dava sui tetti. L'aria fresca gli accarezzò il viso.

Guardò nella stessa direzione da cui era arrivata la morte per i due giovani partigiani fiorentini, nell'agosto del 1944: li avevano visti passare da un cornicione, in ginocchio, uno dietro l'altro. Il cecchino fascista li aveva presi di mira da dietro un comignolo, sfruttando il fatto che erano abbagliati dal sole. Quella era una possibile via di fuga, ma vittime e carnefici, nel 1944, avevano poco più di vent'anni... A lui passava di mente troppo spesso che ne aveva sessantasei.

Prese una sedia e scavalcò il davanzale. Mise con cautela il piede destro sulle tegole. Vide una lucertola scappare da sotto un coppo rosso: brillò di verde, colpita dal sole. Azzardò i primi passi, in direzione del comignolo. I tetti erano cambiati molto, da allora: adesso c'era un'intera foresta di antenne della televisione, che però gli facevano comodo per sorreggersi, quando gli pareva di perdere l'equilibrio. Raggiunse il grande comignolo. Provò un brivido, quando vide i fori dei proiettili: un momento di acuta nostalgia per quegli anni terribili, ma anche puri. Passò le dita sui ruvidi mattoni sbrecciati. I nemici, nei giorni del passaggio del fronte da Firenze, erano tutti dall'altra parte: fascisti e nazisti, senza scampo ma anche senza ambiguità. Ora, invece, i giusti si confondevano coi carnefici...

Oltre il comignolo, il tetto cambiava pendenza e scendeva pericolosamente verso la strada. Gli era già capitato di camminare sui tetti di Firenze, due anni prima. Ma quello che aveva in mente di fare adesso era molto più azzardato. La grondaia era troppo vicina. Afferrò il precario tubo di alluminio di un'antenna televisiva e si sporse un po' oltre lo spiovente. In fondo all'abisso c'era il traffico caotico di piazza del Duomo: il concerto dei clacson arrivava fino a lui. L'immensa cupola del Brunelleschi lo sovrastava, minacciosa. Da quella parte non c'era verso di andare oltre.

Tornò indietro e camminò con attenzione lungo lo spiovente. Poco oltre il suo studio c'era un terrazzino, ma la porta sembrava chiusa. In ogni caso, non poteva rischiare che un inquilino chiamasse i Carabinieri, perché un vecchio barbuto si era intrufolato in casa sua... I tetti dell'isolato, di altezza diseguale, sembravano un'altra Firenze aerea, sospesa sopra la città. Gli mancava il fiato, quando si affacciò su un profondo cortile, proprio prima del vicolo in cui era stato linciato il cecchino fascista: gli sembrava di udire di nuovo lo sparo del suo colpo di grazia...

Era fortunato, perché stavano rifacendo una facciata interna del palazzo e le impalcature di ferro arrivavano fin quasi al tetto. Facendo grande attenzione si calò sulle travi di legno sospese nel vuoto e finalmente poté riprendere fiato. Doveva far presto e stare attento a non farsi notare. Scese quattro incerte rampe di scale a pioli e pochi minuti dopo mise piede a terra in un cortile, su cui si affacciava il magazzino di un negozio di articoli sportivi di via Ricasoli. Si sistemò la camicia nei pantaloni e bussò più volte alla porta a vetri del magazzino. Venne ad aprirgli una commessa, con lo sguardo un po' spaventato.

«Mi scusi, sono rimasto chiuso fuori...»

«Venga, si accomodi. Ma come ha fatto?»

«È una lunga storia...»

Ringraziò ancora la ragazza e attraversò il negozio pieno di palloni, maglie da calciatore, scarpe da tennis. Quando fu in strada, si allontanò in direzione opposta al centro, cercando di non farsi notare.

Si fermò soltanto dopo aver oltrepassato piazza San Marco. Gli studenti sembravano aver occupato l'università: vide molte camionette della Pubblica sicurezza, ferme agli angoli, e piccoli ma agitati gruppi di giovani barbuti, con cartelli e striscioni arrotolati. Dovevano essere lì per la manifestazione di cui gli aveva parlato Guerra. Si fece coraggio e andò da un poliziotto in tenuta antisommossa e col mitra a tracolla, di fianco al rettorato dell'università. Era un agente molto giovane, e Arcieri notò i capelli lunghi raccolti e schiacciati sotto l'elmetto.

Sorrise, vedendo che sul giubbotto aveva disegnato quella specie di Y rovesciata inscritta in un cerchio, che aveva visto nella camera di Simone e un po' ovunque, tra i capelloni. «Mi scusi, dovrei passare di qua con la macchina, domani mattina... Per che ora è prevista la manifestazione?»

Il poliziotto sorrise. Arcieri non poteva vedere il suo sguardo, dietro i Ray-Ban a specchio. «Domani nulla da fare, signore. Il corteo partirà di qui alle nove, ma sarà già tutto chiuso alle automobili fin da stasera...»

Arcieri ringraziò l'agente e proseguì per via Lamarmora, superando l'orto botanico. Era troppo vicino alla clinica dove era morto Tornabuoni... Andò a sinistra, nelle vie meno frequentate della zona di piazza San Gallo. In via Zara, passando accanto alla Questura, pensò a Franco Bordelli. Avrebbe voluto salutare anche lui, prima di...

Si fermò. Era di nuovo col fiatone e tutto sudato. Entrò in un piccolo bar, dietro l'ospedale militare: una strada stretta e maleodorante, intasata di macchine e motorini. Studenti e operai sembravano essersi dati appuntamento anche lì. Vide un barbone, seduto tra i suoi escrementi dentro il lurido androne di una casa sfitta, e pensò a se stesso, al suo passato e al suo improbabile futuro. Aveva mandato a morire chi si fidava di lui... Si sentiva di nuovo responsabile per la morte di Andrea, di Carboni, di Bernard, forse di Nanette e di Lucilla...

«Un bicchiere d'acqua e tre gettoni, per favore.»

Anche i soldi erano un problema: aveva ormai finito tutto. Forse avrebbe dovuto fare come August, che diceva di volersi ammazzare, finiti i suoi mille dollari, se non avesse trovato un editore. Ma lui avrebbe dovuto farlo sul serio...

Il telefono era in bella vista, accanto ai tavolini, ma non gli importava più niente della segretezza. Fece il numero della comune e gli rispose subito Raffaello: «Stai bene, amico?»

«Sì, sì, non ti preoccupare. È tutto a posto, a casa? Nulla di nuovo?»

«Simone non è tornato, stanotte, e sono spariti anche Laurenti e August. Ma Guerra ha detto di non preoccuparci...»

«Ecco, giusto Guerra. È lì?»

«No, ha molto da fare: dice che domani ci sarà casino, al grande corteo in centro, coi provocatori fascisti...»

«Se c'è almeno Berta, passami lei.»

Dovette aspettare al telefono qualche minuto. Poi finalmente gli rispose la voce assonnata della ragazza: «Che c'è? Mi hai svegliata, ieri ho fatto tardi...»

«Voglio che tu faccia una cosa per me.»

«Voglio? Ma che ti salta in testa di parlarmi a questo modo?»

«Ascoltami, è una questione molto seria. Nella mia stanza, sotto il materasso, c'è una cartella rossa, legata con l'elastico... Mi serve con grande urgenza. Prendila, per favore. E prendi anche una busta chiusa, la tengo nel cassetto del comodino. C'è scritto sopra Marcel, alla francese. Calligrafia femminile. Porta tutto da Guerra, alla stazione dei Carabinieri.»

«Da Guerra? Ma che succede?»

«Nulla, non preoccuparti. Fammi questo favore. Sarò lì tra mezz'ora, non perdere tempo.»

 

 

Non dovette aspettare molto, nascosto all'ombra del vicolo, vicino alla stazione dei Carabinieri. La vide arrivare da lontano, vestita con un camicione rosso a disegni psichedelici. Il vento le gonfiava il tessuto leggero e sembrava davvero una dea dell'amore, bene in carne.

Aveva con sé la cartella rossa del giornalista romano e la busta di Marie. Ebbe l'impulso di aprirla subito, ma poi la infilò nella tasca dei pantaloni.

Berta lo guardava, scuotendo il capo: «Cos'hai, Marcello? Sei affaticato... Torna a casa, dai».

«No. D'ora in poi dovrete arrangiarvi senza di me. Ti chiedo ancora un favore, l'ultimo: di' ad August, quando torna, che telefoni a Vanel. Lui sa chi è. Devo lasciare subito Firenze e va bene il rifugio che mi avevano proposto. Chiamerò io appena potrò, nei prossimi giorni. È chiaro? Te lo ricorderai?»

«Sì, sì, ma stai tranquillo.»

«Un'ultima cosa. Buttate via quel cartoccio di curry...»

Berta sorrise. «Sì certo.»

La ragazza fece una cosa che Arcieri proprio non si aspettava: lo baciò in bocca, poi gli fece ciao con la mano e si allontanò.

Arcieri suonò il campanello della stazione dei Carabinieri. Gli aprì un giovane appuntato. «Desidera?»

«Il maresciallo Guerra. Sono Marcello, alias Bruno. È molto urgente, la prego...»

«Aspetti lì.»

Lo lasciò sulla soglia, davanti alla porta socchiusa. Arcieri sentì la voce di Guerra, da una stanza interna, che tuonava qualcosa, poi l'appuntato tornò di corsa da lui, rosso in viso, e lo invitò a entrare. C'era un corridoio, una stanza con della gente che aspettava, poi alcune porte chiuse.

Una si aprì e apparve il maresciallo, in divisa, ma con la cravatta slacciata. Gli fece cenno di entrare e richiuse subito la porta. «Stai bene, Arcieri?» Parlava sottovoce, come se avesse paura di essere spiato da qualcuno.

«Sì. Sandra e Simone sono al sicuro?»

«Aldovrandi li ha portati a casa sua. Ma non sa che fare, non ha più saputo niente e aveva paura che tu...»

«Digli di tenerli ancora per un po'. Un paio di giorni al massimo. La ragazza può telefonare ai suoi genitori, ma non deve dire dov'è. D'accordo?»

«Sì, va bene. Ma tu che hai intenzione di fare? Non posso nasconderti qui...»

«Non sarà necessario. Mi serve il tuo aiuto, però, e subito.»

«Dimmi cosa posso fare.»

«Cos'è previsto per domani, in centro? Ho visto grandi preparativi...»

«Siamo tutti in allarme. Gli studenti partiranno da piazza San Marco alle nove e gireranno tutto il centro. Sappiamo con certezza che si sono infiltrati provocatori armati, di una parte e dell'altra. C'è molta paura che ci scappi il morto...»

«Ho bisogno di fare una telefonata con la linea militare, quella che si aggancia alla rete civile della SIP, ma che non è localizzabile.»

Guerra annuì. «C'è un giovane appuntato, qui, che sa lavorare bene coi ponti radio. Vuoi che lo chiami?»

Arcieri era indeciso. Pensò a venticinque anni prima, a una radio da campo che non ne voleva sapere di funzionare e a un colpo di mortaio che aveva preso in pieno il giovane operatore, trasformando la centrale delle comunicazioni in una fossa scarlatta...

«Puoi lasciarmi solo con lui? Devo fare una chiamata, poi ti spiego. È necessario che nessuno venga a disturbarci.»

Guerra lo portò in una stanza dove c'erano tre militari, occupati coi verbali e altri incartamenti. Fece un cenno con la mano a quello più giovane, lo stesso che aveva aperto ad Arcieri. Era ancora rosso in viso, come uno scolaretto. Il maresciallo gli disse qualcosa all'orecchio e quello fece cenno di sì, con forza. Poi li accompagnò fino alla porta socchiusa di una piccola stanza.

«Vi lascio», disse Guerra. «Quando hai fatto, passa di nuovo da me.»

Il giovane appuntato non fiatò, obbediva ciecamente alle istruzioni. Arcieri pensò che Guerra doveva avergli raccontato qualcosa di grave su di lui, tanto da spaventarlo. Ma ormai gli importava poco: doveva chiudere la partita, era questione di ore.

«Devo parlare con un numero riservato di Roma, un'utenza che non appare in alcun elenco...»

«Ma è della linea civile?»

«Sì, è una specie di sub-centralino in teleselezione. Quanto posso parlare, prima che localizzino la chiamata?»

«Pochi minuti, dipende se sono già in allerta per farlo o no.»

«Va bene, chiama questo numero.»

Arcieri glielo dettò. Il carabiniere gli passò le cuffie. Dopo pochi squilli rispose una voce femminile, alla quale Arcieri si qualificò col suo nome vero e il grado, rifiutando però di dire da dove parlava. Chiese con insistenza, e con tono autorevole, di parlare con un particolare ufficio.

Seguì un lungo minuto di silenzio, dopodiché un'altra voce di donna gracchiò nelle cuffie: «Vuole ripetere il suo nome, per favore?»

«Sono il colonnello Bruno Arcieri. Mi passi Aneipoti.»

Udì un po' di tramestio, poi una voce maschile che diceva: «Dammi qua».

 

 

La voce di Aneipoti era gentile come quella di un serpente. «Colonnello Arcieri, dove diavolo si era cacciato? La stanno cercando un po' tutti...»

«Parlerò soltanto pochi minuti. Se ha davvero intenzione di ascoltarmi non mi faccia domande inutili, altrimenti aggancerò immediatamente.»

«Va bene, colonnello, non si alteri. Mi dica prima dov'è...»

«Lei sa bene dove mi trovo, anche se per ora non mi ha localizzato con esattezza, altrimenti sarei già morto.»

«Questo è ridicolo. Colonnello, lei è stanco e confuso, non vede le cose con obiettività. Mi creda, se avessi saputo dov'era le avrei offerto di persona il mio aiuto...»

«Se vuole aiutarmi potrà farlo giusto domani, a Firenze.»

«Mi dica, sono a sua disposizione. Non c'è fretta, ho tutto il tempo che vuole...»

«Voglio che prima sappia una cosa, Aneipoti: in questi giorni, cercando di sfuggire ai suoi sicari, ho raccolto prove che riguardano l'eliminazione di Viani, di Carboni e di un vecchio agente conosciuto col nome in codice di Bernard.»

«Non so di cosa parla. E adesso ho voglia io, di chiudere questa conversazione...»

«Può farlo in qualsiasi momento, anche subito.» Arcieri coprì il microfono col palmo della mano e rimase un po' in silenzio. Dall'altra parte del filo udiva il respiro un po' affannoso del suo interlocutore. Si girò verso il giovane carabiniere al suo fianco: «Quanto tempo abbiamo ancora, prima che rintraccino la chiamata?»

«Cinque minuti al massimo.»

Arcieri tolse la mano. «C'è ancora, Aneipoti?»

«Sì. Vada avanti.»

«Le prove che la riguardano sono al sicuro da un professionista, un notaio. Se non mi accadrà nulla, non vedranno mai la luce. Non mi interessa nuocere ai suoi piani. A me basta tornare alla mia vita. Ho voglia di invecchiare sereno, dimenticato da tutti...»

«Ma questo può farlo anche subito, Arcieri. A tutti noi sta molto a cuore la sua salute. Non vediamo l'ora che torni in sé e si faccia trovare...»

«Certo, me lo immagino. Ho deciso di ritirarmi all'estero, magari in Costa Azzurra, o forse alle Hawaii... Pare che vadano molto di moda. Ma per sparire ho bisogno che qualcuno mi aiuti a cambiare nome e mi apra un conto corrente non rintracciabile... Sappiamo entrambi come funziona. Il problema è che non mi fido più di nessuno, me ne sono successe troppe, negli ultimi tempi... Chi mi vuole morto? La sua parte o quella dei miei vecchi colleghi? O entrambe?»

«È molto saggio, avere sempre dei dubbi...»

«Sono dunque costretto, nelle mie condizioni, a vendere al miglior offerente ciò di cui dispongo. Proprio oggi mi è stata fatta un'offerta molto vantaggiosa per consegnare tutto quello che ho scoperto su di lei...»

La voce di Aneipoti si incrinò: «A chi?»

«Stia tranquillo, sto pensando di ignorare l'offerta. Avevo un appuntamento stamani con un contatto romano, ma non mi sono fatto trovare. Come segno di buona volontà, ho pensato di farle omaggio di qualcosa che dovrebbe interessarle molto. Sono a conoscenza di un piano per farla fuori. Ho nomi, date, contatti... Ogni particolare. È un gruppo di potere molto vicino a lei.»

«È naturale che io abbia dei nemici, colonnello, e, se lei sa qualcosa, ha il dovere di...»

«Domani mattina alle nove io sarò nella chiesa della Santissima Annunziata, a Firenze, nella piazza omonima. Lei non mi vedrà, ma io sì. Avrò con me il materiale cui le ho accennato, insieme a tutto il resto del mio archivio, ma lo darò soltanto a lei. Mi porti un documento valido per l'espatrio e un libretto al portatore con venti milioni di lire. Sarà uno scambio molto semplice e rapido: io me ne andrò subito.»

«Anche se accettassi questa proposta assurda, per domani sarebbe impossibile...»

«No che non lo è. Non mi deluda.»

Il giovane carabiniere faceva cenni frenetici di concludere. Arcieri non perse tempo e chiuse la comunicazione senza aggiungere altro. Guardò l'appuntato negli occhi: «Dimentica tutto. Per il tuo bene».

Uscì subito, evitando di passare dall'ufficio di Guerra. Contò i soldi che gli rimanevano. C'era una copisteria, vicino a piazza Puccini. Spese quasi cinquemila lire, un prezzo esoso, per fare le fotocopie del suo memorandum. Mise i fogli azzurrini, pesanti e untuosi al tatto, in una busta commerciale, la sigillò e la infilò in tasca.

 

 

Erano ormai le due del pomeriggio, ma Arcieri non aveva fame. Prese un caffè doppio in un piccolo bar periferico e si avviò verso il ponte sul Mugnone, a due passi da casa. Anche in quell'estrema periferia, l'agitazione collettiva era palpabile, come si stessero addensando nuvole nere per un temporale. C'erano varie pattuglie della Pubblica sicurezza e dei Carabinieri, ferme ad angoli strategici delle vie che portavano verso l'autostrada. Camminò sul sentiero sopra l'alto argine del torrente, come un pensionato qualsiasi. Davanti a lui, un uomo portava a spasso il cane e alcuni ragazzini si divertivano a buttare sassi nell'acqua, sulla schiuma bianca dei detersivi. Indugiò fino a quando rimase solo, poi discese la ripida scarpata, tenendosi ai cespugli e ai ciuffi d'erba. Si graffiò le mani e, quando arrivò in fondo, il fetore del rivolo d'acqua scura era quasi soffocante. Il ponte era a poca distanza, ma per raggiungerlo dovette superare ogni genere di immondizia: c'era anche un frigorifero, a sbarrargli la strada. Quando arrivò al nascondiglio, aveva l'affanno come se avesse corso i cento metri. Usò una sedia rotta come sgabello e mise le mani nell'incavo del pilone di cemento.

L'involto era al suo posto. Tolse il fazzoletto e soppesò la Beretta. Appoggiato con le spalle al muraglione, estrasse il caricatore e provò il meccanismo di scatto, poi reinserì i proiettili lucenti nel calcio dell'automatica. Sembrava tutto in ordine. Si mise la pistola in tasca e risalì con fatica sopra l'argine. Quando fu in cima, respirò a grandi boccate l'aria relativamente pulita.

C'era una panchina, vicino alla strada trafficata da automobili e camion. Si sedette per riprendere fiato. Aprì la cartella rossa e ne controllò il contenuto. La busta che Marie gli aveva lasciato al bistrot di Parigi spiccava come un rimprovero. Perché non l'aveva ancora aperta? Per paura, era chiaro. Iniziò a strappare la busta, poi si fermò, cercando di indovinare cosa gli avesse scritto. Certo non era una lettera piena di rancore: Marie era forse la donna più dolce che avesse conosciuto, senza essere mai stucchevole... Una volta, quando non aveva ancora vent'anni, Arcieri aveva avuto una ragazza giovanissima, bella e dolce come Marie. Per lei era stato il primo amore e si era data con un trasporto e un disinteresse totali: forse il suo Bruno era tutto il suo mondo. Arcieri era molto giovane, aveva capito che la storia stava diventando troppo seria e non si sentiva pronto a legarsi per la vita. Così l'aveva lasciata, nel dicembre del 1922. Si ricordava ancora il suo pianto silenzioso, quando si era allontanato da lei e si era voltato a guardarla per l'ultima volta. Nei mesi successivi se ne era pentito da morire, ma nel frattempo erano successe troppe cose: l'avevano mandato a Lucca per il servizio militare, era morto suo padre... La vita lo prendeva a morsi. Ogni tanto pensava di scriverle o addirittura di farla chiamare a un posto di telefono pubblico. Molti anni dopo, a Milano, si era quasi fidanzato con un'altra ragazza di straordinaria bellezza. Sorrise, pensando che tutte quante avevano quella peculiarità. Aveva lasciato anche lei, ma praticamente per il motivo opposto. E l'aveva vissuta come una punizione...

E poi Elena, il tormento più grande di tutti gli altri. Ma ora gli pareva che il tempo avesse svuotato la sua immagine, che fosse diventata soltanto un'idea, con l'apparenza di una donna tanto rimpianta e sognata. Marie gli aveva sussurrato qualcosa, quando erano sdraiati sul letto uno accanto all'altra, a Parigi, per l'ultima volta: «Lei è un sogno. Io sono reale».

Si riscosse e infilò il dito nella busta, già aperta per metà. Forse Marie gli aveva scritto tutto il suo amore. Anche quello, alla pari del rancore, lo avrebbe ferito. Anzi, molto di più. O forse nel biglietto c'era qualcos'altro, una preghiera, un rimpianto... No, non voleva leggere. Tolse il dito e pensò di buttare la lettera nel fosso, ma poi la mise di nuovo in tasca, ancora chiusa.

Il peso della pistola lo consolava. Probabilmente era arrivato alla fine. C'era appena una remota possibilità di scamparla. L'avrebbero ucciso, amen. Meglio che andare a San Sebastian o chissà dove. Però poteva uscire di scena con stile. Si passò la mano sul mento. Ecco, doveva farsi la barba, e magari salutare i suoi ultimi amici...

Si alzò dalla panchina e si incamminò verso la fermata dell'autobus. Quando arrivò la vettura, era piena da scoppiare: fece fatica a infilarsi dentro, prima che le porte a soffietto gli si chiudessero dietro la schiena, tra i lamenti di una donna rimasta con un piede incastrato fuori e i moccoli a mezza voce di un anziano. Non aveva mai preso il 22 all'ora di punta e rinunciò subito a salire al piano superiore. Mentre un gruppo di ragazzini con le cartelle di scuola lo strizzava, pensò che quella era una situazione ideale, per un sicario.

Scese vicino a piazza del Duomo e andò a piedi in via Zara. Il palazzone della Questura incuteva timore anche a lui, che tutto sommato aveva passato la vita dalla parte degli sbirri. Molta gente entrava e usciva, c'era grande agitazione per la manifestazione del giorno dopo.

Andò alla guardiola del piantone, camminando curvo ed esitante. «Buongiorno, giovanotto. Dovrei parlare con l'ispettore Silvis.»

«Chi è lei?»

Arcieri si ricordò delle manie religiose del funzionario di Polizia, che gli aveva raccontato Bernard. «Un questuante della compagnia dell'oratorio di San Vincenzo.»

«Ah, ho capito. L'ispettore non c'è, mi dispiace. Ripassi lunedì.»

«È una cosa molto urgente...»

«Sta ispezionando il servizio di sicurezza in piazza San Marco. Se va là, può darsi che lo veda.»

«Com'è fatto? Lo conosco soltanto per corrispondenza...»

«Non può sbagliare: alto e molto magro, quasi spettrale...»

Arcieri ringraziò il piantone e si incamminò verso piazza San Marco. Era molto vicina, ma gli ci volle un po', perché tutta la zona sembrava sotto assedio: c'erano sbarramenti ovunque e i carri attrezzi portavano via le auto in divieto di sosta. Agenti armati erano dappertutto e un gruppo di contestatori era già all'opera, all'inizio di via Cavour: da dietro le transenne scandivano slogan contro la Polizia, i Carabinieri, il presidente Johnson, il Governo di centrosinistra... Arcieri penò parecchio, prima di individuare l'ispettore, davanti al loggiato dell'Accademia di Belle Arti. Era in mezzo a un gruppo di poliziotti armati di manganelli.

Lo raggiunse a fatica, dopo essere stato fermato più volte dagli agenti. «Ispettore...»

Silvis lo guardò con aria interrogativa. Aveva una faccia lunga e triste ed era effettivamente alto e magro come uno spaventapasseri. «Sì... Cercava me?»

«Devo parlarle con urgenza.»

«Come vede, ho molto da fare. Ma lei chi è, mi scusi?»

«Ho alcune informazioni sulla morte di un ragazzo, Andrea Viani. Se n'è occupato lei...»

L'ispettore sembrò colpito. «È la seconda persona che mi parla di quella storia, in poco tempo...»

«Devo dirle soltanto un paio di cose.»

«Qui non è possibile.» Silvis allargò le braccia. Sembrava un corvo che apriva le ali.

Ma Arcieri notò qualcosa di buono, nel suo sguardo. «Può venire con me in Santissima Annunziata? Soltanto pochi minuti...»

L'ispettore esitava. Arcieri aveva paura che gli sfuggisse. Mentì ancora, spudoratamente, e stavolta non gli piacque affatto farlo: «Ne approfittiamo per una preghiera».

Silvis scambiò poche parole con un agente armato di mitraglietta, poi accompagnò Arcieri per la breve strada che portava alla piazza successiva. Era un rettangolo regolare contornato da portici rinascimentali: un luogo della mente e dello spirito, di razionalità perfetta. Quello, per Arcieri, era il vero centro della sua Firenze. Era giusto che tutto finisse lì...

Varcarono il portone della basilica. Silvis sovrastava Arcieri dell'intera testa e stava curvo, per parlare con lui. «Non mi ha ancora detto come si chiama...»

La grande navata barocca era vuota, ma l'aria vibrava per la musica d'organo. Arcieri si chiese da quanto tempo non entrasse in una chiesa. Silvis si genuflesse e fece il segno della croce, cui accennò anche Arcieri, quasi in automatismo. Si sedettero in una delle panche di mezzo, vicini a una delle grandi cappelle laterali.

«Sono il colonnello del SID Bruno Arcieri.»

Silvis lo guardò incredulo.

«Sì, sono proprio chi dico di essere. Non guardi la barba e i miei abiti... Sono stato io a mandarle il signor Bernard, qualche giorno fa, per chiederle della tragedia di Andrea Viani, quel povero ragazzo...»

«Un suicidio... Ma lei mi ha detto di avere delle informazioni.»

Arcieri annuì. L'organista aveva preso a suonare un'aria solenne. Dovette alzare un po' la voce. «Non ho alcuna prova di quanto le dirò, ma io so bene che cosa è successo. È stato per tanti anni il mio mestiere... Il ragazzo aveva sicuramente ricevuto una visita, nella sua stanza. Uno o più uomini si erano chiusi a chiave all'interno, con lui.»

«Ricordo bene cosa aveva ricostruito la Scientifica, l'ho detto anche al suo amico...»

«Certo, era un po' il delitto della camera chiusa.»

Silvis scosse il capo. «Ci sono dei testimoni che hanno visto il ragazzo seduto sul davanzale della finestra, tranquillo. Poi ha scavalcato la balaustra, è andato sul cornicione e ha tirato le tende. Poco dopo si è buttato di sotto...»

«Di schiena, immagino.»

«Può darsi, non è chiaro. Le testimonianze erano confuse.»

«È una tecnica classica. Chi era con lui l'ha spaventato. Gli ha detto che qualcuno sarebbe entrato nella stanza da un momento all'altro e che lui sarebbe stato ucciso. Immagino che il povero Andrea abbia avuto l'impulso di aprire la porta e scappare. Allora un altro uomo, nel corridoio, ha bussato con forza. Quello che era con Andrea, all'interno, lo ha convinto a uscire immediatamente sul cornicione e a chiudere le tende, dicendogli che ci avrebbe pensato lui a mandar via il sicario... Invece l'ha spinto di sotto. È stato il lavoro di un minuto.»

«Non mi convince affatto. Quando è caduto, quelli che erano in strada sono corsi tutti su... La stanza era chiusa dall'interno. Se c'era qualcuno con lui, come sarebbe uscito?»

«Dalla finestra, naturalmente. È rimasto sul cornicione soltanto il tempo necessario perché la porta fosse forzata e la stanza si riempisse di gente. Poi è rientrato senza farsi notare e si è mescolato agli altri...»

Silvis rimase un momento pensieroso. «Sembra quasi che lei fosse con quel povero ragazzo...»

«No, ma è come se ci fossi stato, mi creda. Quando agisce questo tipo di sicari, dopo qualche minuto nessuno è più capace di ricostruire gli eventi.»

L'ispettore annuì. «È il problema del mio lavoro. Ma perché mi racconta tutto questo?»

«Perché riapra il caso di Andrea Viani.» Arcieri si frugò nella tasca della giacchetta e gli consegnò il memoriale battuto con la macchina da scrivere di August.

Silvis soppesò il pacchetto di fogli con aria perplessa e ne lesse le prime righe. «Questa è roba dei Servizi segreti...»

«Le ho appena detto chi sono io. Lì c'è tutto sui mandanti dell'omicidio di Andrea, e non soltanto. Se domani leggerà di me sulla Nazione...»

«Perché, cosa dovrebbe succederle?»

«Oh, può accadere di tutto. Se leggerà di me, ripeto, dia quel papier alla stampa: alla Nazione, ma anche a Paese Sera e all'Unità. Altrimenti ne faccia quel che crede, ma lo usi per arrivare alla verità. Se lei è un uomo di fede, persegua la giustizia, a qualsiasi costo...»

Silvis continuò a leggere il memorandum. Arcieri si alzò e ispezionò l'interno della chiesa. Le forme del barocco, i marmi colorati, gli sembravano parenti alla lontana della psichedelia di Simone, di Andrea e dei loro amici. E l'aroma dell'incenso gli faceva pensare al fumo degli spinelli. Individuò presto il luogo che gli serviva. Era una nicchia, all'interno di una cappella, che poteva accogliere un barbone in cerca di riparo per la notte. Perfetta, per vedere non visti chi entrava e chi usciva dalla basilica.

Quando tornò alla panca, vide che Silvis si era alzato ed era andato a uno degli altari laterali, con una candela in mano.

Lo raggiunse. «Che cosa fa?»

«Accendo un cero per l'anima di quel ragazzo. Ma ora so che non è morto in peccato mortale...»

Arcieri era a disagio. Provava rispetto per quel singolare ispettore di Pubblica sicurezza, e anche ammirazione per la profondità della sua fede religiosa. Ma si sentiva comunque lontanissimo da lui. Aveva bisogno di uscire all'aria aperta, subito.

«Il corteo di domani passerà anche da questa piazza?» gli chiese.

«Vengono da tutte le direzioni, per concentrarsi in San Marco: certamente ci saranno assembramenti anche qui davanti...»

Arcieri vide il suo memorandum spuntare dalla tasca della giacca dell'ispettore. Gli tese la mano: «Lei farà quel che le detta la coscienza, non ne dubito».

Silvis rispose con forza alla stretta. «Devo augurarle buona fortuna, colonnello?»

«Meglio di no. Aspetti fino a domani sera, prima di dire a chiunque del nostro incontro. È l'unico favore personale che le chiedo.»

«Certo.»

«Addio.»

Arcieri tornò in periferia col solito autobus. Stavolta era vuoto ed ebbe modo di guardare di nuovo la sua vecchia città scorrere al di là dei finestrini. Sembrava presa in una morsa, quasi fossero tornati i tempi della guerra. Scese quando era ancora lontano da casa e mangiò un sandwich in una tavola calda. Era distrutto per la stanchezza e il sonno mancato. Aveva assoluto bisogno di riprendere le forze, con quello che l'aspettava la mattina dopo.

Arrivò alla comune alle otto di sera. Il cancello era aperto, come al solito. Dal giardino, guardando attraverso la finestra della cucina, vide Angela che preparava la cena, con in braccio il piccolo Giuseppe. Indugiò un istante, per stamparsi in mente quella visione di pace. Aprì la porta di casa e con la coda dell'occhio vide Raffaello, nel suo piccolo ufficio, chino sulle carte. Preferiva non incontrare nessuno, così salì subito le scale. Ma appena arrivato al piano di sopra, incrociò Berta.

«Ciao», gli disse la ragazza. «Cosa prepari per cena, stasera?»

«Purtroppo non posso...»

«Peccato, speravo proprio che cucinassi te. Da quando stai sempre fuori, si mangia da schifo.»

«Devo riposarmi, abbi pazienza...»

Berta gli sfiorò la mano. Arcieri ebbe un brivido, e non era la prima volta che accadeva.

Andò in camera sua e fu colpito da quello che vide. Il letto di August era rifatto, le sue cose sparite. Aprì il comodino, mancava anche la bottiglia di Hennessy. Si guardò bene in giro: non c'era nemmeno la macchina da scrivere... Era chiaro che se n'era andato. Pensò con un brivido ai suoi mille dollari ormai finiti.

Si addormentò subito. Quella notte, che poteva essere l'ultima, fece un sogno diverso dal solito. Berta era con lui, a letto, e mentre facevano l'amore la ragazza si trasformava in una nave. Una di quelle di pirati, in legno e con le grandi vele nere. Lui era l'unico passeggero, e al timone c'era una figura che in controluce non sapeva riconoscere. Nell'aria tersa aleggiava una musica strana: suoni quasi irreali, con colorazioni che avrebbe detto dell'estremo oriente, forse indiane. La voce di Simone gli diceva che era Within You Without You di George Harrison. Allora gli veniva incontro sul ponte della nave una specie di santone indù, dicendogli che non doveva stupirsi di quanti volti diversi avessero i giovani del 1968: anche lui, Bruno, era uno di loro... Arcieri gli rispondeva che lui di anni ne aveva sessantasei, e allora il santone si trasformava in Nanette ventenne, bella in modo quasi insopportabile, che gli diceva di no, che lui era davvero un ragazzo come loro, e non poteva fuggire. Non si vedeva, allo specchio? Allora Arcieri si girava verso il timoniere e finalmente riusciva a vederlo bene, con la luce a favore: era Elena, coi capelli biondi sciolti sulle spalle.

 

 

Quando si svegliò, il silenzio nella casa era irreale. Si alzò per andare in bagno, voleva prepararsi bene. Ma vide le porte delle altre stanze aperte e i letti vuoti. Berta stava rifacendo il suo.

«Dove sono andati tutti quanti?»

«Maurizio c'è, ma dorme ancora. August non so dove sia. Angela ha il turno in ospedale, Simone manca da ieri...»

«E gli altri?»

«Credo siano andati in centro per la manifestazione.»

«E tu che fai? Resti qui?»

«Sì. Non mi piace dove c'è casino...»

Andò in bagno. Maurizio aveva la crema da barba e il pennello: preferì lasciarlo dormire, senza chiedergli il permesso per usarli. Si insaponò per bene, davanti allo specchio, poi iniziò con cautela a passare il rasoio. Non era proprio affilato e l'operazione si rivelava piuttosto penosa.

Berta si affacciò sul vano della porta. «Non stavi mica male, con la barba...»

«Resta lì. Ho un appuntamento importante, stamattina.»

«Con una donna?»

«Una vecchia signora...»

Finito il lavoro, la faccia di Arcieri era piena di piccoli tagli. Berta alla fine entrò, incurante delle sue proteste, e prese il disinfettante da un armadietto. «Aspetta, ci penso io.»

«Lascia stare...»

La ragazza venne dietro di lui e gli passò l'alcol sul viso.

«Ahia!»

Gli premeva il seno contro la schiena. Arcieri si girò. Forse, prima di andarsene... Un pensiero assurdo, ma non era certo la prima volta. No, no...

Berta si accorse subito di quello che gli era passato per la mente. «Mi fai sentire anche a me come suona il tuo stereo?»

Arcieri fece cenno di sì. Andarono nella stanza di Simone. C'era sempre odore di marijuana. Berta aprì un cassetto accanto al letto e prese uno spinello già arrotolato. «Lo vuoi anche tu?»

«No, grazie.»

«A me piace soltanto un disco, di quelli nuovi. Chissà se Simone ce l'ha...»

«Come si intitola?»

«All You Need Is Love...»

Arcieri si inginocchiò davanti alla pila dei dischi e trovò subito quello dei Beatles. Lo mise sul piatto e accese l'impianto.

Berta si era spogliata in un istante. Aveva grandi seni pesanti. Gli tolse camicia e pantaloni e se lo portò finalmente a letto.

Dopo, Berta scese in cucina. Arcieri la sentiva spignattare mentre era sdraiato sul letto, nudo, intento a guardare i manifesti di Simone alle pareti, che sembravano sogni notturni stampati su carta. Poi si alzò e tornò in camera sua. Prese tutte le sue cose e le mise nella borsa. Indossò il maglione nero che odorava di cucina e i suoi peggiori pantaloni. Gli sarebbero serviti molto più sporchi e strappati, ma l'anno prima aveva fatto una notevole esperienza sul campo e sapeva come muoversi, come sfuggire a ogni sguardo. Soppesò la Beretta, provò di nuovo il meccanismo di scatto e la mise nella tasca dei pantaloni.

Diede un ultimo sguardo alla stanza che aveva condiviso con August, poi andò in quella di Simone per salutare il suo prezioso impianto ad alta fedeltà, che adesso era a disposizione di chi ne aveva molto più bisogno di lui. Pensò a Raffaello, a Guerra e alla loro strana morale in fatto di furti, che adesso, quasi quasi, sentiva di condividere... Aveva le lacrime agli occhi, quando scese in silenzio le scale, facendo attenzione a non farsi sentire da Berta. Un ultimo sguardo affettuoso, quando fu nel giardino, lo riservò ai giocattoli di Giuseppe, abbandonati tra gli sterpi. Si mise la borsa a tracolla e andò verso l'argine del torrente Mugnone. Coi gomiti appoggiati alla balaustra, guardò il rivolo nero sul fondo. Estrasse il portafoglio e lo vuotò di tutto il contenuto. Era la seconda volta che lo faceva, in poco tempo... Gli erano rimaste ventiseimila lire e un po' di spiccioli. Appallottolò i foglietti con gli appunti, il cartoncino di una trattoria e li buttò di sotto. Poi prese la carta di identità di Marcello Vanzetti. Guardò la foto, senza barba come adesso. Risaliva a pochi mesi prima, eppure era quella di un altro uomo. Strappò a pezzetti minuti il documento e lanciò i frammenti nel fosso, come coriandoli. Alcuni si dispersero tra i rifiuti e gli sterpi, e l'acqua nera portò via gli altri. In tasca aveva la lettera di Marie. Aveva finalmente deciso di buttarla, ma neanche quella volta ne ebbe il coraggio.

Si avviò alla fermata dell'autobus. C'era molta gente ad aspettare: parlavano tra loro dei ritardi, delle corse cancellate... Passarono un paio di volanti della Polizia, dirette in centro. Udiva sirene di ambulanze lontane. Erano le sette e mezzo, aveva tutto il tempo.

Arrivò il 22. Durante la corsa, Arcieri pensò a quello che voleva fare, cercando un motivo per tacitare il tarlo della coscienza. Per colpa sua, c'era poco da fare, avevano ammazzato Bernard. Senza l'ex marito, anche Lucilla era condannata a una morte lenta. Perfino Carboni e Mario Tornabuoni avevano fatto le spese del suo orgoglio... E Nanette? Era sicuro che fosse riuscita a sfuggire ai sicari? Non poteva andare a casa sua per controllare, non aveva nemmeno più la chiave. Per la prima volta, dopo tanto tempo, pensò che se si fosse fatto ammazzare subito, quando era scappato dall'ospedale, avrebbe risparmiato molte sofferenze a gente innocente. Forse aveva messo a rischio anche la vita del commissario, ma quell'incontro era l'unico che non rimpiangeva. L'aveva fatto cambiare nel profondo. Nei boschi dell'Impruneta si era sentito per la prima volta diverso da quello che era sempre stato: chiuso con tutti, anche con se stesso, preda di una mai confessata paura delle proprie emozioni...

Scese dall'autobus con fatica, col borsone a tracolla. Fu contento di scoprire che le signore si scansavano al suo passaggio: gli mancava poco, per affinare l'immagine. Forse aveva fatto male a radersi, quella mattina, ma voleva andare a quel particolare tipo di appuntamento col suo vero volto, non con una maschera.

L'agitazione era visibile fin dalla periferia, ma divenne palpabile all'altezza di piazza del Duomo. Lunghe file di automobili erano ferme nelle principali vie d'accesso al vecchio centro della città, coi vigili urbani che fischiavano in continuazione e i clacson che laceravano l'aria. Era difficile perfino passare a piedi. Entrò da un vinaio e comprò un quartino di rosso della peggiore qualità. Andò nel bagno e se lo versò sugli abiti. Poi comprò una scatoletta di cera da scarpe nera, e in un angolo dell'abside di San Lorenzo, poco lontano dai turisti che facevano la fila alle cappelle medicee, si sporcò artisticamente pantaloni, scarpe e viso.

Si rannicchiò contro un muro, seduto per terra, in una delle vie che portavano alla piazza. Passò un sacco di gente, anche un vigile, e nessuno disse o fece nulla. Adesso era davvero invisibile: per Aneipoti, per Silvis, per tutti. Come quando lo aveva trovato Bordelli. Il cerchio si era chiuso.

Il rombo del corteo si sentiva da via Martelli. Arcieri si rialzò. Camminava curvo, col borsone sulla schiena, un po' claudicante. Passò vari sbarramenti, tra il Duomo e piazza San Marco. La grande strada era piena di camionette della Celere. Vide rosseggiare da lontano le bandiere e gli striscioni. I pedoni potevano passare soltanto in due stretti corridoi sui marciapiedi, protetti dalle transenne. La strada era occupata dai dimostranti. Vide attivisti di partito travestiti da studenti, giovani barbuti che urlavano slogan coi megafoni, ragazze arrabbiate coi cartelli bianchi e neri. Un tamburo, da qualche parte, ritmava ossessivo.

Si fermò davanti a un bar. Le porte erano chiuse a chiave. Guardò l'orologio a muro, attraverso i vetri: le otto e mezzo. La pistola era come se bruciasse, nella tasca dei pantaloni. Aveva mezz'ora di tempo.

Piazza San Marco era come blindata, già piena di gente assiepata. L'unico suono era un brontolio minaccioso. Vide che un gruppo di dimostranti stava cercando di rovesciare una macchina parcheggiata davanti al Commiliter: gli agenti li guardavano e li lasciavano fare. C'era già del fumo, sulla strada che portava ai grandi viali, e udì un paio di scoppi in lontananza.

Camminava piano, fingendosi più vecchio di quel che era, più curvo e sofferente. Un poliziotto lo fermò davanti al portico dell'Accademia: «La piazza è chiusa! Torni indietro».

«Devo andare in Santissima Annunziata. Mi aspettano...»

Il poliziotto gli fece cenno di passare. Arcieri raggiunse l'altra piazza, vicinissima. Anche lì c'erano giovani dimostranti, Polizia e Carabinieri, ma erano più disordinati, la situazione era ancora fluida. Andò sotto il portico e spinse l'uscio di legno per entrare nella basilica.

 

 

La musica tranquilla di un adagio, dall'organo.

Non c'era quasi nessuno. Non turisti, tenuti lontani dalla manifestazione. Non fedeli per la messa, che comunque era più tardi. Soltanto un paio di vecchie beghine, che sembravano far parte dell'arredo. Si trascinò verso le cappelle di destra e si sedette anche lui, invisibile tra gli invisibili.

Un giovane prete passò davanti all'altare, si genuflesse e poi andò ad accendere le candele dal lato opposto al suo. Arcieri pensò a sua madre. Era una cosa che gli accadeva di rado: aveva come allontanato l'immagine di lei, tanto tempo prima, forse perché tra loro c'era stato un rapporto troppo stretto. Uno tra i suoi ricordi più lontani era il rito delle preghiere, a letto, la sera. Lei si chinava sul suo viso e gli muoveva piano le manine per fargli imparare il segno della croce. Per i primi tempi, quando aveva tre o quattro anni, dicevano insieme due preghiere molto brevi, per bambini. E poi, quando fu un poco cresciuto, anche altre... Si sorprese a recitarne una. Forse avrebbe dovuto mormorare invece il De Profundis, come quei poveri ragazzi fucilati dai fascisti al Campo di Marte, nel '44.

Il giovane prete fece il percorso inverso, inginocchiandosi di nuovo, poi sparì in sacrestia.

Arcieri contava il tempo. Era vicina l'ora dell'appuntamento con Aneipoti. Nella basilica filtrava l'eco delle grida di fuori, i fischi, un brontolio come di tuono. Si alzò dalla panca e andò nella cappella che aveva scelto la sera prima. La nicchia era vuota e accogliente. Ci sistemò il borsone e si mise semisdraiato per terra. L'odore di incenso e il calore delle candele in qualche modo lo confortavano.

Doveva prepararsi.

De profundis clamavi ad te, Domine...

Teneva stretta la mano sul calcio della pistola, nei pantaloni. Poteva vedere bene la porta d'ingresso.

L'organo adesso suonava una musica più forte, contorta, avvitata su se stessa. Una fuga. Le note rimbalzavano sulle pareti della navata, sul soffitto dorato, sugli stucchi e le colonne. Gli pareva che il pavimento tremasse, ma forse erano i disordini di fuori.

Le nove. La porta della basilica si aprì e lasciò passare le grida e il fumo. Entrarono tre uomini.

Aneipoti e due guardie del corpo.

Arcieri alzò lentamente il capo. Il terzetto avanzò tra le due file di panche di legno.

Risuonò la voce falsa e gentile dell'uomo dei Servizi: «Dov'è, colonnello? Si faccia vedere».

Arcieri si alzò e scese gli scalini. Ancora invisibile, per poco. Nessuno dava peso a un barbone che aveva trovato rifugio in chiesa. Teneva in tasca la mano che impugnava la pistola. «Sono qua.»

Si girarono verso di lui. Aneipoti sembrava molto sorpreso. «La trovo davvero male, colonnello. Dovrebbe riposarsi. Ha con sé i documenti?»

Arcieri prese dalla tasca la cartella rossa del giornalista romano e le fotocopie del suo memorandum. I due gorilla lo fissavano, ma senza alcuna espressione.

Il capo dei Servizi deviati lesse i primi fogli. Gli si formò sul volto un vago sorriso. «Bene, bene...»

Arcieri si schiarì la voce. «Anche lei dovrebbe avere qualcosa per me. Un libretto...»

«Certo. È stato difficile, ma mi sono impegnato. Soprattutto perché lei se lo merita davvero, colonnello...»

Aneipoti gli porse una piccola busta bianca. Arcieri se la mise in tasca, senza aprirla. Il calcio della Beretta, stretto nella mano dentro la tasca, sembrava di fuoco.

Lo distrasse il cigolio della porta, che si apriva di nuovo.

Entrò Elena, vestita di bianco.

Ad Arcieri prese a battere il cuore all'impazzata. Che cos'era successo? Allora l'aveva seguito... Resistette a malapena all'impulso di urlarle di andar via.

Elena gli fece cenno di tacere.

La porta della basilica si aprì ancora.

Entrarono August e Laurenti, in una nuvola di fumogeni. Arcieri era paralizzato. Elena sembrò ignorare i nuovi venuti, ma andò nella più lontana delle cappelle laterali, come rispondendo a un segnale convenuto. Sembrava una spettatrice.

Una testimone.

August e Laurenti si sedettero in modo che sembrava casuale, sulle panche. Le due beghine erano indifferenti, e in realtà non era successo ancora nulla.

Le nove e dieci. Le due guardie del corpo improvvisamente si voltarono e uscirono dalla chiesa. Arcieri capì tutto in un momento. Infiltrati, pensò. Aneipoti sembrava esterrefatto: «Ma dove andate?»

August e Laurenti si alzarono dalle panche e si misero ai lati di Aneipoti. Il tedesco tirò fuori una siringa e gliela piantò nel collo. Poi si rivolse ad Arcieri: «Dammi la Beretta di Vanel».

«Io...»

«Da' qua, presto. Tu non hai fatto nulla, stai tranquillo.» Gliela prese quasi di forza e se la mise in tasca.

Sorressero Aneipoti per le ascelle e lo portarono fuori. L'organo rovesciò una cascata di note, come fosse la colonna sonora di un film.

Elena aveva guardato la scena da lontano. Nel panico che lo stava assalendo, Arcieri pensò che era una perfetta triangolazione: la dea bianca della morte e i suoi due angeli giustizieri.

 

 

Le beghine continuavano a recitare le loro preghiere, ignare di quello che era accaduto.

Gli occhi di Arcieri andarono al cero acceso da Silvis, la sera prima, a uno degli altari laterali. Andrea era stato vendicato? No. Era stato un regolamento di conti interno ai Servizi, non molto di più. Quale vendetta, poi? Non era quella che cercava: avrebbe voluto giustizia. Si sentì beffato e non era certo la prima volta che gli accadeva, nella sua vita. Chissà perché, gli tornò a mente la sua ragazza bruna di Milano, nel 1935. Due anni prima del suo ritorno a Firenze, prima di Elena Contini, che adesso lo guardava impassibile.

Da fuori venivano scoppi, sirene... Se ci fu un colpo di rivoltella, non lo distinse.

Elena gli passò davanti. Lo guardò con un'espressione indecifrabile. Era turbata, forse gli stava chiedendo scusa.

Arcieri le afferrò il polso. «Che cosa devo fare, adesso?»

Non gli rispose. Si liberò dalla stretta e uscì anche lei, lasciandolo solo.

Arcieri si affacciò sulla soglia. C'era un gran fumo bianco, alcuni ragazzi correvano sbandati e su un lato della piazza era ferma un'autoambulanza col lampeggiante acceso. Una camionetta dei Carabinieri passò a sirene spiegate.

Emerse dal fumo un uomo molto giovane, in completo nero e con gli occhiali scuri, simile a un impresario di pompe funebri, e gli si parò davanti con un sorriso: «Venga con me, signore. È tutto finito».

Lo portò in via Capponi, voltato l'angolo, e poi nella stretta e defilata via Laura. Si udivano ancora scoppi lontani. A metà della strada c'era una grossa Lancia Flavia coi vetri oscurati, ferma col motore acceso. L'autista, anche lui in giacca nera e con gli occhiali da sole, sistemò il borsone di Arcieri nel bagagliaio e lo invitò a salire sul sedile posteriore. Il giovane incravattato si mise accanto a lui e fece cenno all'autista di muoversi. Appena chiusa la portiera, cominciò a tossire.

«Che ha fatto, colonnello? Si è rovesciato addosso una botte di lambrusco?»

Arcieri fece l'atto di aprire il finestrino, ma l'altro lo fermò. «Meglio di no.»

L'auto passò veloce nelle strade ancora in preda al caos. Furono fermati una prima volta in piazza San Marco e poi in via Cavour, diretti verso il Duomo. In entrambi i casi, all'autista bastò mostrare un tesserino, per ottenere il via libera in fretta e senza domande inopportune.

«Dove mi portate?»

«A casa sua, se crede.»

«Prima devo fare una telefonata molto urgente...»

«Che numero devo comporre?»

Arcieri gli dettò quello di Guerra. L'uomo sollevò una cornetta, nascosta sotto uno sportello, e gliela passò. Ma alla stazione dei Carabinieri risposero che il maresciallo era fuori per la manifestazione. Allora provò a chiamare la caserma della Settima O.R.E., dove lavorava Aldovrandi. Lui per fortuna c'era. Gli chiese di Simone e di Sandra, e il maresciallo dell'esercito lo rassicurò, stavano benissimo.

Arcieri gli disse di restare in linea e parlò sottovoce al giovane in nero: «Voglio rassicurazioni precise riguardo i due ragazzi...»

«Non si preoccupi, colonnello. Come le ho detto poco fa, è finita. Il dottor Aneipoti è rimasto vittima di un terribile incidente, durante i disordini. Forse una palla vagante. Nella piazza è stata ritrovata un'automatica con matricola abrasa, una Beretta, ma la identificheranno lo stesso come proveniente da una partita di armi in mano ai comunisti francesi, di certo infiltrati tra gli studenti. La balistica verificherà che il colpo è stato esploso da quell'arma.»

Lo stile dei Servizi, pensò Arcieri. Tolse la mano che copriva il microfono e parlò di nuovo ad Aldovrandi: «Dica a Simone e a Sandra che possono tornare a casa. E grazie per l'aiuto...» Passò la cornetta al giovanotto in nero. «Ho bisogno di soldi, di abiti decenti e soprattutto puliti, e anche di un sacco di altra roba che non ho qui a Firenze...»

«Il suo denaro è disponibile, in qualsiasi momento. Possiamo andare in banca a fare un prelievo, anche se lei è senza documenti: basterà un telex da Roma... Ma forse è meglio che le anticipi qualcosa io. Di quanto ha bisogno nell'immediato, colonnello?»

«Trecentocinquantamila lire.»

L'uomo dei Servizi fece un fischio eloquente: «Non credo di avere con me tanto denaro...»

Si frugò nel portafoglio, scosse il capo e parlottò all'orecchio dell'autista. Insieme riuscirono a raggranellare la somma richiesta.

Arcieri prese il pacchetto di banconote e di monete e se lo mise in tasca. «Grazie. Adesso mi porti in via Milanesi, alla periferia nord. Ha un lapis e un pezzetto di carta?»

Il giovanotto gli diede la sua penna stilografica e l'autista gli passò il bloc notes che teneva sul cruscotto. La macchina sfrecciò lungo i viali e percorse le dritte vie della prima periferia. Durante il percorso, Arcieri prese molti appunti, riempiendo varie pagine del taccuino. Quando vide la grande insegna del supermercato, disse all'autista di fermarsi.

Il giovanotto in nero lo guardò perplesso: «Vuole che la lasciamo qui?»

«Sì. Devo fare la spesa, mi ci vorrà un po' di tempo.»

«La spesa?»

«Certo, non si vive d'aria. Abito con alcune persone.»

«Non si preoccupi di queste cose, colonnello. Manderemo qualcuno noi...»

«Devo scegliere io le materie prime. È importante.»

Il giovane agente sospirò: «D'accordo, l'aspettiamo».

Arcieri scese dall'auto e tenne lo sportello aperto. «No, ho bisogno che lei venga con me.»

Il giovane funzionario del SID lo guardò pieno di stupore, da dietro gli occhiali da sole. «Io?»

«Sì, non vorrei che mi sbattessero fuori, nelle condizioni in cui sono. E poi mi servirà un aiuto, con le buste della spesa...»

Spinsero le porte a vetri ed entrarono nel supermercato. Era pieno di gente. Arcieri prese un carrello e andò verso il reparto della frutta. «Cominciamo da qui.»

Arcieri scelse con cura mele renette, pere e arance di Sicilia, che costavano una fortuna. Si rese conto che nelle condizioni in cui era, dava troppo nell'occhio: le donne che facevano la spesa lo evitavano con espressioni di disgusto. Anche il giovane che lo accompagnava era molto imbarazzato.

Arcieri lo guardò sorridendo. «Non mi ha ancora detto come si chiama.»

«Sono il capitano Andrea Manetti.»

Anche lui si chiamava Andrea, pensò Arcieri. Se avesse creduto a certe cose, lo avrebbe detto un segno del destino.

«Avevamo un appuntamento, stamani, in via Ricasoli», disse il giovane agente. «La dottoressa Contini l'aveva sicuramente avvertita.»

«Ah, era lei... Mi dispiace, avevo un altro impegno.»

«A proposito, colonnello, come ha fatto a uscire di casa senza che la vedessimo?»

«Trucchi imparati in guerra...»

«È andata bene. Ma abbiamo dovuto cambiare i piani all'ultimo momento, e non è stata la prima volta.»

Arcieri spingeva il carrello, osservando attentamente la merce esposta e i prezzi. Al reparto della verdura prese cipolle gialle, odori, patate e carote. Pensò alle parole di Elena Contini: «Sei stato bravo...» Non era vero, gli aveva mentito anche lei. Era certo che fossero al corrente fin dall'inizio di dove si era nascosto, a Firenze. Che sapessero della comune. L'avevano tenuto sotto controllo per tutto il tempo...

Si misero in coda al banco della macelleria. Arcieri scelse delle preziose pernici e si fece tagliare e sfilettare dei petti d'anatra.

«August e Laurenti sono due sicari dei Servizi?»

«No, ma il tedesco in effetti è stato la chiave dell'operazione. È un battitore libero, diciamo così. Soprattutto in Africa, nel dopoguerra, tra i mercenari internazionali. È grazie a lui che l'abbiamo rintracciata, colonnello.»

Arcieri lo guardò stupito: «Come sarebbe?»

«La traccia giusta ce l'ha fornita il vecchio capo dei comunisti francesi, senza saperlo. Quando siamo arrivati al suo nascondiglio di Parigi, lei se n'era già andato da diversi giorni. Ma abbiamo potuto fare un esame approfondito dei contatti del signor François Vanel. È stato un puro lavoro poliziesco... Alla fine abbiamo individuato tra loro l'ex nazista e in seguito comunista August Von Trapp, sicario free-lance, nascosto in quella strana casa di Firenze.»

«Dunque avreste potuto salvare Bernard...»

L'agente scosse il capo. «Non siamo arrivati a lei abbastanza in tempo. È stato troppo bravo, colonnello. Dico davvero, abbiamo perso le sue tracce molte volte. In effetti, sono imbarazzato a doverlo ammettere, l'abbiamo beccata soltanto l'altro ieri, battendo sul tempo, ma di pochissimo, gli uomini del dottor Aneipoti. Grazie soprattutto all'aiuto della signora Contini...»

Arcieri pensò di nuovo al suo dialogo con Elena. Dunque non gli aveva troppo mentito, dicendogli che era stato bravo... «E allora come avete fatto?»

«François Vanel e August Von Trapp sono molto ricattabili. Hanno una storia in comune, nel dopoguerra, che, mi creda, è davvero imbarazzante... Insomma, ha accettato il lavoro, con poche ore di preavviso.»

«Ma Laurenti...»

«August Von Trapp e il giovane Mario Laurenti appartengono alla stessa organizzazione internazionale.»

«Quale?»

L'agente fece un vago gesto con la mano. «Amici dei nostri nemici...»

Il carrello si riempiva di primizie e di cibi ricercati. Arcieri non dimenticò il groviera, il burro, la panna da montare e anche il latte per Giuseppe. Al reparto dei vini scelse tre bottiglie di vino rosso e una di vino bianco. Pane, pan carré, farina... Alla fine, il carrello di Arcieri era così pieno che, mentre erano in fila alla cassa, Manetti aveva in braccio bottiglie e scatole varie. Presero anche olio, miele, aceto di sherry, anice stellato, pepe, sale grosso, vaniglia e perfino un pacchetto di curry, ma di una marca speciale che Arcieri scelse con cura. Riempirono oltre dieci sacchetti di plastica, e al giovane capitano Manetti toccò andare a chiamare l'autista della Lancia, per farsi aiutare a caricarle in macchina.

«Cosa deve fare, colonnello? Rifornire la dispensa di una comunità?»

«Più o meno.»

«Dove vuole che la portiamo, adesso?»

«Alla casa dove avete trovato August. Conosce l'indirizzo?»

«No...»

«Vada in via Bellini, alla periferia nord, verso l'autostrada. Quando saremo là le darò indicazioni più precise.»

 

 

Le strade periferiche erano intasate dal traffico, per la chiusura di quelle del centro. L'autista prese dal cruscotto una luce blu lampeggiante e l'applicò sul tetto della macchina. Si fecero largo, ma ci volle comunque tempo, prima di liberarsi dalla morsa delle auto.

Arrivarono che erano ormai le due del pomeriggio. Arcieri ordinò di fermare la Lancia quando non erano ancora in vista della comune. «Venga con me, Manetti, mi aiuti a portare le buste.»

«Ho da fare, signor colonnello: devo ancora stendere il rapporto dettagliato per Roma...»

Arcieri sospirò. «Senta, mi faccia un piacere: si levi questi cazzo di occhiali...» Glieli tolse lui.

Il giovane ufficiale aveva i capelli neri e gli occhi azzurri. Lo guardava imbarazzato, come un adolescente spaurito. Ma la barba un po' incolta gli donava.

Ad Arcieri vennero delle strane idee. «Lei è quello che si dice un bel ragazzo. Ma quanti anni ha?»

«Ventisei.»

«È fidanzato?»

«No.»

«Scenda.»

L'autista aprì il cofano, sogghignando, e Arcieri cominciò a passare a Manetti le buste della spesa. Faceva caldo ed erano già sudati fradici. «Dovremmo farcela in due viaggi. Si tolga la giacca, perdio.»

Il giovane se ne liberò con un sospiro di sollievo. Era alto, muscoloso ed elegante in modo naturale. Niente affatto aggressivo, come ci si sarebbe aspettati da un uomo del SID.

«Via anche la cravatta... Ecco, ora è quasi presentabile.»

Arrancarono per via Bellini assolata e finalmente arrivarono al cancello.

«Forza, portiamo dentro queste buste.»

Dalle finestre del piano di sopra arrivavano le note di una ballata country. Simone era tornato a casa e non doveva essere di cattivo umore. Appena varcarono la soglia, trovarono Berta. Indossava una gonna a fiori, ma sopra aveva soltanto il reggiseno. Quando si videro, i due giovani si fissarono per un lungo momento.

«Ciao, sei nuovo?»

«No, è di passaggio. Ma resterà a cena con noi.»

Manetti fece l'atto di protestare: «Colonnello, io...»

Arcieri lo zittì: «Niente discussioni. Berta, mi dai una mano?»

Arcieri portò le buste in cucina e fece cenno a Manetti di fare altrettanto. Angela stava sparecchiando, l'odore del curry ammorbava l'aria. Berta sembrava molto perplessa, ma iniziò ad aprire le buste e a sistemare il contenuto negli sportelli. «Ammazza, quanta roba...»

«Faccio cena io. Una cosa speciale.»

Mentre metteva la carne in frigo, Berta gli parlò sottovoce: «Bel ragazzo. Perché ti ha chiamato colonnello?»

«È un vecchio scherzo, poi ti spiego...»

Arcieri e Andrea tornarono sulla strada, dov'era parcheggiata la Lancia, per prendere le buste che mancavano. L'autista si fumava una sigaretta, appoggiato con la schiena alla macchina. Arcieri era affaticato, ma tutto sommato contento. Si fece aprire il bagagliaio e frugò nel suo borsone. Prese l'unico cambio di abiti che aveva e posò le ultime buste del supermercato sul marciapiede. «Ho bisogno di lei fino a domattina, Manetti. Avverta Roma con quel telefono.»

«Signor colonnello, io ho istruzioni diverse, non posso...»

Arcieri era più basso del giovane funzionario del SID, ma in quel momento lo sovrastava: mise nel suo sguardo tutta l'autorevolezza di trent'anni di carriera: «È bene che i suoi capi sappiano subito che non me ne starò buono come un cagnolino. Lei mi farà da assistente fino a domani. Chiami subito e non dica dove mi ha portato: ne discuteremo dopo. È chiaro?»

Manetti obbedì all'istante. Mentre lui parlava al radiotelefono, Arcieri pensò a molte cose. Alla busta di Aneipoti col libretto al portatore, che aveva in tasca. A Lucilla, che forse ancora non sapeva di Bernard ed era divorata dall'ansia. A Nanette, che forse era stata avvertita in tempo. E a Elena, che gli era sfuggita di nuovo...

Manetti scese dall'auto. Il vento caldo gli aveva scompigliato i capelli neri. Con la camicia bianca slacciata, sembrava un attore del nuovo cinema americano, quello on the road. «Va bene, colonnello.»

«Ottimo. Dunque stabiliamo subito alcune cose importanti: niente più colonnello e nemmeno Arcieri: io mi chiamo Marcello, va bene?»

«Sì, d'accordo.»

«Alcuni di quei ragazzi non sanno niente. Ci daremo del tu.»

«Non credo che ci riuscirò, signor colonnello...»

«Lo dovrai fare per forza, Andrea. Va bene? Sennò saranno guai seri.»

«D'accordo.»

Arcieri dette un'occhiata alla Lancia. L'autista aveva finito la sigaretta e schiacciò la cicca sotto il piede.

«Avrò bisogno della macchina», gli disse. «Forse è meglio che resti anche tu.»

L'autista, anche lui in nero e con gli occhiali da sole, inarcò le sopracciglia. «Io?»

«Sì, oltretutto una mano in più non farà male, in cucina. Come ti chiami?»

L'uomo guardò Manetti, che annuì. «Manfredi... Manfredi Castelli.»

«Bene, Manfredi, anche tu sei giovane... Sarete due studenti fuori corso, va bene? Io e Andrea andiamo subito alla comune, tu invece vai a procurarti dei jeans e una maglietta psichedelica, o insomma qualcosa del genere. Appuntamento alle quattro, esattamente qui. D'accordo?

L'autista guardò ancora Manetti, che gli fece cenno di sì. «Va bene...»

 

 

Arcieri lasciò Manetti con Berta e Angela, in cucina: mentre saliva le scale, con gli abiti puliti sotto braccio, vide che si era messo subito a giocare col piccolo Giuseppe. Quando arrivò al piano di sopra trovò Raffaello che si lisciava i baffi a ricciolo.

Era nervoso e chiaramente lo aspettava. «August e Laurenti sono spariti.»

«Lo so.»

«Ha telefonato Guerra. Mi ha detto delle cose che non mi sono piaciute per niente... Non erano questi i patti, con Vanel.»

«Hai sentito anche lui?»

«Ancora no, ma ho la forte tentazione di parlargli.»

«Ecco, è meglio se lo chiami subito. Digli, da parte mia, che ho cambiato idea. Resto a Firenze.»

Arcieri andò verso la stanza di Simone. La musica era diversa, adesso c'erano dei colpi di batteria che facevano vibrare la porta e perfino il pavimento. Ma Raffaello lo fermò, strattonandolo per un braccio. «Chi è quel tipo che hai portato con te?»

Arcieri non tollerava di essere toccato a quel modo. La tensione delle ultime giornate gli stava piombando addosso, facendogli allentare il controllo. Dovette stringere i denti, per non prenderlo a pugni. «Uno studente...»

«Puzza di sbirro da morire. Ti avevo già avvertito...»

Arcieri lo guardò fisso negli occhi chiari. «Ascolta, amico: questi ragazzi stanno a cuore a me quanto a te e a Guerra. Ma non ti preoccupare, da stanotte ti libererai di me. Prima no, perché voglio cercare di risolvere certe cose.»

«Che vuoi fare?»

«Lo vedrai a cena. Chiama Guerra, sono sicuro che vorrà venire anche lui. E digli che vada a prendere Alessandro.»

Raffaello sembrava non reggere lo sguardo penetrante di Arcieri, e abbassò gli occhi. «Non me la racconti giusta, amico... Comunque l'idea che tu faccia di nuovo da mangiare mi piace. Va bene, farò quello che chiedi.»

Arcieri aspettò che Raffaello scendesse le scale, prima di bussare alla porta di Simone.

La musica era a volume molto alto, ma non assordante. Un'aspra voce giovanile introdusse un lungo assolo di chitarra elettrica. Simone era seduto per terra, e c'era anche Sandra. Le stava illustrando le note di copertina di un disco.

Quando lo vide, si alzò di scatto. «Che sei venuto a fare?»

«Non ti arrabbiare, non voglio che tu stia male. Ti devo delle spiegazioni, e anche a Sandra...»

«Mi ha già detto tutto Guerra.»

«Che cosa, esattamente?»

«Che ti avevano incastrato gli sbirri e che per salvarti sei scappato. Che avevi paura per me e per Sandra, così ci hai fatto nascondere da Aldovrandi. Cazzo, quanti dischi ha, a casa sua... Ma che ti aspetti, che ti ringrazi?»

«No, no. Me ne vado e voglio soltanto salutarvi, stasera a cena. Cucino io.» Si girò verso la ragazza, che ammirava la copertina variopinta del disco. «Vorrei che ci fossi anche tu.»

Sandra gli fece un tenuissimo sorriso e accennò di sì.

«Bene. Vi lascio. Questi sono i Cream, vero?»

Simone annuì, stupito. «Sì.»

«Mi sarebbe piaciuto parlare più a lungo di musica, con te. Ci sono alcune cose che non ho capito, altre che abbiamo lasciato a mezzo...»

Lo sguardo di Simone si era addolcito. «Magari torni e sentiamo dei dischi insieme.»

«Perché no?»

Arcieri uscì e richiuse delicatamente la porta. Andò in bagno, appallottolò i suoi stracci puzzolenti e li mise nel cestino della biancheria sporca. Forse avrebbero fatto comodo a qualcuno. Poi fece una doccia veloce.

Quando tornò in cucina, Andrea stava ancora giocando con Giuseppe. Angela fumava una sigaretta e Berta li guardava, sorridendo.

«Bene», disse. «Stasera farò una cena speciale, ma ho bisogno dell'aiuto di tutti quanti. Ci state?»

Risposero tutti di sì, con entusiasmo. Il piccolo Giuseppe corse verso di lui e gli abbracciò le gambe.

Arcieri si commosse un poco. «Ho pensato a qualche piatto un po' complicato. Io devo uscire per un paio d'ore, magari intanto potreste cominciare a fare qualcosa...»

Prese le patate, le carote, le mele e altre cose dal frigo e dai pensili e le mise sul tavolo di marmo. Poi si frugò in tasca e tirò fuori la busta con la lettera di Marie, ancora semichiusa.

«Berta e Andrea possono pelare le patate e grattugiare le carote. Angela, se vuole, può pulire per bene le mele e tagliarle a fette spesse.»

Mise la busta di Marie sopra un piatto. Prese l'accendino a gas e ce lo avvicinò... Ma anche stavolta cambiò idea. Afferrò il primo pezzo di carta che gli capitò sotto mano e bruciò quello. Restò a guardare la fiamma rossa e gialla e si assicurò che non rimanesse altro che cenere spenta.

Li lasciò che già si davano da fare. Era sulla soglia di casa, quando Andrea Manetti lo fermò. Il giovane sembrava molto imbarazzato. «Signor colonnello...»

«Dammi del tu. E chiamami Marcello.»

«Sì, mi scusi. C'è una cosa...»

«Su, coraggio, dimmi.»

«Può consegnarmi il libretto al portatore che le ha dato Aneipoti?»

«Mi dispiace, l'ho appena bruciato, sul lavandino.»

Manetti schizzò in cucina e guardò incredulo la carta incenerita, sul piatto di porcellana. Tornò da Arcieri e lo guardò con gli occhi sgranati: «Ma cos'ha fatto? Non sappiamo nemmeno su che banca era...»

«Pensavo di far bene. Torna in cucina, dai.»

Arcieri si avviò da solo verso il luogo dell'appuntamento. Mancava ancora mezz'ora, ma la Lancia era già in attesa, proprio dove l'aveva lasciata. L'autista indossava una camicia hawaiana e un paio di pantaloni bianchi, ma aveva ancora i Ray-Ban neri e il cappello. Stava in piedi accanto all'auto e fumava una sigaretta.

«Ma come ti sei conciato?»

L'uomo allargò le braccia: «Sportivo, no?»

«Vabbe', lasciamo perdere. Dobbiamo andare in un paio di posti. Portami prima in via Scipione Ammirato...»

Attraversarono tutta la città e ci volle parecchio tempo, perché la manifestazione non si era affatto esaurita coi disordini di quella mattina e molte strade erano ancora bloccate. Un vigile urbano disse loro che era previsto un altro corteo, in centro, dal Duomo a piazza della Stazione. Arcieri pensava a Elena, a Nanette, ma anche a Parigi e a Marie... C'era un'altra donna, del cui dolore si sentiva responsabile, e certamente nulla di quanto stava per fare avrebbe lenito le sue ferite.

Disse all'autista di fermarsi davanti alla prima palazzina liberty della strada. Le persiane erano chiuse. Forse dentro c'erano soltanto fantasmi, e vi aleggiavano ancora le note di Benny Goodman e di Gorni Kramer, di Pippo Barzizza e del Trio Lescano, mentre l'uccellino della radio annunciava l'ora esatta...

Scosse il capo. Allungò il passo verso la villetta accanto e suonò il campanello. Stavolta il cancello del giardino scattò subito. Lo aprì e si avviò verso la porta di casa.

Lucilla comparve vestita di nero, pallidissima, gli occhi rossi di pianto. «Mi hanno avvertita per telefono...»

Bruno le strinse le mani. «Chi l'ha chiamata?»

«Non so... Una voce maschile, non mi ha detto chi era.»

Lo fece entrare e si sedettero sul vecchio divano. L'aria sapeva di polvere, ancora più della volta precedente. Lui le prese di nuovo la mano, e Lucilla cominciò a singhiozzare: il suo corpo magro e già un po' curvo si scuoteva come una frusta. Bruno le accarezzò i capelli, come fosse una bambina, e rimasero in silenzio per un po'. Non c'era del resto molto che poteva dirle e non voleva farle ancora più male. Lucilla pianse tutte le lacrime che aveva. Poi lo guardò con gli occhi rossi, in cui però non c'era ombra di odio: «Perdersi per tanto tempo, e poi ritrovarsi per così poco... È troppo crudele. Ma sono comunque grata al destino».

Era tardi, Arcieri doveva tornare alla comune. Si frugò in tasca e prese il libretto al portatore di Aneipoti. Lo mise sul tavolino e glielo indicò. Lucilla lo guardava senza capire.

«Bernard aveva messo molto denaro da parte», le disse. «Certamente non gliene aveva parlato...»

Lucilla scosse il capo: «Diceva che non aveva nulla...»

«Non era vero. Voleva farle una sorpresa. È molto denaro, Lucilla, e l'ha lasciato a lei. Lo incassi subito e versi i liquidi in banca. Faccia sistemare un po' questa bellissima casa...»

Uscì in strada un'ora dopo. Piangeva anche lui: stava diventando davvero vecchio, o forse era la debolezza per tutto lo stress che aveva accumulato.

L'autista aveva fatto una montagnola di cicche, al lato dello sportello aperto, ed era molto nervoso. «Dove vuole che la porti, adesso? Ho mangiato appena un sandwich, oggi...»

«Ti rifarai stasera. E abituati a darmi del tu. Andiamo in via de' Serragli, in Oltrarno.»

Anche attraversare il fiume fu un'impresa: i ponti erano come imbuti in cui si riversavano le macchine deviate dai percorsi abituali del centro. In via Tornabuoni videro un folto gruppo di dimostranti col volto bendato, che tiravano pietre contro le vetrine dei lussuosi negozi. Agenti in tenuta antisommossa faticavano a contenerli. La voce dei disordini della mattina doveva essersi propagata come un'onda, e Arcieri pensò che forse la morte di Aneipoti era stata presa come una violenza della Polizia su un semplice manifestante...

Attraversato il ponte Santa Trinita, la situazione si fece più tranquilla. Accostarono la macchina in via Santa Monaca, da dove Arcieri poteva sbirciare le finestre del minuscolo appartamento di Nanette, all'ultimo piano. Le persiane erano aperte, ma non vide luci né alcun movimento. L'autista si accese un'altra sigaretta, nell'attesa.

Arcieri tese la mano: «Danne una anche a me, per favore». Aspirò il fumo quasi con avidità. Nessuno entrò nel palazzo, per almeno quindici minuti.

L'autista tirò fuori dal cruscotto un mazzo di strane chiavi. «Se vuole, posso aprire io...»

Arcieri pensò alla modesta serratura dell'appartamento di Nanette. Esitò un poco, poi, terminata la sigaretta, prese una decisione. «Va bene, andiamo.»

Aprire il portone sulla strada fu un affare da poco. Era una serratura del secolo precedente, nella toppa ci sarebbe entrato facilmente un dito... Attesero che nessuno li guardasse, poi l'autista vi inserì un ferro snodabile e fece scattare subito il meccanismo.

Entrarono nella fresca penombra dell'atrio e salirono all'ultimo piano. Arcieri fece cenno di aspettare e accostò l'orecchio alla porta. Il silenzio era totale. L'autista armeggiò per un minuto alla semplice serratura di sicurezza ed entrarono in casa. C'era soltanto l'odore dei gatti, nessun segno di vita. I cassetti dei mobili erano chiusi, la cucina in ordine, il letto era rifatto, nella camera rossa. Arcieri cercava qualcosa, un segnale di Nanette per lui, ma non notò nulla di strano, ogni cosa sembrava al suo posto.

Poi finalmente vide il messaggio della bellissima spia. Sul comodino accanto al letto c'erano una vecchia cartolina di Viareggio del 1938 e una fotografia coi bordi sfrangiati, di quello stesso anno, che ritraeva Nanette sulla spiaggia, insieme a lui e a Elena. Entrambi i cartoncini erano posati sopra un vecchio romanzo di Simenon, L'affaire Picpus. Sorrise: l'allusione poteva coglierla giusto lui. In ogni caso se n'era andata di sua volontà, nessuno l'aveva costretta.

Prese in mano la foto e la guardò meglio. Era in bianco e nero, con qualche piega che aveva portato via pezzetti di immagine. Ma ritraeva tre giovani bellissimi e tutto sommato spensierati, seduti sulla sabbia, tra gli ombrelloni: l'immagine di Elena, simile a una bionda dea, gli fece battere il cuore. E Nanette, accanto a lei, coi capelli nerissimi, altrettanto bella, se non di più, sembrava rappresentare l'altra faccia del suo passato. Prese quel che restava delle trecentomila lire che si era fatto dare da Andrea Manetti e le mise nel cassetto del comodino. Trovò un elastico, in tasca, e ci legò insieme la foto e il romanzo di Maigret. Prima di chiudere, chiese all'autista una sigaretta e ci mise anche quella: era un messaggio in codice pure il suo.

Uscendo dal palazzo pensò con un sorriso che Nanette, trovando i soldi, si sarebbe arrabbiata moltissimo. Già gli fischiavano le orecchie.

 

 

Tornarono alla comune alle sei del pomeriggio. Arcieri trovò un grembiule in un cassetto e lo indossò. Avevano poco tempo e inquadrò subito tutti i presenti come per un'operazione militare. Berta per fortuna aveva già pensato a sventrare e a pulire le pernici: le prese in consegna, si arrotolò le maniche della camicia e con un coltello affilato disossò con cura i petti. La tecnica l'aveva imparata a suon di urla dal cuoco del bistrot di Marius, quello che aveva dovuto sostituire per un suo impegno improvviso con la Polizia di Parigi... Ci aveva fatto la mano subito. Mise da parte i petti e usò le carcasse per fare una riduzione con cipolla, sedano e prezzemolo.

Manetti lo guardava ammirato: «Non sapevo di questa sua abilità...»

«Piantala di darmi del lei. Grattugia le patate e le carote.»

Il giovane funzionario del SID si diede subito da fare, e pochi minuti dopo Arcieri stava già asciugando gli ortaggi tritati, con uno straccio pulito: formò delle frittelle, cui aggiunse sale e pepe. Angela fu incaricata di rosolarle in padella, facendole diventare ben croccanti. Intanto, per il secondo piatto di carne, ordinò a Berta di sbucciare le pere e di metterle intere, senza torsolo, in un tegamino con del vino bianco. La ragazza si dava da fare bene e ad Arcieri tornò in mente il suo giovane aiutante negro da Marius, a Parigi, che quando lui era fuggito lo aveva di certo sostituito più che degnamente. Se avesse avuto tempo, avrebbe potuto fare più o meno lo stesso con Berta, lì alla comune. Scosse il capo, stava davvero ragionando come uno chef e non da pensionato, quale ormai era... Aggiunse un po' di zucchero alle pere, un pezzetto di cannella e un paio di chiodi di garofano: un lavoro raffinato, che poteva fare soltanto lui. Vi mise con giudizio un poco di aceto di sherry, l'anice stellato e il pepe, poi riconsegnò la salsa a Berta per farla ridurre a fuoco basso.

Le ragazze avevano già pelato e tagliato le cipolle a fettine. Le fecero appassire in burro e olio, quando la padella era già sul fuoco. Ci spolverarono un po' di farina, bagnarono con acqua calda e vino bianco, poi coprirono e lasciarono cuocere.

Arcieri nel frattempo aveva iniziato ad abbrustolire le fette di pane e a metterle in due grandi tegami di coccio.

Con l'aiuto di Andrea, che era teso come se fosse nel mezzo di una delicata operazione spionistica, spolverò sulle fette il gruviera grattugiato. Infine ci versarono sopra la zuppa e un altro strato di formaggio e misero in forno a gratinare.

Angela intanto aveva spremuto le costosissime arance di Sicilia. Arcieri prese il brodo di riduzione delle pernici, lo filtrò con un altro straccio pulito e lo aggiunse al succo degli agrumi, facendolo addensare.

Lavorava come il direttore di una piccola orchestra, riuscendo a mantenere il controllo anche sui più inesperti, come Andrea. Tornò ai petti di pernice. Li rosolò con attenzione in padella, fino a farli imbrunire. Poi li mise in forno, per terminare la cottura, come gli aveva insegnato quarant'anni prima un altro cuoco, che vestiva la divisa come lui, in una piccola caserma sperduta sull'appennino... Chiese che gli venissero portati i piatti per tutti i commensali e vi versò uno strato della salsa di riduzione. Poi sistemò al centro di ognuno una frittella croccante di patate e carote e sopra quella un petto di pernice. Completò il piatto guarnendolo con le fettine lunghe di carota e si allontanò dal tavolo per guardare l'effetto finale: aveva speso un sacco di soldi, ma ne era valsa la pena...

Arcieri non aveva più alzato lo sguardo dalla tavola da almeno un'ora, e non si era accorto che la cucina si era riempita di gente: c'erano proprio tutti quelli con cui aveva condiviso quei giorni tanto intensi, compresi Simone, Sandra e perfino Alessandro, che Guerra teneva stretto per un braccio, come fosse in arresto. Mancavano solo August e Laurenti. Erano tutti muti, intenti ad ammirarlo come fosse un prestigiatore o un professore di medicina al tavolo anatomico...

«Non è finita, non è finita...» mormorava tra sé.

«Apparecchiate, intanto!»

Mancavano i petti d'anatra, che andavano serviti appena fatti. Arcieri ne incise la pelle e li mise a cuocere in una padella già ben calda, dosando tempo e fiamma per la parte della pelle e per l'altra. Quello, in fondo, era il piccolo segreto... Li adagiò su un vassoio e li tagliò a fette piuttosto spesse. Era un'operazione che richiedeva la massima attenzione.

Berta e Andrea se ne stavano senza far nulla da una parte, chiacchierando sotto voce. Era quello che Arcieri voleva, in fondo, ma da quando faceva il cuoco per vivere, considerava la cucina un tempio, quale che fosse e ovunque fosse.

Li fulminò con lo sguardo: «Le pere! Subito!»

I due giovani si precipitarono da lui con la padella e versarono un po' di salsa aromatica sulle fette appena tagliate, togliendo la cannella e i chiodi. Poi tagliarono le pere a fettine e le sistemarono di fianco alla carne. Arcieri li fermò con un gesto risoluto e infilò la mano nel cartoccio del sale grosso. Fece cadere sui petti d'anatra i grossi granelli, come fosse una polvere magica. «Pronto. Mettete in tavola!»

I ragazzi stavano per sedersi, quando Arcieri li fermò: «No, i posti li assegno io. Aspettate».

Si tolse il grembiule, si lavò per bene le mani e mise in tavola la prima portata, la soupe à l'oignon, un classico della cucina francese. Era stata una delle prime ricette che aveva imparato a Parigi. Marius l'aveva assunto per ordine di Vanel come semplice sguattero, ma nella cucina del bistrot, i profumi, il calore del fuoco e gli ordini scattanti del cuoco pregiudicato gli avevano fatto tornare alla mente tanti ricordi, che credeva sepolti per sempre: la nonna e la mamma che cucinavano, a Firenze e a Milano; il commilitone sardo, medico e cuoco, finito soldato semplice per una storia boccaccesca di infermiere, e infine il periodo vissuto da Bordelli. Aveva iniziato ad aiutare lo chef e dopo pochi giorni era stato in grado di prendere il suo posto, quando erano arrivati i gendarmi per arrestarlo...

Fece sedere Guerra con Alessandro e Maurizio. Accanto a loro mise Berta e il giovane Andrea Manetti, cui si era aggiunto Manfredi, l'autista in camicia hawaiana. Le sedie successive le assegnò ad Angela col bambino, a Raffaello, a Sandra, a Simone e infine a se stesso.

Avevano tutti fame e mangiarono la zuppa quasi senza parlare. Alessandro teneva gli occhi fissi su Angela: sembrò a tratti che volesse dire qualcosa, ma Guerra gli stringeva il braccio e riuscì a dissuaderlo. Comunque lui fu l'unico a non fare onore alla soupe à l'oignon.

Quando il primo fu terminato, Arcieri fece passare una bottiglia di vino e annunciò che aveva un discorso da fare. «Guerra mi ha detto, pochi giorni fa, che qui dentro tutti hanno dei segreti. Bene, ne ho anch'io, tanti, ed è il momento di rivelarvene qualcuno. Non mi va di andar via da questa casa con una menzogna...»

Angela lo guardò sgranando gli occhi: «Cosa vuoi dire?»

«Tanto per cominciare, non mi chiamo Marcello Vanzetti. Qualcuno di voi lo sa già. Io sono Bruno Arcieri, un vecchio colonnello in pensione dei Servizi segreti...»

Rimasero per un momento tutti in silenzio: Guerra guardava da un'altra parte, Manetti scuoteva il capo in segno di disapprovazione, mentre ad Alessandro sembrava non importare nulla di quanto diceva... Gli altri lo fissavano con la bocca spalancata.

Poi cominciarono a parlare tutti insieme, tanto che Arcieri dovette suonare più volte il bicchiere con la forchetta, per farli zittire. «Aspettate, vi spiego. È una lunga storia, ma cercherò di essere breve...»

Raccontò per sommi capi la sua vicenda, omettendo i nomi e i particolari meno divulgabili, compreso il ruolo di August e Laurenti. Ma in sostanza disse la verità.

«Comunque tutto questo è affar mio. Quella che volevo dirvi è un'altra cosa, molto più importante: voi mi avete cambiato, in così poco tempo. È vero che quando sono arrivato qui ero già a metà strada... Grazie a un commissario di Pubblica sicurezza, pensate un po'. Ma voi mi avete fatto capire qualcosa che ancora mi sfuggiva. Prima non vedevo al di là della tana che mi scavavo furiosamente, andando diritto per la mia strada. Non mi giravo mai a vedere chi mi stava intorno. Ora ho capito, in sostanza, che non sono solo. È difficile da spiegare, ma insomma, voi mi avete insegnato l'amore.»

Berta gli sorrise in modo molto dolce, forse troppo. Arcieri pensò che forse potevano intendere male... «Vi devo spiegare meglio. Quando dico amore, è in senso ampio. Non pretendo di aver capito tutto di voi, anzi. Ma posso dirvi cosa avete significato per me, uno per uno. Comincio con Guerra: tu sei un po' come ero io, un uomo buono, ma rigido. Basterebbe aprire un po' la scatola di latta che ti chiude il cuore. Spero che la tua rivoluzione purifichi il mondo, davvero, anche se io non ci credo. Ma non troverai mai una rivoluzione più grande di quella che hanno fatto questi ragazzi...»

Suonarono il campanello. Raffaello si alzò in piedi e guardò dalla finestra verso il cancello, poi uscì dalla cucina. Arcieri quasi non se ne accorse.

«L'amore è una cosa strana, è davvero il motore di tutto... Simone condivide con me la passione per la musica, una forma di amore che può essere travolgente. Forse è stato Simone a insegnarmi più cose di tutti, qua dentro. Finora avevo sempre ascoltato soltanto musica jazz. Ho aperto una mia scatola di latta e ho scoperto un nuovo mondo. Ho cercato di aiutare Simone in tutti i modi, e fino a ieri credevo, con Guerra, che il suo problema fosse l'amore non corrisposto per Angela...»

Alessandro, seduto accanto al maresciallo, divenne rosso in viso, e Guerra fece fatica a trattenerlo.

Arcieri gli sorrise. «Aspetta. Dicevo che l'amore è strano. Semplicemente, attraversa tutti noi come un vento. Se lo accogliamo, ci cambia e poi cambia volto lui stesso... Ecco, Simone forse ancora non lo sa, ma sta già insieme a Sandra, che è arrivata così, per caso. Sta con lei, deve stare con lei. Così come Angela capirà, prima o poi, il tesoro che ha a portata di mano.»

Arcieri intravide Raffaello, sul vialetto del giardino, con a fianco un uomo in impermeabile e cappello, che teneva un pacco sotto il braccio. Ma si distrasse subito, perché in quel momento Angela sorrise.

E in un istante, guardando i suoi occhi e quelli di Alessandro, capì che ci aveva azzeccato. «Berta è un caso a parte... Non può stare con Laurenti né tantomeno con un uomo anziano. La sua capacità di amare è travolgente, servirebbe il letto di un fiume, per contenerla. Per lei ci vuole qualcuno che non abbia mai amato davvero, disposto a farsi bruciare da una grande fiamma per rinascere a una nuova vita. Quindi è bene che si faccia avanti un terzo uomo. Forse è già in questa stanza...»

Berta guardò il giovane Andrea e lui avvampò come un ragazzino.

Arcieri gli fece cenno, sorridendo, di darsi un po' da fare. «Ma ora mangiamo le pernici, sennò si raffreddano troppo. Sapete, quando lavoravo in un bistrot di Parigi, la clientela variava molto a seconda degli orari. Studenti, oppure impiegati, e a una cert'ora gli operai. I piatti più raffinati, il mio padrone Marius li riservava per questi ultimi. Era comunista anche lui, ma non lo faceva per solidarietà politica: gli operai erano solo assai esigenti, mentre gli altri quasi sempre di bocca buona. Bon, le pernici in salsa d'arancia le ho imparate così...»

La prima bottiglia di vino era già finita, e Arcieri ne mise in tavola altre due. Le pernici furono ben più che apprezzate. Maurizio aveva addirittura le lacrime agli occhi e gli disse che non aveva mangiato un piatto simile dai tempi della sua giovinezza, a Fiume, quando abitava coi suoi in una grande casa con cinque persone di servizio.

Raffaello tornò in cucina in tempo per prendere l'ultimo piatto disponibile, prima che glielo rubassero. Si avvicinò ad Arcieri e gli parlò all'orecchio: «C'è una persona che vuole vederti».

«Chi è?»

«Non me l'ha voluto dire. Ha un pacco per te. Ti ha chiamato colonnello Arcieri...»

«Vado di là.»

Raffaello lo fermò. «No. Ha detto di finire tranquillamente la cena. È uscito di nuovo, tornerà tra un'oretta...»

Arcieri era un po' inquieto, ma l'arrivo in tavola dei petti d'anatra, con fichi canditi e miele, fu una vera festa. Tutti parlavano di nuovo con tutti, e alla fine il vino aveva fatto il suo effetto: brindarono anche ad August e a Laurenti, benché nessuno sapesse dov'erano finiti.

Il campanello suonò di nuovo alle dieci di sera. Raffaello fece entrare in casa il visitatore di poco prima, ma lo accompagnò subito in quello che un tempo era stato il salotto e adesso era una specie di magazzino. Arcieri non riuscì a distinguere chi fosse. Fece per raggiungerlo, ma Angela lo trattenne: si alzò in piedi, tenendo in collo Giuseppe. Alessandro si era sganciato da Guerra e aveva cambiato di posto per sedere accanto a lei. Si tenevano per mano e lui sembrava davvero il ragazzo più felice del mondo.

«Aspetta, Marcello, anzi, Bruno...» Angela rise. «Come diavolo ti chiami? Insomma, abbiamo preparato una sorpresa anche noi...»

Berta si alzò e andò ad aprire uno degli armadietti. Portò in tavola un tentativo non ben riuscito di tarte tatin alle mele, servita con tanta panna montata. Ma Arcieri, commosso fino alle lacrime, la trovò deliziosa. Rimandò i saluti all'indomani, per quella sera era davvero troppo. Si limitò a dare un bacio al piccolo Giuseppe e finalmente andò nel salotto dal visitatore notturno.

Aprì la porta e rimase sulla soglia, impietrito.

 

 

«Romolo Bosco...» Arcieri sentì un lungo brivido percorrergli la schiena, un brivido di morte.

Era la prima volta, dopo tanto tempo, che Arcieri pronunciava quel nome: Romolo Bosco, l'uomo ricchissimo che abitava in una villa vicino a Genova, il collezionista di musica jazz, il nemico intoccabile che gli aveva fatto sabotare la Giulia... Romolo Bosco, il finanziatore occulto di Aneipoti, l'uomo dietro i Servizi segreti deviati. Uno tra i tanti, forse, ma certo il più potente.

Era seduto in poltrona, da solo, senza guardie del corpo. Aveva posato il suo pacco sul pavimento. Arcieri tornò con la mente alla splendida villa sopra Genova, l'estate dell'anno prima, quando aspettava di parlare con lui e intanto ammirava la sua collezione di dischi di jazz, la più grande che avesse mai visto: oltre quindicimila 78 giri, quasi tutti quelli incisi prima dell'avvento del microsolco, tra i primi del Novecento e gli anni Cinquanta. Accarezzava con amore le buste di carta che avvolgevano le lacche nere. Dischi spesso rarissimi, specie quelli del misconosciuto jazz italiano degli anni Venti e Trenta. Quell'uomo potente aveva la sua stessa passione per la musica nera, soltanto che lui poteva investirci somme favolose... Ma era anche il criminale cui aveva dato la caccia, e a quel tempo Arcieri stava per metterlo di fronte alle sue responsabilità. Lo stesso giorno di Sant'Anna, poco prima del volo dalla scarpata.

«Le ho portato un piccolo presente», disse Bosco.

Arcieri richiuse la porta dietro di sé. Non sapeva cosa dire o che fare. «Che ci fa lei qui? Questi ragazzi sono innocenti...»

«Non tutti, direi, e comunque non ho alcuna intenzione di farle del male, colonnello. C'è un terribile equivoco, tra noi due...»

«Non credo. E non ho intenzione di stare a sentire le sue menzogne.»

«Guardi che per molte cose lei si sbaglia. I suoi colleghi hanno fatto delle scelte discutibili, forse, e in questi giorni alcune cose sono cambiate... Rapporti di forza, in un certo senso, e relazioni personali... Avete individuato una mela marcia, nella vostra organizzazione, e l'avete eliminata. Ben fatto. Non ho nulla da eccepire, colonnello, mi creda. Ho interessi molteplici in tutto il mondo. Coltivo relazioni interessanti con tante persone diverse, a vari livelli...»

«Un giorno finirà, Bosco...»

«Non finirà: cambierà semplicemente pelle, e lei sa bene che è proprio così. Tutta la catena di corruzione nei Servizi, che lei voleva spezzare, non c'è più. Molto bene, siamo nemici come prima. È giusto dire così, non trova?»

«Se non vuole uccidermi, cos'è venuto a fare?»

Bosco indicò il pacco, posato per terra. «Ho voluto portarle questo piccolo regalo, che sono certo apprezzerà. E mi premeva dirle che possiamo convivere, d'ora in poi, senza crearci vicendevoli problemi. Non ho davvero alcuna intenzione di nuocere in qualsiasi modo agli strani tipi con cui lei si è mescolato, colonnello.»

«Non accetto ricatti. Questo lo sapeva già, Bosco. Ripeto, cos'è venuto a fare?»

«Non lo considero un ricatto. Sono venuto qui da solo e lei è di nuovo inattaccabile: i suoi amici, quelli che la proteggono, sono tornati ai posti di comando. Non permetteranno che qualcuno le torca un capello. Quindi cosa potrei minacciare? Che in questa casa avvenga un incidente, col gas? O una rapina finita male? Per chi mi prende...»

Arcieri non riuscì a resistere e si avventò contro Romolo Bosco, l'uomo che era al vertice della piramide di orrori. Ma quell'uomo, che forse aveva più anni di lui, gli afferrò un polso e lo strinse con forza inaspettata. «Questo non è davvero da lei. Me ne vado subito, colonnello Arcieri. Perché sono venuto qui? Mi creda, proprio per portarle un regalo.» Sollevò il pacco da terra e glielo porse. Quadrato, piuttosto spesso. Sembrava anche pesante. «Nella mia villa, quando ci siamo visti l'ultima volta, lei è rimasto molto colpito dalla mia collezione di dischi di jazz. Il mio orgoglio. Poi le circostanze hanno reso inevitabile che lei se ne andasse in tutta fretta...»

Arcieri sogghignò. «Vuole smetterla di parlare in modo bizantino, Bosco? Sparisca, sta ammorbando una bellissima serata...»

«Apra il pacco, la prego.»

«No. Se lo porti via, subito.»

Bosco sorrise. Posò il pacco sulla poltrona e si mise in testa il cappello, poi aprì la porta del salotto. La musica di Simone scendeva dal piano di sopra come una cascata di diamanti.

«Che orrore, questo rumore, vero, Arcieri? Ci perseguita ovunque. L'unica musica vera è il nostro jazz...»

«Si sbaglia. Questa è una musica magnifica.»

Bosco lo guardò stupito, mentre Arcieri lo accompagnava alla porta di casa. «Non può essere Bruno Arcieri, a dire queste cose...»

«Sono cambiato», gli rispose, sulla soglia.

Bosco scosse il capo. «Apra il pacco, Arcieri...»

Non gli rispose più. Lo guardò allontanarsi nel buio. Indovinò un'auto nera, con le sole luci di posizione, che lo aspettava fuori del cancello del giardino.

Quando rientrò, Raffaello gli chiese chi fosse.

«Nessuno.»

Alla fine, prima di andare a dormire, lo vinse la curiosità e aprì il pacco. Erano dischi a 78 giri di musica jazz. Ma assolutamente non ordinari, anzi: c'era qualcosa di incredibile. Alcuni erano molto più grandi di quelli normali. Non incisioni commerciali: le etichette erano bianche e scritte a mano. Riportavano la stampigliatura RADIO TEVERE, la data e la formazione dei musicisti. Erano jam sessions milanesi del gennaio 1945, con protagonisti incredibili: Gorni Kramer, Renato Rascel, Pippo Starnazza, Tullio Mobiglia... Molti di loro non avrebbero dovuto nemmeno essere a Milano, in quei giorni... Le lacche erano perfette, come se non fossero mai state suonate. Arcieri era emozionato. Gli altri dischi erano ancora più incredibili: uno era ridotto male, con un'incrinatura che però non doveva compromettere l'ascolto... Funky Butt, Buddy Bolden orchestra, New Orleans, 1906. Rimase a bocca aperta, perché tutte le storie erano concordi: non esistevano dischi del creatore del jazz. Anche dell'unico suo cilindro fonografico si favoleggiava soltanto... Arcieri aveva le mani sudate. C'erano altri dischi impossibili, come uno di Louis Armstrong con Kid Ory, del 1919, e un biglietto senza firma, ma senz'altro scritto a mano da Bosco: “Alcuni dei miei più grandi tesori. Buon ascolto.”

Arcieri richiuse con cura il pacco e lo portò in camera sua.

 

 

Quella notte dormì senza sogni, o almeno, quando si svegliò, alle otto di mattina, non ne ricordava. Mise il pacco di Bosco nel borsone e decise di andarsene subito, senza aspettare che gli altri si alzassero. Detestava gli addii, e poi tutto sommato sarebbe ritornato, prima o poi, magari per un'altra cena speciale. Adesso aveva da fare qualcos'altro, voleva incontrare una persona con la quale si sentiva profondamente in debito.

Uscì in giardino, l'aria era frizzante e respirò a pieni polmoni. Era un buon momento, per rinascere a una nuova vita. Sarebbe tornato a casa sua, in via Ricasoli, si sarebbe cambiato, poi c'era da ottenere un nuovo documento, andare in banca, noleggiare un'automobile, fare un salto a Roma... Non era un affare da poco riprendere a vivere, dopo tanto tempo.

Uscì dal cancello e si avviò verso la fermata dell'autobus. Sorrise, vedendo la Lancia Flavia parcheggiata lì vicino: dunque Andrea e Manfredi erano rimasti a dormire. Bene, bene... C'erano un sacco di studenti, ad aspettare. L'autobus arrivò strapieno e stavolta Arcieri decise di non prenderlo: sarebbe stata una lunga camminata, ma si sentiva bene, gli erano tornate le forze. Mise il borsone in spalla e si avviò verso il centro. Era bella, la sua Firenze, anche in quella periferia di palazzoni: gli piacevano la luminosa intimità delle latterie, i piccoli bar, i caldi negozi di alimentari, le minuscole sartorie, i ferramenta, i droghieri, le tenere mercerie... Il traffico era caotico, per un pelo una macchina non gli passò su un piede e qualcuno gli gridò «vecchio imbecille» da un finestrino aperto. Ma faceva tutto parte del gioco.

Evitò di passare a piedi dai sottopassaggi ferroviari, simili a caverne gonfie di gas di scarico. Una gran folla aspettava gli autobus in piazza della Stazione e il caffè Deanna era pieno di gente ai tavolini. Fece colazione, stretto tra tante persone e guardato con lieve sospetto da una coppia di vigili urbani, che prendevano il cappuccino. Lasciò alla cassa del bar le ultime monete. Ma aveva nascosto una banconota da cinquantamila lire, in un comparto del portafoglio.

Era leggero. Nella piazza vide un gruppo di dimostranti. Tutti neri e immusoniti, ma c'erano anche alcune ragazze coi vestiti a fiori e i volti dipinti... Forse un po' dell'aria di Parigi stava filtrando anche a Firenze. Piazza Indipendenza, con la sua corona di alberi di alto fusto, era un ricordo d'altri tempi. La statua del Barone di Ferro, dall'alto del piedistallo, gli suscitava memorie lontane.

La stretta via Zara era piena di macchine, come tutte le strade del centro. Si fece largo col borsone ingombrante, tra i passanti sul marciapiede, e finalmente raggiunse la Questura.

In portineria c'era lo stesso piantone di due giorni prima: «Ah, il questuante di San Vincenzo. L'ispettore Silvis non c'è...»

«Non cercavo lui. Può vedere se c'è il commissario Bordelli?»

«Non mi dica che anche Bordelli, come Silvis...»

«No, no. Gli dica che lo cerca Bruno Arcieri.»

Il piantone prese il telefono interno e parlottò per un minuto. Poi uscì dalla guardiola e lo squadrò con attenzione.

Arcieri si accigliò. «Cosa c'è? Non vuole vedermi?»

«Mi ha detto di guardarla bene e di dirgli com'è fatto», disse il piantone.

Arcieri sorrise. La guardia tornò al telefono, disse qualcosa alla cornetta e poi riattaccò. «Dice che scende lui.»

«Devo sbrigare una pratica. Quando arriva, gli dica che sono allo sportello, nell'atrio...»

Si mise in fila per fare la denuncia di smarrimento della carta d'identità: senza quella, non avrebbe potuto fare nulla, nemmeno prelevare i suoi soldi in banca.

Passarono pochi minuti e Bordelli comparve nel corridoio. Aveva stampata in volto una strana espressione, a metà tra l'ironia e lo stupore: «La vita è piena di sorprese...»

«Chi non muore si rivede.»

Arcieri aveva voglia di abbracciarlo, ma non gli sembrava il momento giusto. C'era qualcosa di delicato, tra di loro. Un'amicizia che si reggeva anche su cose non pienamente espresse. Ma ognuno, nella sua diversità a volte clamorosa, sapeva di essere simile all'altro.

Bordelli aveva una sigaretta in mano. La buttò via. «Sembra ringiovanito.»

«Ho mangiato bene. Anche lei mi sembra in forma.»

«Non mi lamento. Grazie della cartolina da Parigi. Ero molto in pensiero. Adesso è tutto a posto?»

«Sono finalmente libero.»

«Deve raccontarmi ogni cosa... Venga nel mio ufficio, ci facciamo portare qualcosa da bere.»

«Se mi permette, avrei un'altra idea. Stasera vorrei invitarla a cena, e le racconterei tutto. Sempre che non sia già impegnato con una donna...»

«Altro che una, erano tre. Ma per lei annullerò tutti i miei impegni. Possiamo andare in una trattoria di San Lorenzo che conosco bene...»

«No, stasera offro io. Devo anche renderle dei soldi...»

«Non mi deve niente.»

«È sempre Sabatini, il miglior ristorante in centro?»

«Dicono tutti così.»

«Ci vediamo lì alle otto», disse Arcieri.

Il commissario esitò un poco. «Le costerà un occhio... Non è meglio andare da qualche altra parte?»

«Lei con me non ha badato a spese, in tutti i sensi. Comunque ho un cospicuo fondo spese del SID. Abbiamo il dovere di prosciugarlo.»

«Magnifico... Vedo già due vecchi ubriachi che si mettono a parlare della guerra, o magari a cantare.»

«Allora alle otto?»

«D'accordo.»

Bordelli gli tese la mano. Arcieri la strinse, indugiando un poco.

«Sono molto curioso», disse il commissario.

«Stasera le racconterò tutto.»

«Arrivederci.»

Arcieri sorrideva, mentre si avviava verso la casa di via Ricasoli. A un tratto si ricordò che non aveva le chiavi: l'unico mazzo era rimasto in mano a Elena... Provò a cercarla: telefonò a Serenella Giusi Cattani, che insistette per rivederlo e gli strappò una promessa per una delle sere successive. Ma Elena sembrava proprio essersi volatilizzata. La immaginò su un aereo, diretta in Israele o chissà dove. Si chiese se l'avrebbe rivista ancora, prima che il tempo trasformasse entrambi in polvere...

Passò l'intera giornata a risolvere quello e altri problemi, dai più complicati ai più banali, come pagare le bollette accumulate in tanto tempo. Andò ai grandi magazzini di piazza della Repubblica, e comprò un paio di abiti decenti. Poi, nel tardo pomeriggio, trovò un fabbro disposto ad aprirgli la serratura.

Era un uomo di mezza età, sbrigativo, quasi brusco: «È meglio cambiarla. Gliene metto una moderna, molto più sicura».

«No, voglio lasciare questa. Non può farmi un duplicato della chiave?»

«Non mi aveva detto di averla persa?»

«Sì, ma...»

«Allora non ha senso: se uno la trova, magari gli entra in casa...»

«È quello che voglio.»

«Mah, contento lei...»

Il fabbro scuoteva il capo, borbottando qualcosa tra sé. Arcieri era sicuro che lo considerasse un vecchio un po' pazzo, ma la cosa non gli dava affatto noia, anzi lo divertiva.

Finalmente poté fare un bagno caldo in casa sua. Era una sensazione strana: vedere intorno a sé le sue cose, come se non fosse successo nulla... Ogni mobile, ogni oggetto, gli raccontava una storia. Malinconica o allegra, ma sempre col colore della quotidianità: qualcosa che credeva di avere ormai dimenticato. E invece si faceva di nuovo cullare da quelle sensazioni, come se fosse la casa stessa, vivente, a fargli una carezza.

Arcieri si avviò verso via Cerretani. Spinse la porta a vetri di Sabatini in perfetto orario: mancavano cinque minuti alle otto.

Bordelli arrivò con un quarto d'ora di ritardo, scusandosi. Arcieri gli chiese come stava Geremia, il teschio che il commissario teneva in cima alla credenza, in cucina. Il commissario gli disse che aveva sempre quell'aria abbattuta e parlava poco, e risero come ragazzini... Il cameriere portò il menù e parlarono di loro due, degli ultimi avvenimenti e soprattutto del recente passato che riguardava entrambi. Arcieri disse che era una grande occasione e Bordelli ne convenne. Scelsero perciò il meglio che offriva il ristorante e non risparmiarono sul vino. Arcieri aveva incaricato Bordelli di scegliere una bottiglia, per manifesta superiorità, e di fronte alla sua esitazione disse che almeno la prima doveva essere per forza assai speciale, per brindare alla conclusione di quella memorabile vicenda... Il commissario chiese se davvero pagava il SID, e Arcieri fu costretto a confessare di no, che sarebbe uscito tutto dal suo portafoglio. Ma fu irremovibile: quella cena doveva rimanere scolpita nella pietra. Anzi, dopo aver bevuto metà di quella preziosa bottiglia, dissero sorridendo che valeva la pena di far scolpire proprio una piccola lapide da murare accanto alla porta del ristorante... La scrissero insieme, ovviamente per scherzo, ma anche un po' sul serio. Bordelli l'appuntò sul suo taccuino: In quest'aulica trattoria di lusso

per signori oziosi

due sbirri scarsamente ubbidienti

sciolsero finalmente nel vino

il canto del loro abbandono

«Quest'ultimo verso è copiato», protestò Bordelli.

«Vero, ma ha un senso preciso.»

«Allora va bene.»

Un cameriere stava sempre sull'attenti dietro di loro, tutto impettito e col tovagliolo stirato sul braccio, e quando finivano l'acqua o il vino era sempre pronto a riempire i bicchieri. Loro lo sbirciavano, e soffocavano le risate... Quando il cameriere portò la frutta, Arcieri prese una mela e la mise sul piatto. Avrebbe voluto mangiarsela a morsi, ma vide che un altro cliente del ristorante, a un tavolo vicino, sbucciava il frutto con entrambe le posate, elegante come un prestigiatore... Decise allora di provare a fare lo stesso. Puntò la mela con la forchetta e affrontò la buccia rossa col coltello, ma il frutto gli sgusciò via e volò in mezzo alla sala. Tutti lo guardarono, impassibili, e il cameriere andò in tutta fretta a raccoglierlo. Arcieri e Bordelli scoppiarono a ridere e non si fermavano più, avevano le lacrime agli occhi.

Gli scherzi e le risate durarono per un altro po', mentre piccole malinconie si infiltravano tra i ricordi. Ma continuarono a sorridere della vita, di quel che dava e di quel che prendeva.

Arcieri diventò serio quando volle ricordare, con un ultimo bicchiere, tutti i suoi morti, finendo con Andrea Viani, Carboni, Bernard, Mario Tornabuoni... Bordelli non sapeva chi fossero, ma partecipò commosso al brindisi.

Arcieri raccontò tutta la sua storia, a parte qualche omissione, e la chiacchierata tra amici finì fatalmente sulle donne. Il commissario parlò di Eleonora, Arcieri di Elena e di Nanette.

Proprio alla fine della cena, quando stavano per alzarsi dal tavolo, dopo aver pagato il conto, Arcieri gli disse di Marie. «Mi ha lasciato una lettera, a Parigi. Non ho ancora trovato il coraggio di aprirla.»

«E cosa aspetta?»

«Non lo so, forse è meglio che la lasci qui sul tavolo.»

«La vita è una sorpresa, io la leggerei immediatamente.» Bordelli gli prese la busta di mano e finì di aprirla. Sfilò il foglio e lo mise sul tavolo.

C'era solo un numero di telefono.

 

Leonardo Gori - Il ritorno del colonnello Arcieri
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