IL RITORNO DEL COLONNELLO ARCIERI
A chi ho amato
E forse io solo
so ancora
che visse.
GIUSEPPE UNGARETTI, Il porto sepolto, 1916
E non ho più paura
della libertà.
ANTONELLO VENDITTI, Campo de' fiori, 1974
Bruno Arcieri si svegliò bagnato di sudore. Dalla finestra socchiusa filtrava la luce limpida del sole pomeridiano e saliva il chiasso di rue Guisarde. Fischi di poliziotti, sirene, grida di giovani.
Marie, accanto a lui, lo guardava preoccupata: «Cos'hai? Ancora il sogno cattivo?»
«Non è nulla.»
Bruno aveva un incubo ricorrente, da quando era bambino, e ormai erano passati sessant'anni. Qualcuno lo inseguiva: fuggiva da un sicario, o da altra gente che ce l'aveva con lui, oppure era un criminale e aveva dietro i poliziotti, ma insomma qualcuno lo voleva sempre prendere, arrestare, uccidere... Certe volte era un personaggio famoso della cronaca o della storia. Chi lo rincorreva, un nemico altrettanto noto. Come se girasse un film, con mille varianti. Ma non mancavano mai l'ansia e il cuore in gola.
Dopo l'attentato dell'anno prima, cui era sfuggito per caso, il sogno si era presentato ancora più spesso, ma con un finale nuovo. Al termine della corsa, quando il fiato non lo reggeva più, si trovava di fronte la Giulia, l'automobile parcheggiata sulla collina di Sant'Anna di Stazzema, in Toscana, sotto il monumento che ricordava la strage nazista del 1944. Si sedeva al volante, ansimando, e metteva in moto. Udiva il ruggito represso del motore, sentiva il lieve odore di benzina e la macchina rispondeva forte e docile. Faceva manovra e le gomme sfrigolavano sulla ghiaia candida del viale. Non c'era nessuno, a Sant'Anna, soltanto i fantasmi dell'ecatombe di ventiquattro anni prima. Gli sembrava di vedere i loro occhi, le loro bocche spalancate nel silenzio del bosco. Scendeva piano per la strada bianca, si lasciava alle spalle le case morte e affrontava la serie dei tornanti. Indovinava il mare della Versilia, così vicino eppure remoto come un sogno dentro il sogno. Non serviva premere sul gas, la Giulia scendeva sicura per le curve strette, le inanellava una dopo l'altra, tra il bosco da una parte e lo strapiombo dall'altra. Ma poi l'auto cominciava ad accelerare, le gomme fischiavano a ogni tornante, sull'asfalto umido e insicuro. Non era più lui a controllare la macchina... Bruno era oppresso dall'angoscia. Da chi stava fuggendo? Dai sicari che lo cercavano, dai suoi ex colleghi che lo volevano togliere di mezzo, dal criminale potentissimo e ben protetto, che si illudeva di avere incastrato? O da altre ombre del suo passato? Ogni istante la strada sembrava sul punto di esplodere.
Poi la Giulia volava fuori strada, nella scarpata.
Non era più un sogno, ma un ricordo: autunno del 1967, meno di un anno prima. Lo sterzo della Giulia sabotato. Bruno era a mezz'aria. Il mare in alto, lontano, il cielo un abisso sotto di lui. La macchina diventava una nave che partiva in volo per un gran viaggio, e lui era sereno, senza chiedersi perché, senza, in fondo, alcun rimpianto. Una liberazione dalla fuga continua, dai nascondigli, dalla paura di ogni ombra. Smettere di fuggire. Bruno Arcieri aveva già preso una decisione, anche se non lo sapeva ancora.
Marie si alzò sui gomiti. Era bella e dolce. Indossava una leggera sottoveste azzurra, che faceva risaltare il suo seno pieno e la pelle scura. «Hai una faccia... Sembra che tu abbia visto la morte.»
«È soltanto stanchezza. Sono vecchio.»
«Non sembri tanto vecchio.» Sorrise.
«Ho passato i sessantacinque.»
«Non conta un granché.»
«Per te, forse, che ne hai quindici di meno.»
Bruno si alzò dal letto e andò alla finestra. Scostò le tendine bianche e guardò in strada. Rue Guisarde era abbastanza tranquilla, vide solo un paio di ragazzi che correvano. Ma le barricate erano ovunque, nel quartiere latino: quella notte, tornando dalla trattoria, aveva visto gli studenti che le tiravano su, togliendo i sampietrini dal selciato e ammassando per strada tutto quello che trovavano. Aveva visto macchine coi vetri sfondati, pneumatici squarciati... La situazione stava sfuggendo di mano alla Polizia e al Governo. Ma a Bruno di quelle cose, che una volta erano il suo mestiere, non importava nulla. Guardando in strada, pensava che forse quella sera non avrebbe potuto raggiungere la trattoria, per lavorare, e che magari il padrone non avrebbe nemmeno aperto. Lo pagava a giornata, al nero, e lui aveva bisogno di quei soldi. Istintivamente cercò il portafoglio, in cui teneva tutto il suo patrimonio, ma indossava soltanto i pantaloni del pigiama. Si accarezzò la barba ispida e si voltò verso la porta del bagno. Marie era già dentro, che si lavava.
«Passami il rasoio, per favore.»
La donna uscì col rasoio elettrico in mano. Tutta nuda e sorridente, ancora molto bella. Bruno si chiese perché mai passasse le sue notti con un vecchio, avrebbe potuto avere chiunque. Ma era una gran fortuna, lo faceva sentire ancora vivo. Prese il rasoio e lo attaccò a una presa del muro. Si fece la barba senza specchio, a memoria. Aveva lasciato tante abitudini in Italia, dopo la sua fuga precipitosa: anche il rito del pennello e della lametta da barba, impugnata da sola con un pezzetto di carta. Un giochino pericoloso imparato durante la guerra, quando risaliva l'Italia con gli inglesi, come ufficiale di collegamento badogliano. Non era la sola cosa che gli mancava, ovviamente. Le persone, soprattutto, e una in particolare. Anzi, due: chissà cosa faceva, in quel momento, il commissario Franco Bordelli. Era stato a casa sua che aveva imparato a cucinare, dopotutto...
Sorrise e staccò la spina. Marie era uscita dal bagno e ci entrò lui. Si tolse i pantaloni ed evitò di guardarsi allo specchio. Fece in fretta quel che doveva, pensando alla serata che lo attendeva, piena di domande senza risposta e di ricordi. Soprattutto di solitudine, se non fosse stato per Marie. C'era stato il problema della lingua. Per la sua generazione, Bruno era un caso particolare: anglofilo fin dal ginnasio... Ma aveva imparato presto il francese, almeno quello che gli bastava per sopravvivere. Grazie anche ai contatti coi fuoriusciti antifascisti, che gli erano rimasti dal '38. Anzi, probabilmente doveva ringraziare proprio loro, se era sempre vivo.
Ma basta nascondersi, basta cercare di sfuggire il destino.
Si vestì alla svelta. Pantaloni di panno, larghi e sgualciti, un maglione nero a girocollo e il berretto. Si tirò un poco la visiera sugli occhi, un'abitudine presa quando temeva che ogni faccia che incontrava potesse essere quella di un sicario. Anche a Parigi, dopotutto, non faceva altro che nascondersi. Rimaneva chiuso in una piccola cucina per gran parte del tempo e passeggiava soprattutto di notte, sempre per le strade meno frequentate del quartiere. Un bistrot, varie librerie, spesso le bancarelle sulla Senna. Anche lì, i ricordi dell'anteguerra: agenti segreti italiani e nazisti, fuoriusciti, traditori, spie...
Marie si truccava davanti a un piccolo specchio: «Esci già?»
«Voglio vedere cosa succede.»
«Ma com'è cominciato, questo casino?»
«Gli studenti, alla Sorbona. Poi una cosa dietro l'altra, stanotte hanno fatto le barricate. Non baderanno a un vecchietto a zonzo.»
Marie si avvicinò e gli carezzò la guancia. «Il mio italiano misterioso... Qualcosa mi racconterai, una volta o l'altra.»
Bruno sorrise. Le baciò la punta del naso, prese le chiavi e uscì, richiudendo dietro di sé la porta del piccolo appartamento.
L'aria del pomeriggio era ancora frizzante. Per strada si udiva un brontolio di folla vicino, qualche scoppio, fischi e urla. Pensò di evitare i boulevard e di passare dalle strade più o meno parallele a Saint-Germain. Il suo contatto già lo aspettava a Saint-Sulpice, come ogni sabato, ma se la prese comoda, girando intorno al mercato coperto.
Molti negozi erano chiusi, le saracinesche abbassate. Si fermò al chiosco di un'edicola. Le locandine dei quotidiani strillavano titoloni allarmanti. C'era il Corriere della Sera: disordini anche in Italia... Proprio quel giorno era prevista una grande manifestazione nazionale degli studenti, a Pisa. Immaginò che il commissario avesse il suo daffare, a Firenze. Probabilmente doveva la vita anche a lui. Chissà se poi il Botta gli aveva raccontato la fuga notturna oltre il confine francese, sulla sua bellissima Alfa rossa fiammante. Magari il commissario stava in pensiero per lui. Sorrise e si mise a guardare le cartoline illustrate: la Senna, Notre Dame, il bateaux mouche... Il sogno parigino dei piccoli borghesi italiani... Gli venne un'ispirazione e ne acquistò una, con una veduta dalla Tour Eiffel.
I passanti andavano di fretta, quasi di corsa. Pensò alla gente per strada con gli allarmi aerei, durante la guerra: sguardi impauriti, il volto basso, il corpo piegato in avanti, in cerca di un rifugio. Sentiva come allora il rombo di motori vicini, forse mezzi blindati della gendarmerie, ma non incontrò assembramenti.
Entrò nel mercato, c'erano soltanto poche donne. All'interno del grande padiglione le urla dalle strade vicine echeggiavano attutite e distorte. Girò per qualche minuto tra i banchi, indugiando davanti a quelli di frutta e verdura, poi comprò al bar un sacchetto di patatine fritte e un'Orangine, chiese in prestito una penna e si mise seduto a un tavolino. L'indirizzo se lo ricordava bene e scrisse prima quello, sforzandosi di correggere la sua scrittura quasi incomprensibile. A scuola, mille anni prima, una maestra lo aveva preso di petto, costringendolo ad atroci esercizi di calligrafia, terribilmente monotoni: gli faceva riempire i quaderni con cento volte la stessa frase: Bruno deve imparare a scrivere bene. Egli lo deve per rispetto a se stesso, agli insegnanti, agli amici. Tutti quei “gl” erano per rendere la cosa più difficile. Per reazione, aveva peggiorato ancora di più la sua scrittura, che più tardi era diventata proverbiale. Molto spesso non riusciva a comprendere i suoi stessi appunti, durante le indagini.
Rimase un minuto a guardare lo spazio bianco della cartolina. Non doveva offrire indizi a occhi indiscreti. Il commissario era molto sensibile al fascino femminile. Bene. Si sentiva strano a dargli del tu, ma doveva essere un messaggio in codice, per dirgli che stava bene... Quando si erano salutati era davvero in pena per lui. Scrisse: In ricordo delle notti passate da te. Sto bene e ti penso spesso. Stava per firmare: Bruna. No, troppo ovvio. Nemmeno Marcel, il suo attuale nome falso, andava bene. Pensò al bellissimo disco di John Coltrane che il commissario gli aveva regalato per Natale. Firmò così: A Love Supreme. Voilà.
Uscì in rue Mabillon. Lì c'era un po' di nebbia acre, fumogeni della Polizia. Vide correre un gruppo di agenti della gendarmerie in direzione opposta alla sua, ma si avviò tranquillamente verso l'abside della chiesa. Ci girò intorno, con l'orecchio sempre attento alla provenienza delle grida e delle sirene, e sbucò nella grande piazza.
Il suo contatto era seduto su una panchina sul lato sinistro della spianata, sotto gli alberi, quasi davanti alla fontana. Era un uomo più o meno della sua età. Ma Bruno provò un moto d'orgoglio: sapeva di essere ben diverso da quel vecchietto che dava da mangiare ai piccioni. Anche se evitava di guardarsi allo specchio, non poteva fare a meno, a volte, di scrutarsi nel riflesso delle vetrine: non era alto, ma nonostante il terribile incidente dell'anno prima, che lo aveva costretto a letto per oltre un mese, era atletico, magro e dritto, e aveva i capelli ancora tutti neri. Si avviò piano, senza parere, verso la panchina. Tanti anni di Servizi segreti, dal '38 fino al '66, lo costringevano a rituali di dissimulazione anche nella vita quotidiana, quando non ce ne sarebbe stato bisogno: guardarsi sempre le spalle, ad esempio, sfruttando proprio il riflesso delle vetrine, o cambiare strada in modo imprevedibile, evitando i percorsi sempre uguali. Si sedette sulla stessa panchina del suo contatto, che parlava coi piccioni come fossero bambini – pio, pio, venez ici, mes petits – ma dalla parte opposta, schiena contro schiena. Aprì il sacchetto di patatine e ne sgranocchiò un paio. Il vecchietto parlò sommessamente a uno dei piccioni davanti a lui, che lo guardava come fosse davvero stupito della domanda: «Ça va le travail, Marcel, mon ami?»
Anche Bruno parlò a voce molto bassa, come se borbottasse tra sé. Modi di fare da vecchi, nessuno li avrebbe notati. «Me la cavo. Sono stato da un amico, in Italia, e ho imparato a cucinare bene. Almeno abbastanza bene per il mio padrone, Marius...»
«È un brav'uomo, Marius. Durante la guerra ha aiutato molti dei nostri. Il suo bistrot era frequentato dai boches... I soldi che le dà lui le bastano?»
Bruno aprì la simpatica bottiglia di Orangine, che sfrigolò piacevolmente, e ne bevve un sorso. «Certo. Non ho necessità di altro.»
«Perché ha lasciato la stanza che le avevamo trovato?»
«Mi ospita una donna, qui vicino.»
«Ohh, là là. Male, Marcel, male. Avevamo stabilito che non avrebbe fatto amicizie. È una questione di sicurezza, lei lo sa molto meglio di me. Vuole nascondersi davvero, oppure... E poi via, alla sua età...»
Bruno sentì montare l'irritazione. Sgranocchiò tre patatine insieme. I piccioni erano venuti anche davanti a lui e beccavano le briciole. Bevve un altro sorso di Orangine e girò la testa verso il vecchietto. «Non c'entra l'età. Non posso stare sempre solo, sono nascosto qui da quattro mesi, esco di notte come un pipistrello. È una donna discreta, non mi fa domande. Lavora come bigliettaia in un cinema.»
«Non alzi la voce e non si rivolga a me. Parli ai piccioni. Sono animali interessanti. Luridi e stupidi, ma a loro modo eleganti. In fondo la pelle è sua, mon ami. Ha chiesto aiuto ai suoi vecchi nemici e noi glielo diamo, ma alla fine faccia come le pare...»
«Non è vero, non vi ho mai considerato nemici...»
«Invece sì. Ma lasci stare, è roba di tanti anni fa...»
Un autoblindo passò a gran carriera per rue Bonaparte, davanti agli uffici municipali del sesto arrondissement, transennati e vigilati dai poliziotti in tenuta antisommossa.
Arcieri lo seguì con gli occhi. «Non mi sembra. È in atto una rivoluzione, o no?»
«Ma no, sono solo studenti. Intellettuali.» Il vecchietto fece un leggero gesto di insofferenza. «Veniamo a lei, non possiamo passare troppo tempo insieme.»
«Ha ragione. Notizie dall'Italia?»
«Sì, i vecchi compagni di Roma e di Firenze hanno continuato a tenere sotto controllo persone e cose, come ci ha chiesto. Ho tre notizie che credo siano importanti, una forse la considererà buona, ma le altre due sono cattive.»
«Fuori subito quelle, per favore.»
«Certo. È morto un suo vecchio collaboratore dei Services secrets italiens, le SID...»
«Chi?»
«Carboni.»
Arcieri accusò il colpo. Rivide la faccia sorridente del suo vice e amico, poco più giovane di lui, prossimo alla pensione. Era tra quelli che aveva chiamato, dall'ospedale, per chiedergli protezione per il ragazzo. Si sentì spaventosamente in colpa.
«Come... Cosa...»
«Una morte improvvisa. Un po' strana: era da solo in un albergo, a Roma, dove non doveva essere. Dicono che abbia avuto un infarto mentre stava con una ragazza troppo giovane. A quanto pare anche lui, mon ami, come lei...»
«Io non vado con le ragazzine.»
«Sono affari suoi. Ma insomma: hanno messo tutto a tacere, per non infangare il suo nome. Per la vedova, per i figli. Nessuna notizia sui giornali.»
Bruno Arcieri non aveva bisogno di fare altre domande, sapeva come venivano sistemate certe cose. Chiuse gli occhi e rivide il volto triste del suo vecchio collega, l'unico che aveva provato ad aiutarlo. Poi il volto di Carboni sfumò in quello di Andrea Viani, il ragazzo ricoverato con lui all'ospedale Tabarracci di Viareggio, ufficialmente suicida a Firenze...
Si sentiva ancora addosso il pigiama a righe. Quel ragazzo fingeva ostinatamente di essere muto, per il terrore di venire ucciso. Era per qualcosa che aveva visto durante alcuni scontri tra manifestanti: l'aveva confidato soltanto a lui, l'anziano compagno di stanza. Ma non aveva aggiunto altro, né un particolare né un indizio. Aveva parlato, è vero, ma si era richiuso subito nel silenzio.
Arcieri gli aveva promesso di farlo proteggere, quando fosse stato dimesso. Si sentiva onnipotente: era un colonnello dei Servizi segreti, perbacco. Per quanto in pensione... Rivedeva il corridoio buio, il tubo al neon difettoso, le lunghe attese perché non ci fosse nessuno nei pressi dell'apparecchio. E poi le telefonate sottovoce ai suoi vecchi colleghi di Roma. Ma nessuno aveva voluto aiutarlo, anzi. Una cortina inaspettata di silenzi, di reticenze. Bruno era passato dal sospetto alla certezza che ci fosse qualcosa che non andava e che coinvolgeva i settori deviati degli stessi Servizi. Ma era andato avanti ugualmente, a testa bassa, soprattutto per orgoglio. Voleva dimostrare a se stesso di non essere un vecchio rottame in pensione e proprio da quell'ostinazione era iniziata la tragedia...
Adesso avevano fatto fuori Carboni, come il ragazzo. D'altronde avevano provato anche con lui, Bruno, almeno una volta. Gli stessi Servizi, con ogni probabilità, perché erano sicuri che il ragazzo gli avesse raccontato la sua storia. Tutti quei mesi, nascosto come un topo, prima a casa del commissario, poi a Parigi.
Si sentì svuotato. Aveva bisogno di un po' di sollievo. «Ha detto che c'è anche una buona notizia...»
«Forse per lei sì. È arrivata a Firenze una donna. Che lei conosce molto bene.»
«Una donna?»
«Due settimane fa. Chiede di lei. Anche i suoi amici, Marcel, non smettono di cercarla...»
Bruno rimase con l'Orangine a mezza strada tra la panchina e la bocca. La piccola bottiglia panciuta sembrava prenderlo in giro.
«Bella donna», aggiunse il vecchietto. «Una signora bionda, sui cinquanta.»
«Sì, è bellissima. Perché è tornata?»
«Ah, be', non lo sappiamo. Non siamo mica sbirri.»
Bruno si alzò in piedi, in preda a un'agitazione che stentava a controllare. Il vecchietto si girò un poco verso di lui: «Non è finita, Marcel, le notizie cattive erano due. Torni seduto».
«Che altro c'è?»
«Fa male ad allentare la guardia. Il cerchio comincia a stringersi.»
«Vuole dire che sanno?»
«Non ancora. Ma abbiamo elementi per pensare che sospettino il nord della Francia. E puntare su Parigi è il passo obbligato. Specie per chi la conosce bene, Marcel, per chi sa del suo passato. I campionati del mondo del '38... Bei tempi, a loro modo.»
Bruno assentì, con piccole mosse del capo. «Ma Parigi è grande...»
«Non abbastanza, amico mio. È meglio pensarci, prima che sia troppo tardi. Anticipare le loro mosse.»
«Che intende dire?»
«Andiamo ai giardini, al solito posto. Siamo stati qui per troppo tempo.»
Il vecchietto si alzò, distribuì ai piccioni quel che restava del granturco e si avviò a passo lento verso il cestino della carta straccia. Vi depositò con scrupolo il cartoccio ormai vuoto e attraversò la strada in direzione del Jardin du Luxembourg. Bruno Arcieri rimase seduto ancora una decina di minuti, poi si avviò anche lui in quella direzione, ma passando da una strada diversa. Il cielo imbruniva e i rumori della prova generale di rivoluzione, in atto dalla sera precedente, sembravano aumentare d'intensità. C'era poca gente sui marciapiedi, e per la strada passavano a forte velocità auto e camionette della Polizia, piene di agenti in tenuta da guerra.
Era ormai in fondo a rue Férou, quando vide i giovani.
Erano più di quanti avesse immaginato. Occupavano tutta rue de Vaugirard: un mare di teste nere, di bandiere rosse, di macchie accese con colori nuovi. Ragazze bionde e bellissime, adolescenti barbuti che innalzavano cartelli con simboli per lui incomprensibili. Gli parvero immersi, per un momento, in un silenzio religioso. I poliziotti, armati di sfollagente, li tenevano d'occhio. Poi un grido di ragazza gli fece pensare a Marianne, alla Rivoluzione sognata sui libri di scuola, e il grande corteo si mosse. Bruno guardò passare quel fiume, ascoltò il canto dei giovani e pensò al suo passato e al suo futuro. Si sentì allo stesso tempo vicino a loro ed estraneo. Ebbe la netta sensazione di assistere al respiro del mondo da un'altra dimensione, forse da quella dei morti o dei mai nati...
Il fiume scendeva leggero e tranquillo. Era difficile attraversarlo, per raggiungere i cancelli dei Jardins, ma non voleva perdere l'appuntamento col suo contatto: cosa intendeva proporgli? Si fece largo tra i giovani, chiedendo scusa, e senza volerlo quasi abbracciò una ragazza bruna, che doveva avere cinquant'anni meno di lui e gli donò un sorriso solare come non aveva ricevuto da tempo immemorabile.
Era quasi dall'altra parte della strada, quando un altro grido di donna, non più gioioso ma pieno di terrore, ruppe la solennità della processione. Senza un'apparente ragione, dieci agenti della gendarmerie a cavallo si erano lanciati in una carica cieca contro la folla. Colpivano con gli sfollagente tutti i ragazzi che avevano a tiro, e il fiume umano sembrò arrestarsi e contorcersi come un immenso animale ferito. Bruno era diventato anche lui parte del corteo e sentì addosso a sé l'onda inarrestabile del terrore. Gli agenti a cavallo calpestavano i ragazzi caduti, e i poliziotti a piedi ne approfittavano per infierire. Sangue, urla di terrore e alcuni colpi di arma da fuoco. Poi iniziò la pioggia di lacrimogeni, nuvole acri che in un istante cancellarono la strada e i colori... I giovani correvano in ogni direzione, accecati e asfissiati. Bruno cominciò a tossire, si mise il fazzoletto sul viso e riuscì a raggiungere il marciapiede opposto. Cadde in ginocchio, si rialzò, inciampò in un corpo steso di traverso e si trovò davanti un cavallo impennato che gli parve una bestia dell'Apocalisse. Alcuni agenti prendevano a pedate qualcuno caduto a terra.
Arrivò al cancello del parco, che per fortuna era aperto. Molti ragazzi e semplici passanti vi si erano rifugiati e si unì al gruppo che correva lungo le serre. Raggiunse i campi da tennis, dove lo aspettava il suo contatto, se era riuscito a evitare il caos. La gente era spaventata, l'agitazione aveva preso tutti, uomini e donne, ragazzi e bambini. Molti si lamentavano per i disordini, ma c'era anche chi era rimasto sconcertato dalle violenze gratuite della Polizia: una giovane donna, con un bambino in braccio, gridava indignata contro il Governo e la municipalità di Parigi. Dov'era De Gaulle?
Il vecchietto era davanti al gazebo, subito dopo il boschetto. Bruno lo riconobbe da lontano e lo raggiunse di corsa. «Sta bene?»
Il suo contatto sorrise, sinceramente stupito. «Perché non dovrei? Lei piuttosto, Marcel, mi sembra affaticato.» Gli guardò i pantaloni. «E impolverato. È andato a manifestare contro lo Stato fascista?»
«Concluda il discorso che ha lasciato in sospeso.»
«Sì, venga con me.»
Si avviarono verso il giardino all'inglese, la parte più discreta del parco. Camminavano affiancati. Il sole tramontava, e Bruno rabbrividiva un po' per il freddo. Dalla strada giungevano ancora gli echi degli scontri tra studenti e Polizia.
«È opportuno che lei lasci Parigi.»
«No.»
«Le abbiamo già trovato una sistemazione un po' più sicura. Poco oltre il confine con la Spagna. Un compagno basco di San Sebastian può trovarle un buon rifugio nel territorio. Un nascondiglio più disagiato di questo, forse...»
«Sulle montagne?»
«Non proprio. Ma io non devo sapere i particolari, Marcel.» Il vecchietto allargò le braccia. «Non siamo più un'organizzazione tanto efficiente... Abbiamo amici un po' ovunque, ma siamo pieni di spie... Anche i suoi Servizi hanno infiltrato molta gente, tra i nostri. Non dovrei certo dirglielo io.» Arcieri assentì, e il contatto si fermò un momento per guardarlo dritto negli occhi. «Il suo è un caso speciale. L'alternativa è il Sud America, dove dovrebbe affidarsi ad altra gente... Comunque vada via da Parigi, la prego, non rimanga qui oltre la fine del mese. Sono sulle sue tracce.»
Bruno vide in un lampo il suo futuro. L'avrebbero trovato ovunque, se lo volevano, era soltanto questione di tempo. Si era appena acclimatato, aveva incontrato Marie... Sentì più forte il peso dei suoi anni. Aveva sperato, anche se in modo irrazionale, di rimanere a Parigi per sempre, di dimenticare l'Italia, il suo passato remoto e recente, compresa Elena e quello che significava per lui. Ora doveva cambiare di nuovo, e tutti i suoi spettri, lei compresa, gli tornavano addosso. Era stanco. Non aveva altre chance, ma non voleva vivere a quel modo, da fuggitivo.
«Può farmi un favore?»
«Certo, mi dica.»
«Vorrei che mi imbucasse una cartolina.»
«Non dica stupidaggini.»
Bruno tirò fuori dalla tasca il cartoncino a colori con la vista di Parigi dalla Tour Eiffel e la mise nella mano del vecchio. «No, è sicura. Usi una cassetta delle lettere più lontana che può, magari in un'altra città.»
Il vecchietto guardò l'indirizzo. «Lei è ammattito, Marcel, oppure sono i colpi dell'età...»
«Non si preoccupi, non mi tradirà e probabilmente distruggerà la cartolina subito dopo averla letta.»
Il contatto di Arcieri sospirò, rimettendo il cartoncino in tasca. «Va bene. Ci vediamo sabato prossimo, al solito posto.»
Bruno Arcieri entrò nella minuscola cucina, immersa nella luce elettrica gialla e carica, e indossò il grembiule. Fece un cenno d'intesa al ragazzo negro: era magro e svelto come una saetta. Diceva di avere diciassette anni. Bruno aveva accettato quel posto di lavoro perché il bistrot era piccolo e aveva solo lui come aiutante. Niente domande personali, di alcun tipo, solo un caffè insieme, a fine serata, a volte una sigaretta. Il ragazzo era del Congo belga e doveva averne viste di tutti i colori. Aveva una terribile cicatrice che gli andava dall'orecchio destro fin sotto il collo, dalla parte opposta: diceva di essere stato decapitato da un mercenario europeo, quando era un bambino piccolo, e di essere rimasto tutta la notte fra i cadaveri... Poi si era alzato e aveva raggiunto il suo villaggio. La testa gli era rimasta attaccata al collo e la ferita si era miracolosamente rimarginata. Arcieri non credeva a quella storia, anche se aveva conosciuto uno di quei guerrieri di professione e sapeva di cosa erano capaci.
Il ragazzo aveva già preparato le casseruole e le pentole, l'acqua bolliva, c'era un vago odore di timo e mentuccia, dalla finestrina semiaperta filtravano il vento fresco e le voci da fuori. Bruno prese dalla ghiacciaia un bel panetto di burro e ne ricavò fette abbondanti, che mise nelle casseruole. Ogni volta che iniziava l'opera, sera dopo sera, sorrideva tra sé al pensiero che un anno prima non avrebbe saputo cuocere un uovo... Per tutta la vita aveva mangiato malissimo, lo stretto necessario per sopravvivere. Non beveva nemmeno; come vizio aveva avuto soltanto le sigarette, fino a ingiallirsi le mani di nicotina. Dopo la fuga dall'ospedale di Viareggio era finito a Roma e poi a Firenze, a indagare sulla morte di quel ragazzo, Andrea Viani. Aveva fatto la vita del clochard per nascondersi dai sicari e dai suoi ex colleghi, trovando alla fine lavoro come sguattero, in un'infima bettola. Aveva osservato il cuoco, che era uno bravo, imparando qualcosa. Così era stato promosso aiutante. Era a quell'epoca che il commissario l'aveva trovato.
Il burro cominciò a sfrigolare. Il ragazzo aveva già affettato le cipolle, badando a togliere tutte le parti centrali, e a un suo cenno cominciò a versarle nelle casseruole, abbassando la fiamma. Lui intanto andò al lavandino, dove i polli erano sotto il getto violento dell'acqua. Li avvolse in stracci asciutti e puliti e li strofinò ben bene con delicatezza, come bambini appena lavati. Nel frattempo teneva d'occhio il ragazzo, facendogli cenno di rimestare di continuo le cipolle. Il commissario era un tipo davvero particolare. L'aveva accolto a casa sua, in campagna, ed era stata una benedizione. Lui all'epoca si reggeva ancora male in piedi, era pieno di dolori per l'incidente. Per lui aveva fatto la brava donna di casa, preparando pranzetti solitari e cene a due... Una seconda e preziosa scuola di cucina. Aveva anche chiamato a raccolta i ricordi di sua madre, di sua nonna e di un commilitone del '22, a Lucca, che era stato aiuto cuoco in un famoso ristorante... Con tre dita prese il sale dal cartoccio, lo spolverò per bene sui polli, dentro e fuori, e li cosparse di olio abbondante. Poi tritò insieme alloro, salvia e rosmarino e tagliò a spicchi i limoni con la mannaia. Li infilò nei polli, insieme a una parte del trito. Il resto lo strofinò all'esterno, amalgamandolo con l'olio.
Dette il cambio al ragazzo, con le cipolle, specialità della casa. Voleva seguire di persona la cottura perché non scurissero troppo, giocando con la fiamma e aggiungendo un po' d'acqua al brodo di cottura. Quello glielo aveva insegnato il precedente cuoco di quel bistrot, la sera stessa in cui la gendarmerie lo aveva arrestato: occhio al fornello e occhio al brodo. Rimestò velocemente le cipolle e ci versò un quarto di un bicchierino di cognac. Il giovane negro, con un ritmo che ricordava un tamburo jazz, si occupò delle patate novelle, che lavò bene sotto l'acqua corrente e tagliò a spicchi, ma senza sbucciarle; poi preparò i letti per i polli, nelle casseruole. Un momento dopo erano nel forno. Non aveva un istante di pausa, in quella cucina, gli operai e qualche studente sarebbero arrivati almeno fino alle dieci di sera. C'era da preparare il resto della cena, eppure doveva pensare...
Il cerchio si stringeva, aveva detto il suo contatto. Certo, era inevitabile. Qualcuno, nei Servizi, lo voleva neutralizzare, un eufemismo per uccidere. Avrebbero organizzato un altro spiacevole incidente, come quelli cui era sfuggito in Italia. Sapeva di che gente si trattava, era stato uno di loro. Poi c'era il potente personaggio che aveva fatto sabotare la sua Giulia, a Sant'Anna. Non poteva fare a meno di pensare che tutto fosse collegato. Sì, era inevitabile, doveva lasciare anche Parigi. Pensò a Marie, la donna con cui divideva il letto, in rue Guisarde. Ma soprattutto pensò a Carboni, che avevano eliminato perché era stato in contatto con lui. Forse l'avevano torturato, nella camera d'albergo di Roma dove era caduto in trappola con l'esca della ragazzina, per estorcergli quel che non sapeva.
Ma il pensiero principale girava intorno a Elena. Era tornata in Italia e lo cercava. Perché?
Un grido allarmato del ragazzo negro lo riportò alla realtà: le cipolle rischiavano di soffrire. Quello sguattero era intelligente, avrebbe saputo cucinare meglio di lui. Aggiunse mezzo bicchiere di acqua tiepida in ogni casseruola e abbassò ancora il fuoco. Poi aprì il cartoccio della farina e ne aggiunse un po' alle cipolle, mescolando continuamente. Intanto il ragazzo aveva cominciato a tostare il pane, senza attendere l'ordine.
Lo volevano morto, era solo questione di tempo e l'avrebbero trovato. Un uomo, oltre al ragazzo di Viareggio, era stato ammazzato per causa sua, forse ce ne sarebbero stati altri. Era stanco, aveva voglia di piantarla lì. Elena che lo cercava... Che cosa doveva fare?
Quando la zuppa di cipolla fu pronta, e il cameriere entrò in cucina per prendere le prime portate, aveva già deciso.
Bruno non aveva quasi dormito, era rimasto per cinque ore sdraiato a guardare il nulla. Si alzò molto più presto del solito, lasciando Marie addormentata.
Parigi rivoluzionaria sembrava stranamente tranquilla, nell'aria fresca. Attraversò tutto il quartiere, fino a una stretta contrada di rue des Carmes, appassito vicolo in discesa dove aveva abitato Giuseppe Ungaretti. L'ufficio dove il suo contatto lavorava come volontario era aperto anche di domenica mattina: i poveracci non conoscevano feste. Entrò nello stretto corridoio che faceva da accettazione per i senza tetto in cerca di un alloggio.
Una ragazza cortese, dal volto triste, gli indicò una macchinetta rossa, attaccata alla parete: «Prenez le billet, s'il vous plaît.»
«Non, merci. Je veux voir monsieur Vanel. Je suis Marcel.»
«Attendez.»
La ragazza abbandonò lo stretto banco e andò oltre la vetrata in fondo al corridoio. Un minuto dopo comparve l'anziano contatto di Arcieri, con aria allarmata. «Che è venuto a fare, qui? Esca subito.»
«No, aspetti...»
«Non restiamo qua, perdio, venga con me.» Il vecchietto lo afferrò per il braccio e lo portò nel suo piccolo ufficio, oltre la vetrata. Gli altri impiegati li guardavano perplessi. Richiuse subito la porta. «Ma che fa, Marcel? C'erano accordi precisi. Qui non deve venire, perdio, quale che sia il motivo. Sta rincoglionendo davvero? Le donne fanno male, alla sua età. Se è venuto per San Sebastian, ne parliamo sabato prossimo, sto ancora prendendo accordi.»
«No, niente San Sebastian. Torno in Italia.»
Il contatto lo guardò a bocca aperta. «Lei è davvero matto, Marcel. Vuole andare in braccio ai suoi assassini?»
Bruno fece spallucce. «Vogliono me? Mi avranno. Vado io da loro.»
«Ci sono modi migliori per suicidarsi. Sentirebbe meno male a buttarsi giù dalla Tour Eiffel: un bel volo panoramico e poi paf, c'est fini. Un istante.»
«No, ascolti: voglio davvero tornare a casa. Non posso fare la vita del topo, non è da me. E non sopporto che altra gente ci rimetta la pelle per causa mia.»
«E dunque si vuole immolare?»
«No, voglio semplicemente andare a chiudere i conti. Con tutti. Non si preoccupi, non sono un kamikaze. Ho ancora diversi amici, là, mi aiuteranno.»
«Amici tra i suoi colleghi?»
Arcieri esitò. «Forse uno o due. Ma c'è altra gente, uomini e donne che loro non conoscono.»
Il vecchietto si accomodò alla scrivania e fece cenno a Bruno di sedersi anche lui. «Amico mio, la conosco abbastanza bene per sapere che, se parla così, non cambierà idea, non certo perché glielo dico io. Ma siamo entrambi uomini... diciamo di età. Dovremmo saper gestire i nostri impulsi, non è così? Non deve mandare tutto a puttane, mi perdoni, perché i suoi amici fascisti hanno fatto fuori un altro implicato in quella storia...»
«È colpa mia.»
L'uomo batté il pugno sul piano della scrivania, facendo sobbalzare le carte. «Basta, Bruno, con questa storia della colpa! La fiducia tradita, l'onore e tutte le altre stronzate... Lei si è sbilanciato troppo con un ragazzo che aveva paura di morire. Ha fatto la ruota del pavone: sono un ex colonnello del SID, ti faccio vedere io come sono potente... Come con le donne, eh? Magari era il figlio che non ha mai avuto...»
Il vecchietto si era trasfigurato. Bruno ne era addirittura intimorito.
«Gli ha promesso di farlo proteggere, ha chiamato i suoi amici, ma non poteva prevedere che verminaio nascondesse quella storia. Hanno fatto fuori il ragazzo e poi volevano anche lei, per sapere cosa le ha raccontato...»
«Niente...»
«Rien, d'accord, io non voglio saperlo, mi ha detto anche troppo. Poi qualcosa è cambiato, e allora ammazziamo senz'altro il vecchio colonnello, che importa? E anche Carboni, che ha parlato con lui. Ma non è colpa sua!»
«Invece sì.»
«E poi torna in Italia quella donna, quella signora...»
«Lei non c'entra.»
«Non c'entra, ma intanto appena gliel'ho detto, lei ha deciso di tornare in Italia. Per Carboni, certo, bien sûr, ma anche per Elena Contini, n'est-ce pas?»
«Sono fatti miei. Sono venuto qua per informarla che me ne vado e per ringraziarla di tutto l'aiuto.»
L'uomo alzò gli occhi al cielo. «E dunque io dovrei dirle “prego”, vous êtes le bienvenu, mi saluti la signora... Eh no, perdio, lei ha usato risorse preziose di un'organizzazione che non ha fondi, non più da tanti anni... L'abbiamo fatto per lei, l'ho fatto solo per lei.»
«Ha ragione, ma non posso che dirle ancora grazie. Non voglio fuggire tutto il tempo che mi resta da vivere e nemmeno che altri innocenti ci vadano di mezzo, in una storia che riguarda soltanto me. Torno in Italia, a Firenze, per sistemare le cose.»
«E con quale denaro, Marcel? Con quali risorse?»
«In Italia ho più soldi di quanti ne potrei spendere...»
«Ma non può toccare i suoi conti correnti, altrimenti la troverebbero subito. E nemmeno rientrare in casa sua, né in quella di qualche amico... Mi ha raccontato lei stesso come ha dovuto sopravvivere, a Firenze, l'anno scorso...»
«Troverò un modo.»
«No, non lo troverà, non certo da solo: i suoi amici e nemici hanno occhi e orecchie in ogni luogo. Lei è sicuro che l'aiuteremo noi. N'est pas?»
«Ero venuto giusto per dirle grazie...»
«Prego, prego, s'immagini, ci mancherebbe. Io non approvo affatto questa sua alzata d'ingegno, Bruno. Sta perdendo il controllo, non è più prudente, finirà male...» Il vecchio prese una Gauloise, da un pacchetto sul tavolo. L'accese e aspirò una lunga boccata di fumo. «Ma in nome di quello che ha fatto per noi, tanti anni fa, continuerò ad aiutarla, anche se significherà farla andare in bocca al lupo. E questo lei lo sapeva benissimo, quando ha messo piede qua dentro.»
Bruno sorrise, si alzò in piedi e tese la mano al suo anziano contatto parigino. «Mi basta un posto qualsiasi a Firenze, un buco ragionevolmente tranquillo. Mi concedo due settimane, dopodiché, se non avrò sistemato le cose, sarà quel che sarà.»
«Lei è matto, insisto, ma farò qualche telefonata. Le manderò uno dei miei uomini, al metrò, solito posto, all'alba di domani.»
«D'accordo, grazie. Le chiedo però un altro favore, prima.» Cavò dalla tasca un biglietto ripiegato in quattro con cura e lo porse al suo vecchio amico comunista. «C'è una persona, a Parigi, che devo vedere prima possibile. L'ho rintracciato, ho saputo che sta bene, ma non mi sono fatto vivo. Adesso ho bisogno di lui, e sono certo che non vorrà rifiutare un invito a cena da un amico di tempi lontani. Lo chiami lei e gli raccomandi di essere molto discreto e prudente...»
«Ma chi è?»
«Una vecchia spia dell'OVRA, la Polizia segreta fascista.»
«Lei è davvero fuori di testa, mon cher ami. In questo modo si farà prendere subito.»
Bruno andò alla porta, scuotendo un poco la testa. «Ho alcuni amici nel mondo sotterraneo, di cui non si accorge più nessuno: People beneath the underdog, come dice un jazzista americano molto bravo...»
«Je n'aime pas le jazz...»
La tranquillità del mattino era apparente, Bruno lo capì appena mise piede fuori dall'ufficio. I pochi passanti erano impauriti, uomini e donne davano l'impressione di voler correre a casa, sprangare la porta e chiudere le finestre. Pensò ancora alla guerra, alle violenze dei nazisti, ai rastrellamenti per le strade... Si udivano grida e scoppi provenire da rue des Écoles. Bruno fu attratto irresistibilmente da quella parte. Non avrebbe saputo spiegare perché, ma la rivoluzione studentesca, innescata dall'occupazione della Sorbona, aveva fatto saltare qualcosa di compresso dentro di lui: affrontò la leggera salita quasi di corsa, ma senza affanno, con lo sguardo fisso alla cupola del Panthéon. Pensò a quello di Roma, dove in pratica era iniziata la sua fuga, l'anno prima. Non avrebbe mai immaginato che fosse possibile cambiare così tanto, alla sua età, nel giro di pochi mesi... Rispetto ad allora era un uomo del tutto diverso, aveva riposto tanti ricordi in recessi remoti della memoria. Avvenimenti, persone, cose, affollati nel lunghissimo casellario degli anni... Li aveva creduti ormai ombre incolori, confuse le une con le altre. E invece la notizia che Elena era in Italia, e che chiedeva di lui, aveva avuto il potere di turbarlo.
Sull'incrocio con rue des Écoles c'era un assembramento di gente. Il traffico era bloccato e un reparto della gendarmerie, con elmetti e scudi, marciava verso la zona della Sorbona. Per tornare a casa doveva andare comunque da quella parte e si fece largo tra la gente stretta sul marciapiede. Fischi e urla laceravano l'aria: qualche decina di studenti aveva improvvisato un sit-in sulla scalinata del Collège de France e i poliziotti li stavano facendo sgombrare, senza risparmio di manganellate. Stretto tra i passanti, Bruno sentiva i commenti di uomini e donne: nonostante il disagio provocato dalle manifestazioni, quasi tutti erano solidali con gli studenti e si chiedevano il perché di quella repressione violenta. Proseguì con crescente difficoltà fino a rue Saint-Jacques, dove vide le prime auto coi finestrini sfondati... Più avanti, una macchina era in fiamme. A quel punto i poliziotti bloccavano anche i pedoni e allora fu costretto a scendere verso il boulevard Saint-Germain. Alle sue spalle iniziò il miagolare insistente delle sirene della Polizia e delle autoambulanze.
Si fermò a un bistrot, in vista di rue de l'Odéon, e ordinò qualcosa da mangiare. La gente andava di fretta e si scoprì a scrutare i volti di chi passava, a studiarne i movimenti, come se ognuno di loro fosse un sicario arrivato fin là per ucciderlo. Sentì una morsa allo stomaco e allontanò da sé la parmentier troppo salata. Appoggiò i gomiti sul tavolo e si mise le mani sugli occhi. Che cosa si era messo in testa di fare, alla sua età? Pensava davvero di poter tornare a Firenze, nascondendosi chissà come? Indagare sulla morte di Andrea Viani, ristabilire la verità, riparare i torti... Un paladino ultrasessantenne, lancia in resta contro il mondo dei malvagi.
Avvicinò di nuovo il piatto e mangiò la zuppa, la giornata sarebbe stata lunga e impegnativa, doveva restare in forze. Sorrideva tristemente di sé. Forse voleva davvero tornare a casa per Elena, ma soprattutto era per farla finita con quella fuga senza senso. Pensò se non fosse meglio consegnarsi alla Polizia di frontiera e chiedere pubblicamente protezione: in quel modo avrebbe mandato un chiaro messaggio ai suoi ex colleghi: va bene, sono qua, a vostra disposizione, è inutile farmi fuori, non so niente...
No, sapeva bene come andavano quelle cose: era un miracolo che fosse ancora vivo... Se lo volevano morto era per ragioni serie. Avrebbero comunque messo in scena un incidente, anche all'interno di una caserma dei Carabinieri, od ovunque si fosse rifugiato. La sua unica possibilità, per quanto remota, era trovare i fili giusti di quella faccenda, scoprire cosa c'era dietro e cercare di incastrare i mandanti. Oppure poteva continuare a nascondersi come un topo...
Tornò alla casa di rue Guisarde alle due del pomeriggio. Sospirò, prima di tirare fuori le chiavi di tasca e aprire il portone. Salì la ripida scalinata e infilò l'altra chiave nella serratura dell'uscio, sul secondo pianerottolo.
Marie lo salutò dalla cucina, aveva finito di mangiare e stava lavando i piatti. «Sei uscito presto, oggi...»
Bruno amava la sua voce gaia, cristallina: l'allegria di chi voleva farsi coraggio, nella vita, ma senza forzature. «Dovevo vedere una persona.»
Marie gli venne incontro, asciugandosi le mani con uno straccio. «Sei sempre misterioso. Vuoi apparire charmant.»
«Non mi conosci abbastanza.»
«Lavori, questa sera? Dicono che ci sia molta confusione, ho sentito le sirene tutta la mattina...»
«Spero di sì. Ieri siamo stati aperti senza problemi.»
«Hai mangiato?»
«Sì, a un bistrot, qui vicino.»
«Ti preparo un cafè à l'italienne.»
«No, grazie.»
«È strano, che tu non voglia il mio caffè. Parliamo un po'?»
Bruno non riusciva a reggere il suo sguardo.
Fissò il risvolto dei pantaloni, tutti impolverati. «Sarà meglio che riposi. Vado a letto.»
Marie sorrise con malinconia. «Sogni d'oro, homme du mystère.»
Bruno andò in camera da letto. Il sole alto inondava la stanza, filtrato dalle tendine bianche. Chiuse gli scuri e si sdraiò sulla coperta, togliendosi soltanto le scarpe. Guardò il soffitto e pensò ancora al passato. Perché ne era tanto condizionato? Perché non aveva saputo sciogliere il canto del suo abbandono, finché era giovane? Sentì un lieve rumore alla porta.
Marie mise la testa dentro e gli sorrise. «Posso sdraiarmi anch'io?»
Bruno batté il palmo sulla coperta, accanto a sé. Marie si tolse l'abito leggero e rimase in sottoveste. Si distese e gli prese la mano. Bruno evitò di guardarla.
«Dai, dimmi quello che devi dirmi.»
«Perché pensi che mi stia tenendo qualcosa dentro?»
«Perché sei un uomo semplice di cuore. Misterioso, ma puro come certi bambini.»
«Ho un passato che ti sorprenderebbe. Ti farebbe paura.»
«Non ne dubito. Forse sei un assassino fuggito da un penitenziario italiano, o forse dalla Guyana...»
«Ci sei quasi.»
«Vuoi farmi paura, ma non ci riesci. No, tu devi dirmi qualcos'altro, e allora dimmelo, avanti.»
«Me ne vado. Torno in Italia.»
Aveva detto troppo. Perché avrebbe dovuto fidarsi di una donna conosciuta pochi mesi prima? Era sincera, questo sì, limpida. Ma avrebbe potuto parlare. E non aveva il diritto di metterla in pericolo, rendendola partecipe dei suoi segreti.
Nel breve silenzio che seguì, indovinò le sue lacrime. «Non ti ho mai detto che saremmo rimasti insieme per sempre.»
«No, sei stato più che corretto. Ti ho voluto subito bene per questo.»
«Anch'io.»
«Com'è? È più bella di me?»
Bruno avvampò, sperando che Marie non se ne accorgesse. «Ma che dici?»
«Dai, non mi deludere. C'è un'altra donna, in Italia. Stai tornando da lei...»
«Che sciocchezze tiri fuori, adesso...»
«Ci vuole poco a capirti. Dimmi di lei. Me lo devi.»
«Non ho altre donne.»
Marie gli picchiettò il petto con l'indice. «Ce n'è una in particolare, qui dentro. Dai, ti interrogo io.» Piangeva piano, con voce ridente, senza farsene accorgere. «È il grande amore della tua vita.»
«Non sono mica un adolescente...»
«Lo sei, lo sei. Ancora non mi hai detto se è più bella di me.»
Bruno si rivide giovane, alla galleria degli Uffizi di Firenze, trent'anni prima, vestito in ghingheri con la sua bella divisa da capitano dei Carabinieri. Non sapeva come impiegare le ore libere, appena trasferito in quella città che non era più la sua di quando ci viveva da bambino. Quanto tempo aveva passato, con Elena, dal 1938 in poi?
«Ha grosso modo la tua età.»
«Ti piacevano le ragazzine, brutto porco.»
«Non era una ragazzina, no davvero. L'età anagrafica non contava.»
«E poi? Raccontami la tua storia.»
Si erano messi insieme allora. Male assortiti: lei una ragazza ebrea ricchissima, lui un ufficiale dei Carabinieri, di famiglia modesta. Per un po' di tempo avevano vissuto come marito e moglie, qualcosa che somigliava a una complicata felicità. Poi le leggi razziali e la guerra avevano sconvolto il loro mondo. Ma Elena Contini era rimasta dentro di lui, anche quando erano stati lontani, anche quando gli aveva scritto di essere andata in Israele. Quante volte l'aveva incontrata ancora, negli ultimi dieci anni? All'ospedale di Viareggio, appena riaperti gli occhi, aveva visto quelli di Elena, china su di lui. Bruno non parlava, non ci riusciva. Lo shock gli aveva bloccato qualcosa, nel cervello. Elena passava una garza imbevuta di acqua sulle sue labbra arse e gli mormorava cento ricordi.
Pensò ad Andrea, il ragazzo ricoverato nel letto accanto al suo. Anche lui non parlava, ma per il motivo opposto, perché non voleva. Era pieno di terrore...
Marie gli sfiorò il braccio. «A che cosa pensi? Alla tua donna bellissima? All'Italia?»
«No.»
«Ti conosco da poco tempo, ma ho capito come sei. Ti fai trasportare dai tuoi sogni, dai ricordi impossibili. Lei è un sogno, Bruno. Io invece sono reale, e potrei restare per sempre qui, accanto a te...»
Si girò verso Marie, che aveva gli occhi pieni di lacrime. Le diede un piccolo bacio sulle labbra. «Sei bella e dolce... Mi cerco una camera da qualche parte. Non voglio farti soffrire.»
«No, rimarrai qui, finché non sarai pronto per partire. Siamo molto adulti, tu e io, non è così? Sei un ragazzo nell'anima, ma anche un uomo. Siamo entrambi dei tipi complicati.»
Marie rise tra le lacrime e Bruno sentì una stretta al cuore.
Arcieri aveva già passato il fegato d'oca al setaccio, per i rissoles, e il ragazzo aveva tagliato un prezioso pezzetto di tartufo nero in sottilissime fettine tutte uguali. Il forte aroma riempiva la piccola cucina, e lui provò grande nostalgia per una sigaretta.
Quella sera il bistrot era pieno di gente. C'erano operai, coppie di mezza età, studenti e impiegati e tutti parlavano con tutti, commentando i fatti della frenetica giornata. Dalla sala arrivavano frasi smozzicate. Molti ce l'avevano con la Polizia, altri inveivano contro i manifestanti, e ci fu anche un accenno di rissa, che il padrone sedò di persona sul nascere, con l'aiuto del cameriere. Ogni tanto Bruno guardava oltre la porta, sperando di scorgere un volto che magari era molto mutato, da come se lo ricordava. Ordinò al ragazzo di stendere la pasta sfoglia. Prese una forma circolare e ritagliò dei dischi perfetti. Ne mise metà, uno accanto all'altro, sul piano di marmo già ben imburrato, perché non aderissero. Era sempre lui a sistemare l'esatta quantità di fegato d'oca al centro di ognuno. Il ragazzo negro seguiva con estrema attenzione ogni sua mossa, e quando vide che il suo capo era alla fine, cominciò a inumidire i bordi dell'altra metà dei dischi di sfoglia già preparati. Glieli passò uno per uno, e Arcieri li usò per coprire quelli con al centro il fegato d'oca, spennellandoli con cura col rosso d'uovo, come fossero miniature. Poi, con un semplice cenno del capo, ordinò al ragazzo di metterli a friggere nelle padelle.
Il potente sfrigolio sembrò una cascata d'acqua improvvisa, e Bruno fu costretto a gridare, per dare le ultime istruzioni al ragazzo. Era davvero bravo, veloce e pronto d'intelletto. Lasciando la cucina in mano a lui, non avrebbe creato poi un gran danno a Marius. Ma era comunque in pensiero per quando glielo avrebbe detto...
Verso le dieci gli avventori della prima ondata avevano quasi tutti finito di cenare, e cominciarono ad arrivare i nottambuli. Fu allora che Bruno, alle prese stavolta coi cardi alla provenzale, lo vide entrare. Era un uomo molto magro, alto e un po' curvo, con una faccia equina che fu sorpreso di non trovare affatto cambiata, dall'ultima volta che lo aveva visto: pareva ancora un ragazzo, da lontano. Si guardava intorno imbarazzato, col soprabito sul braccio.
Bruno fermò il cameriere algerino: «Ti sostituisco per mezz'ora. Stai dietro al mio aiutante».
Il cameriere fece cenno di sì. Bruno scambiò uno sguardo d'intesa col padrone e diede un paio di rapide istruzioni al ragazzo negro, che aveva già cominciato a darsi da fare coi cardi, tagliandoli a tocchetti tutti uguali, con incredibile velocità. Si tolse il grembiule e andò incontro al giovanotto invecchiato, ancora sulla soglia del locale. «Buonasera. Ho riservato un tavolo per lei.»
L'uomo alto si incurvò ancora di più, per mettersi al livello di Arcieri. Aveva un'espressione assai stupita. «Lei, un cameriere... Io credevo...»
«Faccia finta di niente, la prego. Venga, l'accompagno al tavolo. Mi sono permesso di prepararle un menu di mia iniziativa.» Bruno lo scortò fino al tavolino più discosto. La serata stava per finire ed erano rimaste soltanto quattro persone. «Aspetti un momento, mi sbrigo subito.»
Fece un giro tra i tavoli, raccolse le ultime ordinazioni e le portò in cucina. Trovò i suoi due colleghi che già litigavano. Il ragazzo negro protestava che avrebbe fatto molto meglio da solo, e allora Bruno mandò di nuovo il cameriere in sala.
Prese una bottiglia e andò a sedersi col nuovo arrivato. Versò il vino rosso in due bicchieri. «Prendiamo questo beaujolais come aperitivo, pas cher ma non ordinario. Ho imparato a bere il vino buono molto di recente, in Italia, grazie a un commissario di Pubblica sicurezza. Prima credevo di essere astemio, ma non era vero.»
«Io lo sono sul serio, invece. Ma ne berrò due dita alla sua salute, colonel...»
Arcieri si mise l'indice sul naso. «No, la prego. Mi chiami Marcel.»
L'altro sorrise. Bruno lo guardò meglio: aveva il colletto della camicia liso e sulla giacca di taglio antiquato c'erano delle macchie. Aveva la barba poco curata e le unghie nere... Particolari che lo confortavano sulla scelta fatta. Bevvero piano il vino limpido, guardandosi negli occhi. Entrambi pensavano a un'antica storia, quando tutti e due avevano nomi falsi. Ma a un tratto l'ospite di Arcieri divenne serio e posò il bicchiere sulla tovaglia con poco garbo, versandone un po'. Sangue ancora rosso, pensò Arcieri.
«Non mi trattava con tanta cortesia, nel 1945.»
«Era una situazione molto diversa», disse Bruno. «Avevamo tutti l'animo in fiamme, a quel tempo. E lei l'aveva fatta un po' grossa, da fuoriuscito...»
L'uomo magro con la faccia equina guardò verso la porta del locale, ormai vuoto. «È passato tanto tempo, dal 1938.»
«Ho notato anch'io che non è più la Parigi del Fronte Popolare, isola tollerante in un' Europa in preda alla follia totalitaria...»
«Era anche un bel pasticcio, Marcel. Gli antifascisti perseguitati dal regime avevano creato un mondo in cui succedeva di tutto...»
Arcieri annuì. «Una piccola economia, che faceva girare denaro. E i Servizi segreti fascisti ne avevano approfittato, infiltrando di agenti doppi molte organizzazioni, compreso il Partito Comunista. A lei chi l'aveva rivoltata, Bernard?»
«Che termine disgustoso.»
«Rende bene l'idea: un antifascista di buona famiglia, ma con risorse economiche precarie e la moglie in Italia da sola, troppo giovane e bella...»
«Riapre ferite mai chiuse, colonel. Anzi, mi scusi, signor Marcel...»
«Insomma, era stato pagato dall'OVRA per passare ai fascisti informazioni sui suoi compagni.»
«Non era facile sopravvivere, allora... Mi avevano convinto, Marcel, convinto. Con argomenti validi.»
«Argomenti che non funzionarono con gente che poi ci ha rimesso anche la vita... Però lo sappiamo soltanto io e lei.»
Bernard si irrigidì. «Mi ha chiamato qua per rinfacciarmi i vecchi tempi?»
«No, per carità.»
Bruno fece un cenno al cameriere, che poco dopo portò al tavolo i cardi alla provenzale. Mangiarono in silenzio, entrambi con molto appetito. Arcieri tornava coi ricordi ai giorni dei Mondiali di calcio del 1938, che poi avrebbe vinto l'Italia di Vittorio Pozzo, e al suo tentativo di salvare la vita di un giovane antifascista. Soltanto nell'immediato dopoguerra, rischiando di rimetterci la pelle, aveva scoperto che il giovane e allampanato Bernard era in realtà un doppiogiochista dell'OVRA.
«Come sta, Bernard? Come se la passa?» Gli versò ancora del vino, anche se il giovanotto invecchiato faceva cenno di no.
«Sono certo che sa già tutto. Perché vuol giocare con me? Mi dica cosa vuole, e magari anche quello che può darmi in cambio.»
«Ha ragione, basta coi giochetti. Non l'ho cercata in via ufficiale. Anzi, non sono più nemmeno in pista. Sono vecchio e con pochi amici. Ho bisogno di un aiuto personale, Bernard.»
Il vecchio ragazzo sorrise, stupito. «Un potente personaggio dei Servizi segreti italiani è nei guai? E chiede aiuto proprio a me? Divertente. Non ho più un soldo, sono in ritardo anche con l'affitto. Sopravvivo dando ripetizioni di filosofia al nero... Lei sa quanti studenti hanno bisogno di lezioni di filosofia? Quasi nessuno. Soltanto matematica, tutt'al più latino e greco...»
«Ho bisogno di qualcuno che mi faccia da agente sul campo, in Italia, e che non possa essere collegato a me...»
«In Italia non ho più nessuno, lei lo sa bene. Ho perso ogni potere contrattuale, ogni utilità. Le mie informazioni sono vecchissime, non mi danno diritto né a una morte rapida, né a una pensione...»
«Mi serve proprio qualcuno che non sia tenuto d'occhio, perché non è considerato un personaggio rilevante.»
«Ah, ho capito», sorrise sarcastico Bernard. «Qualcuno di cui non frega più niente a nessuno. Uno degli abbandonati. È il termine giusto?»
«Non esattamente, ma rende bene l'idea. In un certo senso hanno mollato anche me, ma sono meno fortunato di lei. Non ho più una casa, né denaro. In altri tempi avrei detto che non ho nemmeno più patria...»
«Non ha denaro? Male. Le ripeto, non conosco più nessuno che conti qualcosa...»
«Non è del tutto vero. C'è qualcuno dei vecchi tempi che lei conosce bene.» Bruno gli passò un pezzetto di carta gialla, su cui aveva appuntato un nome.
Bernard scosse il capo. «Nanette. Questa è bella. Sarà morta. Non la sento da vent'anni!»
«È viva, l'ho tenuta d'occhio io, per tutto questo tempo. Faceva parte del mio lavoro: raccogliere informazioni su tutti, anche su chi era caduto in disgrazia, finito tra i reietti... Gente che poteva tornare buona in particolari occasioni. Ed ecco che, quando francamente non avrei mai immaginato, qualcuno fa proprio al caso mio...»
Lo sguardo di Bernard cambiò in modo percettibile: si addolcì, quasi uno struggimento. «Era ballerina di avanspettacolo, almeno quando l'ho conosciuta io. Poi però ha fatto una discreta carriera, a suo modo... E si diceva anche che...»
«Lasci stare, quasi certamente erano cattiverie.»
Il vecchio giovanotto indugiò ancora con gli occhi su quel nome, con aria sognante. Ma poi si corrucciò. Sembrava combattere con un pensiero molesto. «Avrà sessant'anni, ormai.»
«Compiuti quest'anno.»
Bernard alzò gli occhi su Bruno. «L'ha mai rivista?»
«No, nemmeno in fotografia. Sarà una sorpresa per tutti e due. Sopravvive a Firenze, da sola. Accanto ho segnato l'ultimo domicilio conosciuto.»
«Certo che sarebbe bizzarro rivederla...» Bernard appoggiò l'indice sul foglietto e lo spinse leggermente verso Arcieri. Sospirò. «Ma cosa pretende che faccia? Dovrei tornare in Italia, stanarla e dire che una vecchia spia ha bisogno di lei? Andiamo, signor Marcel, alias Bruno Arcieri...»
«Può avvicinarla per sondare la sua disponibilità, senza dirle subito il mio nome. Non posso farlo io, è troppo pericoloso: chi mi vuol male, diciamo così, mi aspetta al varco... Dovrà condurla lei da me.»
«Dove?»
«A Firenze, in un luogo che ancora non conosco.»
Bernard lo guardò negli occhi. «Che diavolo ha combinato, Arcieri?»
«Lasci perdere... E mi chiami Marcel, la prego.»
Il cameriere portò un cesto di frutta e mangiarono in silenzio, finendo la bottiglia di beaujolais. Alla fine, per il caffè, Bernard aveva gli occhi lucidi, forse non soltanto per il vino. Sembrava che trent'anni di tragedie, di uomini perduti e di donne incontrate, di nemici vivi e di amici morti, girassero intorno a loro, in quella bettola ormai vuota di gente.
«Vorrebbe farmi andare a Firenze solo per incontrare Nanette?»
«No. Ho bisogno che mi faccia da tramite anche con altre persone, che lei non conosce.»
«Ma come può pensare che pianti tutto per fare di nuovo la spia, alla mia età?»
«Qui non lascerebbe nessuno, Bernard.»
«I miei studenti...»
«Sono appena tre ragazzini. Saprà fornire loro altri nomi, no? E poi, insomma, non le piacerebbe rivedere Firenze? Non ci torna da vent'anni, almeno.»
Il cameriere aveva abbassato la saracinesca a metà e li guardava con impazienza. Bernard giocava imbarazzato col dito sulla tovaglia, senza guardare in faccia Arcieri. «Ma i mezzi, i denari necessari... Lei dice di non averne più...»
«Non è proprio così. Sono scapolo, Bernard. Ho avuto un ottimo stipendio, per molti anni, e non ho mai speso quasi nulla. Diciamo che in questo momento non ho accesso ai miei soldi... Se mi presentassi in banca, anche soltanto se telefonassi, mi rintraccerebbero subito. E, mi creda, in quel caso potrei dire addio a tutti... Ma se resterò vivo, alla fine di questa storia...»
«Quale storia?»
Arcieri sorrise, guardandolo fisso negli occhi. «La mia e la sua, Bernard.»
Il cameriere algerino si avvicinò, con aria esitante. Mise la mano sul braccio di Arcieri e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. Bruno rispose sottovoce, l'altro fece cenno di sì e andò al guardaroba, slacciandosi il grembiule.
Bernard era nervoso e guardava spesso l'orologio. «E dunque, diceva? Se resterà vivo...»
«Allora potrò smettere di nascondermi, tornare alla luce del sole e disporre dei miei averi. E ci sarà qualcosa per lei. Non moltissimo, non sono ricco, ma nemmeno troppo poco. Quando le chiedevo chi l'aveva rivoltata, nel '38, non era solo per curiosità. So bene che l'OVRA usava la tecnica del bastone e della carota, faceva annusare i soldi ma teneva a stecchetto. Il segreto del loro potere era mantenere sempre le vittime nello stato di bisogno...»
Bernard assentì. «Non succede sempre così, nella vita? I denari, anche allora, non erano mai abbastanza. In Italia ho perso tutto...»
«Quello che le darò io sarà una specie di riparazione, Bernard. Soltanto alla fine: prima potrò offrirle molto poco. Ma ha la mia parola, e lei sa che vale qualcosa. Se ce la facciamo, se io sopravvivo e metto le cose a posto... Abbiamo qualche probabilità di farcela... Allora potrò sistemarla.»
«Cosa intende, colonnello Arcieri? No, via, non protesti: sono stufo dei nomi falsi. Questo è territorio suo e non ci sente nessuno.»
«Non sottovaluti i miei nemici, Bernard. Se accetta, diverranno anche i suoi. Le offro una casa a Firenze e un piccolo vitalizio per la vecchiaia. Non è poco. Potrà studiare i suoi filosofi in pace e avrà anche qualche soldo per bazzicare le librerie antiquarie. Oh, intendiamoci, nulla di che... Diciamo che dividerò con lei una parte della mia pensione.»
L'ex giovanotto lo guardò con aria sospettosa. «Non mi sta offrendo un po' troppo, per quello che mi chiede?»
«Non nego che potrà rischiare qualche volta la pelle, se mi aiuterà.»
«Voglio che mi racconti quello che le succede.»
«Non se ne parla nemmeno. Almeno per ora.» Arcieri si alzò, imitato subito da Bernard. Lo accompagnò alla porta, ma prima di tirare su la saracinesca, indugiò un momento sulla soglia. «Ha più visto sua moglie?»
Il giovanotto invecchiato, leggermente curvo, sembrò piegarsi ancora di più. «Lasci stare Lucilla.»
«Non si è mai risposata.»
«Lo so.»
«Forse anche lei vorrebbe rivederla. E io potrei aiutare entrambi.» Gli dette un biglietto del ristorante. «Mi chiami qui, se decide di aiutarmi. Ma lo faccia subito: non posso concederle più di ventiquattr'ore.»
Bernard si abbottonò il soprabito e uscì.
Bruno camminava a passo lento per rue Suger, deserta come in un dopobomba. Vedeva baluginare dei fuochi, oltre la piazza. Si chiese se fosse un incendio, oppure uno scontro tra studenti e Polizia. In realtà non gliene importava, era molto stanco e avrebbe voluto soltanto tornare nell'appartamento di rue Guisarde, per stendersi sul letto e dormire. Ma il pensiero di trovarci Marie lo rattristava: con lei si sentiva un cinico opportunista, benché pochi mesi prima non avesse nemmeno provato a corteggiarla, nel piccolo cinematografo dove lei lavorava. Era andato a vedere Bonnie and Clyde, con Warren Beatty e Faye Dunaway. Alla sua età, non prendeva nemmeno più in considerazione l'idea di suscitare l'interesse di una donna, per quanto ne sentisse, e tanto, la mancanza. Invece aveva fatto tutto lei: gli aveva offerto un caffè, dopo l'ultimo spettacolo, a cassa chiusa, quando lui era già sulla soglia e si rivoltava il colletto del soprabito per affrontare il freddo della notte. Avevano parlato tanto. E dopo, quasi all'alba, erano saliti al suo appartamento. Lui sorrideva imbarazzato e guardava per terra, come un liceale. Lei gli aveva fatto una carezza ed erano andati subito a letto, entrambi molto stanchi: avevano quasi solo dormito, quella prima sera. E poi erano rimasti sempre insieme, come una coppia affiatata da tanto tempo, e lui aveva riscoperto la gioia di un rapporto senza secondi fini, pieno e tranquillo, con la stessa voglia di fare l'amore di quando aveva quarant'anni. Si era vergognato, all'inizio, di sospettare che Marie potesse essere un sicario sulle sue tracce. La prima notte, e anche la seguente, aveva aspettato quasi con curiosità un colpo di pistola. I giorni successivi aveva perquisito a fondo l'appartamento, senza trovare nulla. E così si era convinto di aver soltanto trovato una ragazza, alla sua età. Una bellissima ragazza di cinquant'anni.
Una sirena lontana lo riportò a quello che doveva fare. Sospirò e affrettò il passo, lottando contro il sonno. Un tipo sospetto lo guardava, dal portone di un palazzo. Rabbrividì. Chiunque poteva essere un nemico, gli sconosciuti come gli amici. Tutti, tranne il commissario fiorentino e forse pochi abbandonati... Chi lo voleva morto? Di certo l'uomo della Versilia, il collezionista maniacale di musica jazz che aveva sperato di incastrare, l'anno prima. La sua rete di potere e di denaro poteva arrivare ovunque... Era convinto che fossero stati i suoi uomini a sabotare la Giulia, anche se mancava qualsiasi prova, e il suo volo giù da Sant'Anna era stato archiviato come un incidente. Ma alla radice del male c'era il povero Andrea Viani, il ragazzo ricoverato all'ospedale di Viareggio, che si fingeva muto: gli stessi sicari che avevano inscenato il suo suicidio a Firenze cercavano anche lui, Bruno, nella convinzione che avesse ricevuto le sue confidenze. C'era di mezzo qualcuno dei Servizi, i suoi ex colleghi. Era stato proprio uno di loro a prenderlo di mira, a Roma... Cosa aveva visto o sentito di tanto grosso, Andrea, da attirare la morte su di sé e su tutti quelli che aveva incontrato?
Due balordi, molto giovani, gli vennero dietro fino a place Saint-André. Vedeva ombre inquietanti ovunque e quel pensiero lo rafforzò ancora di più nell'idea di rinunciare alla fuga e tornare a casa, per chiudere in un modo o nell'altro quell'assurda partita.
Nella piazza, i due balordi incontrarono una prostituta e smisero di seguirlo. Bruno guardò l'ora nella vetrina di un negozio: erano quasi le cinque di mattina di lunedì tredici maggio. La metropolitana era ancora chiusa, poteva rallentare il passo. Si fermò ad ammirare la fontana, bagnata dalla luce dell'alba. L'ingresso del metrò era lì accanto, avevano già acceso la piccola insegna luminosa. Alle cinque e trenta precise aprirono i cancelli. Arcieri attese ancora qualche minuto e poi scese la scalinata. Aveva già il biglietto in tasca e attraversò a passo svelto l'atrio sotterraneo, deserto e silenzioso come un'astronave aliena abbandonata nel ventre di Parigi. Superò il cancellino automatico e scese altri scalini, fino alla galleria dei treni. Era solo. Udiva le note lontane di un sassofono, provenienti da chissà dove. Passò il primo treno, anch'esso spettralmente vuoto. Le portiere si aprirono e poco dopo, annunciate da un fischio, si chiusero di nuovo e il treno ripartì, lasciando dietro di sé un rombo smorzato e odore di metallo. Pensò all'Italia, a Firenze, alla vita e alla morte. A Marie e a Elena Contini. L'attesa sembrava interminabile. Dieci minuti dopo arrivò il secondo treno. La portiera si aprì e apparve un uomo di mezza età, in piedi sulla soglia. Nella carrozza, oltre a lui, c'era soltanto una signora anziana. L'uomo aveva un cappello vecchio stile, all'americana, e un soprabito grigio. Poteva essere uscito da un suo ricordo degli anni Trenta. Bruno attese il fischio che annunciava la partenza, poi salì sulla carrozza.
Il treno ripartì velocissimo, ingoiato dalla galleria. Arcieri era in piedi accanto all'uomo, che all'inizio rimase impassibile, una statua. Poi si voltò appena verso di lui: «Ha da fumare?»
«In metrò è vietato.»
«Facciamo cambiare le regole, allora.»
«Simpatica idea. Perché non lo chiede al generale De Gaulle?»
«Lo farò, è mio cugino. Venga, cerchiamo un posto tranquillo.»
Andarono nella carrozza accanto, che era vuota, e si sedettero al centro, davanti alla portiera. L'uomo si tolse il cappello. Aveva un riporto di pochi capelli unti di brillantina, fili paralleli nerissimi e lucidi come spaghetti al nero di seppia.
«Ancora intenzionato ad andarsene?»
«Non cambio idea tanto facilmente.»
«Non disponiamo di mezzi adeguati, purtroppo, e abbiamo pochi amici in quella città. È troppo piccola, è quasi impossibile nascondersi...»
«Io l'ho fatto.»
«È stato un caso, che sia sfuggito ai suoi inseguitori. Mi risulta che un suo amico l'ha scoperta...»
«È vero.»
«Lei è molto fortunato, senza dubbio.» L'uomo esitò un poco e si passò la mano sui capelli incollati al cranio. «Ha visto che caos, con gli studenti?»
«Mi ci sono trovato in mezzo, sì.»
«Oggi sarà molto peggio di ieri. Pensano di fare una rivoluzione. Ma non hanno capito Marx ed Engels.»
«Forse è una fortuna, per loro.»
«Può anche darsi. Comunque, quest'inquietudine generalizzata può fare il suo gioco. Mi dicono che anche in Italia c'è molto fermento. Lei è un uomo d'ordine, un po' rigido. Vero?»
«Lo sono stato, sì.»
«Se è cambiato, è molto meglio. Anche se ci credo poco: lei è più vecchio di me. E io non li capisco, i giovani...»
«Ho scoperto da poco di non aver capito mai nulla e nessuno. Tutti sono un mistero, caro amico senza nome. Lei lo è per me come io lo sono per lei.»
«Non perda tempo in filosofie da quattro soldi. Se è diventato più tollerante, le sarà molto utile. Lei ha fatto qualcosa di prezioso, per noi, molti anni fa. Non so che cosa e non lo voglio sapere. Ma i miei compagni si sono dati parecchio da fare, e in un tempo assai breve. Forse hanno trovato qualcosa, ma dovrà adattarsi.»
«Sono grato a tutti voi per quanto avete fatto e farete per me.»
«Il lato positivo è che, se la cosa va in porto, non avrà bisogno di molto denaro, soltanto il minimo indispensabile.»
«In questi mesi non ho speso quasi nulla e ho messo qualcosa da parte.»
L'uomo mise la mano nella tasca interna della giacca ed estrasse una busta, che passò ad Arcieri. «Questi glieli dà personalmente il nostro comune amico.»
«Non posso accettare.»
«Non sia ridicolo. Lei ha messo da parte della valuta che sarebbe imprudente cambiare. Queste invece sono lire italiane. I suoi franchi li lasci all'ufficio di Vanel. Metta in un sacco della spazzatura tutto ciò che non si porterà dietro e lo getti via. Partirà domani mattina.»
Arcieri restò a bocca aperta. «Così presto? È precipitoso...»
«È meglio battere sul tempo i suoi nemici. Lascerà Parigi con un compagno, mentre prenderemo gli ultimi accordi coi fiorentini. Lo incontrerà alla Gare de Lyon, a un tavolino del caffè, domani alle otto di mattina. Si farà riconoscere lui. Tutto qui. In bocca al lupo.»
«Non c'è altro?»
«No.»
Il treno aveva iniziato a rallentare. Fino a quando non si fermò alla stazione di Saint-Germain e non si fu aperta la portiera, l'uomo non parlò più. Si rimise il cappello e scese. Si voltò un'ultima volta, sul marciapiede, e mormorò: «Au revoir.»
Bruno scese alla fermata dopo, a Saint-Sulpice. Via via che la folla aumentava, vicino all'ora di punta, gli giungevano notizie allarmanti: i quartieri centrali si stavano riempiendo di manifestanti, un numero che pareva crescere al di là di ogni ragionevolezza. Dal quartiere latino, i cortei avevano invaso Montparnasse e la rive Droite. Duecentomila, un milione... Da quello che diceva la gente, tutta Parigi era scesa in strada. Un popolo colorato, musicale e soprattutto giovane. Diverso da quello di sempre. L'eccitazione, la paura, la rabbia, un misto di tutte queste emozioni percorrevano la metropolitana come un'onda sismica. Già risalendo la scala mobile, stretto tra la gente, udiva un rumore inusuale provenire dalla superficie. Riemerse in rue de Rennes, accolto da un'orgia di urla, fischi, sirene e da un rombo continuo che scuoteva l'aria e la terra. Un corteo era diretto verso rue de Sèvres: molto più agitato di quello in cui era incappato il giorno prima, con giovani dalle facce sconvolte, pugni chiusi e slogan scanditi. Cordoni di poliziotti contenevano gli assembramenti e notò moltissime camionette con armamento leggero, a tutti gli angoli delle strade. Durò molta fatica a farsi largo tra la folla.
Rientrò a casa, in rue Guisarde, che erano già le sette di mattina. Si era preparato per l'addio a Marie. Sentiva dentro di sé spegnersi qualcosa, ma ormai il ritorno a Firenze era una forza irresistibile. Salì le scale quasi di corsa, e giunto al portoncino aveva l'affanno. Marie aveva lavorato, la sera prima, e certamente dormiva ancora. Girò piano la chiave nella serratura ed entrò nell'appartamento.
Lei non c'era. Aveva voluto facilitargli il distacco. Probabilmente era andata a dormire da sua sorella, a Colombes. Si tolse il soprabito e andò in cucina. Prese la lavagnetta e provò a scrivere qualcosa, ma scosse il capo e cancellò subito. Sospirò, guardando il sole che filtrava dalla grande finestra. Alla sua età, rifiutare l'amore di una donna era un'idiozia totale. Lo era per chiunque, naturalmente. Incontrò l'immagine del suo volto invecchiato nel riflesso del vetro e si sentì l'uomo più stupido dell'universo.
In camera prese dall'armadio l'unica borsa, quella che gli aveva regalato Bordelli, e la posò sul letto. Si ricordava bene la gelida alba del 27 dicembre dell'anno prima, quando era fuggito in fretta e furia da Impruneta, col commissario che guidava il Maggiolino. Ci aveva infilato poche cose, quasi senza pensare. Anche il maglione nero che aveva indosso. Aprì tutti i cassetti e fece un accurato inventario delle sue cose. Non gli prese molto tempo: in poco più di quattro mesi non aveva comprato un granché. Mise nella borsa quanto pensava gli servisse. Scelse la biancheria, i calzini e le camicie. L'inverno gli sembrava lontano e scartò le maglie pesanti e il vecchio cappotto di seconda mano, comprato al mercato delle pulci. Tenne invece l'unica giacchetta che aveva. Tutto quello che non poteva portarsi dietro lo mise in un sacco della spazzatura.
Tolse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e lo vuotò sulla coperta ricamata. C'erano il documento falso che gli avevano preparato gli amici comunisti, a gennaio, e due antiche fotografie. Una raffigurava lui ed Elena, a Roma, nel 1939. Minuscola, lucida, coi bordi sfrangiati, piena di piccole pieghe. Era tutto molto più vivo nel ricordo. L'altra foto era di un paesaggio marino inanimato, con le rocce a picco, che per lui significava qualcosa di importante.
Contò i soldi. Il suo capitale ammontava a poco più di seimila franchi. Aprì la busta che gli aveva mandato Vanel. Dentro c'erano trecentomila lire in banconote di varia pezzatura. Sorrise tra sé: un tasso di cambio piuttosto svantaggioso, per lui... Mise le lire nel portafoglio e i franchi nella busta, che sigillò subito.
Vuotò anche le tasche. Una banconota spiegazzata da cinque nuovi franchi, alcuni spiccioli, la sua agendina coi numeri di telefono, gli indirizzi. Un biglietto usato del metrò, due nuovi. La ricevuta di un libraio, il biglietto di un cinema, un paio di foglietti del bistrot. Un piccolo lapis. Lasciò i soldi sul cassettone, per Marie, e tenne i biglietti e un paio di monete per ogni evenienza. Tutto il resto, tranne il documento, finì nel sacco della spazzatura. Doveva stare attento a non lasciare tracce, anche minime.
Si spogliò completamente. Non poté fare a meno di guardarsi allo specchio, con grande sofferenza. Sul suo corpo magro erano evidenti i segni del terribile volo dalla scarpata di Sant'Anna: le due lunghe cicatrici dell'intervento per la riduzione delle fratture alle gambe, le macchie sulla pelle, esiti delle ustioni... Indossò un paio di pantaloni puliti, un golf più leggero e la vecchia giacchetta grigia. Stava per mettere nel sacco della spazzatura anche il maglione nero, che odorava di cucina, ma decise di salvarlo.
Da qualche parte aveva un pacchetto di sigarette lasciato a metà. Lo trovò e decise per l'eliminazione anche di quello. Alla fine, dopo aver perlustrato per bene tutta la casa, gli sembrò di aver fatto un buon lavoro. Nel salotto c'era una foto di Marie da ragazza e si fermò un momento a guardarla. Scese in strada e si allontanò senza voltarsi indietro.
Gettò il sacco della spazzatura lontano da casa e girò il quartiere Latino per il resto della mattina. Voleva fare il pieno di Parigi, per portare con sé in Italia un po' di quel profumo di libertà trattenuta. Ma incontrava manifestazioni a ogni passo: la città sembrava paralizzata da una folla immensa, appena contenuta dai reparti della gendarmerie. La sua esperienza di lavoro gli fece pensare a quanti infiltrati, di ogni genere e nazionalità, erano certamente mischiati a quei giovani pieni di amore e di speranza... La situazione faceva il suo gioco: in quel caos era più facile sparire senza essere notato, per un vecchietto italiano dall'apparenza innocua. Mangiò qualcosa in un bar, vicino alla Gare de Lyon, anche per studiare le mosse da fare l'indomani. Non voleva farsi prendere alla sprovvista dal contatto che doveva accompagnarlo in Italia.
Uno dei cortei che sfilavano nei boulevard passò dalla sua strada. Sembrava un fiume in piena: i manifestanti si pigiavano tra loro, nella via più stretta. Bruno e gli altri avventori rimasero prigionieri nel bar. Con loro c'era un graduato dei parà, che cominciò a inveire contro gli studenti. Sembrava aver perso il controllo, o che fosse sotto l'effetto di qualche droga: urlava frasi scurrili, rivolte più che altro alle ragazze. Gli altri lo guardavano con un misto di timore e ostilità. Arcieri non seppe resistere. Andò di fronte a lui e lo prese per un braccio. «Perché ha tanta paura di quei ragazzi?»
Il giovane parà contrasse i muscoli. «Quale paura? Sono comunisti, drogati, con le loro troie.»
«Sa che le dico? Lei ha paura della libertà.»
«Io non ho paura di nulla. Ho combattuto in Indocina.»
«E io in guerra, contro i tedeschi. Ho imparato a riconoscere i fascisti, anche tra quelli che facevano finta di non esserlo...»
«Cosa stai insinuando, vecchio? Non mi piace il tuo accento, non è francese. Sei una spia dei comunisti?»
Arcieri reggeva lo sguardo del parà, più alto di lui di mezza testa, ed ebbe la tentazione di prenderlo a schiaffi. La gente, intorno a loro, li guardava con paura. Rabbrividì. Certo, quel ragazzo tirava a indovinare. Ma lui, Bruno, che cazzo stava facendo? Aveva perso la prudenza più elementare, forse era davvero irrimediabilmente vecchio... Approfittò di un momento di relativa calma per andarsene. Il parà gli gridò qualcosa di greve, sulla soglia del bar, ma Bruno, col sangue in tempesta, si confuse tra i resti del corteo e non si voltò indietro.
Alle tre del pomeriggio raggiunse il bistrot dove lavorava. Dovette suonare, per farsi aprire, e ne fu stupito. C'era un acuto odore di disinfettante, la donna delle pulizie dava lo straccio per terra e aveva messo sui tavoli una foresta di sedie con le gambe in su.
Marius, il padrone, era nel minuscolo ufficio. Non alzò nemmeno la testa dai conti. «Non sapevate che c'era lo sciopero generale, Marcel?»
«Non credevo che avreste chiuso anche voi.»
Il padrone scrollò le spalle. «Hanno chiuso tutti, lo faccio anch'io.» Finalmente alzò lo sguardo. «Mi avevano detto che non sareste più venuto.»
«Non volevo andarmene senza salutare. E senza dirvi grazie.»
«Avete lavorato bene. Qualche nuovo cliente veniva proprio per i vostri rissoles. Quindi non c'è da ringraziare, è stato un buon rapporto di lavoro.»
«Mi dispiace andarmene così.»
«Non è vero, ma d'accord. Avete mangiato? C'è ancora qualcosa di ieri, in frigorifero...»
«Sto bene così, grazie.»
Marius chiuse il libro dei conti e si alzò in piedi. «Beviamo del vino.»
Bruno fece cenno di sì e lo seguì in sala. Il padrone prese una bottiglia e due bicchieri, poi sollevò da un tavolo due sedie e le mise in terra, una di fronte all'altra. Era un momento di severa dolcezza, qualcosa che andava oltre la solidarietà. Amicizia, affetto, un po' d'amore. Perché aveva deciso di lasciare tutto questo? Marius stappò la bottiglia e versò il vino rosso nei bicchieri, posati per terra. «È venuta una signora, stamani. Ha lasciato una cosa per voi.»
Bruno prese la busta che Marius gli porgeva. Sentì battere il cuore: era di Marie, certamente. Non volle aprirla e se la mise in tasca.
Il padrone lo guardò con un'ombra di preoccupazione, negli occhi. «Dove andrete, adesso? Cos'avete in mente di fare?»
Bruno sorrise appena. «Il ragazzo negro è formidabile. Senza di lui non avrei combinato niente. Si merita di essere promosso cuoco. Ma avrà bisogno di un aiutante.»
«Ci avevo già pensato.»
«Per me è venuta soltanto quella signora?»
«Sì.»
«Può darsi che passi o telefoni un uomo, stasera, e che cerchi di me. Dategli per favore il numero e l'indirizzo di Vanel. Che dica subito a lui quel che avrebbe detto a me. Lo farete?»
«Certo.»
Arcieri indicò la borsa, ai suoi piedi: «Posso lasciarla da voi fino a domani mattina?»
«Bien sûr. Non avete dove dormire?»
Bruno pensò ancora a Marie. Non aveva il coraggio di rivederla. «In realtà no. Chiederò a Vanel di trovarmi un buco per stanotte.»
Marius si frugò in tasca e gli porse un mazzo di chiavi tintinnanti. «Andate da me, in Saints-Pères, al dodici. Non ci troverete nessuno, stanotte io dormirò altrove. Lasciate le chiavi in portineria.»
«Grazie, anche per questo.»
Marius si alzò in piedi. «Bon, allora addio. Devo andare ad aiutare il ragazzo per stasera, ci avete preso alla sprovvista.»
«Addio.»
Bruno aveva le lacrime agli occhi e si sentì vulnerabile come un ragazzino. Salutò il cameriere algerino con una stretta di mano e uscì in strada.
Era prostrato da una stanchezza profonda, la notte passata in bianco gli pesava. Camminò a testa bassa fino alla fermata del metrò di Saint-Sulpice. L'inquietudine di Parigi in rivolta si era trasmessa alle viscere della città, poliziotti col fischietto si facevano largo tra la folla, un flic lo urtò con violenza e lui cadde in terra: fu aiutato a rialzarsi da una ragazza bionda, che gli sorrise. Un volto limpido, disteso, molto bello. Ebbe un tuffo al cuore: Elena Contini. In tutte le bionde vedeva lei, ed era sempre il 1939...
Salì su una carrozza piena di gente e riemerse all'angolo tra il boulevard Saint-Germain e rue des Carmes. Decise che stavolta era meglio avvertire, prima, e si fermò a una cabina del telefono. Bastarono due parole. Dieci minuti dopo raggiunse la piccola via laterale, nella parte più in salita della strada. Vanel era in piedi sulla porta del suo ufficio e fumava una Gauloise. Bruno prese la busta coi franchi, dalla tasca posteriore dei pantaloni, e gliela porse.
«Imprudente fino all'ultimo», disse Vanel. «Poteva lasciarla a Marius.»
«Le hanno detto che parto domani mattina?»
«Sì, so che hanno trovato un posto per lei e dunque è meglio che si tolga di mezzo subito. Bonne chance.»
«C'è un'ultima cosa. Può darsi che la chiami Bernard, l'uomo che lei ha interpellato per me...»
«Sì.»
«Gli dica che il patto resta valido, purché parta immediatamente. E gli dica di chiamare, appena arriva a Firenze. Voglio che lasci a lei il suo recapito.»
Vanel fece spallucce e gettò via la cicca. «Bon, come crede.»
«Allora addio.» Arcieri esitò.
Vanel prese un'altra sigaretta dal pacchetto. «Non vorrà che l'abbracci e la baci, Marcel.»
Bruno sorrise. «No, certo, non sarebbe da macho.»
«Va te faire foutre.»
Bruno si svegliò prima dell'alba. Era arrivato a casa di Marius nel tardo pomeriggio del giorno prima, aveva mangiato quel che c'era nel frigo e si era disteso sul letto, senza nemmeno spogliarsi. Aveva passato una nottata piena di agitazione, per la grande stanchezza e la tensione nervosa, con frequenti risvegli e un sogno dopo l'altro: la sua solita fuga, la corsa con la Giulia a Sant'Anna; Elena Contini che lo abbracciava; un plotone di esecuzione a Roma, il nove settembre del '43. E poi il volto spaventato di Andrea Viani, il ragazzo dell'ospedale di Viareggio: muoveva le labbra per dirgli qualcosa, ma non usciva suono, era di nuovo volontariamente muto. Bruno era certo che gli stesse rimproverando di aver mancato alla promessa di proteggerlo...
Mentre si sciacquava il viso, si ricordò di non aver preso il rasoio elettrico, in casa di Marie. Passò la mano sul mento ispido: era una seccatura, ma farsi crescere di nuovo la barba non sarebbe stato male. Gli sarebbero serviti anche degli occhiali neri.
Aveva tempo, prima dell'appuntamento con l'uomo di Vanel. Aprì il frigorifero, prese del latte e lo mise sul fuoco. La schiuma bianca si scurì, traboccando sul fornello, e gli ricordò l'infanzia. Si chiese ancora una volta se avesse ragione Vanel, a dire che quel ritorno era una forma di suicidio. Forse sì, nella parte più profonda del cuore era stanco, la vita lo aveva attraversato lasciandogli dei lunghi solchi dolorosi, come di pietre trascinate da un ghiacciaio. Ma voleva mettere le cose a posto, scoprire perché avevano ammazzato Andrea Viani e perché volevano far fuori anche lui. E se Elena era in Italia e lo cercava, provare per l'ultima volta a capire perché non erano riusciti a rimanere insieme...
Guardò l'ora alla parete della cucina. Erano le cinque e un quarto, il metrò avrebbe aperto di lì a poco. Gli avrebbe fatto comodo un orologio, durante il viaggio, ma anche l'idea gli dava fastidio. Ormai era abituato a fare senza, si sentiva più libero con al polso soltanto un piccolo braccialetto di cuoio, comprato i primi giorni a Montmartre.
Prese la borsa e chiuse dietro di sé la porta dell'appartamento di Marius. Un addio simbolico e definitivo all'uomo che lo aveva nutrito, a Parigi. Scese le scale, lasciò il mazzo di chiavi al portiere e uscì in strada. Faceva ancora freddo, la giacchetta gli bastava appena e si pentì di non aver indossato il vecchio maglione. La metropolitana aveva appena aperto ed era ancora quasi deserta.
Gettò subito il biglietto, appena riemerse alla Gare de Lyon. Il caffè era già pieno. Cercò un tavolino riparato e restò ad aspettare tranquillo, osservando il via vai della gente, che aumentava ogni minuto. C'erano molti poliziotti, ai binari, qualcuno anche coi cani lupo. Droga? Un gruppetto di gendarmi, in tenuta da guerra, gli fece pensare di nuovo a quella specie di rivoluzione giovanile che scuoteva Parigi. I titoli dei giornali, all'edicola, strillavano di rivolte simili in America, e anche l'Italia sembrava esserne stata contagiata. Le Figaro riportava con enfasi la prosecuzione a oltranza dello sciopero generale. Si chiese se sarebbe riuscito a partire: davanti al cartellone dei treni si era creato un assembramento di gente, e gli altoparlanti gracchiavano concitati continui annunci di ritardi. Il diretto per Lione era stato addirittura soppresso.
Pagò una birra con le monete che gli erano rimaste. Adesso era pulito, non aveva più niente dei mesi passati a Parigi. Tutti i suoi ponti erano saltati.
Il suo contatto si fece vivo alle otto e trenta, quando Bruno già non ne poteva più di aspettare e i camerieri lo guardavano con ostilità. Un uomo relativamente giovane, ben piantato, prese una sedia per la spalliera e gli sorrise: «Posso sedermi?»
«Faccia pure.»
«Lei è il signor Marcel, immagino.»
«Bingo.»
Gli porse la mano: una stretta forte e sicura. Forse non aveva ancora quarant'anni. «À l'américaine, certo: è il suo stile, mi dicono. Piacere, mi chiami Vincent. È pronto?»
Bruno si alzò in piedi e gli indicò il borsone. L'uomo fece l'atto di prenderlo, ma lui rifiutò. «Avrà già i biglietti, spero... Pare che ci sia il caos, nelle ferrovie, per lo sciopero...»
«Niente treni. Prego, venga con me, l'auto è parcheggiata in piazza.»
Uscirono. Non erano ancora le nove e la situazione sembrava precipitare: c'erano già i caroselli di auto della gendarmerie e le sirene suonavano quasi ininterrotte. In lontananza, verso la Senna, si udiva il brontolio di una gran folla, punteggiato dal ritmo di tamburi e da grida di slogan ossessivi.
L'uomo che si faceva chiamare Vincent gli indicò una grossa Peugeot parcheggiata tra cento altre, nel grande piazzale. «Metta la borsa sul sedile posteriore. Cosa contiene, esattamente?»
«Abiti e biancheria. Sono pulito.»
Vincent lo guardò negli occhi. «Bon, lei è alto più o meno come me, questo ci faciliterà la cosa.»
Salirono in macchina. Ebbero difficoltà a districarsi nel traffico caotico di una Parigi resa ancora più convulsa dal susseguirsi dei cortei e dei sit-in improvvisati. Incontrarono varie interruzioni stradali, flic agitatissimi li obbligarono a perdere tempo con giri a vuoto per più di un'ora, prima di arrivare ai vecchi bastioni del Bois de Vincennes.
Attraversarono il ponte sulla Marna, e Bruno guardò passare la periferia di Parigi con un misto di speranza e di rimpianto. «Speriamo che le autostrade siano più libere.»
«Niente autostrade.»
«Ci metteremo una vita...»
«Quindici ore, più o meno, fino a Ventimiglia. Conosco bene il tragitto.»
Arcieri sospirò. «Lei non sa niente di me, immagino...»
«Au contraire: so tutto. Ho l'incarico di istruirla e approfitteremo del viaggio. Tenga il documento che ha adesso fino a quando arriverà a destinazione in Italia, poi lo distrugga. Ne riceverà un altro da un compagno di Firenze. Si chiamerà ancora Marcel, Marcello in italiano. Il cognome credo sia Vanzetti...»
«Appropriato, per un condannato a morte.»
«A volte siamo spiritosi anche noi. Ma non è questo il caso: Marcello Vanzetti esiste davvero. È di La Spezia. Ha più o meno la sua corporatura. Decisamente più giovane, ma lei non dimostra affatto i suoi anni... E Vanzetti, al contrario, per la vita che ha fatto, è invecchiato presto. Adesso è in Africa, almeno credo: si è arruolato nella Legione Straniera, due anni fa, in Corsica, a Calvi. Nessun passaggio ufficiale di frontiera. Non ha moglie, figli o altri parenti. Pare che sia un tipo violento e molto suscettibile, e che abbia addirittura ucciso qualcuno. Lei non è un'educanda, e gente in guerra l'ha ammazzata davvero. Sarà credibile.»
L'auto correva nel traffico ancora libero, lungo la strada nazionale immersa nei boschi. Parigi, per Bruno Arcieri, era già un ricordo, una parentesi di sogno dai contorni irreali. Era mai stato con Marie? Aveva fatto il cuoco nel bistrot di Marius? Si era davvero nascosto come un gatto solitario, nel quartiere latino, uscendo quasi solo di notte? L'appartamento di rue Guisarde era stato un riparo gradevole e caldo, e adesso invece non sapeva quale buco l'avrebbe accolto...
«Che posto mi avete trovato, a Firenze?»
«Un albergo. Una cosa un po' particolare...»
«Particolare in che senso?»
«È un hotel dove i proprietari e gli altri ospiti non fanno troppe domande, soprattutto perché non amano riceverne. Dove non ci sono registrazioni ufficiali...»
«Che diavolo di posto è?»
«La cosa migliore che abbiamo trovato, in così poco tempo. Le spiegherò con calma...»
«Dove si trova, questo albergo?»
«È soltanto un indirizzo in una busta, che le darò a Ventimiglia. Non mi dice nulla, mi dispiace. Non conosco Firenze, sono stato pochissime volte in Italia.»
La campagna francese scorreva veloce, lungo la strada nazionale. Per lunghi tratti viaggiarono in un mare di erba verde, di una bellezza che toglieva il respiro, come se fossero in uno spazio metafisico e sospesi in un altro tempo. Vincent gli raccontava la sua nuova identità. Lo interrogò più volte su quella lezione, con la pazienza di un maestro elementare, nell'immenso spazio a occidente di Digione. Quando attraversarono il ponte sulla Saona, a Tournus, Bruno Arcieri era diventato definitivamente Marcello Vanzetti.
Pranzarono in una piccola trattoria di campagna, all'altezza di Lione. Bruno bevve troppo vino e si lasciò andare a qualche confidenza col suo accompagnatore, di cui ignorava il vero nome e che perciò poteva essere chiunque: gli parlò di Marie, di cui provava già nostalgia, di Elena Contini e perfino della sua lontana giovinezza. Sei mesi prima non avrebbe detto a nessuno cosa aveva mangiato a colazione, e nemmeno bevuto troppo, d'altra parte. Ma ora, pur rendendosene conto, non gli importava affatto di quella leggerezza. Era cambiato così tanto, nell'ultimo anno, che rise di sé, davanti allo sguardo perplesso di Vincent. Il francese non poteva capire cosa gli passasse per la testa e forse lo prendeva per un vecchio matto.
Quando ripartirono erano già le quattro del pomeriggio e il tempo si stava sciupando. Il paesaggio cominciò a cambiare: all'orizzonte si profilavano le colline e dopo Montferrat cominciarono a salire, mentre una pioggia rada picchiettava sul parabrezza dell'auto. Vincent si fermò per fare il pieno di benzina e Bruno ne approfittò per andare in bagno. Aveva il volto in fiamme per l'alcol e rabbrividì per l'aria troppo fresca. Si sentì vecchio e stupido: che cosa ci faceva in quel posto, accompagnato da uno sconosciuto, con un nome fittizio e diretto verso il nulla? Uscì dal bagno e indugiò a guardare il profilo del borgo medievale, sulla sommità di una collina, che sembrava immerso in una nube finissima di vapore. Gli sprazzi di pioggia erano intervallati dai raggi del sole basso, e la bellezza di quella visione gli bastò per riprendere forza.
Vide Vincent che gli correva incontro, avvolto nell'impermeabile: «Andiamo, Marcel! È tardi».
Tornarono all'auto e ripartirono. Un'ora più tardi passarono il ponte sull'Isère. Poco dopo attraversarono il centro di Grenoble, sotto una pioggia battente, ma Bruno Arcieri non se ne accorse, perché era scivolato in un sonno profondo. Vincent gli aveva reclinato un po' il sedile, senza che nemmeno se ne rendesse conto. Sognò, deformato in modo grottesco, un episodio molto particolare della sua vita: era a Firenze, il nove maggio del 1938, quasi esattamente trent'anni prima, in un'umida galleria che sprofondava sempre più nelle viscere della città. Era inquieto, perché dalle pareti di mattoni, girate a volta sopra di lui, filtrava l'acqua in mille rivoli, e mentre camminava, con la pistola in pugno, un liquido nero gli arrivava alle caviglie. Cercava di raggiungere un uomo, che per lui incarnava il male assoluto. Lo sentiva sempre più vicino, nello scrosciare dell'acqua. E quando lo raggiungeva, era paralizzato dall'emozione: l'uomo del male era lui stesso, Bruno Arcieri! Gli pareva di vedersi in uno specchio... Preso dal terrore di quella rivelazione, sparava contro il suo nemico, la pallottola frantumava l'immagine ma anche tutta la galleria, e l'acqua dell'Arno gli pioveva addosso da ogni parte, trascinando lui e il suo doppio verso il nulla...
Si svegliò gridando, mentre Vincent lo tranquillizzava, stringendogli forte la mano. Un violento temporale scuoteva la macchina come una barca in mezzo al mare in tempesta. Si era fatto buio e i fari stentavano a illuminare la strada.
«Ci metteremo più di quanto avevo pensato, con questo tempo maledetto... Si va quasi a passo d'uomo.»
«Dove siamo?»
«Abbiamo appena passato La Mure, ora comincia il bello, dobbiamo affrontare la montagna. Dormito male? Gridava, poco fa...»
«C'è qualcuno che mi perseguita, nei sogni.»
«Chi è?»
«Il mio peggior nemico.»
«Bon. Vuole che ci fermiamo un poco? Possiamo cercare un riparo da questo inferno...»
«No, non ne ho bisogno. Dove passeremo la frontiera?»
Vincent tolse una cartina ripiegata dalla tasca della giacca e gliela porse. «Prenda la torcia, sotto il cruscotto.»
Bruno illuminò la mappa: c'erano vari segni a matita. Vincent gli indicò una strada, un filo contorto che andava a sud. Dovette avvicinare gli occhi, per vederlo bene.
«Andremo a Nizza, poi risaliremo sopra Mentone. Lì c'è un passaggio che conosco bene.»
Arcieri sorrise, pensando al Botta e all'Alfa rossa, cinque mesi prima: avrebbero fatto la stessa strada, all'inverso. «Lo conosco anch'io.»
«Meglio così.»
Il resto del viaggio, sui tornanti di montagna, fu davvero infernale: la pioggia non diminuiva, e quando incrociavano i fari di un'altra macchina provavano una sorta di sollievo, come se temessero di correre verso l'inferno e quei viaggiatori fossero messaggeri di speranza... Era ormai buio fitto. Il tempo cominciò a migliorare sulla strada dell'alta Provenza, dieci ore dopo la partenza da Parigi, quando ormai erano in grave ritardo sulla tabella di marcia. Videro spuntare le stelle, dalle nuvole sfilacciate, sulla strada incassata tra le valli alpine. Erano estenuati e decisero di fermarsi, per dormire qualche ora. C'era un piccolo albergo, l'hotel de la Paix, in un villaggio sotto le montagne verdi.
Bruno sperò davvero di trovare la pace, anche per poche ore, e pensò con bramosia a un letto caldo. «Potrei usare il mio documento francese...»
«Non se ne parla nemmeno. Il Marcel di Parigi è morto, anzi non è mai nato. Mangeremo qualcosa ma dormiremo in macchina, ho delle coperte nel baule. Non fa poi così freddo.»
Scesero dall'auto ed entrambi avevano le gambe molli. Mentre aprivano la porta dell'albergo, accolti da un irresistibile profumo di cibo, Arcieri si fermò un momento: «Lei può prendere una camera. Non è necessario che condivida la mia triste sorte...»
«No, ho l'ordine di accompagnarla come un bambino fino a Ventimiglia e non la lascerò nemmeno un momento. Cerchi di non russare, piuttosto...»
Dormirono male, sui sedili reclinati della Peugeot, con soltanto due plaid per ripararsi dal freddo della stellata notte alpina. Nessuno li disturbò, e quando sorse il sole erano già svegli.
Vincent portò la macchina sotto le finestre dell'albergo e aprì tutti i finestrini. «Andiamo a fare colazione. Dobbiamo sbrigarci, c'è ancora molta strada da fare.»
Entrarono nel bar, ancora vuoto, e si sedettero a un tavolino. Nessuno dei due aveva voglia di parlare. Si lavarono il viso nel bagno del locale e bevvero un caffellatte stringendo le tazze coi palmi delle mani, per riscaldarsi. Vincent pagò il conto e comprò anche due bottiglie di liquore, destando lo stupore di Arcieri: «Mi serviranno. Ora andiamo, abbiamo ancora almeno tre ore di macchina».
La strada di montagna era magnifica, immersa nella luce azzurra del primo mattino. Sembrava impossibile che la sera prima avessero attraversato un inferno d'acqua. A Barcellonette presero la strada a mezza costa che andava verso sud, stretta e impegnativa ma sgombra di traffico, tranne qualche turista avventuroso. Ad Arcieri, quella via cesellata in una montagna verde e gentile sembrò anche un viaggio nel tempo. Era già fuggito, mille anni prima, su una strada simile, tra Firenze e Roma. Guidava una Lancia Aprilia e lasciava il suo mondo per tuffarsi in un altro... Era il 1939 e l'avevano cooptato da poco nei Servizi: una proposta che non era possibile rifiutare. Lasciava Firenze, il suo lavoro di investigatore nei Carabinieri, ma soprattutto lasciava Elena Contini...
Il paesaggio cambiò ai primi tornanti delle Alpi marittime, che in certi scorci aguzzi gli ricordavano la Versilia. Si addormentò di nuovo e inevitabilmente gli si presentò il sogno della fuga, con la Giulia che scendeva a rotta di collo per i tornanti di Sant'Anna di Stazzema... Ma quel breve sonno non fu troppo agitato. Riaprì gli occhi in una valle già più aperta e luminosa, a Entrevaux, lungo i binari della ferrovia. Scendevano in un paesaggio sempre più verde, col cielo che si apriva chiarissimo in direzione sud. E finalmente, dopo oltre tre ore di viaggio e a più di ventiquattro dopo la partenza dalla Gare de Lyon, videro sfilare i sobborghi di Nizza, con la luce del mare all'orizzonte. Passarono per l'interno e risalirono a nord, oltre La Trinité. Mezz'ora dopo erano di nuovo tra le colline e la montagna.
Bruno cominciava a sentirsi davvero stanco. «È un giro complicato.»
«La via più diretta, da Grenoble, ci avrebbe portato al colle della Maddalena: è un buon passaggio, ma poi avremmo dovuto rientrare in Francia al Col di Tenda e poi uscire di nuovo... E non voglio che lei usi il suo documento francese, se non sarà assolutamente necessario. Se questa deve essere una fuga, sia una fuga all'inglese, comprenez-vous?»
«Sì. E allora?»
«È in grado di camminare un po'?»
«Non vorrà che passiamo la frontiera a piedi...»
«Non io, soltanto lei. L'alternativa è che si nasconda nel baule della macchina, ma è troppo rischioso.»
Si fermarono poco dopo l'abitato di Sospel, poche centinaia di metri prima del confine. Scesero dall'auto, e Vincent aprì il bagagliaio. C'erano uno zaino e due borse di tela. Ne aprì una e tirò fuori degli ampi pantaloni verdi, un paio di scarponi da montagna e una giacchetta da cacciatore: «Si provi questi».
Arcieri indossò quegli abiti sopra i suoi. Sentì subito un peso sospetto in una delle numerose tasche della giacca. Ci infilò la mano e incontrò l'impugnatura di un'automatica. Era una Beretta, un piccolo calibro. Tolse il caricatore e vide che era pieno. Cercò il numero di matricola, ma era stato abraso.
Guardò Vincent con aria interrogativa e il francese sorrise, mentre apriva l'altra borsa, piena di stecche di sigarette e di cioccolato. «È un presente di Vanel, a titolo personale.» Gli indicò la strada a tornanti, che saliva al valico di frontiera. «C'è un sentiero, dopo l'ultima curva. Prenda quello e si ritroverà in Italia. Raggiunga la strada dall'altra parte, dovrei arrivare entro mezz'ora, il tempo di offrire da bere ai doganieri. Non la disturberà nessuno, ma in ogni caso lei è un amico mio, intesi?» Vincent prese lo zaino, che sembrava pieno di roba pesante, e lo porse a Bruno. «Lo metta in spalla, ma non lo apra per nessun motivo, d'accordo?»
«Va bene.»
Vincent risalì in macchina e partì. Bruno rimase un momento a guardarlo, poi si incamminò per la strada che gli aveva indicato. Il sentiero era stretto e riparato, tra olivi e pini. C'era una casa in vista e sentiva abbaiare un cane, ma nessuno lo disturbò. Pensò alle lunghe chiacchierate con Bordelli, quando lo accompagnava nelle sue passeggiate nei boschi, o al suo continuo rimuginare, quando ci si avventurava da solo: come quella volta che i suoi pensieri ossessivi erano stati sorpresi dal buio e aveva avuto paura di non fare in tempo a tornare... Ma adesso era immerso nella luce e i profumi della montagna gli davano soltanto gioia. Dimenticò i suoi pensieri e si sentì leggero come all'epoca dei suoi diciott'anni. Lo zaino era pesante ma non sentiva la fatica, anzi il contatto con la pietra e il sottobosco gli dava sollievo, dopo l'interminabile viaggio sul sedile della Peugeot.
Lo distrasse la corsa di un capriolo e perse l'equilibrio. Cadde pesantemente su una roccia aguzza che affiorava al lato del sentiero. Riuscì a proteggere il capo, ma batté il braccio destro e le ginocchia, e il dolore lo lasciò senza fiato. Si sedette per terra, posò lo zaino e si tolse la giacca: il tessuto si era lacerato e aveva due larghe escoriazioni, che sanguinavano un poco. C'era un rivolo d'acqua, poco oltre il sentiero, e riuscì a raggiungerlo passando tra macchie di rovi che gli graffiarono la pelle scoperta. Chino sul minuscolo ruscello, si sciacquò come poteva. Tornò indietro con pena e fatica: la magia di un momento si era già dissolta, aveva di nuovo tutti i suoi sessantasei anni...
Superò la cresta della collina e finalmente ammirò la dolce valle che scendeva verso Mezzogiorno: l'Italia. La macchina di Vincent era ferma su uno spiazzo, a lato della carreggiata.
Il francese lo aspettava in piedi, appoggiato alla portiera. «È sempre più difficile, con le guardie di frontiera. Mi hanno portato via quasi tutto... E sono nervosi, per le notizie della radio e della televisione. Mi dia lo zaino, Marcello. Ha guardato cosa c'è dentro?»
«No.»
«Meglio così.»
Arcieri si tolse gli abiti da cacciatore e li rimise nella borsa. Il braccio e le ginocchia gli bruciavano, avrebbe dovuto lavarsi meglio: si ripropose di farlo in treno, appena possibile. Soppesò la pistola, come se non sapesse decidere cosa farne, poi se la mise nella tasca dei pantaloni e salì sul posto davanti. «Buono, il trucco del contrabbando.»
«Chi le ha detto che era un trucco?»
«Non mi dirà che traffica in sigarette e liquori...»
«Ci sono anche altre cose. Grazie per aver fatto passare lo zaino, mi preoccupava un po'.»
Venti minuti dopo entravano a Ventimiglia. Vincent lo lasciò alla stazione ferroviaria, davanti alla facciata littoria in marmo. Non scese nemmeno dall'auto e gli strinse la mano attraverso il finestrino. «Faccia buon viaggio. D'ora in poi sta a lei decidere le mosse.» Tolse una busta dalla tasca e gliela porse. «Questo è l'indirizzo dell'albergo di Firenze, c'è una persona che l'aspetta, si farà vivo lui. Bonne chance.»
Dormì per gran parte del viaggio in treno da Ventimiglia a Pisa, in uno scompartimento di seconda classe. Si lavò alla bell'e meglio nella latrina del treno: le escoriazioni gli bruciavano, avrebbe dovuto disinfettarle. Verso l'una mangiò il pollo freddo di un cestino da viaggio, mentre dal finestrino scorreva la campagna toscana: un'immensa pineta bagnata dal sole, come le onde di un mare verde. A Pisa prese un treno locale e poco più di un'ora dopo scese a Firenze, alla stazione di Santa Maria Novella. Erano le tre del pomeriggio di mercoledì 15 maggio, quando salì sull'autobus che lo avrebbe portato nella zona in cui c'era il suo albergo.
Guardò Firenze, oltre il vetro sporco. I marmi, l'asfalto, le pietre... Ogni immagine chiamava un ricordo e un altro ancora, in una catena infinita. Uomini, donne... In ogni volto di ragazza, a dispetto del tempo passato, vedeva quello di Elena Contini. Si sentiva davvero sciocco, perché in realtà covava la speranza assurda di vederla spuntare da un angolo di strada, oppure scendere da una macchina e venirgli incontro.
Lesse dal finestrino una targa del viale Redi e si preparò a scendere. L'autobus lo scaricò all'inizio di una via lunga e dritta di periferia, vicina all'argine di un torrente incassato. Faceva già caldo, l'afa fiorentina era densa come uno sciroppo. Si avviò lungo il marciapiede, contando i numeri civici di una lunga schiera di villette a due piani, con le porte direttamente sulla strada: architettura dei primi del secolo, con qualche pretesa borghese. Il borsone cominciava a pesargli, aveva la barba lunga e gli abiti erano poveri e sgualciti... Anche se non c'erano agenti in giro e il suo aspetto non era proprio da clochard, lo preoccupava l'oggetto che aveva in tasca.
Uno slargo in fondo alla strada segnava una specie di discontinuità, da lì in poi le villette erano più grandi e con giardini intorno, protetti da muri alti. Lo colpì lo stato di abbandono: alcune case sembravano addirittura disabitate. Poco oltre si innalzavano casermoni popolari, ai lati di una strada polverosa ancora da asfaltare. Sembrava che quelle vecchie case, testimoni dell'agiatezza di un altro tempo, fossero soltanto in attesa dell'inevitabile demolizione, per far posto alla modernità senz'anima della speculazione edilizia.
Non vide insegne di alberghi. Il numero civico scritto sul biglietto corrispondeva a un cancello semiaperto, un po' più in basso del livello stradale, oltre il quale c'era un giardino incolto. Sentiva odore acuto di curry. Spinse le sbarre metalliche arrugginite ed entrò. In fondo al viale, il portone della villetta era chiuso. Da una finestra spalancata venivano delle voci, alcune molto giovani, mischiate al ticchettio insistente di una macchina da scrivere, e in quel punto il profumo speziato della cucina era così forte che lo fece tossire. Suonò il campanello e attese, guardandosi intorno. Se davvero si trattava di un albergo, era molto particolare: sul prato era riversa una poltrona sfondata, insieme a un triciclo e ad altri giocattoli. C'era una palma, altissima e stentata, e un piccolo rudere che una volta doveva essere stato un capanno degli attrezzi...
La porta si aprì. Gli sorrise un uomo sulla trentina, con un paio di baffi arricciati in stile ottocentesco, un gilet a fiori, dei jeans sdruciti e le pantofole ai piedi. Non era un capellone: anzi, fu colpito dalla zazzera corta e grigia, sembrava una specie di marine americano in borghese.
Pensò a un reduce della guerra del Vietnam. Gli porse la mano: «Salve, mi chiamo Marcello Vanzetti, sono...»
«Non importa chi sei, vecchio mio.» La voce era acuta, quasi in falsetto, e contrastava singolarmente col tipo. «Angela e Berta hanno fatto il pollo, sei ancora in tempo. Qui mangiamo tardi.»
Arcieri rimase con la mano protesa, mentre l'altro faceva dietro front e lo scortava dentro casa. Sull'atrio, con le pareti coperte di strani manifesti, si aprivano diverse porte. L'odore acuto del curry si mischiava a quello acido di vecchia frittura. Un bambino piccolo, seduto per terra, cercava di rompere delle noci con un sasso.
«Grazie, ho già mangiato...»
«Vedrai che ti torna fame. Siamo già tutti a tavola. Lascia la borsa qui.»
La cucina era grande e si affacciava sul giardino. Intorno a una tavola di marmo c'era un gruppo di persone di varie età, ma soprattutto giovani. Bruno entrò e disse «buongiorno», cui rispose un simpatico e disordinato saluto collettivo. Soltanto uno degli ospiti rimase indifferente, un tipo sui quarant'anni, curvo davanti a una finestra a battere su una macchina da scrivere, che teneva sulle ginocchia. L'uomo con le pantofole gli indicò una sedia vuota, tra una bella ragazza rossa, dalla pelle chiarissima, e un uomo che lì in mezzo gli parve incredibilmente anziano, senza pensare che forse era più giovane di lui.
«Come ti chiami?»
«Marcello Vanzetti.»
«Ah, già, me lo avevi detto. Prendi il pollo, è buono.»
La ragazza rossa gli sorrise senza parlare, passandogli il vassoio. Sembrava inglese. Forse era lei che esagerava col curry? Bruno sentiva lo stomaco chiuso e fece cenno di no, ma la ragazza gli mise lo stesso una coscia di pollo nel piatto. Bruno ringraziò, sorridendo a sua volta: «Do you speak English?»
«No, sono di Bellariva...»
L'accento fiorentino gli suscitò una risata. Guardò gli altri commensali. Tra loro ci doveva essere per forza il suo contatto, quello che aveva rapporti con Parigi e Vanel. Di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo, c'era un ragazzo giovanissimo, con una densa capigliatura nera che gli ricadeva sulle spalle e lo sguardo da bambino. Indossava una maglietta stampata con immagini deformate e una scritta a prima vista incomprensibile, con le lettere disegnate come palloncini multicolori. Vi lesse con difficoltà Jimi Hendrix Experience e si ricordò che ne aveva sentito parlare.
L'uomo anziano seduto alla sua destra lo guardò e scosse il capo: «Io sono Maurizio. Spero che tu abbia il sonno pesante, questi non dormono mai, scopano come maiali e poi suonano quei dischi di merda... Tu cosa ci fai, qua?»
«I casi della vita...» Gli porse la mano. «Mi chiamo Marcello Vanzetti, piacere.»
«Non mangi il tuo pollo?»
«Ho già mangiato, in treno.»
«Da dove vieni?»
«La Spezia.»
«Ti fermerai a lungo?»
Arcieri alzò le spalle. Guardava sconsolato la coscia di pollo immangiabile. Si era abituato male, a casa del commissario, e poi a Parigi. Non sapeva se avrebbe saputo riprendere a mangiare cose non buone, soltanto per sopravvivere. «Chi lo sa? Mi hanno detto che qui si sta bene...»
«Te che hai fatto, durante la guerra?»
Dall'altra parte del tavolo si levò una voce aggressiva: «Ma lascialo stare, perdio!»
Aveva parlato un giovane biondo sui venticinque anni, coi capelli e la barba lunghi, simile a un guerriero celtico. Indossava una giacchetta di velluto su una maglietta come quella del ragazzo capellone.
«Lascialo perdere, Maurizio è un vecchio fascista. Vorrà sapere se sei stato coi nazisti o con gli inglesi. Ancora non capisce che sono soltanto due facce del capitalismo borghese... È evidente la sostanza fascista delle cosiddette democrazie liberali. La violenza egemonica della sovrastruttura capitalistica agisce attraverso la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa. Hai letto L'uomo a una dimensione?»
«No, ma so qualcosa di Marcuse.»
Il giovane sgranò gli occhi, stupito. «Ah, bene. Allora sai che sarà l'analisi del meccanismo repressivo della sovrastruttura borghese a renderci consapevoli del controllo di classe del sistema... Di fatto è un'azione di forza cui possono opporsi con mezzi analoghi soltanto la classe operaia e gli studenti. Gli emarginati dal sistema. Quelli come te...»
«Cosa sai di me?»
«Basta guardarti. Alla tua età sei costretto a cercare rifugio qua dentro. Anche Maurizio, che è un fascista, è uno scarto del sistema borghese, benché faccia il loro gioco.»
Il vecchio alla destra di Arcieri si alzò di scatto e puntò l'indice contro il guerriero biondo: «Io non fo il gioco di nessuno, Laurenti. Stai molto attento».
Il vecchio e il giovane, entrambi in piedi, sembravano sul punto di scattare uno contro l'altro. Smisero tutti di parlare, rimase solo, in sottofondo, il ticchettio della macchina da scrivere.
L'uomo sui trent'anni coi baffi ottocenteschi lasciò il suo posto e venne dietro al ragazzo biondo, che era diventato tutto rosso in viso. Gli mise una mano sulla spalla. «Ora basta, Laurenti, lascia stare Maurizio.»
Scoppiò il pianto del bambino, nell'ingresso. Una ragazza si alzò e uscì dalla cucina. Tornò poco dopo col piccolo, che aveva un dito tumefatto e piangeva disperato. Lo mise in braccio ad Angela, la ragazza dai capelli rossi accanto a Bruno, che si scoprì un seno bianchissimo. Il bambino smise subito di piangere e cominciò a succhiare contento. Anche tutti gli altri ripresero a mangiare, a parlare e a ridere come se non fosse successo nulla.
Bruno si voltò verso Maurizio: «Sono stato prima coi tedeschi, come tutti quelli che hanno combattuto, e dopo l'otto settembre coi badogliani. Ora però scusatemi, sono molto stanco». Si alzò e andò dall'uomo coi baffi. «Non ti ho ancora chiesto se c'è una stanza libera...»
«Una stanza tutta per te? No, forse no... Ora vediamo. Intanto vai di sopra, nella stanza verde c'è un letto libero.»
«Ho perso la carta d'identità e non ho ancora il documento nuovo, mi deve arrivare a giorni...»
«Non ti preoccupare, non ho i documenti in ordine nemmeno io.»
«C'è un telefono?»
«Puoi andare al bar biliardo, trenta metri più avanti, verso il torrente Mugnone. Sennò di' a me, se cerchi qualcuno lo chiamo io, dopo...»
«Il bar andrà benissimo, grazie. Ma com'è che ti chiami?»
«Raffaello.»
«Bene, Raffaello, grazie. Scendo più tardi per regolare...»
«Scendi quando vuoi, Marcello. Vaya con Dios.»
Bruno fece un cenno di saluto collettivo. Incontrò per la prima volta lo sguardo dell'uomo alla finestra, che aveva smesso per un momento di scrivere. Occhi azzurri, chiarissimi... Uscì dalla cucina, prese il borsone e salì le scale.
Al primo piano c'erano varie porte chiuse: quale poteva essere quella della sua stanza? Sentiva scrosciare dell'acqua. Da una porta spalancata usciva del vapore. Una ragazza bruna dal fisico pesante stava facendo la doccia, senza alcun riparo, e gli sorrideva con naturalezza: «Se cerchi la stanza verde, è la seconda porta».
Arcieri ringraziò imbarazzato e andò dove gli indicava la ragazza. In una piccola stanza ingombra di carte c'erano due letti a castello. Libri e riviste erano sparsi ovunque, anche sul pavimento. Alle pareti erano appese con lo scotch fotografie di guerra: carri armati nel deserto, scatti di ricognizione aerea... Una foto era raccapricciante, raffigurava un cadavere bruciato. Sopra una pila di fogli dattiloscritti c'erano fotografie a colori di gorilla, nella giungla. Era certamente la stanza del quarantenne che scriveva a macchina. Mise la borsa sul letto inferiore, quello libero, e cominciò a sistemare le sue cose. Prese il documento francese e lo fece a pezzetti, mettendoseli in tasca. Le dita incontrarono la busta che Marie gli aveva lasciato al bistrot: non l'aveva ancora aperta... Stava per farlo, ma poi decise di no. Si guardò intorno, non c'era un armadio, soltanto un settimino. Aprì i cassetti, nemmeno uno era libero e allora posò gli abiti sulla coperta. Doveva per prima cosa accertarsi che Bernard avesse accettato la sua offerta. Ma prima doveva lavarsi e riposare un po'... Intanto si distese sul letto. Aspettò che finisse il rumore della doccia, poi si alzò e andò in bagno.
Incrociò il ragazzo capellone con la maglietta di Jimi Hendrix e un asciugamano sul collo: «Vai, io ho finito, ti lascio il lavandino».
Arcieri rimase come paralizzato sulla soglia. Sul water era seduta la ragazza che prima si stava facendo la doccia: gli sorrise e continuò a fare quel che faceva. Altri due ragazzi, mezzi nudi, erano impegnati a lavarsi i denti.
«Scusate, io...»
«Vieni, non ti preoccupare.»
Laurenti, il giovane guerriero biondo, entrò già tutto nudo nel bagno. Arcieri provò l'impulso di uscire e di andarsene subito. Cosa ci faceva in quella casa, alla sua età? Poi vide entrare Maurizio, il vecchio fascista, che si spogliò tranquillamente ignorando chi gli stava intorno. Allora si fece coraggio e si tolse anche lui la giacca e la camicia. Prese i pezzetti del suo documento e li buttò nel water. Le ferite al braccio e alle ginocchia erano rosse e un po' gonfie. Nello specchio vide un volto sconosciuto, con la barba già lunga: adesso Bruno Arcieri era davvero morto.
Maurizio era accanto a lui e si faceva la barba: «Non è che siano tutti scostumati o viziosi: è una necessità, c'è un bagno solo».
«Non è un problema, per me.»
«Meglio. Dunque hai combattuto contro i tedeschi?»
«Ero coi badogliani, l'armistizio mi ha sorpreso a sud.»
«Io stavo dalla parte di quelli che hanno perso. Ma non ho potuto combattere...» Gli mostrò la mano destra: Bruno aveva notato che la agiva male, ma notò solo allora che era atrofizzata, con una terribile cicatrice. «Ferita sul campo, dei maledetti rossi: 1922, marcia su Roma.»
«Non mi pare che ci siano stati scontri, all'epoca...»
Maurizio si irrigidì. «Non risulta a te. Un agguato da vigliacchi. E poi mi hanno rubato tutto... Sono un esule fiumano, io.»
Bruno si lavò alla bell'e meglio, cercando di non dargli spago. Poi si rivestì e uscì dalla casa. L'aria era calda e la giacca quasi di troppo. Richiuse il cancello e si avviò verso il ponte sul Mugnone. Il bar biliardo che gli aveva indicato Raffaello era a pochi passi di distanza: un locale dimesso, con un paio di anziani seduti all'esterno a prendere l'ultimo sole della giornata. Scostò le strisce di plastica ed entrò. Il fumo di sigaretta lo prese alla gola. Chiese un caffè e pagò con cinquecento lire, chiedendo il resto in gettoni. Il telefono era in fondo a un antro scuro, dove quattro persone giocavano in silenzio a biliardo: lo consolò il toc familiare delle palle che si urtavano. Lesse il numero sulla targhetta bianca e lo mandò a memoria. Poi mise un gettone nella fessura, fece il numero dell'ora esatta e attese. Si guardò intorno: nessuno faceva caso a lui. Decise che quel telefono era abbastanza adatto ai suoi scopi.
Riagganciò e tornò al banco. «Qual è l'autobus per il centro?»
«Può prendere il 22, la fermata è poco più avanti.»
Bruno uscì. Il peso della pistola, nella tasca, era sempre più inquietante. Arrivò al torrente Mugnone, incassato in profondità come una fogna e pieno di ogni genere di schifezze. Vedeva soltanto un rivolo di acqua nera, coperta dalla schiuma bianca dei detersivi. Scese il ripido viottolo che portava al greto. L'aria era irrespirabile e non c'era nessuno: né un pescatore, con quello schifo, né un ragazzino. Arrivò fin sotto il ponte. Sopra di lui passavano automobili e autobus. Trovò un anfratto tra i piloni e ci nascose la pistola, avvolta nel fazzoletto che aveva in tasca: sarebbe andato a riprenderla appena possibile, una volta trovato un nascondiglio migliore.
Risalì, si spolverò i pantaloni con le mani e raggiunse la fermata. Dopo pochi minuti arrivò sferragliando un immenso autobus verde a due piani. Pagò il biglietto e salì al piano superiore: c'era poca gente e trovò posto a sedere. Guardò passare Firenze ai suoi piedi: non vedeva più i segni dell'Alluvione di due anni prima, sembrava che i fiorentini fossero riusciti a occultarli. Ma lui sapeva che il fango c'era sempre, dietro ogni angolo, in ogni piega della città: tutti i muri delle strade del centro gli evocavano l'odore penetrante del fango mischiato alla nafta, era come se lo avesse ancora nel naso e nel cervello.
Scese vicino a piazza del Duomo. Si sentiva una specie di incosciente eroe: qualcuno dei suoi nemici avrebbe potuto riconoscerlo, nonostante la barba e i capelli incolti. Si confuse tra i turisti e raggiunse il palazzo delle Poste, sotto i portici di piazza della Repubblica, dove prenotò una telefonata a Parigi. Attese seduto in disparte, protetto da una colonna dell'atrio.
Lo chiamarono quindici minuti dopo. Entrò nella cabina insonorizzata e sollevò la cornetta del telefono.
Gli rispose una voce ben nota, dal tono impersonale: «È lei, Marcel? Quell'uomo ha chiamato».
«Le ha lasciato un indirizzo?»
Vanel glielo disse e gli diede anche il numero di telefono di una piccola pensione del centro. Bruno riagganciò subito e tirò un sospiro di sollievo: dunque Bernard aveva accettato la sua proposta di collaborazione... Restò un momento incerto su cosa poteva fare, adesso. Andare subito da lui? No, aveva già rischiato troppo. Contò i soldi nel portafoglio: le trecentomila lire che gli aveva dato Vanel in cambio dei suoi franchi erano ancora tutte lì.
Uscì dal palazzo, respirando a pieni polmoni l'aria fresca della sera. Tornò in piazza della Repubblica per riprendere l'autobus e soltanto allora notò che i muri erano tappezzati di manifesti politici: lo scudo crociato della Democrazia Cristiana e “Vota PCI”, sotto la bandiera con falce e martello... tra un muro e l'altro, però, fu attratto dalle locandine del circo Togni, con la faccia sorridente di un buffone, una tigre con la bocca spalancata e un intrepido domatore, su uno sfondo giallo acceso. Il tendone era stato alzato ai giardini pubblici delle Cascine, dal pomeriggio del giorno prima. Decise lì per lì di sfruttare quell'occasione e affrettò il passo.
Durante il breve viaggio di ritorno in autobus, si bevve di nuovo Firenze con gli occhi: chissà se avrebbe avuto di nuovo la possibilità di girare tranquillamente per le sue strade, come un tempo... Guardare le vetrine, entrare nei negozi, salutare qualche vecchio amico...
Scese alla fermata di viale Redi che il sole era già tramontato. Da lì era facile raggiungere il parco a piedi. Superò piazza Puccini, dominata dalla candida costruzione littoria del cinema omonimo, dove ventiquattro anni prima un manipolo di partigiani si era immolato combattendo contro i tedeschi che accerchiavano la città, e finalmente raggiunse il parco delle Cascine. Camminare lungo i suoi viali alberati gli offrì un poco di sollievo.
Il tendone del circo era in uno dei prati più grandi: gli parve piccolo e malmesso, pieno di toppe. Le gabbie degli animali mandavano un fetore di sporco, di fiera e di urina decomposta. Intravide soltanto il manto spelacchiato di un leone e distolse subito lo sguardo.
Nel piazzale c'era molta gente, specialmente bambini. Fece la fila al botteghino e acquistò due biglietti per lo spettacolo di quella sera. Poi decise che era tardi, doveva mangiare qualcosa e tornò verso l'albergo.
Quando arrivò al cancello del giardino, udì le grida di una giovane donna: sul momento ne ebbe quasi paura, ma capì subito che non era nulla di drammatico...
La porta era spalancata e dalla cucina arrivava un odore acre di caffè bollito. Incontrò Raffaello, che sembrava indaffarato, e cercò inutilmente di fermarlo: «Vorrei parlare del mio soggiorno qui...»
«Dopo, Marcello, non ti preoccupare.»
Salì le scale. Al piano di sopra, i due ragazzi impegnati a letto ci davano dentro. Era una situazione curiosa, per lui, divertente e imbarazzante al tempo stesso.
Dalla porta socchiusa della sua stanza gli arrivò una voce con accento tedesco: «Sentito che impeto? Berta è grande, quando fa l'amore...» La porta si aprì del tutto e vide l'uomo sui quarant'anni, ben piantato, che quando era arrivato scriveva a macchina in cucina. Aveva la barba lunga e indossava soltanto i pantaloni del pigiama e una camicia bianca spiegazzata. «Vieni, ti offro da bere...»
«Grazie, ma vorrei riposarmi un po' e...»
«Bevi con me, parigino.»
Bruno Arcieri rimase un istante impietrito, poi sorrise ed entrò nella stanza. Il tedesco richiuse subito.
«Dunque è lei il mio contatto...»
«Tu: qui ci diamo tutti del tu. Benvenuto, Marcello. Io sono August.»
«Cosa scrivi, August?»
«La mia vita coi gorilla. Ho perso tutto, al mio Paese, e non ci posso tornare più... Mi sono rimasti mille dollari, una volta finiti quelli mi ammazzo. Nel frattempo, scrivo il mio libro. Non ho un editore, ma non mi importa, lo scrivo e basta. Hai già visto le mie cose, ti sarai fatto un'idea di me.»
«Hai combattuto in Africa...»
«Ja, Afrika Korps, con Rommel, ma intendiamoci, non sono mai stato nazista. Sono comunista, io. Come Vanel. Io e lui siamo stati molto vicini, a Parigi, subito dopo la guerra. Poi sono tornato in Africa: oltre il Sahara, nel Congo. Nel libro racconto la parte più bella della mia vita.»
Un altro grido della ragazza, nella stanza vicina, fu seguito dal rumore sordo di un corpo che cadeva sul pavimento.
August rise: «Berta cambia ragazzo ogni settimana. Ora è la volta di Laurenti, quello che a pranzo ti ha fatto la lezioncina marxista... Ma durerà poco, per Berta ci vuole ben altro. Senti, Marcello, questa è la prima e l'ultima volta che ci parliamo fuori dai denti: dopodiché saremo soltanto due persone con un passato complicato e prive di mezzi economici, come gli altri. Io non potrò aiutarti in quello che devi fare, che non so e non mi interessa. D'accordo?»
«Certo.»
August aprì lo sportello del vecchio comodino di legno, dove teneva il vaso da notte. Tirò fuori una bottiglia di cognac Hennessy e due tazze. «C'è chi chiama questo posto una comune. Ci sono anche i politici, certo, ed è per questo che Vanel ha dei contatti riservati e ti ha spedito qui. Ma in sostanza è un luogo dove coabitano persone eccentriche, diciamo così, alcune in attesa di una sistemazione migliore. Per altre, invece, è l'ultima spiaggia... È gente innocua, quasi tutti gli attuali ospiti ti lasceranno in pace.»
«Come sarebbe a dire, quasi?»
«Siamo un gruppo autosufficiente, tollerati da vicinato e Polizia, non gira droga pesante. L'unico piccolo problema è un maresciallo dei Carabinieri che viene tutti i giorni per tenere sotto controllo gli ospiti. Sarà meglio se riuscirai a schivarlo. Magari cerca di non suscitare la sua curiosità.»
«Allora non è vero che ci lasciano in pace...»
«È un controllo tanto per dire, lo vedrai da solo. Il maresciallo è quasi uno dei nostri, non racconta nulla di sgradevole ai suoi superiori...»
Bruno accettò la tazza di cognac che August gli offriva. Aveva un bel colore e gli parve buono. «Chi è Raffaello, il padrone? Sembra quasi che mi eviti...»
«Ma no, non ci badare, lui fa così. Ci ho già parlato io e lo farò di nuovo, gli farò bere la storia che ti hanno preparato a Parigi. E poi non è mica il padrone vero. Questa casa è di proprietà di una coppia di anziani antiquari, gente stramba più di noi. Almeno così mi hanno detto, io non li ho mai visti... Quando i figli se ne sono andati, hanno cominciato a prendere in casa amici, gente scomoda ma anche vagabondi di passaggio, purché fossero sulla loro stessa lunghezza d'onda. Poi se ne sono andati anche loro, pare in India, a mettere su un albergo vero... Gli ospiti sono rimasti ed è iniziata una gestione comunitaria.»
«Ma per i conti, le bollette...»
«Non ci sono regole, siamo tutti anarchici, qualcuno anche sul serio. Le pulizie le facciamo un po' tutti, senza bisogno di fare turni. Se manca qualcosa in dispensa, la compra chi in quel momento ha più soldi. Ma nessuno gli dice di farlo, capisci?»
«Forse un po'...»
«Ti troverai bene. Per i conti, ci si aggiusta a fine mese, quando si devono pagare le bollette. L'affitto non c'è. Va a meraviglia, no?»
«In effetti...»
«Tu potresti occuparti del giardino, è uno sfacelo.»
«Ho visto. Ma invece vorrei cucinare: quello che mangiate mi sembra un disastro, più del prato...»
August rise. «Be', Angela, poverina, col bambino, fa quel che può... Berta lasciamola stare, fa bene altre cose...»
«Io invece me la cavo, ho fatto il cuoco, per vivere.»
«D'accordo, dillo alle ragazze.» August aprì il cassetto del comodino e gli porse una carta d'identità.
Arcieri guardò la foto: era stata fatta a Parigi, cinque mesi prima, quando era senza barba.
«È stata applicata molto bene», disse August. «Gli amici di Vanel sanno lavorare. Ma ora andiamo giù a mangiare, ho fame.»
Scesero le scale, in basso si sentiva un gran tramestio, il bambino piangeva e salivano zaffate asfissianti di cavolo bollito. Bruno andò direttamente alla porta d'ingresso.
August si voltò, sulla soglia della cucina: «Tu non vieni?»
«Stasera non ho fame...»
Il bar biliardo era pieno di gente, il fumo delle sigarette così fitto da togliere quasi la visuale. Bruno prese un bicchiere di acqua minerale e un paio di tramezzini, che mangiò in piedi, al banco. Tossì, mentre infilava il gettone nella fessura del telefono grigio topo.
Quando sentì la flebile voce che diceva «Pronto?», premette il bottone e il dischetto dorato cadde nel telefono, avviando la conversazione: «Hotel Marisa».
«Buonasera. C'è il signor Bernard?»
«È a cena... Un momento che glielo chiamo.»
Attese più di un minuto, mentre giovani e vecchi giocavano al biliardo davanti a lui, ignorandolo.
«Pronto?»
«Bernard, bentornato a casa. Tutto bene?»
«Aspettavo a gloria che mi chiamasse. Ho speso un sacco di soldi per il viaggio e per l'anticipo dell'albergo...»
«Non si preoccupi, le ho già spiegato tutto. Senta, le va di andare al circo, stasera? Ho due biglietti.»
«Mi prende in giro...»
«Niente affatto. È arrivato in città il circo Togni. Lo spettacolo è tra poco. Ci sono le tigri e i leoni, le piacerà. Venga, che parliamo un po'.»
«Dove vuole che ci troviamo?»
«Al botteghino, alle nove.»
Il tendone del circo, che alla luce del crepuscolo gli era sembrato tanto malinconico, si era trasfigurato: adesso era pieno di promesse e di mistero, di suoni e luci di cento colori. Una musichetta vagamente dixieland metteva allegria e Bruno si riscoprì bambino, colmo di meraviglia e di aspettativa. Quasi non pensava più a Bernard, ai sicari che lo cercavano, alla tragica fine di Andrea Viani, il ragazzo che non voleva parlare... Si mise in coda a un piccolo chiosco, coi bambini e i loro genitori, le coppiette e i militari in libera uscita. Comprò un sacchetto di lupini e una gazzosa e si mise a guardare un giocoliere. Un uomo baffuto con la scimmietta girava un organino pochi passi più in là: si ricordò di una remota strada di paese e di un gruppo di bambini, compagni di gioco che non c'erano più.
Alle nove precise andò all'ingresso del circo. Vide subito Bernard, col suo trench chiaro e il cappello, spaesato e un po' inquieto. Si avvicinò e gli prese il braccio. «Venga, si conceda un po' di divertimento...»
«Il circo non è in vetta alle mie preferenze.»
«Non sente mai la voglia di tornare bambino? Non c'è niente di più curativo, per l'anima.»
Entrarono nel tendone e raggiunsero a fatica i posti assegnati, in mezzo alla gente. Erano piuttosto in alto, sulle gradinate, e avevano un'ampia visuale delle piste. Due pagliacci intrattenevano il pubblico, mentre l'orchestrina spingeva con entusiasmo il suo leggero jazz tradizionale.
Bernard sembrava non voler proprio guardare lo spettacolo: «Allora, Marcel, vuole dirmi perché mi ha fatto venire fino a Firenze?»
«Aspetti, stanno entrando le cavallerizze!»
Sette amazzoni girarono più volte intorno alle piste in groppa a splendidi cavalli bianchi, e il pubblico prese ad applaudire con entusiasmo. Non era possibile parlare, e Arcieri si godette in pace lo spettacolo. Quando l'ultima cavallerizza sparì dietro le quinte, apparve una famiglia di giocolieri, padre, madre e quattro figli, che iniziò a fare spericolati esercizi, punteggiati dai colpi di grancassa dell'orchestrina e dagli «Oooh!» del pubblico.
Bernard sospirava, impaziente. «Allora?»
«Devo ottenere delle informazioni, per risolvere il mio problema. Però, come le ho già detto, non posso agire personalmente...»
«E vuole che lo faccia io, in sua vece.»
«Sì, appunto. Dovrà incontrare delle persone. Una la conosce anche lei, ne abbiamo parlato a Parigi...»
«Sì.»
«So dove abitano e come se la passano. Per prima cosa voglio sapere se le mie informazioni sono ancora valide e accurate.»
«Sì, certo.»
«Poi dovrà incontrarle, far loro qualche domanda ed eventualmente preparare un abboccamento diretto con me.»
«Cosa devo chiedergli?»
Furono interrotti da un grande applauso e da una musica frenetica suonata dall'orchestrina. Gli inservienti montarono in fretta una grande gabbia, e poco dopo vi fecero ingresso i leoni. A Bruno sembrarono belve lucide e possenti, uscite direttamente dai romanzi di Salgari che leggeva da ragazzino. Si domandò se tra loro ci fosse quello dal manto spelacchiato, che aveva visto nel pomeriggio... Il pubblico sembrava impazzito per l'eccitazione.
Dovette alzare la voce, per rispondere a Bernard: «Dipende dai casi. Cominciamo con Nanette, le va?»
Bernard alzò le spalle. «Uno vale l'altro. Come se la passa?»
«Non è stato facile, per lei, dopo la guerra. Aveva agganciato un ufficiale americano, ma sia a casa che in Germania aveva perso tutto, e non era più giovane... Si è ridotta male. Comunque nei suoi anni d'oro ha conosciuto molta gente che conta, è una miniera di informazioni sulle famiglie fiorentine, intrecci palesi e relazioni segrete. Ed è quello che mi serve.»
«Ancora non mi ha detto cosa devo chiederle...»
«A Nanette niente di particolare, per il momento. Non le dica nemmeno di me. La porti fuori a cena, le faccia un po' di corte, evochi i tempi di Parigi, i vecchi amici comuni... Improvvisi, lasci lavorare il Caso. La prepari.»
«Lei è troppo misterioso, Marcel.»
«Mai troppo. Per la seconda persona che mi interessa, mi serve la sua esperienza come spia...»
«Roba di trent'anni fa!»
«Certe cose non si dimenticano. Si tratta di un archivista dei Servizi: una persona tranquillissima, non è un operativo. Molto più borghese di lei e di me messi insieme. È in aspettativa per una malattia. L'hanno operato due anni fa, ma continua a lavorare da esterno per i miei ex colleghi. Vive tra Roma e Firenze. Se siamo fortunati, potrà beccarlo qua.»
«Come si chiama?»
«Mario Tornabuoni. Non credo proprio che lei lo conosca.»
«No. Gentaccia, i suoi compari.»
«Non tutti. C'è anche chi cerca di fare il suo dovere senza partecipare ai giochi sporchi, e Mario è sempre stato uno di quelli.»
«Cosa devo chiedergli?»
«Nulla. Non dovrà nemmeno avvicinarlo. Se è a Firenze, studi bene i suoi spostamenti: ho bisogno di un rapporto dettagliato, lo dovrò intercettare e cucinare personalmente. Siamo d'accordo?»
«D'accordo. Posso andarmene, adesso? L'odore degli animali mi fa senso...»
«Un'ultima cosa. Vada in Questura, a richiedere il passaporto italiano.»
«Non ne ho bisogno, i miei documenti sono tutti in regola...»
«Ci andrà lo stesso. Nessuno si interessa di lei, sarà uno dei tanti a fare la coda, nel palazzaccio di via Zara. Ma intanto farà in modo di dare questo per me al commissario Fortini.» Cavò un biglietto dalla tasca dei pantaloni e lo diede a Bernard.
«C'è altro?»
«Per il momento no. È già andato in via Scipione Ammirato?»
Bernard lo guardò con stupore e rabbia: «A fare che cosa?»
«A vedere dove abita sua moglie. Ha visto se sta ancora lì da sola?»
Bernard strinse i pugni. «Non l'ho incontrata.»
«Meglio che non lo faccia, per ora. Aspetti di poterle offrire qualcosa. Sa, in una villetta vicino a quell'appartamento abitava la mia fidanzata. Mi viene da ridere, a usare questo termine... Come si dice, ora? Ragazza? Ecco, allora in via Scipione Ammirato, nel '38, abitava la mia ragazza...»
Bruno sospirò, col pensiero fisso al volto ridente di Elena Contini, poi diede a Bernard il recapito di Nanette, la bellissima ex ballerina della sua giovinezza, e quello di Mario Tornabuoni, funzionario del SIFAR prima e del SID poi. Dopodiché insistette per terminare di vedere lo spettacolo, rise di gusto alle scenette dei pagliacci e alla fine tutti e due lasciarono il tendone stretti tra una folla sudata e felice. Fuori era fresco ed entrambi rabbrividirono.
Quando raggiunsero il Mugnone, Arcieri si sfregò le mani e poi prese un altro foglietto dalla tasca: «Allora primo rapporto domani, intesi? Mi chiamerà a questo numero, alle quattro esatte del pomeriggio, minuto spaccato. È di un bar biliardo, se non le rispondo io, riattacchi subito».
«Non ha altro, per me?»
«No, basta così, per ora.»
Bernard esitava. «Io sono senza soldi, colonnello...»
Arcieri lo fulminò con lo sguardo. «Non c'è nessun colonnello: io sono Marcel, o meglio Marcello. Non faccia finta che le sia scappato, le minacce e i ricatti non mi piacciono proprio, peggio di tutti quelli impliciti, da vigliacchi.» Si frugò in tasca e gli passò delle banconote ripiegate in quattro. «Ecco le prime ventimila. Dovranno bastarle, almeno per questo mese.»
Tornò alla comune che era l'una di notte. Aveva sulle spalle tutta la stanchezza dell'estenuante viaggio da Parigi a Firenze, si sentiva come se avesse attraversato il mare a nuoto... Già a cento metri dal vecchio cancello iniziò a udire una pulsazione ossessiva, qualcosa che somigliava alla musica moderna dei capelloni. Veniva da una delle stanze superiori della villetta: riusciva a distinguere qualche parola, cantata da una voce ruvida e dolce, framezzo a qualcosa che era e non era un blues... Non la sua musica, decisamente, ma nemmeno banale come le canzonette: Purple haze, all in my brain... Era un apparecchio potente, ma distorceva. Intendevano andare avanti così tutta la notte? Si chiese come avrebbe fatto a dormire.
Spinse il portone appena socchiuso e alla musica si sovrappose il gracchiare di una radiolina a transistor. Vide Raffaello, seduto sulle scale, con lo sguardo preoccupato, che ascoltava un giornale radio in inglese. Gli fece un cenno di saluto. Capiva soltanto qualcosa, era un notiziario di Radio Luxembourg, parlava dei disordini a Parigi e di quelli negli Stati Uniti... C'era anche un breve riferimento all'Italia: Pisa, Milano, Roma. Il 19 maggio si sarebbero tenute le elezioni politiche, si pensava a un successo delle sinistre. Se ne era addirittura dimenticato: ecco il perché di tutti quei manifesti politici, in centro...
Salì gli scalini, ormai ambiva soltanto a un letto, musica o non musica.
Purple haze, all around...
help me
help me
oh, no, no...
Tutte le porte, al piano di sopra, erano chiuse. La musica veniva da una delle stanze che si affacciavano sulla strada, per fortuna la sua dava sul giardino dietro la casa.
Accese la luce, August non c'era. Si spogliò e mise gli abiti su una sedia. Dalla tasca spuntava la busta con la lettera che gli aveva lasciato Marie, la sua dolce ragazza francese. Si sedette sul materasso e fece finalmente per aprirla, ma si fermò subito. La rigirò tra le mani: Marie gli aveva scritto un rimprovero oppure una frase d'amore? O un semplice addio? Non si sentiva in grado di leggerlo, non ora. Piegò la busta in due e la mise di nuovo in tasca.
Si distese sul letto e si coprì col solo lenzuolo.
Purple haze...
Un urlo represso, un mugolio: Berta e Laurenti erano ancora impegnati a letto... Sorrise e si addormentò quasi subito. Sopra la sua vecchia casa d'infanzia c'era una grande soffitta disabitata, dove nascondeva tutti i suoi segreti e passava lunghe ore in solitudine. Una finestra dava sui tetti, e spesso fantasticava, nelle calde notti estive, di uscire da lì e di andare di palazzo in palazzo, saltando da una casa all'altra, in un viaggio aereo sopra la città e oltre, verso l'orizzonte lontano della campagna. Nel sogno tornò in quella soffitta. Inseguito dal suo nemico di sempre, aprì la finestra e si mise a correre sulle tegole: sopra di lui c'era un'immensa luna bianca e i gatti lo guardavano con sospetto. Un vento fresco gli carezzava il volto, non aveva più peso. Bruno correva e saltava di tetto in tetto, come un equilibrista sospeso tra la vita e la morte, tra la giovinezza e la vecchiaia, beato di luna, di notte e di stelle. A un certo punto, lo attirava la luce di un abbaino: oltre il vetro c'era lo sguardo di una ragazza molto giovane, che lo fissava con un'espressione seria, ma dolce. Indossava soltanto una leggerissima camicia da notte. Lui apriva la finestra ed entrava nella camera della fanciulla... Era tra le sue braccia, la prima donna della sua vita e allo stesso tempo tutte quelle che aveva avuto: mentre facevano l'amore, la ragazza non gridava come Berta, ma chiudeva gli occhi e sospirava piano, con la bocca socchiusa. E lui non era più Bruno Arcieri sessantenne, ma un ragazzo del 1920, timido e pieno d'amore.
Bruno Arcieri si svegliò di soprassalto, colpito negli occhi da un raggio del sole già alto. Che ore erano? Tutto sommato, un orologio gli avrebbe fatto comodo. August aveva lasciato il letto intatto, evidentemente non era mai rientrato. Si alzò e andò al bagno. C'era un silenzio strano. Aprì la finestra e guardò in strada: vide un motorino e della gente a piedi, sembrava già metà mattina. Si vestì e cedette alla curiosità di aprire una porta, ma fu investito da un aroma caratteristico. Era paglia, come si diceva... Sbirciò dentro e vide due ragazzi nudi abbracciati sul letto, che dormivano innocenti come se fosse notte fonda.
Scese le scale, tossendo per il fumo che aveva inalato. Aveva bisogno di un caffè, di un orzo, qualsiasi cosa che fosse un po' calda... In cucina, una voce femminile canticchiava una nenia infantile. Era Angela, la ragazza coi capelli rossi, che cercava di dare la pappa al suo bambino, seduto sul tavolo di marmo.
«Buongiorno.»
«Ciao.»
«C'è del caffè e del latte?»
«Nel frigorifero c'è quello del bambino, se vuoi prenderne un pochino fai pure, ma poco davvero. Va ricomprato... Il caffè te lo puoi riscaldare, è sul fornello.»
«Grazie.»
Bruno aprì gli sportelli del pensile: lo colpì una zaffata aromatica, che veniva da un enorme cartoccio di curry. Ma a parte quello c'era ben poco, il caffè era quasi finito e non vide ombra di pane o biscotti. Aprì il frigo. Era spento, nessuna lucina. Ed era anche vuoto in modo desolante: mancava tutto l'essenziale. Il latte, nella bottiglia di vetro, sembrava rancido.
Angela venne dietro di lui e gli sorrise, rimettendo nel frigorifero il biberon. «Ora è spento perché Raffaello e il maresciallo stanno lavorando al contatore...»
«Il maresciallo?»
«Il maresciallo Guerra, sì. Non l'hai ancora conosciuto?»
Bruno mise istintivamente la mano sulla tasca dove teneva il documento intestato a Marcello Vanzetti. «No.»
«Senti, Berta non scende, stanotte dev'essersi stancata parecchio e io devo andare a lavorare... Che me lo guarderesti te il bambino, finché non viene lei? Questione di pochino...»
«Sì, certo. Dove lavori?»
«All'ospedale, o almeno spero. Oggi ho il colloquio. Vi dovrete arrangiare, per mangiare...»
«Che ore sono?»
«Le dieci e mezzo.»
Dall'ingresso della casa arrivarono delle voci, e subito dopo entrò Raffaello insieme a un carabiniere di una cinquantina d'anni, un tipo non alto, dal fisico pesante, con la pelata e la chierica. Il giovane coi baffi a ricciolo gli parlava e intanto strizzava l'occhio a Bruno: «Il filo nuovo reggerà meglio, maresciallo...»
«Raffaè, io non le dovrei sapere, queste cose che fate al contatore.»
Raffaello andò all'acquaio per lavarsi le mani. Il maresciallo sbuffò, asciugandosi il sudore sulla fronte, e si mise a sedere su una delle seggiole di plastica. «Chi è questo signore, me lo presenti?»
Bruno sentì un brivido gelido lungo la schiena. Il bambino seduto sul tavolo si agitava un po', e lui cercava di tenerlo fermo. Gli diede un bicchiere di plastica per giocare. «Mi chiamo Marcello Vanzetti.»
«Vanzetti, Vanzetti...»
«Sacco e Vanzetti, sì, pensano tutti a loro...»
«Sa giocare a dama e a scacchi, Marcello?»
Bruno sorrise, ripensando alle partite col commissario, all'Impruneta, quando vinceva sempre. «Un po', sì.»
«Bene, bene...»
«Il maresciallo è imbattibile», lo avvertì Raffaello. «Stai attento.»
«Non gli dia retta», disse Guerra. «Ma mi fa piacere avere qualcuno nuovo con cui giocare...»
Angela fece una carezza al bambino, salutò tutti e uscì. Quando era già fuori dal cancello, il maresciallo sospirò: «Brava ragazza. Mi piacerebbe arrestare i suoi che l'hanno sbattuta fuori di casa. E anche quelli che l'hanno licenziata dal negozio».
«Qui sta meglio che da qualsiasi altra parte», disse Raffaello.
«Ehh, ma non siete mica tanto raccomandabili, voialtri... Manipolate anche il contatore della luce, per farlo girare più piano...»
«Col suo aiuto, maresciallo. O non era lei, che mi teneva la torcia elettrica?»
Risero tutti e tre. Il bambino sembrava sul punto di piangere, Arcieri si stava preoccupando e inoltre aveva fame. Per fortuna arrivò Berta, assonnata e in vestaglia, e lo prese in braccio.
Il maresciallo si alzò in piedi. «Vado via anch'io, ho da pensare ai delinquenti veri. Ci si vede uno di questi giorni. Lei c'è, Marcello, domani sera?»
«Certamente.»
«Bene, allora ci faremo una partitina.»
Il maresciallo portò due dita alla visiera e uscì. Bruno si chiese perché mai l'avevano mandato in un albergo tanto assurdo e addirittura con la visita quotidiana di un carabiniere... Non gli aveva chiesto il documento, ma l'avrebbe fatto di certo la sera dopo. Il rischio che lui o un suo superiore facessero un controllo serio era troppo alto. Doveva cercarsi un buco alternativo... Anzi, forse avrebbe fatto meglio a dileguarsi subito.
Raffaello, che rovistava nei pensili di cucina prendendo appunti su un foglietto, lo guardò e sorrise, indovinando i suoi pensieri. «Guerra è a posto. È amico nostro. Se ti hanno detto di venire qui puoi stare tranquillo.»
«Perché dici così?»
«Guerra ci vuole bene, non è un fascista di merda... Qui la gente malintenzionata non ci regna, la facciamo sloggiare subito. È c'è soltanto un po' di fumo...»
«Ho sentito, di sopra.»
«Niente droga vera. Niente spaccio. Siamo puliti come bambini.»
«Ho capito. E qualcuno, ogni tanto, fa anche qualche soffiata al maresciallo, in cambio della tranquillità, non è vero?»
Raffaello fece una faccia scandalizzata, come se Arcieri gli avesse offeso le donne di casa fino alla terza generazione. «Qui nessuno tradisce compagni e amici, capito?»
«Sicuro, non ti arrabbiare.»
«August mi ha detto di te. Sei un tipo fumino, un violento. Hai ammazzato una persona. Io non giudico, mi fido dei compagni. Ma non piantare grane qui dentro, capito? E nessuno ti darà noia.»
«Certo, stai tranquillo.»
«Forse riesco a rimediarti una stanza da solo: Angela sta cercando una sistemazione più comoda, per sé e per il bambino...»
«Non preoccuparti, sto bene anche con August.»
«A proposito: ti ha spiegato lui, come funziona, qui?»
«Sì, mi ha detto qualcosa. Io ho fatto anche il cuoco, per vivere. Mi piacerebbe occuparmi della cucina: specie se va via Angela, avrete bisogno di qualcuno...»
«Te la cavi bene, col curry? Ne hanno lasciato una marea i vecchi proprietari della casa, quelli che sono andati in India, e a noi piace tanto...»
Bruno inghiottì a vuoto. «Va bene anche il curry, ma ci sono altre cose che so fare benino...»
«Guarda, puoi occupartene anche da oggi, ne parlo io con Angela. Non le parrà il vero di risparmiarselo, con il lavoro all'ospedale. Piuttosto, tu come sei messo, a quattrini?»
«Ho qualcosa... Non molto.»
«Ho segnato delle cose che ci mancano. Se intanto le potessi comprare tu...»
Bruno prese il foglietto dalla mano di Raffaello. «Da' qua.»
Uscì di casa alle undici. Sul foglietto che gli aveva dato Raffaello c'era una lista piuttosto spartana con sale, latte, pasta e poco più. L'ideale sarebbe stato un supermercato, per passare il più possibile inosservato, ma a Firenze, per quanto ricordava, ce n'era uno soltanto, ed era troppo lontano. D'altronde non poteva pensare di stare sempre tappato in casa. Fece un giro nel vicinato per individuare i negozi più adatti: pollerie, macellerie, pizzicherie... L'offerta non mancava. Entrò in una drogheria stretta e lunga, vicina alla piazza. Si mise in coda con donne di servizio e signore anziane. La vetrina del banco attirò la sua attenzione. Oltre alle cose segnate sulla lista, si fece affettare un etto di prosciutto cotto, tagliato grosso, comprò del formaggio grana grattugiato e un cartoccio di panna fresca. Vide anche dei bei tortelloni di magro e ne chiese un chilo abbondante. La donna dietro il banco esitava a servirlo, guardandolo con sospetto. Allora Bruno tirò fuori il portafoglio e fece finta di contare i fogli da mille... La donna sembrò rassicurata e riprese alacremente a riempirgli due grosse buste di plastica con tutto quel ben di Dio. Arcieri fece aggiungere dodici uova e un grosso panetto di burro. Prese anche un cartoccio di sale grosso e uno raffinato. Alla fine, comprò anche due bottiglie di vino rosso, salutò e uscì nella piazza.
Si sentiva una perfetta donnina di casa, come quando era l'ospite segreto del commissario... Dalla parte opposta della strada che portava verso il centro, c'erano un fruttivendolo e altri negozi. Comprò tre etti di piselli freschi sgranati e prese anche un vasetto di bottarga e uno di ceci già cotti. Tornando verso casa, arrancando con le buste pesantissime, si fermò davanti all'edicola. I titoloni dei giornali intendevano essere allarmanti: scioperi e manifestazioni in tutta Italia. A Parigi gli studenti avevano occupato il Teatro de L'Odeon: la febbre del movimento sembrava aver contagiato tutta la Francia... Il Primo ministro Pompidou aveva dato l'ordine alla Polizia di abbandonare la Sorbona, nel tentativo di calmare gli animi, ma il Presidente De Gaulle non sembrava d'accordo. Si parlava anche delle elezioni politiche italiane, naturalmente. Sui settimanali campeggiavano le faccione di Moro, Andreotti, Rumor... Ma francamente di tutto ciò non gli importava più nulla.
Tornò alla comune poco prima di mezzogiorno. Al piano di sopra, il giradischi aveva ripreso a diffondere le note distorte della chitarra di Jimi Hendrix. Intendeva scambiare due parole con quel ragazzo, anche per convincerlo a tenere il volume un po' più basso, almeno di notte, ma prima voleva darsi da fare in cucina.
Posò sospirando le buste sul tavolo di marmo e mise a posto ogni cosa. Ora gli sportelli del pensile e il frigorifero avevano un aspetto più rassicurante. Mise sul fuoco un pentolone di acqua per i tortelloni e uno piccolo, coi piselli sgranati. Cercò una padella decente. Ne trovò una di grandezza adatta: l'aspetto non era dei migliori, era tutta nera e incrostata, ma tagliò lo stesso un paio di bei pezzi di burro e li mise a sfrigolare. Prese una punta moderata di curry dallo scaffale e la incorporò col burro fuso in una casseruola, insieme a una parte della panna.
Bruno aspettava che i piselli cuocessero, e intanto pensava a quel che doveva fare nelle ore seguenti. Alle quattro aveva l'appuntamento telefonico. Perché il suo piano funzionasse, aveva bisogno che Bernard fosse abbastanza in gamba da saper prendere iniziative e allo stesso tempo mantenere la massima discrezione... Pensò all'ultima volta che lo aveva visto, nel '45, quando era andato in Val d'Aosta per conto dei servizi di informazione del Regno del Sud. I francesi avevano mire sulla regione, nell'immediato dopoguerra, e doveva lavorare in mezzo alle trame dei loro agenti segreti, ma anche di quelli inglesi e perfino svizzeri... Tra i partigiani c'era anche lui, Bernard, ufficialmente come agente di collegamento fra Parigi e i badogliani. Ma nessuno sapeva che fino a pochi anni prima era stato una spia dell'OVRA. In realtà ancora non lo sapeva nemmeno lui, il prode Bruno Arcieri.
Aggiunse alla panna i piselli e il prosciutto cotto tagliato a pezzetti e mise a cuocere a fuoco basso. Ruppe le uova e separò i tuorli, che incorporò con un poco della panna che aveva messo da parte. Poi versò la miscela odorosa nella casseruola, amalgamandola col sugo. Quando fu pronto, versò i tortelloni nell'acqua bollente. Mandavano un bel profumo di fresco e di buono e sentì una gran fame. Tenne d'occhio la cottura: bastavano due minuti, e intanto cercò disperatamente qualcosa per scolarli senza farli spappolare... Trovò esultante una schiumarola e ne tirò su uno: era perfettamente al dente, come doveva essere. Finì di scolarli tutti, sollevando una nuvola di vapore aromatico.