Parte terza

 

 

Capitolo 41

 

Lunedì 21 novembre

 

De Scalzi parlava con voce roca. Era smontante dal turno di notte che, per colpa di quel rinvenimento di cadavere, si era protratto sino a mezzogiorno. Aveva infatti dovuto riferire al dottor Falck, eseguire le sue disposizioni. Poi, senza aver chiuso occhio né fatto colazione, dopo un caffè ingerito al volo, aveva raggiunto Toccalossi a Genova, su espressa richiesta di quest’ultimo (una richiesta assolutamente non perentoria del tipo: «Maresciallo, lei è occupato adesso? Potrebbe raggiungermi, per favore?») e ora stava rispondendo alle sue domande.

 

Era una di quelle mattine che il cielo se ne sta appiccicato al collo come una bertuccia, e picchia e picchia fastidioso e insolente che vorresti avere qualcosa di più di un analgesico a dirgli di smettere. Magari una mannaia.

 

Era l’una passata. Toccalossi si era recato di malavoglia a Genova, chiamato d’urgenza dagli uomini impiegati in sala intercettazioni, che avevano voluto fargli ascoltare tutte quelle chiamate di Giannoni, soprattutto adesso che avevano appreso della sua morte.

 

«Così il dottor Falck ha disposto il sequestro del cellulare di Giannoni?» chiese a De Scalzi.

 

«Esattamente, procuratore. Il medico asserisce che la morte è dovuta a un attacco cardiaco in seguito a probabile, quasi certa, assunzione di stupefacenti. D’altronde la bustina con la coca rinvenuta sul sedile anteriore lo confermerebbe. Comunque si verificherà con l’autopsia e tutti gli esami conseguenti. Il dottor Falck ha deciso di agire come segue: ha scorso la lista delle ultime chiamate e ha notato che, poco prima di morire, Giannoni ha chiamato qualcuno. È convinto si tratti di colui che gli ha portato lo stupefacente e che, dunque, dovrebbe poi essere indagato per cessione e omicidio.»

 

«Ma noi sappiamo dalle intercettazioni che quel numero appartiene a Barbara che, dall’analisi delle celle telefoniche impiegate, risultava essere a diversi chilometri di distanza. Quindi lei sarebbe scagionata.»

 

«Ma il dottor Falck questo non lo sa. Per avere l’intestatario, pur con una richiesta della massima urgenza, gli ci vorranno almeno un paio di giorni. Poi dovrà chiedere i tabulati ed esaminarli e chiedere la localizzazione delle celle telefoniche utilizzate. E alla fine potrà verificare soltanto che i due, Giannoni e Barbara, si sono sentiti, ma non potrà scoprire quello che si sono detti.»

 

«Eggià. A quel punto potrebbe ipotizzare che Giannoni abbia chiamato Barbara per dirle di portargli la cocaina e...»

 

«A proposito, procuratore, è questa la pista che sta seguendo il dottor Falck: quella della nuova partita di droga. Credo, anzi sono sicuro, che ricolleghi questa morte a quella degli altri due, come si chiamavano?»

 

«Luciano Bensi e Giambattista Rosso.»

 

«Ecco, quei due lì.»

 

«E so anche, perché ne parlava con l’ispettore Valenza, che stanno tralasciando una pista che invece seguivano fino a poco tempo fa, quella di un certo Barilla, uno spacciatore abbastanza conosciuto, che tra l’altro ha fatto perdere le tracce.»

 

«Insomma, stanno prendendo un bel granchio. Ma...»

 

«Ma?»

 

«Ma lei ha già mangiato?»

 

De Scalzi sorrise. Guardò l’orologio: le due meno un quarto. La sua espressione diceva tutto.

 

«Ho capito, non ha potuto. D’altronde, è stato sveglio tutta la notte, poi io l’ho chiamata qua... Mi scusi, ma dovevo sapere. Andiamo, le offro il pranzo. Centofanti!»

 

Centofanti accorse.

 

De Scalzi si alzò. «Accetto volentieri.» Prima di uscire si voltò a guardare ammirato la parete piena di gagliardetti alle spalle di Toccalossi e lanciò un’occhiata a Centofanti.

 

Capitolo 42

 

Il dottor Falck si rivolse all’ispettore Valenza: «Forse, stavolta ci siamo. Se è vero che Giannoni è morto per overdose, come ha anticipato il medico, che comunque sta già eseguendo l’autopsia, allora incastreremo pure chi gli ha ceduto la dose. Confronteremo le impronte trovate con quelle del titolare di quell’ultima utenza che ha chiamato Giannoni, e costui, o costei, non avrà più scampo. Lo interrogherò immediatamente per verificare se ha un alibi. Chissà che non sia proprio Barilla... A proposito, nessuna novità dal GPS che gli avevamo installato sotto l’auto?»

 

«Nessuna. A mio avviso se n’è accorto. Quello è uno che vive sempre sulla corda, adotta mille precauzioni... Probabilmente ha trovato il dispositivo sotto l’auto, si è allarmato e si è dileguato. Se fosse lui avremo davvero fatto tombola. Ho inviato le richieste ai gestori telefonici via mail, rappresentando l’urgenza. Domani, al massimo dopodomani, sapremo a chi appartiene quel numero.»

 

«Certo che l’assessore... che figura! La moglie era distrutta. Non tanto per la morte di suo marito, col quale credo che rimanesse per puro interesse, perché sembrava il tipico matrimonio di facciata, quanto per le modalità del decesso. Sai che scandalo!»

 

«L’ho vista. C’era quel... come si chiama... quel giornalista sempre nervoso...»

 

«Bussi!»

 

«Proprio lui. Le stava facendo delle domande.»

 

«Ma Bussi non era andato via da Savona? Che ci fa ancora qui? A Torino l’hanno trombato?»

 

«Non lo so. Comunque era lì che faceva un sacco di domande.»

 

«E lasciamogli fare il suo lavoro. Dopotutto...»

 

«Ho anche fatto analizzare il rossetto per vedere di che marca è.»

 

«E lo stupefacente rinvenuto sul sedile dell’auto di Giannoni?»

 

«Anche quello, ovviamente.»

 

«Ne sapremo di più tra un giorno o due. Adesso non ci resta che aspettare.»

 

Capitolo 43

 

«È davvero un bel caso di doppia competenza territoriale. Sembra un esempio da manuale», disse Toccalossi sorseggiando l’acqua. «Là, a Savona, sono competenti per le morti, che indubitabilmente sono avvenute nella loro giurisdizione. Ma noi stiamo indagando per l’ipotesi di associazione a delinquere e riciclaggio e sappiamo cose che loro non sanno. Una bella, classica, sovrapposizione di indagini.»

 

«Ma quando arriva il cameriere?» domandò Centofanti.

 

Toccalossi proseguì: «Se non fosse stato per Pedro, anche noi avremmo preso una direzione sbagliata, proprio come sta accadendo a Savona. Anche se... mi sento di poterlo giustificare il dottor Falck: in fin dei conti per lui sarebbe impossibile pensare alle morti di Amatucci e Tropea come omicidi volontari. A Savona non accade mai nulla, è una provincia tranquilla e a un certo punto si scatena l’inferno. Una cosa, però, non capisco...»

 

«Quale?» domandarono contemporaneamente Centofanti e De Scalzi.

 

«Secondo voi, la morte di Giannoni non è diversa dalle altre? Sembra firmata. C’era una croce fatta col rossetto, vero, De Scalzi?»

 

«Esatto. Guardi qua: ho scattato alcune foto col cellulare.»

 

«Geniale. Vediamo... Quindi tutto farebbe pensare a una donna.»

 

«Be’... Oddio... potrebbe essere stato architettato apposta per sviare...» obiettò De Scalzi.

 

«Sì, o forse proprio per attirare nella rete anche la Procura di Savona», precisò Toccalossi.

 

Centofanti lo guardò. «Forse, a voi è sfuggito, ma, allo scadere dei quindici giorni, ho chiesto la proroga delle intercettazioni, tra cui anche quella di Giannoni, ed ecco che subito dopo Giannoni viene trovato morto, strafatto e seminudo. Evento per il quale deve indagare la Procura di Savona. Una bella coincidenza.»

 

«A me le coincidenze non sono mai piaciute», s’inserì De Scalzi.

 

Si avvicinò il cameriere a prendere le ordinazioni: tagliolini al pesto con fagiolini e patate per tutti.

 

Non appena il cameriere si fu allontanato, Centofanti riprese: «Ma lei, procuratore, pensa che a divulgare sia qualcuno esterno?»

 

«Mah... abbiamo fatto la bonifica dell’ufficio. Gli uomini della DDA sanno che stiamo indagando sul riciclaggio e sulle infiltrazioni mafiose negli appalti. Che la nostra indagine si sovrapponga a quella della Procura di Savona lo sappiamo soltanto noi. Mi raccomando uno di voi due mi deve riferire l’esito dell’autopsia e degli esami tossicologici disposti sul cadavere dell’assessore.»

 

Centofanti sorrise: «Erminia sarebbe felice di dirglielo di persona».

 

Toccalossi, che stava già aggredendo il piatto appena arrivato, rimase con la forchetta a mezz’aria. «Maresciallo, mangi che è meglio.»

 

«Buon appetito.»

 

Capitolo 44

 

Martedì 22 novembre

 

Dall’Informazione, pagina delle cronache della Liguria:

 

Era il politico ligure emergente per antonomasia. Rampante, preparato, presente, anzi onnipresente. La carriera dell’assessore regionale Duilio Giannoni, però, ha subito una battuta d’arresto. Definitiva. Giannoni è stato trovato morto l’altra notte nel piazzale sterrato della Valle di Vado Ligure nell’abitacolo della sua auto, sui sedili anteriori reclinati. L’ex imprenditore abitava a Celle Ligure, in una villa affacciata sul mare, e sembrava aver abbandonato da tempo il mondo del business. O forse no. È emerso, infatti, che questi avesse rapporti, quantomeno indiretti, con la società costruttrice Gemi, già coinvolta in alcune operazioni immobiliari piuttosto chiacchierate degli ultimi anni. Si deve a quest’ultima società la cementificazione di appetibili zone rivierasche...

 

La Gemi, società che faceva capo al costruttore Carmelo Tropea, morto in un incidente di caccia...

 

Due dei loro amministratori sono morti per presunta overdose...

 

C’è una sostanziale differenza tra inchiesta giornalistica e indagine giudiziaria: i risultati della prima possono essere immediatamente divulgati, previa verifica, i secondi invece vanno tenuti nel più stretto riserbo sino alla conclusione dell’istruttoria.

 

Leggendo quell’articolo, Toccalossi sbottò: «Ci mancava anche Bussi! Così a indagare siamo in tre: lui, noi e la Procura di Savona».

 

Centofanti stava guardando la pioggia cadere al di là dei vetri.

 

«Ci mancava anche Bussi», ripeté Toccalossi, avvicinandosi a lui per risvegliarne l’attenzione.

 

Ma Centofanti restò assorto a contemplare le gocce diluirsi dentro le pozzanghere.

 

«Bussi...» incalzò Toccalossi per la terza volta.

 

Solo allora Centofanti si destò: «Diceva, procuratore?»

 

«Dicevo... Niente. Che ha?»

 

«Come?»

 

«Problemi?»

 

«No. Cioè... Insomma.»

 

Era una di quelle mattine di fine autunno che tutti, almeno una volta nella vita, hanno provato. Quelle mattine in cui uno vorrebbe non essersi mai alzato dal letto, restare sotto le coperte, avere ancora dieci anni, o rinascere per fare la bagascia.

 

Centofanti stava pensando che aveva dedicato trent’anni della sua vita al nulla. Il nulla inteso in senso cosmico. A cosa era servito il suo lavoro? Stava enumerando tra sé: una cinquantina di persone arrestate, qualche centinaio denunciate, molta, ma molta attività burocratica, e un po’ di fumo negli occhi qua e là: servizi di rappresentanza, servizio d’ordine pubblico a qualche manifestazione, cose così. Mai gli era capitato di arrestare qualche potente o semplicemente di fargli passare qualche brutto momento. In tutta la sua carriera di rado si era imbattuto in qualcosa di grosso; e come lui quasi tutti i suoi colleghi. C’erano uffici appositi per questo, uffici come quello in cui era capitato a fine corsa: la Direzione Distrettuale Antimafia.

 

Ma nel caso in cui non vi fosse di mezzo la mafia?, pensava. C’erano intere parti della società, interi settori dell’economia o della vita pubblica che sfuggivano a qualunque controllo di legalità. Oh, sì, spesso lui e i suoi colleghi, finanzieri e poliziotti, andavano a controllare qualche commerciante, qualche singolo imprenditore. Ma i grossi? I pesci grossi? Chi mai era andato a controllare la sede locale di una multinazionale? Chi mai aveva effettuato un accertamento a qualche grossa industria in qualche ufficio di vertice? Nessuno.

 

C’è la convinzione, sbagliata, che il povero sia pericoloso e il ricco no. La povertà spaventa. La ricchezza al contrario incute serenità. È rassicurante. Così, nell’arco della sua attività lavorativa, spesso si era trovato costretto a controllare, a fare le pulci e a denunciare poveri cristi immigrati che vendevano accendini sulla spiaggia. Ma l’industria che produceva accendini, qualcuno l’aveva mai controllata? E allo stesso modo aveva perquisito, arrestato e fotosegnalato cittadini stranieri sorpresi a rubare al supermercato merce del valore di due o tre euro; ma non aveva notizia di arresti effettuati nei confronti di chi applicava commissioni altissime sulle operazioni bancarie, per fare un esempio.

 

Bah! Stava cadendo nel qualunquismo. Gli parve di essere uno di quei pensionati che sfogliano il giornale al bar e iniziano a imprecare contro tutto e tutti. Eppure, quel malessere stava diventando una faccenda seria. Non era la prima volta che gli capitava. Sentiva un nodo stringersi alla gola, il respiro diventare affannoso, il cuore sballottare di ripetuti colpi a vuoto...

 

«È bello lavorare con lei a questo nuovo incarico», disse all’improvviso.

 

Toccalossi lo squadrò. Aveva imparato a leggere l’ironia nascosta nelle parole del maresciallo. «Almeno qui, ogni tanto, i piedi a qualcuno molto in alto li si calpesta davvero.»

 

«Eh già!»

 

Toccalossi sapeva tutto di Centofanti. Sapeva che era nato e cresciuto in campagna, che era rimasto un tipo schietto e genuino.

 

Come per telepatia Centofanti guardò la sua immagine riflessa nel vetro e si rivide ragazzo. «E se fosse il Grigio ad averli fatti fuori?» domandò.

 

«In effetti, dopo che ho dato disposizioni di sequestrare quelle delibere nei Comuni della Riviera... Pedro è stato chiaro quando le ha raccontato come funziona il giro: i proventi della droga investiti in operazioni immobiliari, Tropea che costruisce e Amatucci che piazza gli immobili. Se il Grigio avesse voluto tagliare ogni possibile legame riconducibile a lui qui in Liguria, a parte la droga, dico, potrebbe aver ingaggiato qualcuno per fare il lavoro al posto suo...»

 

«E se invece questo fantomatico Grigio di cui mi ha parlato Pedro fosse proprio Giannoni?»

 

«Allora, avrebbero fatto filotto. Pedro le ha fatto tre nomi, e tre persone sono morte. Eppure...»

 

«Eppure?»

 

«Questa morte è assai dissimile dalle due precedenti. Quelle sono state mascherate come incidenti, ma questa... Quella croce col rossetto è più che una firma, diamine! E poi, che senso ha che sia stato ucciso anche lui? Non era questo Grigio a tirare le fila? Se qualcuno lo ha ucciso, allora, scusi, maresciallo, ma la ricostruzione di Pedro non torna. No, secondo me il Grigio è ancora vivo ed è lui che dobbiamo trovare per capire di più di questa storia.»

 

«Ma chi è questo Grigio? Neanche Pedro lo sapeva. Eppure avrà dovuto mettersi in contatto in qualche modo con Tropea o Amatucci.»

 

«Se ne occupi lei, maresciallo. Faccia tutto ciò che è in suo potere, analizzi i tabulati telefonici, assuma informazioni.»

 

«Sarà fatto.»

 

«Ha letto l’articolo del suo amico Bussi, maresciallo?»

 

«Articolo? No.»

 

«È sulla pagina regionale.»

 

«Ma dài! Si è messo di nuovo a scrivere di giudiziaria?»

 

«Probabilmente il caso gli interessa...»

 

Centofanti pensò che, forse, il suo amico era già riuscito a collegare quelle morti sospette con il resto. «Noi abbiamo avuto la soffiata di Pedro, ma lui...» pensava a voce alta.

 

«Non lo so. Speriamo solo che con i suoi articoli non intralci le nostre indagini», sospirò Toccalossi.

 

In quello stesso momento due robivecchi a bordo di un’Ape Piaggio scassata transitavano sull’Aurelia nei pressi dei Piani d’Invrea. La signora Amatucci aveva da poco ritirato dal deposito giudiziario quello che restava della bici di suo marito. Non c’era più alcuna ragione di tenere sotto sequestro quel ferrovecchio, perciò un addetto del Tribunale aveva telefonato alla vedova invitandola a ritirare il reperto: un telaio accartocciato con le ruote schiacciate.

 

Lei, un po’ indignata, aveva protestato: e che me ne faccio? Ma l’aveva caricato sull’auto con l’aiuto di un commesso. Non appena varcato il cancello d’ingresso della sua villa, sentì l’altoparlante dell’Ape Piaggio gracchiare: «Sgombero cantine e appartamenti. Ritiro mobili, ferrivecchi».

 

Quell’ultima parola la colpì: ferrivecchi. Fece cenno all’Ape di fermarsi.

 

I due scesero dal motocarro e prelevarono il telaio della bicicletta dal bagagliaio dell’auto della donna.

 

«Devo qualcosa?» chiese lei.

 

«Nulla, signora. Arrivederci.»

 

Quando furono di nuovo a bordo, i due si guardarono con complicità: trucchi da Carabinieri!

 

«È stato più semplice del previsto. Il casino adesso è tornare a casa con questo trabiccolo», disse Desio a Torrente.

 

«Vuoi che guido io?»

 

«Guidi.»

 

«Certo che guido.»

 

«Non intendevo questo. Si dice: “Vuoi che guidi io”, non come hai detto tu.»

 

«Come ho detto?»

 

«Hai detto “guido”.»

 

«Appunto, se vuoi guido io. Come dovevo dire?»

 

«Dovevi dire... “Vuoi che guidi”.»

 

«Eh. E io cos’ho detto? Se vuoi che guidi io. Però non mi sembra suoni bene.»

 

«Va be’, lasciamo perdere...»

 

Andarono avanti così per tutto il viaggio di ritorno, procedendo ai trenta all’ora e formando sull’Aurelia una coda lunghissima, mentre loro si prendevano per il culo a vicenda, come due ragazzini che stiano facendo il lavoro più bello del mondo.

 

Il dottor Falck non aveva ancora chiesto al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del fascicolo sulla morte di Amatucci, anche se si era determinato a farlo. Si trattava di un banalissimo incidente stradale, uno dei tanti che capitano ogni anno. Sul telaio della bici c’erano tracce di vernice blu. Ma quante macchine blu ci sono in giro?

 

Quanto al fascicolo sulla morte di Tropea, invece, le indagini erano ancora in alto mare. Fare chiarezza non era facile. Dai primi accertamenti era emerso che nessuno della squadra di caccia era vicino alla vittima. Tropea era praticamente solo in quel punto più in alto degli altri, dove si metteva sempre, da anni, allo scopo di far scendere i cinghiali più a valle. Non c’erano testimoni, non c’era alcun elemento di prova a carico di nessuno. Tropea era appostato in cima alla collina, isolato. Gli altri, tutti gli altri, erano dislocati a gruppetti lungo il pendio. Il nucleo più vicino si trovava a circa quattrocento metri da lui.

 

Chi poteva essere stato?

 

Capitolo 45

 

Bussi si alzò, andò in bagno e fece una rapida doccia. Nudo, di fronte allo specchio, si contemplò. Era alto un metro e ottanta, spalle larghe da ex pallanuotista, fisico robusto con tracce della muscolatura di un tempo, solo leggermente appesantito rispetto agli anni eroici da un accenno di pancetta e di maniglie sui fianchi. Però si difendeva ancora bene: moro, spruzzato di grigio sulle tempie, tenue abbronzatura, regalo delle domeniche trascorse in barca.

 

Si fece la barba. Era un giorno sì, quello. Rasandosi si promise di tenersi in esercizio. Magari avrebbe telefonato a Centofanti e organizzato una partita a pallanuoto. Perché no? Chissà perché nel radersi pensava così intensamente a se stesso. Si asciugò i capelli godendosi gli ultimi attimi dentro l’accappatoio di spugna. Poi si avvicinò all’armadio per vestirsi.

 

Non era mai leccato, mai tirato. Il suo era uno stile genovese rivierasco, come diceva lui: tanto blu, celeste, denim. Scelse un blazer, un pezzo classico ma dal taglio sportivo, una camicia a bastoncini in tinta e jeans. Il suo unico vezzo erano le scarpe: quasi sempre da vela o mocassini Church’s. Ne aveva diverse paia uguali, dello stesso modello. Non aveva mai voluto cambiare ciò che gli piaceva. Indossò il caban bretone e uscì a fare colazione.

 

Si sentiva bene. Scherzò con uno dei titolari della latteria. Parlarono di surf e insieme passarono in rassegna i migliori spot della Liguria, indecisi se preferire Bogliasco o Levanto. Condivisero, però, l’assegnazione a Recco della palma della località più comoda dove prendere le onde: si arriva all’arenile direttamente in macchina. E poi c’era la focaccia col formaggio...

 

Il suo buon umore si consolidò col trascorrere delle ore. Era abbastanza soddisfatto, perché il ritratto di Giannoni aveva fatto discutere e lo avevano ripreso le agenzie di stampa e i Tg locali. Non era andato tanto per il sottile, ricordando il suo cursus politico, le inchieste giudiziarie che lo avevano sfiorato, ma soprattutto soffermandosi sulla sua vita privata.

 

Era stata provvidenziale in effetti quella chiacchierata con la moglie del fu assessore, che non si era resa conto di parlare con un giornalista. È vero che lui non si era presentato come tale... Sì, vabbe’, la deontologia, si disse, ma non siamo mica in un film americano. O magari Ilaria Tosi aveva anche pensato che potesse essere un giornalista, ma si sentiva ferita, tradita dall’uomo con cui aveva diviso gli ultimi quindici anni della sua vita. Era una questione di rispetto, e lei non ne aveva più: era venuto il momento della resa dei conti.

 

E così Ilaria Tosi aveva raccontato a Bussi che suo marito si accompagnava con una escort, una donna che lei stessa aveva incontrato in occasione di alcune cene organizzate da esponenti del partito di Duilio. L’aveva vista scambiarsi occhiate d’intesa con il senatore Grimaldi, ad esempio, e con quel costruttore che non le era mai piaciuto, dai tratti e modi rozzi che nessun abito su misura, nessuna camicia cifrata né le scarpe tirate a lucido riuscivano a celare.

 

E Bussi non si era tirato indietro. Aveva sparato la storia della escort nel catenaccio del titolo, il nome del senatore Grimaldi nell’occhiello e nel pezzo aveva raccontato di quelle cene – cristallizzate nel tempo, perché erano quasi sempre coincise con un appuntamento elettorale vinto dal partito di Giannoni – in cui la politica s’accompagnava al sesso a pagamento. D’alto bordo, certo, ma sempre puttane erano. Non si era dimenticato, però, delle operazioni immobiliari, e anche su questo fronte Ilaria Tosi era stata una carta importante: gli aveva raccontato che era stato Giannoni a volerla amministratrice della Anx, che alcune lottizzazioni erano state molto lucrose per loro, tanto che si erano comprati la villa di Celle, e che il marito sentiva regolarmente Tropea, il costruttore, l’uomo a cui faceva capo quel castello di scatole cinesi: Anx, Sobrepal, Maonchi, Gemi.

 

La ciliegina sulla torta erano state le morti di Bensi e Rosso e quella di Tropea, che si era giocato come un colpo di teatro alla fine del pezzo: morti accidentali, all’apparenza...

 

Tra telefonate, caffè ed edicola, si fece mezzogiorno, e Bussi quella mattina fece un qualcosa che non faceva da tempo: pranzò a casa. Entrò dal fornaio per comprare la focaccia, semplice. Gli piaceva ben cotta, quasi croccante, con tanto olio nelle fossette. Salutate le due commesse del panificio fece pochi passi e varcò l’ingresso della rosticceria. Quasi con soggezione, perché si sentiva un po’ un pesce fuor d’acqua, tanto era abituato a non fare mai la spesa, ma anche perché quel negozio sembrava una gioielleria, tanto era caro. In compenso offriva prodotti e piatti di grande qualità.

 

Sbirciò sul banco e dietro le vetrinette, indeciso tra polpo con patate e lasagne al pesto. Finché dal retro con cucina non uscì il proprietario: reggeva una grande teglia rettangolare colma di cappon magro, la sua passione, il trionfo della gastronomia ligure. È una sorta di polpettone di pesce e verdure, legato con salsa verde, spesso anche gelatina, adagiato su gallette da marinaio bagnate in acqua e aceto, guarnito con scampi e gamberi e inumidito d’olio. Una prelibatezza la cui ricetta si perde nel tempo: secondo alcuni storici della cucina ligure risalirebbe addirittura al Cinquecento.

 

Bussi ne era goloso, così se ne fece dare una porzione abbondante. Aggiunse una crème caramel, artigianale anche quella: cottura al forno, consistenza quasi asciutta, se non fosse stato per il caramello.

 

Risalì in casa, con il sacchetto della spesa e il fascio di giornali sotto il braccio. Andò in cucina, posò i quotidiani su una sedia e mise una pentola d’acqua a bollire. Avrebbe intiepidito il cappon magro a bagnomaria. Aprì una bottiglia d’acqua minerale e apparecchiò per sé con tovaglietta all’americana, bicchiere largo e pesante, posate d’argento – ne teneva alcune a portata di mano, mischiate nel cassetto fra le altre meno preziose. Quello era un giorno speciale.

 

Chiamò sua moglie. Gli mancava.

 

Capitolo 46

 

Il grande yacht superò le coste del Ponente ligure diretto verso la Corsica. Pochi uomini a bordo, lo stretto necessario. Il Grigio non si fidava di nessuno, tanto meno dei marinai. E neppure dei telefoni cellulari, che oltretutto lì, in mezzo al mare, non prendevano. Figuriamoci della radio.

 

Ma del mare sì, del mare si fidava. E quel giorno il mare era buono. L’aria gelida di novembre, lì in plancia, nemmeno si sentiva. Il riscaldamento era acceso, la televisione anche. Il telegiornale sul canale satellitare aveva appena trasmesso la notizia della morte di Giannoni. L’uomo puntò il telecomando e spense.

 

Guardò fuori. Il mare era leggermente agitato. Per qualche secondo la sua immagine fu riflessa dal vetro dell’oblò: il volto asciutto, sempre abbronzato, i capelli corti con qualche striatura di bianco, l’aria vagamente da intellettuale, da professore universitario giovanile e distinto che gli conferivano gli occhialini rotondi. Non rinunciava mai all’eleganza, ai capi firmati. Sembrava un broker assicurativo o di borsa, rifletté.

 

E in effetti era qualcosa di molto simile a un broker, solo che il suo campo era un altro: ma anche per lui conoscere il mercato era di fondamentale importanza, una priorità. Il mercato su cui piazzare lo stupefacente che tramite il cartello viaggiava dal Sud America all’Europa. La sua zona era l’Italia, e lui doveva assicurarsi che tutto filasse liscio, che non vi fossero intoppi, che i suoi clienti pagassero e nessuno sgarrasse e che il meccanismo con cui poi lavava i proventi della vendita della droga funzionasse senza alcuna sbavatura. I suoi clienti, gli importatori della cocaina, erano tipi con cui conveniva non fare errori, gente che era meglio non scontentare.

 

Poi, era dal riciclaggio che ricavava un’altra fetta per sé, oltre alla percentuale sui carichi piazzati. E ultimamente, in Liguria, qualche impiccio c’era stato, anzi molto di più che qualche impiccio. La partita di coca sbarcata con la Consuelo aveva fruttato parecchie decine di milioni di euro, ma ora il gioco stava diventando pericoloso.

 

La Procura Antimafia stava indagando: aveva disposto una perquisizione della nave, benché infruttuosa. Infatti, era stato avvertito in tempo... Inoltre, quel magistrato, come si chiamava?, Toccalossi, aveva disposto il sequestro delle delibere relative agli appalti e alle lottizzazioni in una ventina di Comuni. Forse non c’era ancora arrivato a ipotizzare un collegamento tra il traffico di droga e quelle operazioni immobiliari, ma poteva arrivarci. Soprattutto, se qualcuno si metteva a cantare. Non li aveva mai sopportati lui i pentiti, i doppiogiochisti, i deboli. Oppure qualcuno poteva lasciarsi scappare qualcosa al telefono.

 

Meglio mettere tutto a tacere: sacrificare una pedina per salvare il re, come nel gioco degli scacchi.

 

Ora doveva solo attendere che si calmassero le acque. Un mese, due, sei, e tutto sarebbe stato dimenticato. Tutto. Nel frattempo lui avrebbe provveduto a trovare nuovi collaboratori. Uomini come Tropea e i suoi soci d’affari, Amatucci e Giannoni, se ne trovano a bizzeffe, non sarebbe stato impossibile sostituirli. Difficile sì, ma non impossibile. Con i soldi si comprano parecchie persone, di qualunque fede politica.

 

Se poi le cose fossero andate come immaginava, e come in effetti stavano andando...

 

Gettò un’ultima occhiata al quotidiano. Quell’articolo sull’Informazione era proprio ciò in cui aveva sperato, proprio quello che ci voleva!

 

Diede un piccolo colpetto al timone, giusto per raddrizzare la rotta. Basta poco, a volte, un piccolo aggiustamento... Con Giannoni non aveva potuto agire come con gli altri due.

 

Le morti di Amatucci e Tropea dovevano risultare incidenti, e come tali essere dimenticate; scartoffie nelle pile di scartoffie che si accumulavano in quei grigi palazzi di Giustizia. E così anche quelle di quei due cazzoni di tirapiedi di Tropea, i prestanome: il rischio overdose è sempre in agguato quando si tira cocaina a grandi livelli...

 

Ma con Giannoni aveva dovuto muoversi diversamente. Toccalossi non mollava? Nessun problema. La morte dell’assessore, a differenza delle altre, doveva saltare agli occhi, deflagrare, non passare inosservata, ma far parlare. Così gli inquirenti avrebbero iniziato a scavare sulla vittima, sulla sua vita, sulle sue frequentazioni, su quei party a base di sesso e droga. Si sa come vanno a finire certe cose: quando muore una persona del genere, e in quel modo, poi... una escort, un politico di nome... il finale è già scritto. Fuoco alle polveri! E le fiamme avrebbero accecato chiunque. Un bello spettacolo pirotecnico, capace di lasciare tutti a bocca aperta.

 

Giannoni era soltanto una pedina, come tutti gli altri: Tropea, Amatucci, Bensi, Rosso. Scava scava, sarebbero arrivati a comprendere che quel gioco di appalti pilotati faceva capo a Grimaldi, al senatore Grimaldi, e l’avrebbero creduto il capo della cricca. Stante il suo spessore, non poteva essere che lui a tirare le fila delle speculazioni immobiliari in Riviera. Avrebbero scoperto che c’era una rete di amministratori pubblici facenti parte dello stesso movimento politico, quello di Grimaldi, che garantivano il via libera alle pratiche, alle autorizzazioni, ai cambiamenti di destinazione d’uso. Avrebbero pensato a Tropea come a un costruttore amico, chiamato a far parte del giro magari dallo stesso Grimaldi, oppure da Giannoni, che fungeva da braccio destro del senatore e teneva sotto gli altri compagni di partito. Tropea che gestiva il mercato attraverso il suo socio, Amatucci, che usava prestanomi e distribuiva tangenti. E così il cerchio si chiudeva.

 

Il tutto, condito con le giuste parole, sarebbe stato dato poi in pasto all’opinione pubblica, agli spettatori, ai lettori affamati di notizie, come uno spettacolo di varietà, con la bellona, il potente, l’intrigo... come in un film di cassetta.

 

La verità era diversa: era lui che gestiva il mercato. Lui aveva creato la cricca, anche se molti dei suoi componenti lo ignoravano. Lui attraverso i suoi clienti aveva contattato Tropea e lo aveva fatto diventare un grande costruttore, un uomo molto ma molto liquido. Il resto era venuto da sé, grazie anche all’intraprendenza di René, che era riuscito a garantirsi collaboratori e copertura politica. Certo, quando si ha la disponibilità finanziaria è tutto più facile, ma diamo a Cesare quel che è di Cesare, pensò. Riposi in pace, concluse e sogghignò complimentandosi con se stesso. La sua abilità non consisteva nell’aver fatto ammazzare Tropea e Amatucci. Il vero colpo di genio era stato quello di levare di mezzo Giannoni in quella maniera così plateale, generando lo scandalo per far scatenare i media.

 

Il Grigio distolse lo sguardo dai suoi pensieri e lo spostò sulla linea dell’orizzonte. La nave stava comparendo, ne riconobbe la forma inconfondibile: una portacontainer, una delle tante. Ogni giorno migliaia di container si spostavano da uno Stato all’altro, da un continente all’altro. Solo una soffiata poteva far scoprire il carico, altrimenti chi si mette lì a controllare? I finanzieri? A loro basta un doppio stipendio. I doganieri? Altrettanto. E una volta a terra il gioco è fatto. Ci sono i galoppini, ai quali bastano una Porsche, un Rolex, qualche mignotta e un po’ di roba in omaggio, e tutto il resto è guadagno.

 

Attraverso le lenti del binocolo il mondo era racchiuso in due cerchi azzurri, in mezzo una linea a separare il mare dal cielo, confine immaginario tra il male e il bene. Ma quale dei due fosse il bene o il male il Grigio non sapeva dirlo.

 

Capitolo 47

 

Centofanti aveva esaurito quasi tutte le tinte disponibili di evidenziatori per collegare le varie chiamate emergenti dai tabulati: in verde quelle tra le vittime, in rosso quelle tra le vittime e i loro famigliari, in rosa quelle tra le vittime e alcuni numeri ricorrenti in tutti e tre i tabulati (spesso era il numero della segretaria di una loro società o del bar del circolo del tennis), in giallo quello tra le vittime e coloro che le avevano chiamate al telefono nello stesso giorno della loro morte, in arancione quello tra le vittime e un numero che stranamente ricorreva con assidua frequenza. Un lavoro delicato e complesso che solo una persona esperta e appassionata poteva compiere in quel breve lasso di tempo. E adesso, attorno alle cinque e trenta del pomeriggio del martedì, poteva ritenersi soddisfatto. Scrisse su un foglio il nome di Barbara Bellinceri.

 

Avevano un vantaggio rispetto alla Procura di Savona e dovevano sfruttarlo. Chiamò a uno a uno gli uomini del maggiore Maugeri. Aveva ottenuto l’orario dei loro turni di servizio e aveva visto che per la mattina dopo sarebbero stati tutti liberi. Meglio approfittarne.

 

Sebbene ormai l’ufficio di Genova fosse pronto, agibile, rinfrescato e soprattutto bonificato, avevano deciso di continuare a utilizzare il monolocale di Centofanti come base d’appoggio.

 

Il procuratore si era steso un attimo sul divano, mentre il maresciallo lo informava delle sue intenzioni. Aveva annuito con occhio ormai assente, aveva mormorato qualcosa ed era sprofondato nel sonno, per un breve, indispensabile, riposo. Riposo che dalle due del pomeriggio si era protratto in effetti fino a sera.

 

Quando squillò il campanello d’ingresso, Toccalossi non si alzò. Probabilmente non sentì nemmeno, e continuò a russare pacifico come un bambino.

 

Fu Centofanti a muoversi dal tavolo per recarsi ad aprire. Sentì un brivido di freddo e allungò una mano sul calorifero per accertarsi che fosse caldo. Merda! Tiepido. Una sciarpa sarebbe stata l’ideale per la sua cervicale che cominciava a dolere, dopo tutte quelle ore passate a leggere i tabulati. «Avanti», disse meccanicamente nel momento in cui aprì la porta senza nemmeno guardare.

 

Bussi entrò con il suo faccione. «Uhei, Cento. Ancora al lavoro?»

 

«Tu, piuttosto, che ci fai qui? Entra.»

 

Toccalossi continuava a dormire occultato dalle pile di fascicoli.

 

«Mi guardo in giro», rispose Bussi superando la soglia.

 

C’è una cosa che i giornalisti di mestiere sanno fare molto bene: catturare dettagli a metri di distanza, fotografandoli con gli occhi e fermandoli come in un’istantanea.

 

Il monolocale in cui viveva Centofanti non era poi tanto piccolo: quaranta metri quadrati, divisi in due da una libreria a parete che separava la zona giorno da quella notte; un piccolo bagno e un angolo cottura. Il divano, addossato alla parete, era nella zona notte e fungeva, allungato, da comodo letto. Pertanto Bussi, che non aveva ancora oltrepassato la linea di demarcazione tra il soggiorno e la zona letto, non aveva visto Toccalossi. Ma la situazione era altrettanto grave: Bussi stava fotografando nelle sue retine quel variopinto mosaico di strisce eseguite con l’evidenziatore sui tabulati sparsi ovunque sul tavolo in soggiorno, e soprattutto quel nome scritto a biro su un foglio, Barbara Bellin... Centofanti fece appena in tempo a riporre in fretta i fogli sotto una cartellina.

 

«Che dici se una di queste domeniche ci sgranchiamo un po’ i muscoli in piscina, come ai vecchi tempi? Ci sono i miei amici master, della Waterpolo Golfo Paradiso, che si allenano la mattina a Camogli. Potresti venire. Entrano in acqua alle 11, nemmeno tanto tardi. E poi ti fermi da me», buttò là Bussi.

 

«Va bene, combiniamo», disse Centofanti.

 

Bussi roteò gli occhi come un camaleonte: il quotidiano era ancora lì, sulla poltrona, aperto proprio su quella pagina. Centofanti aveva letto l’articolo, quindi, se non ne parlava, era perché Bussi aveva colto nel segno. «Pensa quando sarai in pensione, Cento! Come le passerai le giornate?» lo provocò.

 

Centofanti si ostinava a non parlare, né dell’articolo né di altro. Temeva di fare qualche mossa sbagliata.

 

«Stasera che fai? Ce la beviamo una birra da qualche parte?» continuò Bussi.

 

«Stasera?»

 

Bussi notò l’indugio nella risposta. Voleva dire che aveva altro da fare, suo malgrado. Ma che cosa?

 

Fu in quel momento che Toccalossi si destò. E, come sempre accadeva, il suo pensiero riprese a funzionare proprio dal punto in cui si era interrotto, come se la pausa non avesse cambiato nulla: «Maresciallo, mi diceva di quella Barbara Bellinceri...»

 

Centofanti lo stoppò subito: «È venuto a trovarmi, anzi a trovarci, Bussi».

 

Toccalossi si sistemò i capelli arruffati, si sollevò dal divano, fece un grosso respiro e attraversò il separè. «Buongiorno, Bussi.»

 

«Buonasera, procuratore.»

 

Buonasera? Ma che ora era? Per quanto tempo aveva dormito? Guardò fuori dalla finestra: era buio. Quel buio malinconico del tardo pomeriggio, poco prima delle sei.

 

«Una brutta storia, eh», esordì Bussi.

 

Toccalossi non si fece prendere in contropiede. «Quale?»

 

«Quella di quegli appalti...»

 

I faldoni con tutte le delibere sequestrati ai Comuni erano ovunque, sulle scrivanie, per terra, sulle sedie, impilati l’uno sull’altro. Nasconderlo era impossibile. E Bussi continuava a imprimere nelle retine nomi, date, località, estratti dai frontespizi di quel voluminoso carteggio.

 

«Andiamo a berci un caffè», disse Centofanti.

 

Toccalossi lo seguì a ruota. «Sì, mi ci vorrà proprio. Così mi sveglio.»

 

Bussi sorrise appena, pensando che lo stavano buttando fuori di casa con quella scusa. Sul pianerottolo Toccalossi fece un profondo respiro poi, guardandolo con occhi penetranti e col suo modo spiazzante e cordiale al contempo, se ne uscì con: «Ma lei che idea si è fatto, Bussi?»

 

«A proposito di che?»

 

«Di tutto.»

 

Si avviarono giù per le scale.

 

«Be’, non è passato inosservato che lei ha disposto il sequestro di quintali di pratiche in molti Comuni della Riviera. I corrispondenti ci sono andati a nozze, era sulle prime pagine di tutti i quotidiani locali.»

 

Toccalossi lo scrutò con maggiore intensità. Doveva sapere se Bussi aveva ricevuto qualche dritta da Centofanti.

 

«E che Giannoni fosse una persona discussa e discutibile, insomma, è stato come scoprire l’acqua calda.»

 

Usciti dal portone, si diressero verso il bar vicino.

 

Toccalossi affondò ancora di più lo sguardo.

 

I due, Bussi e Centofanti, non si guardavano, non si facevano cenni, non mostravano alcun disagio.

 

«E poi ci sono quelle tre morti accidentali: Bensi e Rosso erano teste di legno di due società legate alla galassia di Tropea, guarda caso anche lui morto per circostanze accidentali, all’apparenza. E se fossero stati uccisi? Sì, uccisi. Tropea era molto chiacchierato, si diceva avesse legami pericolosi. Se ci mettiamo anche Giannoni, che aveva rapporti con lui, i conti potrebbero anche tornare. Avranno fatto qualcosa di sbagliato, magari qualche appalto che non è andato come speravano, oppure che è andato come doveva e loro si sono tenuti i soldi e sono stati fatti fuori dai soci in affari.» Bussi si fermò in attesa di una reazione. Ma Toccalossi continuava a fissarlo. Il giornalista si sentiva come se gli stessero ravanando nell’anima. Entrarono nel bar e ordinarono tre caffè.

 

«Poi?» insisté il magistrato.

 

«Per ora null’altro. Vedremo di scavare ancora.»

 

Toccalossi continuava a scrutarlo: nessuna titubanza, nessun movimento delle palpebre, nessuna gestualità capace di tradire nervosismo o subdola reticenza. Perfetto! Bussi aveva superato la prova: non sapeva nulla della morte di Amatucci, dunque non poteva collegare quest’ultima alle altre. E, soprattutto, Centofanti non gli aveva spifferato nulla della relazione tra la cocaina e le speculazioni immobiliari. Esame superato. A pieni voti.

 

«Ha scritto proprio un bell’articolo», gli disse.

 

«Grazie.»

 

«Quanto zucchero?»

 

Capitolo 48

 

Quello era il loro rifugio preferito. Si trattava di una pizzeria storica nella zona del centro, un posto incantevole dove il tempo sembrava essersi fermato. Dal giorno dell’apertura, avvenuta quasi quarant’anni prima, il proprietario non aveva cambiato nulla, né il menù, né l’arredamento. Anche le bottiglie sugli scaffali sembravano disposte nell’identica posizione, come se nessuno le avesse mai toccate.

 

Toccalossi aveva preferito restare a casa a studiare le carte, mentre Bussi e Centofanti erano usciti per mangiare un boccone.

 

Presero posto a un tavolo d’angolo. Stavano in silenzio, dopo aver ordinato una pizza e una birra a testa. D’altronde, di che cosa avrebbero potuto parlare? Quando due si conoscono bene come si conoscevano loro non c’è bisogno di parole. Entrambi avevano voglia soltanto di compagnia, una buona birra e un po’ di quella musica soffusa che usciva dagli altoparlanti nascosti nel controsoffitto. Era una di quelle volte in cui la sola cosa importante era non rimanere soli.

 

«Che vita del cazzo», disse Bussi dopo un sorso di birra.

 

Centofanti condivise con un cenno del capo.

 

Il cameriere tacque, fingendo di non accorgersi nemmeno di quei due soli clienti nel suo locale.

 

Bevettero diverse birre. Le lancette dell’orologio posto sopra il bancone si erano già incontrate due volte e Bussi aveva gli occhi lucidi e gonfi dal sonno.

 

«Un tempo credevo che fare il giornalista fosse... come nei film. Poi mi sono accorto che è un lavoro come un altro, con la sua routine, il suo tran tran. Eppure mi piace, me lo sento cucito addosso», disse.

 

Centofanti sorrise.

 

Bussi sorseggiò un altro po’ di birra, poi chiese: «E tu, perché fai il carabiniere?»

 

Centofanti sorrise di nuovo. «Ci sono molte ragioni, e alcune già le conosci. Dapprima è stata una necessità, poi mi ci sono appassionato, alla fine mi sono accorto che investigatore lo sono diventato dentro. Sai, capisci di essere un carabiniere, quando in un supermercato affollato, durante le feste, anziché guardare la merce sugli scaffali ti accorgi che stai guardando le persone, e cerchi di scoprire qualche gesto che non ti convince, qualche faccia sospetta, qualche strano movimento. Chi sta con te non se ne accorge neanche e ti chiede che cosa ne pensi di questa o quella cosa, e tu dici che va bene senza neanche averla vista, perché con lo sguardo stai seguendo qualcuno. Ecco, carabiniere si diventa, a poco a poco. È come un male che ti entra nelle ossa e, quando te ne accorgi, ne sei già impestato fino al midollo. Poi diventa un’abitudine non dormire la notte, essere svegliato all’improvviso, passare le giornate in ufficio, parlare di lavoro al lavoro e fuori del lavoro. E, soprattutto, ti accorgi che le uniche persone che frequenti sono i colleghi, e ogni volta che ti capita di vedere qualcun altro, dopo pochi minuti capisci che non ci hai nulla da spartire perché non segue i tuoi discorsi. Tu sei l’unica persona, al di fuori del mio lavoro, dalla quale riesco a farmi capire.»

 

A Bussi faceva piacere sentirlo parlare.

 

Il proprietario dietro il bancone si teneva occupato in piccole faccende: puliva la macchina del caffè, strofinava con un panno il piano d’appoggio.

 

A un certo momento Centofanti sollevò il bicchiere e attese che Bussi facesse altrettanto. «All’amicizia», disse poi, facendo tintinnare i bicchieri.

 

«E in culo a chi ci vuole male», concluse Bussi.

 

Restarono a guardarsi, in silenzio, assorti nei pensieri. Quando furono usciti, presero l’auto e si aggirarono a lungo senza meta, parlando e ascoltando musica. Bussi, giusto per accentuare l’effetto scenico, scelse come colonna sonora il Greatest Hits dei Doors, quella raccolta apparsa originariamente nel 1980 e ripubblicata nel ’96. Ascoltarono Riders on the Storm almeno tre volte di seguito:

 

Riders on the storm

 

Riders on the storm

 

Into this house we’re born

 

Into this world we’re thrown

 

Like a dog without a bone

 

An actor out alone

 

Riders on the storm...

 

Finché Centofanti non se ne uscì con un: «Scusa, ma a me non piace mica questa musica. E poi ora devo proprio andare».

 

Bussi si dispiacque. Si dispiacque per due motivi: perché il suo amico non capiva una sega di musica, ma soprattutto perché gli stava nascondendo qualcosa. Lo capì da quel «devo» pronunciato a denti stretti. Ma lo comprese, e poi anche lui aveva da fare.

 

Capitolo 49

 

Mercoledì 23 novembre

 

Le prime luci di un giorno abbastanza caldo e tranquillo. Da anni Centofanti non si stendeva così sul terreno umido di rugiada; più di trenta per la precisione. A quel tempo era estate, i grilli formavano un coro inesausto e tutto intorno non c’era nessuno per chilometri. Quella volta Vanessa aveva appoggiato il viso alla sua spalla e gli aveva fatto promesse. Promesse che si erano infrante qualche mese dopo, quando aveva preferito il ricco avvocato a lui. Era sempre stato così. I ricchi gli avevano sempre portato via le ragazze migliori. Annusò l’erba umida che sapeva di pulito.

 

«Non è una buona ora per fare un appostamento», sentenziò. «Regola prima: il buio più assoluto.»

 

Torrente ne convenne. Desio, accovacciato dietro un cespuglio poco più in là, sollevò il pollice in segno d’intesa. Anche De Scalzi schiacciò l’occhio, concordava. Ma, nonostante tutti gli uomini del maggiore Maugeri fossero unanimi nel ritenere che l’ora non era adatta per quel tipo di servizio, si trovavano tutti lì, liberi dal servizio, schierati, a effettuare proprio quell’appostamento. Dovevano sfruttare quel leggero vantaggio temporale che avevano sulla Procura di Savona.

 

«Una volta, molti anni fa», così tanti che adesso gli sembravano secoli, «fui proprio io a dettare queste regole», disse Centofanti.

 

Annabella lo guardò, mentre s’infilava un filo d’erba tra le labbra, assorto nei ricordi.

 

«Uno ci metteva la bici», continuò lui, mentre i ricordi della strada riaffioravano nella sua mente, «io individuavo il posto. Passavamo le estati a rubare ciliegie ai contadini. Ci appostavamo così come facciamo ora, controvento, per non essere sentiti dai cani, e davo il via non appena ero sicuro di tutto. Allora, mi arrampicavo sull’albero e gettavo a terra le ciliegie, quello con la bici pronto a partire. Una volta cascammo, e quello si ruppe un polso. Perdemmo tutte le ciliegie. Inseguiti dai cani e dai contadini, fuggimmo a luci spente. Lui sbagliò la curva prima del discesone e rotolammo a terra. Ci rialzammo con le ginocchia e le mani sbucciate e sanguinanti, ma non ci badammo, dovevamo scappare in fretta.»

 

Finalmente videro la casa spuntare poco sopra la collina, al di là di un muro di cinta da scavalcare per entrare nel parco.

 

Centofanti aveva trascorso l’intera giornata a esaminare i tabulati e aveva scoperto un interessante legame che univa le tre vittime: riguardava la ricezione di telefonate dalla medesima utenza, intestata a Barbara Bellinceri, la donna contattata da Giannoni la sera del decesso. Anche le altre vittime, infatti, avevano chiamato spesso quell’utenza o ne erano stati contattati: una decina di volte Amatucci, una ventina Tropea. E in molte occasioni Barbara aveva chiamato un numero intestato al senatore Grimaldi.

 

La donna non aveva precedenti penali, ma dai controlli di Polizia registrati nella Banca Dati si era capito che lavoro svolgesse, perché nel corso di ben due retate l’avevano controllata nei night. L’ultima segnalazione, inserita dalla Questura di Milano, parlava di attività di spogliarellista. All’anagrafe il suo nome risultava tra i residenti da pochi mesi e al momento dell’acquisto della sim aveva fornito al gestore il suo nome e quell’indirizzo. La villa, peraltro, apparteneva a una società che faceva capo alla Gemi di Tropea.

 

Era quindi inevitabile un appostamento, per saperne un po’ di più: che tipo era Barbara Bellinceri? Che auto utilizzava? Perché spesso accade che qualcuno abbia una o più vetture intestate a sé, ma si diverta a usare quella del nipote o di un parente. E poi bisognava vedere se frequentava qualcuno, se aveva un amico, un fidanzato o, perché no?, un protettore. Insomma, era d’uopo il classico servizio di o.c.p. – osservazione controllo e pedinamento, come si chiama in gergo – che, di solito, si mette in atto all’inizio di un’indagine per valutare cosa val la pena sfrondare e cosa approfondire.

 

«Non so ancora come faremo a fotografarla. Le finestre al primo piano sono troppo alte. Forse dovremmo arrampicarci su un albero. Tieni questo», disse De Scalzi, passando a Torrente una piccola radio con auricolare. «E ricordati bene di non usare mai il mio nome, quando mi chiamerai via radio, ma un soprannome: Alain andrà benissimo. Non sia mai che qualcuno ci ascolti. Come giustificheremmo la nostra presenza qui?»

 

Non avevano nessun mandato, nessun decreto che li autorizzasse a stare dove si trovavano. Toccalossi non poteva certo firmarglielo. Avevano deciso, infatti, di agire nell’ombra, all’oscuro della Procura di Savona e degli stessi uomini della Direzione Investigativa Antimafia.

 

«D’accordo», rispose De Scalzi.

 

«A te va bene Mirco come soprannome?»

 

«Preferivo Mary.»

 

«E non fare sempre il cretino!»

 

Parlavano sottovoce.

 

«Mi sono procurato la pianta della villa al Catasto», disse Centofanti. «Al piano terra c’è un ampio salone. Le camere da letto sono al piano superiore.»

 

Strisciando sul terreno umido arrivarono al muro di recinzione. Centofanti fece scaletta con le mani e Torrente ci si appoggiò sopra, scavalcò il muretto di recinzione e, con un salto elefantiaco, si ritrovò a ruzzolare per terra.

 

«Non ho più l’agilità di un tempo!» imprecò piuttosto contrariato. Poi gettò la corda dall’altra parte del muretto e aiutò gli altri a scavalcare.

 

Con fare furtivo si appropinquarono alla villa e si diressero verso l’entrata di servizio, sperando, ingenuamente, che fosse stata dimenticata aperta. Portavano i guanti per non lasciare impronte e indossavano sovrascarpe da pioggia, numero quarantasette gli uomini e quaranta Annabella.

 

Quando vedranno le impronte sul terreno, penseranno a un gigante, pensò soddisfatto Centofanti.

 

Conoscevano tutti i trucchi del mestiere, anche se non erano tanto sicuri del buon esito dell’operazione.

 

Dal lato opposto del muro di cinta della villa Bussi stava riepilogando ad Andrea Maggiolo, il fotografo del quotidiano, le mosse da seguire. Gli serviva una foto di quella donna. Non poteva fare un pezzo sulla misteriosa escort senza un’immagine da schiaffare sul giornale.

 

«Dovremo agire con molta circospezione», disse. «Se Falck sapesse che siamo qui, stanotte, non ci penserebbe due volte a denunciarci per violazione di domicilio. Hai controllato la macchina fotografica?»

 

Maggiolo annuì.

 

Uno dopo l’altro si arrampicarono sul muretto e lo oltrepassarono.

 

Centofanti e gli altri si diressero verso il lato destro della villa, dove erano collocati i bidoni dell’immondizia. Qui, mentre Torrente controllava le finestre col binocolo, Desio cominciò a frugare tra i sacchi della spazzatura.

 

«Speriamo di trovare qualcosa.»

 

Non c’era nessuna auto parcheggiata sotto la tettoia in giardino. Probabilmente Barbara non era in casa.

 

Centofanti afferrò dal bidone un sacchetto nero per l’immondizia e lo aprì con un coltellino. Ne estrasse alcune scatole vuote di biscotti, due cartoni per il latte, un boccettino di profumo, un vecchio cappello, due bottiglie di plastica, un paio di collant rotti, uno straccio bagnato, tre pacchetti di sigarette vuoti e accartocciati. Nulla che potesse servire a scoprire la personalità di Barbara. Non c’erano medicinali, dai quali dedurre da quali disturbi potesse essere affetta, né fogli scritti a mano che potessero servire per analizzare la grafia. Sostituì il sacchetto nero delle immondizie che aveva lacerato con un altro nuovo e lo rimise dentro il secchio.

 

Era stato fortunato Bussi: era stata Ilaria Tosi, la moglie di Giannoni, a fargli il nome della ragazza (a una donna ferita non sfugge nulla). Altrimenti non sarebbe mai arrivato a lei. Poi c’era stato un po’ di mestiere di giornalista: qualche amico alla stazione dei Carabinieri, il corrispondente locale... La villa si vociferava appartenesse, o comunque fosse in uso, al defunto Giannoni, il quale certo non la utilizzava per incontri politici. Dicevano ci abitasse la sua nuova amante, quella che aveva soppiantato la precedente. Due gran gnocche, entrambe. Donne come quelle non passavano inosservate nei piccoli paesi dell’entroterra. E poi c’era stata la conferma in casa di Cento...

 

Il giornalista e il fotografo si avvicinarono alla villa e si diressero a una porta in legno che sembrava essere quella di una cantina.

 

«Perché proprio la cantina?» domandò Maggiolo.

 

«Perché di solito è in cantina che si buttano le cose vecchie. Se lei si è insediata in questa casa, avrà tolto di mezzo quello che non le piaceva. C’è sempre parecchia roba nelle cantine. Potremmo scoprire la sua personalità, e mi piacerebbe capire che tipo è la nostra Barbara», spiegò Bussi.

 

«Ti facevo più fesso», fu il commento del fotografo, tanto per sfotterlo un po’.

 

Spinsero la porta, ma era chiusa.

 

«Merda! Non c’è niente lì dentro che possa servire ad aprire una porta?» disse Bussi, indicando la sacca degli obiettivi.

 

«Sì, del plastico. Ora lo piazzo sulla porta, programmo il timer e la facciamo saltare in aria.» Maggiolo era in vena d’ironia.

 

«Esagerato! Per aprire una porta basta una carta di credito. L’ho visto fare in un film», ribatté Bussi stando al gioco.

 

Quanto avrebbe voluto essere in mezzo al mare con la sua barchetta...

 

Desio e Torrente stavano tentando di forzare la serratura del garage.

 

«Mi sembra di avere di nuovo quindici anni, quando andavo a ripulire gli alberi di ciliegie», disse Centofanti.

 

Con una chiave universale la porta si aprì facilmente. Sollevarono la serranda con molta cura, per non fare rumore. Di notte, in campagna, il vento trasporta ogni più piccolo fruscio.

 

Se qualcuno ci vedesse, magari chiamerebbe i Carabinieri, si disse Centofanti, e gli venne da ridere.

 

Annabella, appostata fuori, doveva avvisarli di ogni movimento sospetto. Centofanti accese la torcia elettrica, puntando davanti a sé il piccolo fascio di luce. Nel garage non c’era nulla di interessante: qualche attrezzo da lavoro, un compressore e alcune bombolette di vernice. Nulla che valesse la pena di essere prelevato e introdotto in un sacchetto per le prove.

 

Annabella avvisò via radio: «Ragazzi, sta arrivando una macchina. Uscite da lì».

 

Si precipitarono fuori e richiusero la serranda. Quindi scapparono verso il muro di recinzione, nascondendosi tra le siepi.

 

Bussi stava ancora tentando di trovare un accesso alle cantine, quando Maggiolo urlò: «Presto, andiamo. Ho visto dei fari sulla strada di accesso».

 

E scapparono dietro la villa per nascondersi tra i cespugli.

 

La donna varcò il cancello con l’auto, posteggiò e aprì la portiera.

 

De Scalzi la osservava col binocolo. «Buona come il pane», gli sfuggì.

 

«Fai silenzio. Mi è parso di sentire delle voci», lo zittì Centofanti.

 

Anche Bussi e Maggiolo stavano apprezzando le forme di Barbara Bellinceri.

 

«Io una così me la farei anche se fosse un’assassina», stava dicendo il fotografo.

 

Il giornalista era della stessa opinione.

 

De Scalzi iniziò a scattare alcune foto.

 

«Ascolta», disse Maggiolo a Bussi. «Li senti questi clic? Qualcuno sta scattando foto.» Possedeva un orecchio esperto. Fare foto era il suo mestiere, e poi il rumore della digitale era inconfondibile. Spostò il binocolo verso destra, lo puntò sui cespugli e vide alcune figure distese sull’erba a pancia in giù. «Merda! Non siamo soli.» Per un attimo temette di essere finito all’interno di un’operazione di Polizia. Che cosa avrebbe detto? Come avrebbe potuto giustificarsi?

 

«Che c’è ?» chiese Bussi.

 

«Guarda tu stesso.» Maggiolo gli passò il binocolo.

 

Bussi lo puntò nella direzione indicatagli dal fotografo. «Oh, cazzo!»

 

«E adesso che facciamo?» Maggiolo era spaventato.

 

«Non credo che sia il caso di preoccuparsi», lo rincuorò Bussi. «Quelli sono gli uomini del maggiore Maugeri, che non si occupa delle indagini. Non credo che stiano per fare un’irruzione, né che siano in possesso di un mandato. Penso invece che stiano facendo quello che facciamo noi, compiendo gli stessi reati. Aspettiamo.» A Bussi scappava da ridere.

 

Attesero mezz’ora, finché le luci della camera di Barbara si accesero. Le persiane erano aperte e non c’erano tende alle finestre. La vista sull’interno della stanza era completa. Del resto era una casa isolata, al termine del bosco.

 

Lei iniziò a spogliarsi: prima la camicia, sbottonandola lentamente, poi i collant...

 

A Centofanti e i suoi compari sembrava di essere al cinema: stavano lì, stesi sull’erba, a bocca aperta a godersi lo spettacolo, e gratis. Proprio come quando, da ragazzini, vedevano i film di Laura Antonelli.

 

Barbara slacciò il reggiseno e lo lanciò lontano. Poi si sfilò le mutandine e rimase completamente nuda.

 

«Cazzo! Ma cos’è? Un film di Aristide Massaccesi?» Centofanti non si trattenne.

 

«Porca...!» esclamò Torrente.

 

«Che fica!» commentò Desio.

 

«Sembra che non abbiate mai visto una donna», ribatté sdegnata Annabella.

 

Nel frattempo un’altra figura femminile comparve nel riquadro della finestra. Nuda, capelli corvini. La ragazza si avvicinò a Barbara da dietro e cominciò ad accarezzarla piano. Sul corpo, sui capelli. A un tratto Barbara si voltò verso di lei, le prese il viso tra le mani e la baciò con passione.

 

«Che spettacolo!»

 

«Neanche al cinema!»

 

Annabella si allontanò strisciando sul terreno.

 

A una trentina di metri di distanza Bussi diede di gomito a Maggiolo e gli fece segno di seguirlo.

 

Bussi strisciò sull’erba fino ad avvicinarsi al cespuglio dietro al quale era nascosto il suo amico Cento. Quando gli fu vicino, disse: «Avete pagato il biglietto, signori? Lo spettacolo non era gratuito. E non state a mostrarmi il tesserino. So che non siete qui per servizio».

 

Torrente a momenti fu preso da un coccolone.

 

«E tu che ci fai qui?» domandò Centofanti.

 

«Più o meno quello che ci fate voi. E poi non usare quel tuo tono inquisitorio con me. Ho scattato foto a tutti quanti. Ho sempre avuto il dubbio che i carabinieri abusassero un po’ del loro potere. Dopotutto, di fronte a queste cose, l’amicizia passa in secondo piano, ognuno fa il suo lavoro. Credo che ne verrà fuori un bell’articolo: quattro caramba sorpresi nel parco di una villa a fare i guardoni. Sensazionale!»

 

Centofanti restò in silenzio per qualche secondo. «Allontaniamoci da qui», suggerì infine. Lui e Bussi strisciarono fino al muro di recinzione e lo scavalcarono.

 

Una volta fuori, fu Centofanti a parlare per primo: «Che vuoi in cambio del silenzio?»

 

«Notizie fresche. Intanto che ci fai qui?»

 

«E tu?»

 

«Non mi sembri nella condizione di porre domande. Hai dei sospetti su di lei?»

 

«È una donna misteriosa.»

 

«Perché siete qui?»

 

«Vogliamo sapere chi è.»

 

«Era l’ultima amante di Giannoni a quanto pare.»

 

«Questo sospettiamo.»

 

«Te lo dico io. Era l’amante di Giannoni. Io invece voglio sapere chi è l’altra.»

 

«Vorremmo saperlo anche noi.»

 

«Voi avete i mezzi per scoprirlo.»

 

«Domani la seguiremo. La terremo d’occhio giorno e notte.»

 

«Ma dell’indagine non se ne occupa il dottor Falck?»

 

«È una cosa che faccio in via ufficiosa. Adesso basta. Andiamo via di qua.»

 

Capitolo 50

 

Le due volanti della Polizia erano nascoste dietro un cespuglio, sul viale alberato. L’assistente, fermo sul ciglio della strada, attendeva l’arrivo dell’autovettura. Quando la Mercedes fece capolino in fondo al viale, il poliziotto alzò la paletta e fece segno di accostare.

 

La donna abbassò il finestrino.

 

L’assistente si limitò a dire: «Documenti, prego».

 

La donna non fece obiezioni. Consegnò patente, libretto e tagliando assicurativo.

 

Il poliziotto lesse il nome sui documenti, Barbara Bellinceri, e assunse una faccia perplessa. Con ventisette anni di servizio alle spalle, sapeva come fare un piacere a quelli della giudiziaria. «Mi spiace, ma deve seguirci in Centrale», disse.

 

«Qualcosa non va?»

 

«C’è giunta una segnalazione, dovrebbe seguirci.»

 

«In auto?»

 

«No, l’auto può lasciarla qui. I colleghi dell’altra pattuglia la terranno d’occhio. Può salire sulla nostra.»

 

La donna impaurita si accomodò sulla prima volante. Era pallida in volto.

 

Non appena la pantera si fu allontanata, dal cespuglio uscirono due poliziotti in borghese. Uno di loro era il sostituto commissario Valenza. Salì sulla Mercedes di Barbara Bellinceri e tuffò una mano nel vano portaoggetti. «Centro!» urlò soddisfatto un momento dopo. In mano teneva un mazzo di chiavi.

 

«Se torna prima di noi, trattenetela», disse ai due colleghi di pattuglia. «Vedremo di fare più in fretta possibile.»

 

Tornò una ventina di minuti dopo con il duplicato delle chiavi. Rimise il mazzo originale nel vano portaoggetti e ritenne concluso il servizio, il suo, perlomeno. Ora toccava ai tecnici installare le microspie sull’auto e nella villa della donna.

 

«Mi raccomando, acqua in bocca», intimò ai due agenti.

 

A poche centinaia di metri di distanza, una gazzella dei Carabinieri fermò la seconda auto appena uscita dalla villa, una Toyota, su cui viaggiava una splendida ragazza dai capelli neri corvini.

 

De Scalzi mostrò la paletta e la giovane si fermò.

 

«Favorisca i documenti, signorina.»

 

La ragazza obbedì. Si chiamava Miriam Vivona. In poco meno di mezz’ora, dopo una rapida consultazione della Banca Dati e qualche telefonata presso altri comandi, scoprirono che era una escort di alto bordo, amica stretta di Barbara Bellinceri. Le due erano state controllate in passato in un night dove, a quanto pareva, si esibivano in coppia.

 

Non c’era nessun motivo per trattenerla, per cui la lasciarono andare. Anche se, due isolati più in là, l’auto civetta su cui Annabella e Torrente viaggiavano fingendo di essere due innamorati, si mise al suo inseguimento.

 

Centofanti passò i dati a Bussi. Nemmeno un grazie, lo stronzo, pensò.

 

Capitolo 51

 

Noli: esecuzione del decreto relativo alle intercettazioni ambientali nella villa in uso a Barbara Bellinceri.

 

Il dottor Falck aveva ordinato dei controlli su di lei, dal momento che era stata l’ultima a contattare telefonicamente Giannoni, poco prima della sua morte, e si era determinato a disporre le intercettazioni ambientali nella villa in cui lei abitava e a mettere sotto controllo il suo cellulare.

 

Ora si trattava soltanto di verificare se le impronte trovate sull’auto fossero le sue e magari anche quel tipo di rossetto. Nell’eventualità di riscontri positivi, sarebbe scattata una perquisizione alla villa e, di conseguenza, le manette per la donna.

 

I tecnici delegati dalla Procura arrivarono dieci minuti dopo. Entrarono nella villa, insieme con gli uomini della sezione di Polizia giudiziaria. Mentre i primi installavano le microspie, i secondi si guardarono attorno: Valenza curiosò ovunque, anche nel bagno, dove trovò uno stick di rossetto e un piccolo contenitore con della polvere bianca. In apparenza lasciò tutto com’era, in realtà prelevò un campione di polverina e con la punta di un coltellino staccò un minuscolo frammento di rossetto e li sigillò in due diversi sacchetti per le prove. Più tardi, durante la perquisizione, avrebbe saputo cosa e dove cercare.

 

La prima telefonata registrata, effettuata un’ora dopo, non lasciò adito a dubbi:

 

SALA INTERCETTAZIONI DELLA PROCURA DI SAVONA

 

Intercettazione telefonica del 23 novembre. Barbara parla con la sua amica Miriam:

 

Barbara: «Mi hanno portato in Questura. Ma ora sono fuori. Mi hanno lasciata andare».

 

Miriam: ...(silenzio)

 

Barbara: «Non so per quale motivo, non mi hanno detto nulla. C’era qualcosa che non andava nei documenti dell’auto, così hanno detto. Non so se... Non vorrei che... Ora è morto quel maiale. Ho paura...»

 

Miriam: «E cosa farai adesso?»

 

Barbara: «Non lo so. Magari torniamo a Milano. Oppure andiamo in Francia a lavorare, io e te...»

 

Miriam: «Se lo meritava, comunque».

 

Barbara: «Se lo meritava, sì».

 

Barbara, inconsapevole, era caduta nel tranello che la Procura di Savona le aveva teso. Succede sempre così: si smuovono un po’ le acque, si crea una situazione per cui l’indagato sia indotto a parlare, un fatto imprevisto, anomalo... Si pianta un seme sperando che germogli. E Barbara, a seguito di quell’accompagnamento in Questura, da sola, senza che nessuno le contestasse nulla, com’era scritto nelle motivazioni del provvedimento disposto a suo carico, aveva ipotizzato che si trattasse della morte di Giannoni. Inoltre, aveva espresso l’opinione che si era meritato di morire.

 

Il dottor Falck riascoltò più volte la registrazione al computer. Quindi Valenza gli riassunse le risultanze positive dei suoi accertamenti ufficiosi eseguiti in fretta e furia: a) il rossetto rinvenuto nella villa corrispondeva per marca e colore a quello utilizzato per disegnare la croce sul parabrezza; b) le impronte trovate sull’auto erano quelle di Barbara Bellinceri; c) la cocaina rinvenuta sul sedile dell’auto di Giannoni era identica per qualità e principio attivo a quella trovata nel bagno della Bellinceri.

 

Il dottor Falck era compiaciuto. «Queste risultanze non posso porle a fondamento del provvedimento di custodia cautelare, perché formalmente sono elementi acquisiti al di fuori delle garanzie difensive. Facciamo così, Leonardo, io ti firmo un decreto di perquisizione, tu vai nella villa con i tuoi uomini, informi l’indagata dei suoi diritti e della facoltà di farsi assistere da un legale di fiducia, e poi, con tutti i crismi di legge, mi porti qui il rossetto e la cocaina, e finalmente potrò concludere questo benedetto provvedimento.»

 

Così fu: nel pomeriggio fu eseguita la perquisizione alla villa e quella sera Barbara Bellinceri fu condotta in carcere.

 

Capitolo 52

 

«Allora, Leonardo, ti vedo pensieroso. C’è qualche novità?» chiese il dottor Falck.

 

«Sì. I colleghi hanno intercettato una conversazione interessante, ma c’è qualcosa che non capisco...»

 

«Ossia?»

 

«Oggi, quando Barbara è rientrata a casa, prima che l’arrestassimo, ha parlato con Miriam di quanto era successo, e sai cosa è accaduto? Ma aspetta, è meglio se ascolti tu stesso.»

 

SALA INTERCETTAZIONI DELLA PROCURA DI SAVONA

 

Intercettazione ambientale del 23 novembre:

 

Barbara: «Ho paura Miriam. Oggi, quando mi hanno portato in Questura, sembrava che fossero qui fuori ad aspettarmi».

 

Miriam: «Sì, lo penso anch’io. Non ti pare strano? Io sono stata controllata dai Carabinieri».

 

Barbara: «I Carabinieri?»

 

«I Carabinieri?» fece eco il dottor Falck.

 

«Non erano uomini nostri, Giuliano, assolutamente», assicurò Valenza.

 

«Chiama la stazione Carabinieri di Noli. Chiedi se era una loro pattuglia.»

 

«Già fatto. Non lo era.»

 

«E allora chi...?»

 

«Non lo so. Sono sconcertato.»

 

«E al Comando provinciale hai chiesto? Di qualcuno dovrà pur essere stata quella pattuglia.»

 

«Niente anche lì.»

 

I due si guardarono sgomenti.

 

«Pensi anche tu a quello che penso io? A una finta pattuglia? Ma a che scopo? Qualcun altro controllava la villa?» domandò Falck.

 

«Così pare.»

 

«Qui ci sono troppe cose che iniziano a non quadrare, Leonardo. Ci sono ancora i giornalisti qui fuori?»

 

«Purtroppo, sì.»

 

«Farei proprio a meno di parlare con loro, oggi. Troppe cose non mi convincono...»

 

Capitolo 53

 

Il monolocale di Centofanti era stracolmo di carte, faldoni aperti, matite, evidenziatori, tabulati sparsi ovunque.

 

Il telefono di Toccalossi squillò. Era Maugeri. Quando chiuse la telefonata rimase in silenzio, la faccia scura.

 

«Qualche problema?» Centofanti conosceva il suo capo. Capì subito che qualcosa non andava.

 

«Hanno fermato la Bellinceri e l’hanno portata in carcere. Il maggiore era lì, in Procura, l’ha vista e mi ha subito avvisato.»

 

«Stanno prendendo una cantonata.»

 

«Una grossa cantonata.»

 

«Non hanno analizzato le celle telefoniche, magari non le hanno neppure richieste: mentre Giannoni era a Vado Ligure, Barbara era a Finale Ligure, ma la cella telefonica impegnata non era la stessa della prima chiamata. Guardi qua, procuratore: Barbara, nel frattempo, si era spostata verso ponente. Ora le mostro... Ecco, Giannoni manda un messaggio a Barbara dicendole: “Preparati”, e lei risponde: “Sono tutta nuda, amore”. Qui la cella impegnata è quella del ripetitore installato vicino alla villa. Ma dopo, quando Giannoni da Vado Ligure la chiama per dirle: “Sei stata fantastica questa sera, amore”, e lei risponde: “Grazie, tesoro”, la cella impegnata è quella collocata una ventina di chilometri dopo, verso ovest, per intenderci, verso la Francia. Quindi Barbara ha lasciato la villa e si è mossa in direzione opposta rispetto a quella di Giannoni. Non può essere stata lei a farlo fuori.»

 

«Anche perché la morte risale alle tre circa, così ha stabilito il medico legale.»

 

«E lei come lo sa? Mi scusi, procuratore.»

 

Toccalossi sorrise.

 

«Un’altra cena con Erminia?»

 

Toccalossi si rincagnò senza rispondere.

 

Ecco perché la sera prima aveva finto stanchezza esprimendo il desiderio di restarsene a casa a leggere un po’ le carte. «Be’, spero sia stata una bella serata, procuratore.»

 

Centofanti si accorse che Toccalossi sorvolava. Ma aveva lo sguardo sereno e assente e i muscoli del viso rilassati e distesi come dopo un bel massaggio.

 

Capitolo 54

 

Bussi fece capolino nella segreteria di direzione. L’ufficio del direttore aveva la porta socchiusa.

 

«C’è?» domandò alla segretaria.

 

«Sì, è di là. Credo stia mangiando. Fatti vedere.»

 

Verso quell’ora, Carlo Bandelli ordinava un leggero spuntino al bar, che gli veniva consegnato su un vassoio di metallo. Solitamente bresaola, poco condita, qualche pacchetto di grissini e acqua naturale. Non era abituato a cene abbondanti, quando restava al giornale.

 

«Scusa, direttore, posso?» si intrufolò Bussi.

 

«Vieni, vieni Bartolomeo», rispose Bandelli, asciugandosi un filo d’olio sul labbro inferiore.

 

Bussi si accomodò nella poltrona rossa sistemata davanti alla scrivania. Aspettò che il capo finisse l’ultimo boccone, guardandosi in giro. L’aveva vista mille volte quella stanza, eppure continuava a sentirsi a disagio quando vi entrava. Era l’ufficio del direttore e lo era stato dei direttori che si erano succeduti prima di Bandelli. Era la plancia di un uomo che, come il comandante sulla nave, all’interno del giornale sedeva un gradino sotto Dio; concentrava in sé tutto il potere, nella più perfetta e compiuta concezione monarchica dello stesso.

 

L’ufficio, per altro, non era nemmeno tanto sfarzoso: un’ampia scrivania di legno scuro, il computer, una libreria che fasciava tre delle quattro pareti, colma di volumi, due grandi finestre sull’unica parete libera, coperte da tende alla veneziana. C’era poi un divano di pelle, rosso, altre due poltroncine in tinta e un tavolino basso. In un angolo una pianta alta sino al soffitto. Non c’erano tappeti a coprire il parquet.

 

Quando il direttore, che aveva solo qualche anno più di lui ed era nel pieno del successo personale, posò la forchetta e la allineò nel piatto insieme al coltello, Bussi cominciò a parlare. Raccontò della sua necessità di cambiamento; confessò il suo malessere; descrisse la sua stanchezza nel condurre, tutti i santi giorni, quella macchina complessa e ansiogena; affermò il suo bisogno di tornare sul campo, di succhiare l’adrenalina perduta.

 

Bandelli lo guardò con una certa sorpresa. Non capiva. Possibile che volesse mollare tutto, proprio adesso? La promozione a vicedirettore non era ancora nell’aria, ma a cos’altro poteva ambire un caporedattore centrale? Poi, a mano a mano che lo ascoltava, cominciò a dare corpo a un pensiero: sì, poteva accadere a tutti; a lui non era successo, ma mai dire mai. E poi, l’età anagrafica spesso è mendace: la crisi dei cinquant’anni. C’erano uomini che si erano sempre vestiti di blu e di colpo scoprivano le tinte accese, indossando improbabili pantaloni a tinte pastello, rosso, giallo o azzurrino; oppure si mettevano a far jogging da un giorno all’altro, come se non avessero mai fatto altro fino a quel momento; o, ancora, s’iscrivevano in palestra, si facevano spiegare il funzionamento dell’iPod dai figli, si compravano una cabriolet; altri che diventavano buddisti, altri ancora che, più che scoprirsi ragazzini, scoprivano le ragazzine... Bussi, evidentemente, aveva un rigurgito da cronista. Aveva bisogno di riprendere in mano il taccuino e di tornare sulla strada, pensando così che questa messinscena lo avrebbe aiutato a sentirsi ancora giovane, o non ancora vecchio.

 

Alla fine raggiunsero un compromesso: Bussi si sarebbe staccato per un paio di settimane dall’ufficio centrale e avrebbe seguito quella storia dei politici e delle escort in Liguria. E poi ne avrebbero riparlato.

 

A mezzanotte, quando rincasò, trovò Giorgia ancora sveglia.

 

«Che fai, non dormi?»

 

«Non ci riesco. Ho bevuto un caffè, forse non dovevo.»

 

«I bambini?»

 

«Dormono, finalmente. Oggi sono stati impossibili, non hanno smesso un minuto di litigare. Mattia aveva calcio, Giulia catechismo. Siamo arrivati tardi, non hanno voluto fare nulla per la scuola, si sono messi a giocare con i videogiochi e hanno cominciato a darsele di santa ragione. Mattia che voleva il Nintendo di Giulia, Giulia che non voleva darglielo... Mi hanno sfinita. Per fortuna sono andati a dormire in camera loro senza insistere per addormentarsi nel lettone...»

 

«Senti, Giorgia, ti devo parlare.»

 

Giorgia sentì lo stomaco serrarsi. L’aveva guardata in modo strano, serio.

 

Quando suo marito ebbe terminato l’esposizione, Giorgia era alquanto sollevata: le sue amiche continuavano a metterla in guardia dalla crisi dei cinquant’anni, che prima o dopo aveva colpito o avrebbe colpito i loro mariti, e si aspettava il peggio. Quella di voler tornare per due settimane a fare il cronista in Liguria era sicuramente una rivelazione molto meno sconvolgente della confessione di avere un’amante.

 

Capitolo 55

 

Giovedì 24 novembre

 

Dalle cronache della Liguria dell’Informazione:

 

Barbara Bellinceri è stata arrestata nella serata di ieri, con l’accusa di omicidio volontario. Secondo la Procura di Savona, sarebbe stata lei a cedere all’assessore regionale Duilio Giannoni la dose micidiale di droga. Giannoni era stato trovato senza vita a Vado Ligure, riverso nell’abitacolo della sua auto...

 

Marco Raffa

 

Centofanti finì di leggere l’articolo sul quotidiano. Erano stati pubblicati alcuni resoconti dell’inchiesta: l’elenco delle prove a carico dell’unica indagata, le intercettazioni. Centofanti, perplesso, rilesse a voce alta il contenuto della telefonata tra Barbara e la sua amica Miriam:

 

Intercettazione telefonica del 23 novembre. Barbara parla con la sua amica Miriam:

 

Barbara: «Mi hanno portato in Questura. Ma ora sono fuori. Mi hanno lasciata andare».

 

Miriam: ...(silenzio)

 

Barbara: «Non so per quale motivo, non mi hanno detto nulla. C’era qualcosa che non andava nei documenti dell’auto, così hanno detto. Non so se... Non vorrei che... Ora è morto quel maiale. Ho paura...»

 

Miriam: «E cosa farai adesso?»

 

Barbara: «Non lo so. Magari torniamo a Milano. Oppure andiamo in Francia a lavorare, io e te...»

 

Miriam: «Se lo meritava, comunque».

 

Barbara: «Se lo meritava, sì».

 

Poi scandì l’elenco delle prove a suo carico: «a) un rossetto rosso marca Chanel, identico a quello rinvenuto sui genitali dell’assessore Giannoni e utilizzato per disegnare la croce sul parabrezza; b) un rotolo di banconote avvolte in un elastico prelevate in banca dall’assessore la mattina di quello stesso giorno, come testimoniato da un impiegato della filiale; c) le impronte sull’auto; d) alcuni grammi di sostanza stupefacente dello stesso tipo di quella rinvenuta nell’auto di Giannoni».

 

Centofanti si recò alla finestra mormorando tra sé: «Mi domando allora perché non abbia confessato».

 

Era una giornata piovosa. Toccalossi, seduto sulla poltrona con un fascicolo in mano, si alzò e si avvicinò alla finestra.

 

«Ha lasciato tracce di rossetto sul pene dell’assessore», continuò Centofanti, «è stata l’ultima a contattare Giannoni al telefono, con un messaggio, prima di ucciderlo, ha seminato impronte... Mi domando a chi possa far comodo questa verità!»

 

«La verità?» si fece serio Toccalossi. «La verità, mio caro maresciallo, è un pendolo. Oscilla di qua, di là. Non sta ferma un attimo.»

 

Conoscevano troppo bene la procedura per non sapere che un colpevole ha mille possibilità di farla franca; e che un innocente, che si trovi imbrigliato negli ingranaggi della giustizia, spesso ne rimane schiacciato. Un colpevole, quasi sempre, si precostituisce un alibi. Un innocente no. Un innocente non rammenta neppure cos’ha mangiato a pranzo.

 

Un colpevole ha tutto l’interesse che qualcun altro venga accusato al suo posto. Un innocente neppure immagina che qualcuno abbia potuto incastrarlo.

 

«E se l’avessero incastrata?» domandò Centofanti.

 

«Sì, ma chi? Chi poteva avere interesse a far fuori Giannoni? E soprattutto: chi poteva avere interesse a far ricadere la colpa su Barbara Bellinceri?»

 

«Un amante? Una donna gelosa? La moglie di Giannoni? Un suo rivale? Il proprietario di qualche night a cui Giannoni l’aveva sottratta? Il Grigio? E chi è questo maledetto Grigio?»

 

«Lei pensa che qualcuno abbia volutamente incastrato Barbara?»

 

«Sì.»

 

«Potrebbe aver ragione, maresciallo. E, visto il can can che ne è uscito, immagino già come finiranno le cose. Sa come si chiama questo in gergo? Depistaggio. Come il mago che fa volare una colomba per distrarre gli spettatori dall’altra mano, mentre estrae qualcosa dal taschino della giacca.»

 

«Allora, anche lei pensa quello che penso io?»

 

«E cosa credeva, maresciallo, di esserci arrivato solo lei? Che dice, usciamo?»

 

Quella mattina alle nove la passeggiata del Prolungamento a mare era fredda e sferzata da un vento che tagliava le guance e la piazza su cui capeggiava la statua di Garibaldi era deserta. Un luogo perfetto per parlare. Lì si erano dati appuntamento Toccalossi, Centofanti, Maugeri e De Scalzi. Torrente, Desio e Annabella non avevano potuto, erano di turno.

 

Fu Toccalossi il primo a parlare: «Sarà meglio tirare un po’ le fila dei nostri sforzi. A che punto siamo?»

 

«A un punto morto», rispose il maggiore Maugeri.

 

«Ossia?»

 

«Ossia: la Bellinceri è in carcere, e ancora non sappiamo il perché, a parte quello che riportano i giornali e i notiziari. Dovremo attendere l’esito dell’interrogatorio di garanzia per sapere cosa dirà a sua discolpa.»

 

«Mi sa che dovremmo chiarirci le idee. Vediamo di riassumere: qual era la nostra prima ipotesi? Che i tre omicidi, Tropea, Amatucci e Giannoni, fossero avvenuti tutti per mano della stessa persona.»

 

Centofanti annuì.

 

«Ma ce la vedete voi Barbara Bellinceri, una escort di ventidue anni, esile, imbracciare un fucile, dirigersi nel bosco e far fuoco su un uomo?»

 

«A proposito, si ricorda quell’elenco di degenti del pronto soccorso? Posso sbagliarmi, certo, ma, a mio avviso, non c’è nessun sospetto. Ho fatto accertamenti su tutti, sono andato persino a consultare i cartellini d’identità in Comune, ma non c’è mica scritto che numero di scarpe indossano», intervenne Centofanti.

 

«Scarpe?»

 

«Ma sì! Ricordate quello scarpone numero quarantatré rinvenuto nel bosco? Ho pensato: magari è dell’assassino. Assassino che è rimasto ferito ed è andato al pronto soccorso.»

 

Il vento non dava tregua. Raffiche di salino colpivano il volto come schegge di granata.

 

«Meticoloso», lo prese per il culo De Scalzi.

 

«C’è una novità: ieri mi hanno chiamato dal laboratorio di analisi chimiche...» riprese Toccalossi.

 

Tutti lo guardarono in attesa.

 

«Vi ricordate la bicicletta su cui è morto Amatucci? Quella recuperata da Desio e Torrente? Bene. Avevo chiesto di analizzare le tracce di vernice rimaste sul telaio dopo l’impatto, ed è saltato fuori che quel tipo di vernice non la fabbricano più da anni. Insomma, appartiene a un mezzo di almeno venticinque anni fa.»

 

«Abbiamo troppo poco in mano», sospirò sconsolato Maugeri.

 

«Ne azzardo una – è soltanto un’ipotesi, intendiamoci: qualcuno fa fuori Amatucci, Tropea e Giannoni e, per farlo, si avvale di uno di quei tanti disperati che ci sono in giro, che non hanno nulla da perdere, magari un rumeno o un albanese, uno che viaggia su un vecchio furgone scassato, indossa scarpe quarantatré...» disse De Scalzi.

 

«Non c’erano né albanesi, né rumeni nella lista del pronto soccorso», lo interruppe Centofanti.

 

«Be’, ho detto la mia, collega, non ti scaldare. Magari non era albanese. C’è qualcuno con precedenti di Polizia in quella lista?»

 

«Qualcuno sì, ma non attinente: due giovani sorpresi alla guida in stato di ebbrezza e altre cose così. Niente di rilevante.»

 

«Siamo al capolinea», ribadì Toccalossi.

 

Centofanti lo squadrò allusivo, inarcando un sopracciglio.

 

«Che c’è, maresciallo?»

 

«No... pensavo... volendo... lei qualche notizia riuscirebbe ad averla.»

 

«E come?»

 

«Erminia saprà bene i veri motivi per cui hanno arrestato Barbara: se sono davvero quelli riportati dalla stampa, o se c’è dell’altro, no? E poi custodirà lei il fascicolo contenente il verbale dell’interrogatorio, quando sarà disposto dal giudice per le indagini preliminari. Magari... discutendone con lei a quattrocchi... a cena... sono convinto che...»

 

Maugeri finse di tossire, mentre De Scalzi si allontanava con la scusa di fare una telefonata. La passione di Erminia per Toccalossi era risaputa, d’altronde lei stessa non ne faceva mistero. E altrettanto risaputo era il fatto che Toccalossi era davvero imbarazzato di fronte a quel perenne corteggiamento, tuttavia, talvolta cedeva e si godeva compiaciuto quelle attenzioni.

 

Il giudice si voltò verso il maresciallo: «Allora, mi sa che siamo davvero a un punto morto».

 

«Proprio morto, no. C’è Bussi che sta lavorando per noi.»

 

Si voltarono tutti a guardarlo stupefatti.

 

«Be’, noi abbiamo le mani legate, no? Lui, invece... E poi è in gamba. Paraculo, ma in gamba», cercò di giustificarsi Centofanti.

 

Toccalossi si trattenne dal ridere, lì di fronte agli altri. Attese che fosse il maggiore a dare le trippe al suo aiutante.

 

«Maresciallo, scusi, ma le indagini le facciamo noi. Che c’entra Bussi? E che accertamenti sta conducendo?»

 

«Sta indagando su una certa Miriam...»

 

«Miriam? E chi è?»

 

«La convivente di Barbara. Sì, insomma, vivono insieme. Capito, no?»

 

«E lei come lo ha scoperto?»

 

«Dunque... ieri mattina... all’alba... abbiamo fatto un servizio di o.c.p. alla villa in cui abita Barbara e abbiamo visto che lei, Barbara, sta con un’amica...»

 

«Complimenti, maresciallo», il tono del maggiore era metallico, senza alcuna inflessione. Era un rimprovero o un vero apprezzamento?

 

Centofanti continuò imperterrito: «Comunque, questi sono i fatti: Barbara ha un’amica intima, Miriam, che noi non possiamo fermare, né interrogare. Potrebbe parlarne con qualcuno al telefono o a casa e, se è come penso, a quest’ora la sua utenza telefonica sarà intercettata e quella villa sarà piena zeppa di cimici. Che ne sarebbe di noi, se dicesse che i Carabinieri l’hanno condotta in caserma e messa sotto torchio? Cosa direbbe il dottor Falck, nel momento in cui ascoltasse la registrazione? La competenza per materia e per territorio è sua, della Procura di Savona. Noi siamo tagliati fuori. Così ci siamo limitati a chiederle i documenti, fingendo un posto di controllo, soltanto per conoscerne dati e generalità...»

 

«Eh già», annuì il maggiore.

 

«Bravo, Centofanti», concordò Toccalossi.

 

Centofanti s’inorgoglì. Solo più tardi, in disparte, gli sussurrò all’orecchio: «Vedesse che gran gnocca, procuratore, altro che Erminia!»

 

Capitolo 56

 

Bussi entrò in casa, spalancò le persiane della terrazza e si mise davanti allo schermo del computer. Cominciò dai siti di escort più patinati, ma subito non la trovò. Ne esistevano un’infinità. Gli vennero in mente, allora, alcuni forum dove puttanieri incalliti si scambiavano informazioni sulle ragazze che visitavano: prestazioni, voti, pulizia, location. Ci fece un giro e finalmente la trovò. Un cliente che l’aveva incontrata (il giudizio era più che lusinghiero) forniva il link al suo sito. Cliccò e si trovò in un’anagrafe del sesso che non lasciava margini al dubbio: «GFE, vera autentica Girlfriend experience. Un’ora, 300 euro; un’ora e mezzo, 400 euro... dodici ore, 2.500 euro...» S’inoltrò in una selva di sigle e acronimi che equivalevano ai servizi offerti e negati. Erano previsti anche bonus per alcune prestazioni aggiuntive, mentre le richieste particolari dovevano essere valutate sul momento e, in caso di accordo, si chiedeva un anticipo del cinquanta per cento, pagamento con Postepay... C’era anche il numero di cellulare, quello che cercava.

 

Miriam in quel periodo riceveva a Genova. Bussi concordò l’appuntamento per il tardo pomeriggio.

 

Miriam esercitava in un appartamentino nel primo tratto di via Fieschi, tra via Venti Settembre e piazza Dante. Lui se la prese comoda. Arrivò in zona con largo anticipo, parcheggiò la Punto nel garage del giornale, al solito posto, non suo, e andò a prendere il caffè in piazza Corvetto, nel solito locale storico che piaceva tanto anche a Pertini. Preferiva allungare il percorso piuttosto che entrare in un altro bar, più anonimo e con meno storia e stile.

 

Era un giorno di maccaia, eccezionalmente caldo, per novembre. Nuvole basse, grigie che spezzavano il fiato. Accadeva, quando soffiava scirocco, che l’umidità salisse alle stelle, come la malinconia. D’inverno faceva alzare la temperatura e incupiva gli animi, in primavera poteva far crollare la colonnina di mercurio.

 

Bussi si tolse l’impermeabile e restò in giacca e camicia, sbuffando contro lo smog che impestava la piazza. Decise di scendere da via Roma, la via dello shopping di Genova; quel che restava di un’eleganza dai vezzi molto british, come per l’uomo la scarpa color cuoio chiaro, quasi gialla, portata sotto abiti blu e grigi, oppure le cravatte blu con le bandiere marinare a mo’ di cifre, vezzi che stavano ormai scomparendo, soffocati dal casual dozzinale. Passò sotto il teatro Carlo Felice e sbucò in piazza de Ferrari, il cuore della città: grandi palazzi, banche, la sede della Regione, l’ex Borsa.

 

C’era ancora qualcosa di monumentale in quella parte di città, che ricordava i fasti antichi e anche quelli di un passato più prossimo. Non era necessario, infatti, camminare a ritroso sino al Siglo de Oro, il Cinquecento, durante il quale la Superba fu una potenza economica da cui dipendevano i successi militari e politici della Spagna, per ritrovare un po’ di spessore. Sarebbe stato sufficiente tornare agli anni ben più vicini delle partecipazioni statali, dell’IRI, dell’industria sovvenzionata, per ritrovare una città dalla testa alta, con una popolazione vicina agli ottocentocinquantamila abitanti, anziché i seicentomila e rotti attuali, e con ben altro peso nazionale.

 

Fece il primo tratto di via Venti Settembre e gli venne il magone: mendicanti, venditori ambulanti extracomunitari, accattoni, negozi di cianfrusaglie... Non aveva nulla contro nessuno, ma quella avrebbe dovuto essere la via principale di Genova, la più importante direttrice cittadina, la strada di riferimento. E, a dire il vero, lo era ancora, ma certo senza smalto alcuno. Anche via Venti, come il resto della città, aveva capitolato. Sì, tutti a dire che Genova era diventata più bella, dopo la pioggia di milioni delle Celebrazioni colombiane, della Capitale europea della cultura e del G8. Vero, qualcosa era stato fatto, ma il bello era stato presto fagocitato da una quotidianità misera, sbrindellata, bolsa, talvolta cattiva che raschiava ogni granello di nobiltà.

 

Bussi attraversò, sfilò davanti alle vetrine di un megastore di libri, tagliò per la traversa di via Ceccardi e si trovò in via Fieschi. Alzò il capo per cercare il civico, lo trovò e suonò al numero 13. Rispose una voce di donna, che lo invitò a salire, mentre scattava la serratura del portone.

 

L’atrio del palazzo era enorme, marmoreo. Bussi montò su un ascensore shuttle che lo portò al quindicesimo piano, il penultimo, in una manciata di secondi. Uscì, lasciando che le porte automatiche si chiudessero silenziosamente alle sue spalle. Suonò, la porta si aprì con uno scatto metallico.

 

Entrò, proprio mentre Miriam gli si faceva incontro ad accoglierlo. Era molto bella: mora, trucco leggero ma ben studiato, seno importante, belle curve, occhi maliziosi, buon profumo, capelli tagliati corti, sopraveste di seta. Anche l’appartamento non era male, molto minimal, ma arredato con gusto. Forse un po’ freddo nell’insieme, ma del resto quella non era una casa dove si organizzassero feste per bambini...

 

Non ci volle molto per abbattere la barriera di facciata. Miriam era così addolorata per l’arresto di Barbara che Bussi ebbe gioco facile a farsi raccontare di lei.

 

«Ma come si può pensare che Barbara possa uccidere qualcuno? Non lo farebbe mai. La conosco. Anche se aveva tutte le ragioni di questo mondo per farlo. E poi, io so che non lo ha fatto, ho le prove. Lei quella notte non era con Giannoni...»

 

Miriam chiese soltanto di non essere citata nell’articolo.

 

Capitolo 57

 

Venerdì 25 novembre

 

Dalle pagine delle cronache della Liguria dell’Informazione:

 

Barbara Bellinceri aveva quindici anni quando sua madre lasciò il marito per mettersi con un brasiliano di dieci anni più giovane. Le ultime notizie di sua madre Barbara le ha lette su un foglio di carta, spedito dalla Germania: “Stiamo bene. Perdonami”...

 

Bartolomeo Bussi

 

Bussi non scrisse tutta la storia di Barbara Bellinceri come gli era stata raccontata: la ragazza era stata cresciuta da uno zio, uno zio che una sera l’aveva violentata. Lei, che allora aveva diciassette anni, aveva preso alcune cose, le aveva infilate in una sacca ed era scappata a Roma. In tasca pochi soldi, giusto per pagarsi una stanza d’albergo per quattro, cinque giorni, non di più, in una pensioncina scalcinata frequentata da balordi.

 

Uno di quegli uomini perduti l’aveva notata e l’aveva presentata al titolare di un night. C’era una pertica in mezzo al locale, e lei doveva solo girarci intorno e spogliarsi. Ogni tanto si avvicinava a uno di quegli uomini, scostava il lembo degli slip e loro guardavano un po’ prima di infilarci una banconota.

 

Aveva lasciato la pensioncina dopo un mese e preso in affitto una mansarda. Sei mesi di quella vita. E quanti uomini?

 

Sua madre le aveva scritto un’altra lettera: Maicol mi ha lasciato. C’era anche un indirizzo, ma Barbara non le aveva risposto.

 

Per i suoi diciotto anni si era fatta un regalo: un’auto decapottabile con i sedili in pelle. Quindi si era trasferita a Milano. Altro locale. Doveva esibirsi tutte le sere a mezzanotte. Era lei la star. Lei e la sua amica Miriam. La scena lesbo faceva andare in visibilio il pubblico. Le due ragazze si guardavano negli occhi, si accarezzavano, cominciavano a baciarsi, poi Miriam si distendeva a terra e Barbara seguiva i contorni del suo corpo con le labbra... Miriam si girava, inarcava la schiena, gemeva... Non fingeva Miriam, e nemmeno Barbara. Avevano preso casa insieme. Dalle undici del mattino alle nove di sera potevano replicare quello spettacolo in privato, per soli clienti facoltosi: mezz’ora, mille euro.

 

Prendere o lasciare.

 

Prendevano.

 

Uomini!

 

Come l’assessore Duilio Giannoni.

 

«Voglio portarti via di qua», le aveva detto una sera, in un locale di Genova, dove si era appena trasferita.

 

Sai che novità. Su dieci, nove se ne uscivano con quella frase scontata. Lei sbadigliava, mascherando la noia con un sorriso.

 

Era stato a una riunione di partito, l’assessore, e dopo un amico lo aveva portato in quel locale. Lì Giannoni aveva incontrato Barbara e le aveva offerto da bere, poi le aveva chiesto di seguirlo in albergo. Pagamento anticipato, s’intende: duemila euro, per tutta la notte.

 

«Voglio portarti via da quel locale. Io mi sono innamorato di te, Barbara», le ripeteva. E, per farsi bello, le aveva raccontato la sua vita, gli intrallazzi. Non tutti, però. Aveva omesso qualche dettaglio. Nella sostanza voleva che lei capisse che lui non era solo un politico locale, ma anche un uomo d’affari di successo, uno pieno di soldi, con le mani in pasta ovunque.

 

Giannoni si era ripresentato la settimana successiva con una busta zeppa di banconote e un mazzo di chiavi. Le chiavi aprivano una villa sulle alture di Noli, intestata a una delle tante società di René; i quindicimila euro (all’incirca quello che Barbara guadagnava in un mese, tra il locale e gli incontri speciali) erano un piccolo anticipo a dimostrazione della sua generosità. A quell’epoca Barbara aveva ventidue anni.

 

«Ti voglio vicino a me», le aveva detto.

 

E Miriam?, aveva pensato Barbara. Ma non aveva rivelato nulla. Non le piaceva parlare di sé, dei suoi sentimenti con estranei. E Giannoni era un estraneo.

 

A volte lui si assentava e stava via giorni, settimane. Allora, Barbara rivedeva la sua donna, che nel frattempo aveva chiamato vicino a sé, a Genova. La ospitava a Noli, dormivano insieme. Spesso neanche si sfioravano. L’amore sovente non ha bisogno di sesso.

 

Ora Barbara era in carcere...

 

Capitolo 58

 

Quella stessa mattina, in carcere, ci fu l’interrogatorio di Barbara Bellinceri. Il suo legale, il penalista Pierluigi Pesce del foro di Savona, le consigliò di collaborare, di fornire quante più informazioni poteva. Sarebbe servito agli inquirenti per fare chiarezza sui fatti e dimostrare la sua innocenza.

 

E Barbara fu un fiume in piena: parlò dei festini a base di coca; fornì nomi e numeri di telefono dei suoi clienti, tra i quali nomi di spicco, come quello del senatore Grimaldi; ottenne che fosse recuperata la sua agendina sulla quale segnava tutto e la mostrò agli inquirenti.

 

Quattro ore durò la sua deposizione, che fu registrata e poi confermata dai controlli incrociati sui tabulati telefonici. Oltre al giudice per le indagini preliminari c’erano il pubblico ministero, un cancelliere e due ispettori della sezione di Polizia giudiziaria.

 

Bussi arrivò al palazzo di Giustizia di Savona all’ora di pranzo, proprio quando gli ultimi processi stavano volgendo alla pausa intermeridiana. Era l’ora migliore, quella, per quanto si apprestava a fare: gli avvocati si erano dileguati, il personale giudiziario aveva già respinto l’assalto giornaliero del pubblico e degli addetti ai lavori, la maggioranza di chi frequentava quelle mura stava pranzando o si stava attrezzando per farlo.

 

Aveva chiamato una sua vecchia fonte, un poliziotto che gli doveva un favore mai riscosso. Chissà, probabilmente quel sottufficiale aveva già archiviato la pratica, non immaginando più che Bussi, ormai volato verso altri lidi, si sarebbe presentato per chiederne conto. Fu piuttosto sorpreso, infatti, di sentire la sua voce.

 

Questi faceva parte della Polizia giudiziaria della Procura, aliquota della Polizia di Stato. Era un mago delle intercettazioni, nelle quali in effetti si era specializzato, condannandosi così a trascorrere buona parte dei suoi giorni e delle sue notti in stanze buie al pianoterra del palazzo di Giustizia. Ma a lui piaceva quel lavoro. Chissà che gusto ci provava, pensò Bussi, mentre scendeva le scale.

 

L’ispettore era da poco rientrato in sede, dopo aver accompagnato il dottor Falck in carcere per l’interrogatorio di Barbara.

 

«Uhei, Bartolomeo, come stai?» lo salutò il poliziotto con la sua inflessione napoletana, mai dimenticata, sebbene vivesse a Savona ormai da una vita.

 

«Mi difendo, dài. E tu?»

 

«Eeh, che vuoi fare...»

 

«Hai già pranzato?»

 

«Sì, tu?»

 

«No, ma non importa. Senti, avrei bisogno di un favore...»

 

Uscì dal palazzo di Giustizia con una traccia dell’interrogatorio, qualcosa di buono, che avrebbe integrato con un successivo colloquio nello studio dell’avvocato difensore della donna.

 

La Bellinceri aveva tirato in ballo Giannoni, il senatore Grimaldi e Tropea (che bella compagnia!); aveva parlato dei party, di quei party di cui lui aveva già scritto, e soprattutto delle strette connessioni tra Giannoni e Tropea, degli affari che portavano avanti, degli appalti pilotati (cazzo, ci stava un altro pezzo, eccome!); si era anche tirata fuori dal delitto, e per farlo aveva chiamato in causa un altro pezzo grosso, che quella notte l’aveva avuta, dopo che lei aveva lasciato l’assessore (ma questo glielo aveva già raccontato Miriam). Bisognava vedere se adesso quell’uomo avrebbe testimoniato in suo favore.

 

Capitolo 59

 

Sabato 26 novembre

 

Bussi ripiegò il quotidiano e lo abbandonò sul bancone dei gelati. C’erano giorni in cui gli piaceva rileggere ciò che aveva scritto. Era uno di questi. Giorno sì per la barba, il cappuccino e brioche al bar, alla faccia dei trigliceridi, e una bella e sana levataccia. Guardò l’ora: le dieci del mattino... Be’, per lui era levataccia. Si gustò l’ultima briciola di quel calcio nel fegato, salutò il titolare surfista della caffetteria e montò sulla Punto cabrio posteggiata in seconda fila.

 

Anni fa quello era il modo consueto con il quale cominciava la giornata: cappuccino, brioche e lettura del quotidiano, e sigaretta. Ma aveva smesso di fumare da un pezzo, e si era fatto un regalo.

 

La prima tappa sarebbe stata Sanremo, centocinquanta chilometri circa. Aveva avvisato del suo arrivo il maresciallo Riccardo Frescobaldi, un vecchio amico che, intuendo la delicatezza della questione, gli aveva dato appuntamento durante la pausa pranzo.

 

Poi da lì Bussi si sarebbe recato a Bordighera, e infine a Ventimiglia. Sulla strada del ritorno si sarebbe fermato ad Andora, Albenga e Borghetto Santo Spirito.

 

Gettò l’occhio allo schemino tracciato su un foglio di carta, che ora giaceva sul sedile anteriore della sua auto. Se era vero, com’era vero, che soltanto alcune ditte in Riviera vincevano i grossi appalti a favore degli enti pubblici; che tutte queste società, al di là dei nomi, erano ricollegabili al costruttore Tropea; che gli amministratori pubblici coinvolti nelle gare e nel rilascio delle concessioni facevano parte dello stesso movimento politico dell’assessore Giannoni e del senatore Grimaldi; allora, oltre alle feste particolari di cui gli avevano parlato sia Miriam sia Barbara, ci doveva essere altro da scrivere. Quei lavori, inoltre, dopo la scomparsa di Tropea, si dovevano essere, per forza di cose, fermati... Urgeva andare a vedere, andare sul posto, scendere in pista, come ai vecchi tempi.

 

Il maresciallo Frescobaldi era un amico di vecchia data e un sottufficiale molto attento alle infiltrazioni criminali nel tessuto sociale. Anzi, per essere precisi, agli intrecci tra criminalità organizzata e politica. Già ai tempi delle loro frequentazioni, Frescobaldi aveva manifestato a Bussi le sue perplessità su certi equilibri nella Riviera e sulla carriera politica di Grimaldi, così potente da essere stato eletto senatore ed essere stato nominato per ben due volte, in due diverse legislature, sottosegretario agli Interni. Voci, ma soltanto voci, sussurravano l’ipotesi del voto di scambio, di frequentazioni pericolose. L’unica verità è che Grimaldi aveva in mano buona parte della regione.

 

Il mare sulla sinistra era una tavolozza di colori scuri, per nulla attraente. Faceva paura quel nero minaccioso, agitato, fragoroso, inquietante. Sembrava quasi un avvertimento: non è una buona idea immergersi in queste acque, sembrava dirgli il mare, tanto meno per stanare certi polpi.

 

Bussi si concentrò sul tragitto che doveva ancora percorrere.

 

Frescobaldi lo stava aspettando sul promontorio, a ridosso della passeggiata. Aveva il volto sorridente di chi ha piacere di rivedere un vecchio amico.

 

Bussi posteggiò con molta facilità, a quell’ora l’Aurelia era pressoché deserta. Scese dall’auto rispondendo all’amico con un sorriso.

 

Si abbracciarono.

 

Frescobaldi non era cambiato: robusto, faccione pieno, pochi capelli, pancia prominente che tirava i bottoni della divisa, dalla quale non si separava mai. Originario di La Spezia, aveva quella strana intonazione ligure imbastardita dal toscano, propria di quella terra di confine. «Ehi, Barto, se sei tornato da queste parti, dopo tanti anni che non ci vediamo... mi sa che non è per venire a salutare un amico.»

 

«Oh, sei sempre uguale, eh! Mai un bel pensiero. Ti va un caffè, piuttosto?»

 

«E perché no? Ma se dobbiamo parlare, è meglio non farlo al bar.»

 

Bussi comprese: metà delle attività commerciali della Riviera non erano altro che coperture, un modo semplice per riciclare danaro sporco. Bar, ristoranti, pizzerie, gioiellerie... era tutto in mano alle stesse poche famiglie. Ma, a differenza di quanto accadeva nel Sud Italia, in Liguria non si compivano attentati, non si chiedeva il pizzo, non si mettevano bombe. Sì, ogni tanto qualche incendio, ma era sufficiente un funzionario scrupoloso del Comune per non concedere la licenza a chi non era gradito o per disporre severi controlli della Polizia municipale e far abbozzare le teste più riottose. Quindi era meglio non entrare in un bar se volevano parlare di certi argomenti. Molto più indicata la spiaggia, quasi deserta a quell’ora, in quella stagione.

 

«Di che cosa ti stai occupando, adesso?» chiese il maresciallo.

 

«Di diverse questioni... Anzitutto, della morte del costruttore Tropea e dell’assessore Giannoni. Poi dei festini a base di sesso e droga organizzati da certi politici. E, ancora, degli appalti che certe imprese, sempre le stesse, riescono a vincere nel Ponente ligure. Ti basta? O vuoi che aggiunga anche gli intrallazzi del senatore Grimaldi?»

 

«Minchia! Non ti neghi nulla, eh? Be’, non ne so molto. Queste sono cose grosse, questioni di cui si occupa l’Antimafia.»

 

L’Antimafia se ne stava già occupando, come aveva visto a casa di Centofanti, rifletté Bussi. C’erano già stati anche alcuni sequestri di cantieri, uno proprio a Sanremo.

 

«Detto fra noi, a me quel Grimaldi non è mai piaciuto, ma vorrei terminare la mia carriera qui a Sanremo. Ho già girato mezza Liguria e mi sono sposato da poco.»

 

«Sposato? Ma dài! Congratulazioni!»

 

«Se non muovete un po’ le acque voi, noi abbiamo le mani legate...»

 

«Dov’è a Sanremo il cantiere di Tropea?»

 

«L’ultimo che hanno messo in piedi dista da qui solo poche centinaia di metri. Stanno costruendo una scuola. Se vuoi, ti ci accompagno.»

 

«Sì, andiamo. E adesso, è fermo?»

 

«Fermo? Certo che è fermo. Dopo il sequestro disposto dalla Procura antimafia, ha i sigilli. Sono convinto, però, che presto riprenderà a girare a pieno regime.»

 

«Hai fatto qualche visura? Tropea è morto. Chi è subentrato nella gestione?»

 

«Per ora nessuno. Ma vedrai che alla fine ci sarà sempre un Tropea.»

 

«Se il cantiere riprenderà a lavorare, vorrà dire che Tropea non era il deus ex machina, che non era il capo.»

 

«Ho letto sul tuo giornale che è morto anche Amatucci, l’agente immobiliare di Varazze...» buttò lì Frescobaldi.

 

Cazzo, pensò Bussi, questo gli era sfuggito. «Chi è? Anzi, chi era? Era collegato a Tropea? Avevano rapporti di lavoro?»

 

«E non lo sai? Tropea costruiva e Amatucci piazzava. Entrambi grandi amici di Giannoni.»

 

«Vuoi dire che erano tutti in combutta? Che facevano parte della stessa cricca? E ne faceva parte anche Giannoni? Ma allora...»

 

«Ho capito dove vuoi arrivare, Bussi. Se pensi a Grimaldi, l’illazione è soltanto tua. Non voglio avere grane.»

 

«Grimaldi spianava la strada alla cricca, Tropea costruiva, Amatucci piazzava e Giannoni era il braccio operativo del senatore, che garantiva la copertura politica necessaria in Regione e nei Comuni guidati dal partito, in cambio di tangenti.»

 

«Sono tutti ragionamenti tuoi.»

 

«I collegamenti ci sono, dài, e poi ho anche altri riscontri: frequentavano le stesse escort, gli stessi party. Dài, di Barbara Bellinceri lo sai, non far finta di nulla. È stata appena arrestata. Non fare il carabiniere...»

 

«Be’, sì, forse qualcosa c’è...»

 

«So che la Procura di Savona ha scovato in casa della Bellinceri alcune foto che la riprendono in atteggiamenti intimi col senatore...»

 

«Come lo hai saputo?»

 

«Lascia stare. Qualche amico ce l’ho ancora...»

 

«Faceva la escort, più o meno con un’ampia libertà di scelta. Andava con chi la pagava, per cui probabilmente anche con Grimaldi...»

 

«Grimaldi e tanti altri. Ma sono convinto che non abbia ucciso Giannoni. Perché avrebbe dovuto? E poi, te la vedi? Piuttosto, sai cos’è che non capisco, caro amico maresciallo? Non fraintendermi, ti prego, ma non capisco come mai voi sapete tante cose e...»

 

«E non le riferiamo all’autorità giudiziaria, intendi?»

 

«Sì, non capisco perché certi giri, certe segnalazioni restino nei vostri cassetti. Ma, soprattutto, non capisco perché, stante questa sorta di moratoria, talvolta qualcuno di questi fascicoli venga a galla...»

 

«Il più delle volte rimangono nascosti, è vero. Ma ogni tanto... Me lo sono domandato anch’io il perché, Bussi, e sai qual è la risposta che mi sono dato?»

 

«No.»

 

«Non la immagini?»

 

«E cos’è, un quiz?»

 

«Vuoi sapere perché ogni tanto viene fuori uno scandalo? Pensavo l’avessi intuito: per tacere su uno più grande. Ti sei mai chiesto a cosa servano i vice, i cosiddetti colonnelli, i bracci destri, nella politica come nelle istituzioni?»

 

«Per prendersi le colpe dei capi?»

 

«Certo. Vengono fatti fuori, tolti di mezzo, mentre i loro capi sopravvivono. Magari restano fermi un giro, nell’attesa che le acque si calmino o magari ricominciano da un’altra parte con i loro intrallazzi.»

 

«Vuoi dire che...»

 

«Che la metà di quelli su cui indaghiamo è fatta di teste di legno, burattini, pedine, anche se ricoprono cariche importanti. Prendi questo caso, ad esempio, quello su cui vuoi fare chiarezza: sono morti Tropea e Amatucci e, guarda la coincidenza, entrambi per colpa di un incidente. Non ti sembra già strano? Eppure, tutte le loro attività sono rimaste in piedi, e vedrai che tra poco, quando anche gente come te si sarà dimenticata di loro, queste attività riprenderanno il loro corso. Tutto come prima, come se niente fosse... E chi sta al vertice non lo prenderemo mai. Vedi, Bussi, a volte è sufficiente un piccolo scandalo, una piccola miccia accesa per far partire le indagini, così si scopre una magagna e se ne copre una più grande.»

 

Bussi rimase silenzioso a pensare poi guardò in faccia il maresciallo. «Ti conosco, Riccardo: sai qualcosa che io non so, qualcosa che vuoi dirmi, che ti rode.»

 

Frescobaldi guardò l’amico. «Bartolomeo, mi sono appena sposato, sono stanco di girare, voglio fermarmi qui...»

 

Erano ritornati verso il molo. Il mare era come impazzito, le onde si infrangevano sugli scogli con un frastuono pauroso, spruzzi di salino bagnavano i loro volti, lasciandoli umidi e salati.

 

Bussi capì che la loro conversazione era giunta al termine e sentì montare dentro di sé la rabbia. La stessa rabbia che provava quando faceva il cronista a tempo pieno e viveva con entusiasmo la ricerca della verità. La rabbia che non riusciva a trattenere dinanzi a chi cercava di mettergli il silenziatore. E alla fine si era proprio rotto i coglioni e gli erano venuti a noia quei dico e non dico, quelle mezze frasi, quegli indugi. Carabinieri, poliziotti, magistrati che buttavano lì pezzi di verità, che alludevano al resto, ma se lo tenevano ben stretto, celandosi dietro il segreto istruttorio. Anche per questo aveva smesso di occuparsi di cronaca giudiziaria. Una rabbia con cui aveva imparato a convivere, ma non sempre a controllare.

 

E sbottò: «Hai ragione, è meglio che tu non dica più nulla. Continua a vivere tranquillo, con la tua mogliettina. Non ti scomodare per me. Cazzo, tutti cuor di leone voi dell’Arma, eh? Belìn, spada in resta e avanti popolo! Ma vaffanculo, Riccardo. Di cuore».

 

Frescobaldi rimase basito. Non si aspettava una reazione simile, né pensava di meritarla. «Ma dài, Bartolomeo, non mi sembra il caso... Così mi offendi...»

 

«Guarda, il fatto che tu ti senta offeso dalle mie parole mi lascia indifferente. Anzi, sai che ti dico? Vaffanculo! Vaffanculo a te e a tutti quelli come te!»

 

Bussi uscì di scena lasciando il maresciallo sottosopra, attonito. Riguadagnò a grandi passi l’auto, salì e si pentì all’istante di quello sfogo. No, Riccardo non si meritava di essere straccionato in quel modo. Lo aveva accolto col sorriso, a braccia aperte, e lui lo aveva mortificato. Ma era fatto così Bussi, s’incendiava per poi spegnersi nel rammarico. Innestò la prima, accese l’autoradio e se ne andò, con la capote rigorosamente chiusa. Di solito ascoltava l’iPod anche in macchina e non poteva soffrire quelli che imponevano le proprie personali scelte musicali, lasciando abbassati i finestrini o, peggio, con la capote aperta. Per non parlare di chi si metteva a cantare. Lui non lo aveva mai fatto e se ne guardava bene. Se l’avessero visto, si sarebbe vergognato a morte.

 

Capitolo 60

 

Domenica 27 novembre

 

Dalle cronache della Liguria dell’Informazione:

 

Una cricca. Potente, scaltra, priva di scrupoli. Politici, costruttori, immobiliaristi, una girandola di società e di prestanome. Escort e cocaina, per movimentare i dopocena. E sull’altro piatto della bilancia, il cemento. Una colata di cemento che si è riversata lungo le coste liguri...

 

Bartolomeo Bussi

 

Bussi raccontò tutto quello che sapeva: gli intrecci fra Tropea e la politica; il ruolo di Grimaldi e quello di Giannoni; inserì un nuovo nome, quello di Amatucci; ripassò gli anelli della rete societaria che stava dietro quell’associazione per delinquere; descrisse ancora una volta le feste sfrenate durante le quali quegli uomini si lasciavano andare, abbacinati dai soldi e dal potere; usò più volte le parole di Miriam, quelle che lei gli aveva quasi sussurrato, tra le lacrime; e riabilitò Barbara. Infine, passò in rassegna i Comuni dove le imprese che facevano capo a Tropea avevano avuto vita e appalti facili: nessuna accusa, solo un elenco di opere e di delibere; nessuna ipotesi, soltanto una lista di finanziamenti.

 

L’articolo ebbe una pagina intera nelle cronache italiane con richiamo in prima. I telegiornali ci si gettarono sopra a pesce, rimediando al buco con ampi servizi. Il senatore Grimaldi, travolto dallo scandalo, si dimise dall’incarico di governo da sottosegretario, ma non lasciò il suo scranno a Palazzo Madama.

 

«Che chiedessero alla giunta l’autorizzazione a procedere», pare abbia detto ai suoi.

 

Il direttore chiamò Bussi poco prima dell’ora di pranzo, al termine della riunione. Si complimentò, gli disse che chi aveva cominciato dalla gavetta, come loro, aveva imparato l’ABC del giornalismo, che era nato cronista e lo sarebbe sempre stato, lo lisciò per bene e poi, quasi a bruciapelo, sparò la cannonata: «Va be’, ma adesso quando torni?»

 

Bussi sentì la bocca dello stomaco serrarsi, come quando varcava il Turchino.

 

Capitolo 61

 

Dieci giorni dopo, Toccalossi stava precisando le motivazioni della richiesta di custodia cautelare nei confronti di alcuni amministratori pubblici della Riviera di Ponente interessati dalle speculazioni edilizie.

 

PROCURA DELLA REPUBBLICA DI GENOVA

 

DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA

 

RICHIESTA DI CUSTODIA CAUTELARE

 

Al Sig. Giudice per le Indagini Preliminari

 

presso il Tribunale di Genova

 

...all’uopo, occorre notare che a carico degli indagati sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato a loro addebitato emergenti dalle indagini espletate dal personale della DDA.

 

La gravità dei fatti e l’allarmante pericolosità sociale degli indagati, desunta dalle modalità della condotta criminosa, che denota particolare determinazione ed esperienza nella commissione di reati contro la pubblica amministrazione, fanno ritenere, con sufficiente ragionevolezza, che gli stessi non si asterranno dal commettere ulteriori reati della stessa specie di quelli per cui si procede, per cui sussistono le esigenze di cui all’art. 274, lettera c) del c.p.p.

 

Misura adeguata alle esigenze da tutelare appare quella della custodia in carcere, in quanto una maggiore libertà di movimento degli indagati non impedirebbe la commissione di ulteriori reati...

 

«Permesso?»

 

«Avanti!» disse Toccalossi senza voltarsi.

 

«Sempre al lavoro, eh, procuratore!»

 

La mente che rielabora la voce, la incasella, la riconosce e comanda al viso un’espressione di gioia. Gli occhi si illuminano. «Ruggero? Sei tu?»

 

Il maggiore dei Carabinieri Maugeri, fermo immobile sulla soglia.

 

«Ma che fai lì impalato? Entra, dài. Qual buon vento?»

 

«Nulla, sono soltanto passato a salutarti. Che fai di bello?»

 

«Sto approntando una richiesta di custodia cautelare per alcuni di quegli amministratori pubblici corrotti. Qualcosa si è mosso finalmente, qualcuno ha cominciato a parlare, i consiglieri di minoranza hanno rotto gli indugi. A uno a uno quelli della maggioranza si stanno dissociando dalle posizioni di Grimaldi. Ovvio, ora che è caduto in disgrazia. Adesso abbiamo elementi sufficienti per dimostrare la corruzione negli appalti pubblici, e andiamo avanti.»

 

«Ma del nesso tra droga e investimenti nulla?»

 

«Purtroppo, no. Ma, insomma, quello che facciamo è già qualcosa. A proposito, mi hai ricordato che...»

 

«Cosa?»

 

«Che devo archiviare quel fascicolo per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio dei proventi derivanti dalla vendita di stupefacenti. Aspetta prendo il modulo. Dove l’ho messo? Aaah... eccolo.»

 

PROCURA DELLA REPUBBLICA DI GENOVA

 

DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA

 

RICHIESTA DI CUSTODIA CAUTELARE

 

Al Sig. Giudice per le Indagini Preliminari

 

presso il Tribunale di Genova

 

Il procuratore distrettuale, dott. Lorenzo Toccalossi,

 

visti gli atti del procedimento penale a carico di Amatucci Alfonso, Tropea Carmelo e un non meglio identificato il Grigio, per i reati di associazione a delinquere finalizzata allo smercio di sostanza stupefacente e al riciclaggio del guadagno conseguitone...

 

Ritenuto:

 

(_)che non sono emersi consistenti indizi a carico de_ indagat_ in ordine a_ reat_ di cui sopra

 

(_)che il dibattimento non potrà fornire ulteriori elementi probatori di accusa

 

(_)che il querelante ha rimesso la querela

 

(_)che i_ reat_ è/sono estint_ per morte del reo

 

(_)che l_ indagat_ ha_ provveduto al pagamento della somma dovuta a titolo di oblazione

 

(_)che il fatto non è più previsto dalla legge come reato

 

(_)che il reato è estinto per avvenuta prescrizione

 

P.Q.M.

 

Visti gli artt. 408 c.p.p. e 125 D.Lv. 271/89

 

CHIEDE

 

disporsi l’archiviazione del procedimento e la conseguente restituzione degli atti al proprio Ufficio.

 

Genova, ___________

 

IL PROCURATORE DISTRETTUALE ANTIMAFIA

 

Lorenzo Toccalossi

 

Barrò la casellina «Per morte del reo» e infilò il foglio nel fascicolo. Due indagati su tre erano deceduti, il terzo non si sapeva chi fosse: il suo fascicolo sul riciclaggio era andato a farsi fottere.

 

Ma almeno una piccola vittoria l’aveva portata a casa: alcuni sindaci e assessori dei Comuni finiti sotto la sua lente erano stati raggiunti da avvisi di garanzia per gli appalti truccati, e adesso per gli stessi richiedeva al giudice una custodia cautelare in carcere palesandosi il rischio di inquinamento delle prove.

 

Non era una vittoria, ma nemmeno una sconfitta.

 

Qualcosa di simile a un onorevole pareggio.

 

Magari fuori casa.

 

Fabio Pozzo, Roberto Centazzo - Signor giudice basta un pareggio
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