Parte prima

 

 

Capitolo 1

 

Lunedì 3 ottobre

 

Belìn, che storia!

 

Olha que coisa mais linda mais cheia de graça... Lo sognava da una vita. Ballare Garota de Ipanema con una gran gnocca, a Ipanema.

 

Era sulla terrazza dell’hotel. In completo di lino ecrù, spezzato da una camicia azzurra e mocassini Church’s neri. Forse erano un po’ troppo pesanti, ma gli piaceva sentire sotto i piedi una suola importante. Odiava le Car Shoe, tuttalpiù indossava Dockside Sebago, le scarpe da barca di Kennedy. L’aveva incontrata nella hall. Alta, capelli castani, occhi verdi. Una seconda ben disegnata, culo sporgente sotto la seta dell’abitino crema che le lasciava le spalle scoperte, larghe, da nuotatrice. E pelle bianca, ambrata dal sole. Non c’era stato bisogno di grandi discorsi. S’erano intesi alla prima. Cena, terrazza, musica, ballo... Moa do corpo dourado do sol de Ipanema...

 

Se l’era sognato proprio così. Il cielo scuro, quasi violaceo. Le stelle, il mare, le onde che rotolavano sulla spiaggia.

 

Si muovevano lenti, languidi. Oscillavano, più che ballare. Sentiva il profumo di lei, leggero, fruttato. La sua mano che gli accarezzava la nuca, gli sfiorava i capelli. La sua voce, che canticchiava sussurrando le parole di Vinicius de Moraes. E fica mais lindo/Por causa do amor... Il suo corpo, morbido, che emanava il calore del sole. Non s’era messo le mutande. Ma se è per questo non le portava nemmeno lei.

 

Sex and drugs and rock and roll

 

Is all my brain and body need

 

Sex and drugs and rock and roll

 

Are very good indeed...

 

La voce ruvida di Ian Dury interruppe il suo sogno proprio sul più bello.

 

«Cazzo, la sveglia!» imprecò Bussi.

 

Gli ci volle giusto un amen per capire. Non era a Ipanema. Quella che spuntava dalle tende era Genova, la sua città. E non c’era nessuna garota dall’altra parte del letto.

 

Si alzò a fatica. Impiegava sempre un certo tempo per carburare. Doveva aspettare che si mettessero in moto i bioritmi, che passassero dalla versione notturna a quella diurna. Questa operazione gli ricordava il cambio di marcia dei grandi diesel dei transatlantici: non si può passare di colpo dall’avanti tutta all’indietro tutta. Vanno rispettati i tempi tecnici dell’inversione. E aspettare che si compia.

 

Andò in bagno, a piedi nudi. Non sopportava nessun tipo di pantofole. Gli piaceva calpestare il parquet, anche d’inverno. Si guardò nello specchio, passandosi la mano sulle guance. Quello era il giorno no. La barba se la sarebbe fatta l’indomani.

 

Si spostò in cucina. Da un po’ di tempo s’era messo in testa di alimentarsi con più cura. Aveva eliminato dalla colazione le brioche e il cappuccino. Un suo amico medico gli aveva consigliato tè, biscotti e persino il bianco d’uovo fritto. Ma quella mattina non ne aveva voglia. C’era il bar vicino a casa.

 

Cambiò idea sulla barba. Si diresse nuovamente in bagno e prelevò dall’armadietto la bomboletta di schiuma per radersi. Il giorno no? Be’, che importa? Aveva imparato a convivere con la sua pigrizia. La barba a giorni alterni era il giusto compromesso tra l’indolenza e la vanità. Ma non corrispondeva comunque a legge divina, incisa su tavole di pietra. Le regole erano fatte per essere violate. E poi, chi avrebbe detto qualcosa?

 

Anche quella mattina si esercitò in un dialogo con se stesso degno di una disquisizione filosofica, un dialogo paragonabile a quelli più celebri di Platone, sebbene più metafisico, trattandosi di un soliloquio con la sua immagine. E se non è finezza questa!

 

Sorrise. Gli capitava spesso di ridere di sé guardandosi allo specchio. Cominciamo bene, si disse, pensando alle sue riflessioni. Cominciamo davvero bene, Barto. Eh, sì. Usava pure un nomignolo in quei solitari scambi di opinione.

 

Si chiamava Bartolomeo Bussi. Era giornalista. O meglio, lo era stato. Oggi era il caporedattore centrale dell’Informazione, il quotidiano nazionale, il giornale per il quale lavorava. Poteva essere soddisfatto. Aveva cominciato come collaboratore delle pagine dedicate alla Riviera ligure, pedina nell’ultimo avamposto dell’impero. Per poi crescere. Era stato assunto come cronista, si era occupato di nera e soprattutto giudiziaria, sempre nella sua regione. Finché aveva accettato di spostarsi a Torino.

 

Dopo sei mesi da pendolare sotto la Mole, accampato in un piccolo albergo in collina, che aveva scelto perché circondato dal verde, tanto da celargli la vista della città, aveva traslocato da Genova con tutta la famiglia. Sua moglie, Giorgia, l’aveva presa piuttosto bene: era riuscita a mantenere il suo lavoro di assicuratrice, chiedendo il trasferimento alla compagnia, e questo aveva evitato i mugugni che ci sarebbero sicuramente stati se fosse stata costretta a dimettersi. Adesso, poi, aveva deciso di prendersi un anno sabbatico, o forse più. Ogni tanto sbrigava qualche pratica, ma in ufficio aveva smesso di andare da un pezzo. Preferiva, gli aveva detto, occuparsi a tempo pieno dei figli. Si chiamavano Mattia e Giulia, avevano otto e dieci anni, e per loro era stato tutto più facile: erano piccoli al momento del trasferimento e non se n’erano nemmeno accorti.

 

Quanto a lui, aveva accettato il prosieguo di carriera con filosofia. La Liguria, ormai, sotto il profilo professionale, gli stava stretta e non aveva altra strada da seguire se non quella che varcava l’Appennino. Certo, gli era pesato e gli continuava a pesare. Si sentiva un emigrante e, tutte le volte che valicava il Turchino, gli si stringeva la bocca dello stomaco e serrava i denti. Allora scuoteva il capo e cominciava a smadonnare. Una consuetudine che con gli anni aveva acquistato la forza di un mantra.

 

Perché lui in fondo non si era trasferito definitivamente. Era di passaggio, a Torino. Non per nulla aveva mantenuto casa a Genova, a Quinto, dove aveva cominciato a convivere con Giorgia e dove erano nati i suoi figli. E non era tanto per caso se ogni due settimane ci tornava, rubando tre giorni di sole alla Pianura Padana. Su questa boccata di iodio non transigeva: al giornale erano stati costretti a fare buon viso. Cascasse il mondo, lui era di riposo lungo: il weekend di ogni seconda settimana piazzava la tripletta. E tornava a casa. Anche da solo.

 

Cominciò a radersi. Continuando il dialogo con se stesso.

 

La verità è che il sole della Liguria, la sua aria, il suo blu lo appagavano, colmando il bicchiere mezzo vuoto che aveva dovuto trangugiare accettando l’esilio. Un mezzo vuoto fatto di nebbie, neve, grigio, freddo e di tanta gente senza slanci. E poi amava la sua casa, la terrazza affacciata sul mare. D’inverno soprattutto. Apriva le imposte, usciva all’aperto e lasciava correre lo sguardo su quella distesa d’acqua inquieta, che si muoveva anche di notte. Allora, respirava a pieni polmoni l’aria fredda del mattino ricca di iodio, godendosi il gusto salmastro della brezza.

 

Viveva all’ultimo piano di un vecchio palazzo che stava in bilico tra il mare e l’Aurelia. Un edificio con le facciate che ogni tot anni dovevano fare i conti con la salsedine e che per questo erano state rifatte da poco. La terrazza era sospesa tra cielo e mare, con una tenda avvolgibile bianco sporco, il tavolino e le poltroncine di legno e tessuto in tinta. L’appartamento guardava fuori attraverso due grandi portefinestre scorrevoli ed era arredato con ricercata semplicità. Tanto bianco, blu, grandi macchie di giallo e arancione accesi. Qualche pezzo antico, alternato al design contemporaneo e anni Cinquanta. Alcuni quadri, soprattutto yachts portraits e vecchie stampe di regate e linee di navigazione. E poi libri, tanti libri. Catalogati con finta noncuranza. In realtà, li aveva divisi secondo una classificazione personale che teneva conto di argomenti e coordinate geografiche.

 

Si lavò il viso, nettando gli ultimi rimasugli di schiuma. Si spalmò la crema dopobarba e tornò in camera.

 

Si vestì con calma: blazer blu, camicia bianca rigata celeste, denim verde militare, mocassini neri, gli stessi di Ipanema. Ci teneva al look, ma senza esagerare. Casual, ma con stile. Anche perché quelli tutti azzimati non gli piacevano. E poi, gli era difficile esserlo. Aveva l’eleganza un po’ stazzonata di chi ha qualche chilo di troppo. Un sovrappeso contenuto, che arrotondava il fisico robusto, ma tutto sommato ancora prestante per i suoi cinquant’anni.

 

Uscì di casa, risalì il vicolo, s’incamminò lungo il marciapiede dell’Aurelia e raggiunse il bar. Era una caffetteria, volendo essere tignosi, condotta da tre soci che si alternavano dietro il banco con una turnistica meticolosa: apertura, pranzo, chiusura, fatte salve le pause. Uno aveva la passione del surf e girava il mondo a caccia di onde; un altro aveva casa in Brasile e si concedeva lunghe vacanze fuori stagione; il terzo inforcava la moto e spariva...

 

Fu tentato dall’ultima striscia di focaccia. Aveva il bordo croccante, come piaceva a lui. Il suo amico medico gli aveva consigliato di bandirla, perché intrisa di strutto, che era un calcio nel fegato. Se ne sarebbe mangiate sette, quella mattina, di quelle strisce unte. Le avrebbe gustate alla rovescia, col sotto rivolto verso l’alto, perché aveva letto che quello era il miglior modo per apprezzarle. Questione di papille. Si fermò in extremis, con la mano già nella vetrinetta. Si fece indietro, forte della prova di volontà. Per capitolare subito dopo, vinto da un panino mignon imbottito di Nutella, ’fanculo il fegato.

 

«Un macchiato, grazie», disse.

 

Prese la tazzina e si avvicinò al contenitore dei gelati, sul quale era scompaginato il quotidiano cittadino. Scorse i titoli, velocemente. Nella sua posizione non doveva occuparsi dei buchi di cronaca locale, delle notizie perse dal suo giornale e riportate invece dalle pagine delle testate concorrenti, quelle che riguardavano esclusivamente Genova e la Liguria e non avevano rilevanza nazionale. Era una rogna che toccava agli altri colleghi, ai responsabili delle redazioni provinciali. Tuttavia, quella del buco era una malattia che aveva nel sangue, soprattutto se riguardava casa sua. Aveva fatto per tanti anni la gavetta in prima linea, e questo lo aveva marchiato a fondo. Tatuato nel cervello. Il buco gli tirava le cicatrici.

 

Per ogni giornalista la lettura dei giornali al mattino è un rito. Esclusivo.

 

Le persone normali non leggono sei, sette quotidiani, dunque della notizia persa non se ne accorgono. Nessuno si mette a dire: ma guarda, quello ha questa notizia e questo no. E, comunque, se anche se ne accorgesse, non gliene potrebbe fregare di meno.

 

Per i giornalisti no. È questione, spesso, di vita o di morte. Il capo può decidere e disporre di giorni di riposo, orari, servizi, mansioni, corvè, a seconda di un buco dato o subìto. Si costruiscono e si affondano carriere, su queste vicissitudini del mestiere. Tanto che un collega aveva teorizzato l’ipotesi della Grande Terapia: non esistono giornali né edicole, è tutto fittizio, un Truman Show, dove i giornalisti sono i pazienti, disturbati psichici, in cura; credono d’essere veri, di scrivere, di raccontare al mondo, ma è il mondo che prende appunti su di loro.

 

Quella mattina, comunque, gli altri non avevano nulla di particolare.

 

Salì in macchina. Genova era la città delle moto, ma a lui le due ruote non piacevano. Si sentiva più sicuro con l’auto.

 

A Quinto teneva una Fiat Punto Cabrio disegnata da Giorgetto Giugiaro, un modello del ’98, privo di servosterzo, ma col tettuccio che si apriva e richiudeva pigiando un tasto. Carrozzeria bianco sporco, capotte blu.

 

Inforcò l’Aurelia e fece rotta sul centro. Aveva deciso di fare un salto in redazione. Una delle tante redazioni provinciali del giornale.

 

Posteggiò nel garage sotterraneo di piazza Piccapietra in uno spazio altrui. In centro i parcheggi erano merce rara, e per un affronto simile c’era chi poteva uccidere. Lui se ne fregò.

 

Quando varcò l’ingresso dell’ufficio, guadagnò una scrivania libera, masticando una risposta al saluto dei due cronisti. Si conoscevano da un pezzo, e loro erano abituati a quella visita del lunedì mattina.

 

Maurizio Bertani seguiva la nera, Giulio Trossi la giudiziaria. Il primo era giovane, ancora; il secondo prossimo alla pensione.

 

Trossi si vestiva come un principe del foro. Parlava come un avvocato e diceva di essere laureato in Legge, ma ne diceva tante... Il suo cavallo di battaglia era la stagione dei marsigliesi: malavita d’autore. Italo-francesi, soprattutto, che si spostavano da Marsiglia in Liguria, per esercitare. Il collega raccontava di sparatorie epiche, notti al night da film, confidenze di prima mano che gli avevano regalato lo scoop. Quando era in vena di spararle grosse, raccontava anche di essersi scopato Eleonora Giorgi. In macchina.

 

Bertani era bravo, ma si divertiva a prendere per il culo il prossimo, e Trossi era la sua vittima preferita. Gli aneddoti si sprecavano. Una volta il collega della giudiziaria aveva collaborato con la Rai a una trasmissione tipo Chi l’ha visto? e la segreteria aveva chiamato in redazione per accordarsi sul compenso. Aveva risposto Bertani, che aveva concordato la cifra e la destinazione in beneficenza, alle Immacolatine. Quando, il giorno seguente, avevano richiamato per le coordinate bancarie dell’istituto di suore, aveva risposto Trossi: l’impiegata della Rai aveva ascoltato una sequela di bestemmie così brutali che l’avevano fatta piangere.

 

Bussi si mise a leggere i giornali in silenzio.

 

Capitolo 2

 

Dovrebbero mettere una tassa sui discorsi di commiato! pensò Lorenzo Toccalossi, procuratore capo della Repubblica di Savona mentre, sorridendo alla calorosa stretta di mano di un estraneo, lanciava l’ultima occhiata al dirigente amministrativo.

 

Mica nasce a casaccio una riflessione! Eh, no! C’è sempre un perché e un percome, una sequenza di accadimenti esterni, di per sé in apparenza irrilevanti, che schiudono nella mente porte e porticine. A volte, come in questo caso, nicchiette: quel funzionario, particolarmente zelante e logorroico, proprio quello, era stato incaricato, chissà poi da chi, di preparare il discorso per celebrare il trasferimento del procuratore Toccalossi da Savona alla Direzione Distrettuale Antimafia di Genova.

 

Peggio non poteva andare: euforico per quella improvvisa popolarità, il diligente burocrate non la smetteva più di atteggiarsi. In piedi, sulla pedana, microfono in mano, completo gessato acquistato per l’occasione e baffetto curato, stava parlando già da venti minuti, godendosi il privilegio di quell’effimera notorietà, mentre il pubblico impaziente, costituito per lo più da impiegati, avvocati e poliziotti, attendeva che finisse per potersi abbuffare di salatini.

 

Il dirigente si sperticava in elogi, rievocava ricordi e, benché ce la mettesse tutta per apparire autorevole, sembrava, suo malgrado, una sorta di cantante anni Sessanta in disarmo, un Bobby Solo dei poveri, scaraventato a una sagra paesana dopo i fasti del passato.

 

Toccalossi ne approfittò per focalizzare la sua riflessione: ...dovrebbero mettere una tassa per ogni parola usata a sproposito, che fa somigliare il saluto per il trasferimento di un capoufficio da una città a un’altra all’addio definitivo, dovuto all’improvvisa disgrazia capace di ricongiungere un uomo al suo Creatore... Ecco. Ora il pensiero era messo a punto. Un certosino lavoro di senso e praticaccia, rigoroso come quello del meccanico che regola il carburatore con l’aiuto del mestiere e del cacciavite. Però, magari, poteva essere ancora migliorato. Nell’attesa voltò gli occhi verso Erminia.

 

La sua fidata assistente non riuscì a trattenere una lacrimuccia negli occhi lucidi. Povera Erminia, otto anni passati fianco a fianco. Oh, sì, gli sarebbero mancate le sue attenzioni. Eccome! Toccalossi ripensò a tutte le scuse che aveva dovuto accampare per sfuggire ai corteggiamenti di lei, la quale ora vedeva sfumare anche l’ultima occasione. Per quasi un decennio lui aveva saputo destreggiarsi mantenendo quel rapporto nel limbo perfetto del desiderio inappagato. Non era scattata la scintilla, ma le mille premure di Erminia erano come una coperta che avvolge e scalda, un plaid di coccole, particolarmente confortevole.

 

Ancora un piccolo ritocco alla riflessione, una vite da registrare: ...e in entrambi i casi, trasferimento o decesso che sia, le parole finiscono per indugiare sulla bontà d’animo del partente, sulle sue squisite qualità. Le similitudini tra le due forme di congedo sono talmente evidenti, che spesso le asserzioni tipiche dell’ultimo saluto allo scomparso finiscono per transitare nel discorso di circostanza tenuto in occasione di un trasferimento.

 

Confortato da questa valutazione, che ora sembrava perfettamente messa a fuoco, Toccalossi, immobile al centro dell’aula magna del Tribunale di Savona, sogghignò. Ora la spara, si disse. Attorniato da impiegati, collaboratori, avvocati, colleghi e giornalisti, il magistrato attendeva l’attimo esatto in cui il verboso dirigente avrebbe finito inevitabilmente per scivolare da un affettuoso arrivederci, accompagnato da una stretta di mano, a locuzioni del tutto inappropriate e ridicole.

 

Nemmeno il tempo di terminare la sua considerazione che, dalle casse dell’impianto voci, partì la castroneria che lui attendeva a conclusione di quello sconclusionato e logorroico panegirico: «...salutiamo con grande dispiacere la prematura dipartita di...» E qui tutti scoppiarono a ridere, compreso Toccalossi che dall’inizio di quel discorso se la stava spassando, il viso impassibile sotto la folta barba nera.

 

I primi tappi di spumante partirono accompagnati dall’inevitabile botto, e tutti si tuffarono sui vassoi colmi di stuzzichini. Tutti tranne uno.

 

Ma dove diavolo si è cacciato? Fu in quel preciso momento, infatti, che Toccalossi si accorse, pur senza alcuno stupore, che alla cerimonia mancava solo lui, il suo attendente, lo schivo maresciallo Centofanti che, chissà come, chissà perché, riusciva sempre a procurarsi un impegno ogni volta che c’era qualcosa da festeggiare, motivo per il quale si era guadagnato, in tanti anni di onorato servizio al suo fianco e di altrettanti onorabili scantonamenti, l’appellativo di Ruvido.

 

La cosa buffa era che Centofanti scovava sempre qualcosa di più impellente da fare: un impegno irrinunciabile, un’indagine improvvisa...

 

Mi domando se, per caso, in questa circostanza, non sia stato proprio io a delegargli qualche atto improrogabile, forse proprio un interrogatorio o una perquisizione urgente, si disse Toccalossi. Comunque sia, la faccenda non solo non lo stupiva ma, al contrario, lo divertiva. Centofanti era l’unico, fra tutti i collaboratori che aveva conosciuto in trentaquattro anni di servizio in Magistratura, a provare per lui un affetto incondizionato, una cieca obbedienza, una fedeltà assoluta. Incapace di ipocrisie, mai si sarebbe presentato al rinfresco per l’addio al suo capo con il sorriso stampato sul viso, quando, sicuramente, nel cuore, provava una profonda tristezza.

 

Entrambi si conoscevano così bene, ma così bene, che spesso non c’era affatto bisogno di parole per comprendersi: era sufficiente la telepatia.

 

Tirando su col naso, Toccalossi ricordò il giorno in cui Centofanti si era presentato al suo cospetto, una mattina di dicembre. Porcaccia la miseria! Otto anni. Sono passati già otto anni. Volati come volano gli anni. Puff! Spariti nel nulla... Quel pensiero che fino a quel momento non lo aveva sfiorato adesso lo rattristò, sgombrando ogni altra riflessione dalla sua mente. Otto anni di indagini condotte insieme, di casi brillantemente risolti, di notti insonni a esaminare fascicoli, a risolvere problemi, a preparare processi. Tutto per colpa di quella norma che impone ai vertici di ogni Procura di lasciare la sede dopo otto anni di permanenza.

 

E ora? Ora dovrò lasciare Savona, il mio ufficio di procuratore per ricominciare tutto da capo, a Genova. Una nuova città, un nuovo incarico, la Direzione Distrettuale Antimafia, prestigioso, sì, ma a cinquantotto anni le abitudini contano più del prestigio. E poi Centofanti non mi seguirà. No. Il maresciallo è prossimo alla pensione. Mannaggia.

 

Avrebbe ricominciato da solo. Questo lo rattristava. Il loro legame era difficile da spiegare. Non si trattava solo di stima o di fiducia. C’era qualcosa di più. Una sorta di complicità tacita, inalterabile.

 

Così, in quel preciso istante, mezzogiorno in punto, nel momento esatto in cui una persona, quattro piani più su, stava entrando nell’ufficio di Centofanti, Toccalossi fu assalito dallo scrupolo che il suo attendente, intenzionato poi a giustificarsi, a cerimonia conclusa, per l’assenza al rinfresco, fornendogli qualcosa di eclatante, necessitasse di tempo per fare la cosa che stava facendo, qualunque essa fosse.

 

Al sesto piano del palazzo di Giustizia, Centofanti faceva accomodare nell’ufficio il suo informatore, preoccupandosi di chiudere la porta, mentre, quattro piani più giù, nell’aula magna, Toccalossi prendeva inaspettatamente in mano il microfono e cominciava a parlare. E lui, magistrato ammirato per il suo equilibrio e la sua moderazione, si lanciò in un tortuoso e ingarbugliato discorso sui carichi di lavoro della Procura, sulla bravura dei dipendenti, sulle competenze dei vari uffici, sbirciando di tanto in tanto l’orologio, consapevole che, qualunque cosa stesse architettando, di almeno mezz’ora Centofanti avrebbe avuto bisogno.

 

Capitolo 3

 

Al sesto piano gli uffici erano deserti. Tutti gli addetti della Procura, tutti gli impiegati, le assistenti, le segretarie, le archiviste, gli operatori di Polizia giudiziaria, erano scesi a salutare Toccalossi e a gustarsi lo spuntino, organizzato all’ora dell’aperitivo. Quale momento migliore per sentire le confidenze di un informatore?

 

Centofanti tornò alla sua scrivania e, a bruciapelo, domandò a Pedro: «Cosa vuoi in cambio?»

 

Pedro era un sudamericano di cinquantaquattro anni, molto mal portati, ex galeotto, ex spacciatore, ex qualunque cosa, con una vistosa cicatrice sulla guancia destra. Per farla breve, uno di quelli che quando c’è un malaffare, in un modo o nell’altro, sono sempre coinvolti.

 

O meglio: una volta era sempre coinvolto. Ormai era uscito dal giro, Pedro. Per la verità, voleva uscirne. Sposato da poco, un figlio piccolo... Proprio la nascita di quel bimbo era stata l’occasione per fare un fioretto: voglio cambiare, scappare, cominciare un’altra vita; mio figlio non dovrà mai sapere nulla del mio passato.

 

«Voglio essere sottoposto al regime di protezione», rispose sicuro. «Documenti falsi per me e la mia famiglia. Quello che sto per dirti è una bomba.»

 

Centofanti lo fissò negli occhi. Un sistema mutuato da Toccalossi per vedere se uno mente: occhi dentro gli occhi, trenta secondi almeno. L’altro non deve battere ciglio, né abbassare lo sguardo o sentirsi a disagio. Bene! Prova superata.

 

«D’accordo. Farò quel che posso. Fuori i nomi.»

 

In aula magna, intanto, Toccalossi non la smetteva più di parlare, fino all’ultima drastica risorsa: la barzelletta lunghissima, alla quale, dato il clima generale, i presenti avrebbero riso di sicuro, pur non essendo lui così sicuro, ora che l’aveva cominciata, di ricordare il finale. Mezzogiorno e un quarto! Speriamo che Centofanti riesca a farcela, si disse.

 

«E ora i ruoli», chiese Centofanti a Pedro.

 

«Il primo che ti ho detto fa l’agente immobiliare. Sai, quelle agenzie in franchising, con sedi ovunque?»

 

Centofanti annotò il ruolo accanto al nome. «E il secondo?»

 

«Il secondo è un imprenditore d’Oltralpe, per via che abita a Mentone e si è sposato una francese. Si fa chiamare René.»

 

«Invece, è calabrese, no?»

 

«Basta che leggi il nome.»

 

Centofanti sorrise. «E il terzo?»

 

A questo punto Pedro diventò cupo. «Se sapessi cosa fa il terzo, probabilmente sarei già plintato dentro un pilastro di cemento. Te l’ho detto: è un faccendiere, lo chiamano il Grigio, conduce affari in tutta Italia. Dove c’è di mezzo un appalto truccato, c’è lui. Svolge attività d’intermediazione tra la criminalità organizzata e gli imprenditori locali nel Ponente ligure. Altro non so.»

 

«Bene! Riepiloghiamo. La bananiera arriva dal Costarica al porto di Genova mercoledì, dopodomani. Tra le casse è nascosto lo stupefacente...»

 

«...i cui proventi, una volta venduto, serviranno come sempre a realizzare investimenti immobiliari. Un metodo semplice ed efficace per ripulire il danaro sporco.»

 

«Ma questa volta, mi accennavi, c’è qualcosa di diverso.»

 

«Si tratta di una partita di cocaina con un principio attivo tre volte superiore a quello delle forniture precedenti. Ormai quelli che si facevano di eroina sono scomparsi e poi appartenevano a un genere, a una classe sociale in via d’estinzione. I drogati di adesso sono medici, architetti, bancari, avvocati, ragazzi benestanti e chi più ne ha più ne metta, che esigono da loro stessi prestazioni al limite e necessitano di un aiuto chimico per raggiungere certi risultati.»

 

«Ma entreranno in un gioco senza via d’uscita.»

 

«Peggio! Qualcuno ci lascerà le penne subito, magari mentre sta sniffando nel bagno di una discoteca, o appena prima di un meeting importante. Loro, gli organizzatori, vogliono creare dipendenza nei consumatori occasionali. Il marketing della droga prevede questo.»

 

«Sei sicuro di quel che mi hai detto?»

 

«Ti ho mai mentito?»

 

Centofanti guardò l’orologio: la mezza. Fra poco tutti sarebbero ritornati al piano, gli uffici si sarebbero riempiti nuovamente. Doveva congedare il suo ospite. «Okay. Adesso è meglio che tu vada, se non vuoi che ti vedano.»

 

Una stretta di mano. Pedro si infilò il cappello di lana sulla testa.

 

«Che freddo, per essere ottobre», sospirò. Forse stava pensando al suo Sud America.

 

«Vai, esci dal garage. Sei venuto in scooter?»

 

«Sì, con il casco e la giacca a vento. Non mi distinguerebbe neanche mia madre.»

 

«Buona fortuna. Tra un paio di giorni ti faccio avere quei passaporti.»

 

«Grazie Ruvido.»

 

«A te, Pedro.»

 

Telepatia, bastava questo tra loro.

 

Centofanti riaprì la porta dell’ufficio, Toccalossi interruppe bruscamente la barzelletta, inventandosi un inverosimile finale e scattò l’applauso.

 

Voglio proprio vedere quale scusa si inventa questa volta Centofanti, si disse il giudice. Un ultimo sguardo alle pile di bicchieri accartocciati e di piatti di plastica. Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno...

 

Erminia si avvicinò. Stava piangendo. «Allora hai proprio deciso? Te ne vai.»

 

«Non ho deciso io. È una scelta del ministero. Fosse per me, sarei rimasto. Non hai idea di quanti impicci mi crei questo trasferimento.»

 

«E noi? Ci vedremo qualche volta?»

 

Aaah, le donne! Con quella lacrimuccia apriporte. Un passepartout per arrivare dritte al cuore.

 

«Dài, non fare così. Ci guardano tutti.»

 

«E lasciali guardare. Che male c’è, se ti saluto? Dopo tanti anni, è ovvio che mi dispiaccia un po’.»

 

«Un po’?»

 

«Lo sai cosa ho sempre provato per te. Non ho mai smesso di amarti, anche se tu non mi hai mai voluta.»

 

Ancora con quella storia! Ma quanto tempo ci voleva prima che le passasse? Erminia non perdeva occasione per rievocare una sbandata avvenuta all’epoca del suo insediamento a Savona, quando, complici la solitudine e il magone per le feste, proprio la notte di Natale si erano appartati in un posteggio e avevano dato inizio alle danze. Poi c’era stato il ripensamento, il rimorso e tutta la sequela di sentimenti canonici in occasioni come questa. Ne era nato un tira e molla che, a quanto pare, ancora non era terminato.

 

«Appena arrivo a Genova, ti telefono. Ora però asciugati le lacrime.»

 

«Un bacio non me lo dai?»

 

«Qui? Di fronte a tutti?»

 

«Un bacio sulla guancia. Anche quello mi vuoi negare?»

 

La baciò. Erminia spostò repentinamente la guancia porgendo le sue labbra umide di pianto. Salate. Mai fidarsi di una donna che piange. Alcuni colleghi la guardarono mentre sorrideva soddisfatta.

 

Ora si era proprio concluso tutto.

 

Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno...

 

L’ascensore: una coda lunghissima, meglio le scale. Aiutano a tenersi in forma. E poi, con tutti quelli che stanno risalendo, ci vorrebbe mezz’ora. Stessa pensata di Centofanti che stava tentando di scendere. L’incontro a metà strada, sulla rampa di linoleum nero con la ringhiera rossa, al quarto piano.

 

«Procuratore!»

 

«Maresciallo!»

 

«Dovrei parlarle.»

 

Con grande calma i dipendenti stavano tornando nei loro uffici. Qualcuno, approfittando di quella confusione, svicolava per scappare a casa. Soli, sul pianerottolo erano gli unici, loro, a non sostare di fronte alle porte affollate degli ascensori.

 

«Bene! Sentiamo la scusa.»

 

«È arrivato da me un confidente, poco fa.»

 

«È arrivato per caso?»

 

«No! Mi aveva chiesto un appuntamento...»

 

«E lei glielo ha dato per stamattina, a mezzogiorno...»

 

«Esatto. Ho pensato: saranno tutti giù, per il rinfresco. Mi aveva preannunciato una notizia bomba.»

 

«E qual è?»

 

«Arriva una nave mercantile dal Costarica piena zeppa di droga.»

 

«Quando?»

 

«Dopodomani.»

 

«Io sarò già a Genova.»

 

«Lo so. Appunto. La nave sbarcherà a Genova.»

 

«E allora?»

 

«Pedro, l’informatore, vorrebbe essere sottoposto al regime di protezione.»

 

«Ah!» Mica male come scusa. Devo dire che Centofanti stavolta l’ha orchestrata proprio bene. Addirittura una nave carica di droga! «È arrivato un bastime... ento, è arrivato in mezzo al ma... are...»

 

«Scusi, procuratore?»

 

«No, pensavo... Lei cosa fa, ora?»

 

L’una meno dieci! L’ora di pranzo. Che cosa fa di solito la gente comune all’ora di pranzo? Mangia. Di solito...

 

«Pensavo: perché non mi accompagna a Genova? Così mi racconta.»

 

Ottima idea, così salto il pranzo, probabilmente la cena e lui non riuscirà a concentrarsi su quello che gli dico, occupato da mille altri pensieri, pensò Centofanti. «Mi sembra un’ottima idea, procuratore. Quando partiamo?» rispose.

 

«Subito. Lei ha la macchina?»

 

«Quella dell’ufficio?»

 

«Meglio la sua. Sa, dovrei fermarmi anche a fare delle commissioni...»

 

«Ho capito. Si salta la cena, sicuro.»

 

«Come?»

 

«Ho detto va bene. Ci vediamo in garage?»

 

«D’accordo. Io passo un attimo in ufficio.»

 

Un attimo. Bel concetto. Assolutamente relativo, benché ancorato a criteri di oggettività, pensò Centofanti. Attimo dovrebbe essere sinonimo di soffio, lampo, zac. Ma gli attimi del procuratore si dilatano. Gli attimi di Toccalossi sono così: minuscole palline di farina capaci di lievitare a dismisura. Centofanti lo sapeva. Per questo non attese in auto, giù nel garage.

 

Toccalossi percorse i venti metri di linoleum nero che lo separavano dall’ufficio con grande mestizia. Entrò, gettò l’ultimo sguardo alla scrivania: le sue cose, i suoi codici, i suoi appunti. Quante notti trascorse lì a studiare fascicoli, a tentare di risolvere casi, a preparare requisitorie. L’arrivo a Savona, nell’ottobre di otto anni prima, e quell’indagine sulla prostituzione, cominciata il tredici dicembre. Nessun rimpianto, solo tristezza. Tristezza per il tempo che finisce.

 

Pensò che avrebbe dovuto scriverla la sua teoria sulla composizione molecolare del tempo: gli anni fuggono, gli attimi sono eterni. Eppure gli anni, i giorni, sono fatti di attimi. Addensati di eternità che conglobandosi si restringono e diventano fuggevoli. La fisica della relatività temporale, una cosa di cui non aveva mai fatto cenno a nessuno.

 

Chissà come starà soffrendo ora Centofanti, pur nella dignità del suo silenzio. Ho cercato di convincerlo a seguirmi a Genova. Macché! Niente da fare, il maresciallo ha ringraziato declinando l’invito. E questo è l’ultimo giorno, poi le nostre strade si separeranno. Inevitabilmente.

 

Si accomodò alla scrivania per svuotare gli ultimi cassetti.

 

Capitolo 4

 

Era la quarta volta che Toccalossi tentava di uscire. Ma c’era sempre qualcuno che lo tratteneva. Prima era stata la volta di un avvocato, poi di un collega, dopo di Erminia, l’assistente, quindi del capitano dei Carabinieri Maugeri, un vecchio amico, compagno fedele di casi giudiziari, che nel frattempo non era nemmeno più capitano, come ai tempi del suo insediamento a Savona: l’avevano promosso maggiore.

 

Il graduato fece capolino dalla porta. «E così, te ne vai?»

 

«Che ci vuoi fare? Così hanno disposto.»

 

«A Genova starai bene.» Sguardo perso nel vuoto.

 

«Speriamo.»

 

«Sai già cosa andrai a fare?»

 

«Andrò a dirigere la Direzione Distrettuale Antimafia.»

 

«Be’, un bell’incarico.»

 

«Insomma...»

 

«Insoddisfatto?»

 

«No, sai, qui mi ero fatto degli amici, avevo comprato casa. Là dovrò ricominciare tutto da capo. A cinquantotto anni.»

 

«Ma se sembri un ragazzino!»

 

«Eh, tu sei sempre gentile. Il fatto è che ormai sto invecchiando, e sono solo.»

 

Mai! Non l’avrebbe dimenticata mai la sua ex moglie Arlette che lo aveva lasciato. Girò intorno lo sguardo: tutto gli ricordava Arlette. La decisione di abbandonare l’Umbria dopo la separazione e di recarsi a Savona, era stata dettata dall’esigenza di lasciarsi tutto alle spalle, così si era ficcato dentro quella provincia malinconica per il solo motivo che era il luogo in cui aveva passato tutte le vacanze estive o natalizie da bambino e da ragazzo, a casa della vecchia zia Lucetta. E ora... ora anche Savona diventava un posto da cui andare via. In fondo cos’è la vita se non un insieme di luoghi in cui abbiamo soggiornato?

 

«Anche a me hanno proposto un trasferimento.»

 

Toccalossi seguiva il filo dei suoi pensieri: ancora mi rivedo con il grembiulino nero e le ginocchia sbucciate, alle elementari, poi al mare con gli amici dopo l’esame di maturità, e poi all’università e in giro per l’Italia, dopo il concorso in Magistratura, a inseguire una carriera che ormai è arrivata al capolinea. Prestigioso sì, sicuramente, l’incarico alla Procura Antimafia, ma ormai la mia esistenza mi sembra una cena giunta al termine quando sul tavolo restano solo le briciole...

 

«...trasferimento.»

 

Sguardo rassegnato. La cateratta dei rimpianti si ricompone come il telone di un sipario sceso all’improvviso. «Eh? Dicevi? Dove?»

 

«A Belluno.»

 

Toccalossi trattenne a stento la sua ilarità. «Di nuovo? Ma non c’eri già stato? È il luogo da cui sei venuto.»

 

«Mi promuoveranno, se accetto l’incarico. Per la miseria! Mi faranno colonnello, prima o poi. Potrei anche rinunciare, scegliere io una sede, ma ritarderei la promozione.»

 

«Cavoli! Guarda che il destino è ben strambo. Avevi fatto carte false per andartene di là...»

 

«Brutta storia, eh? Qui, almeno, c’era il mare.»

 

«Eh già!»

 

Inevitabilmente diventiamo qualcosa, ma è un incedere lento quello che ci cambia e ce ne accorgiamo solo quando il tempo è passato, per renderci conto che tutto, intorno, è mutato.

 

«Quanti ricordi, eh? Ma ormai è finita. Bene o male, abbiamo fatto tutti carriera, anche gli uomini della mia squadra: il carabiniere De Scalzi è diventato maresciallo, Desio e Torrente brigadieri. Era inevitabile che prima o poi accadesse.» Sguardo che si tuffa nel vuoto.

 

Toccalossi ripensò a tutte le indagini trascorse.

 

«Sai già dove andare, Lorenzo? Mi spiego: alloggerai là? Farai avanti e indietro?» chiese Maugeri.

 

«Non lo so. Sono solo cinquanta chilometri tra Savona e Genova. Potrei viaggiare in treno.»

 

«In treno? Tu? Con i tuoi orari?»

 

«E che devo fare? Mi organizzerò. Ci devo pensare.»

 

«Se hai bisogno di qualcosa... ho molti amici là.»

 

«Più che a Belluno? Scherzo, ovviamente!»

 

«Beato te che ci ridi sopra. Non sai che dramma per me. Detesto quella città. Anche se ci vivono persone favolose.»

 

«È andata così.»

 

«Comunque, restiamo in contatto. Quando passo da Genova, vengo a salutarti.»

 

«Grazie.»

 

«A presto, Lorenzo.»

 

«Ciao.»

 

Nel frattempo, Centofanti fece una scappata al bar, per mettere sotto i denti almeno un tramezzino. Una fuga veloce: l’attraversamento pedonale di via Venti Settembre, il lastricato in marmo dei portici di piazza del Popolo.

 

Pioveva. E con la pioggia il marmo diventava scivoloso, insidioso.

 

A Savona piove di traverso. L’acqua si infila anche sotto i portici. Colpa del vento.

 

Meglio rallentare il passo. Oppure scivolare e fare causa a quel genio del Comune che ha scelto la pavimentazione.

 

Giada non era soltanto la proprietaria del bar. Era un’amica, soprattutto. E un’amica ti legge dentro il cuore. Lo osservò, interpretò il suo sguardo sconsolato e gli domandò: «Sei di turno, oggi?»

 

Movimento ondulatorio del viso per dire: «Sì, purtroppo».

 

«Fino a che ora?»

 

«Boh!»

 

Giada riempì allora il panino all’inverosimile: maionese, prosciutto, funghetti. Una maniera come un’altra di farsi volere bene. «Te lo faccio scaldare?»

 

«No.» Lo sai che non amo i panini scaldati, pensò Centofanti riflettendo sulla parola amicizia, perché me lo domandi ogni volta?

 

«Già, è vero!»

 

Eccolo, quel sorriso dolce che faceva passare ogni cosa.

 

«Siediti, te lo servo al tavolo.»

 

«Preferisco in piedi. Così parliamo.»

 

Altro sorriso, di quelli che squagliano. Centofanti pensò che sarebbe bastato poco... Ma Giada era un’amica, e un’amica la guardi come un’amica. Via quell’occhio morboso dalla faccia.

 

«Stanco?»

 

«Un po’.»

 

«Sabato cosa fai? Vieni a ballare?»

 

Ballare? Quando mai ha ballato in vita sua? Odiava ballare, odiava la musica, le sale da ballo, quelli che fingono di divertirsi, la folla, la lotta per il posteggio, le persone tirate a lucido e, soprattutto, detestava le discoteche. Odiava soprattutto gli uomini che ballano. Una donna può dimenare il suo corpo con movenze ammaliatrici e provocanti. Un uomo no, non gli è concesso. Appare ridicolo, fuori posto, allo stesso modo di una donna che sollevi pesi o faccia la lottatrice nel fango.

 

«Sto cercando un ballerino. Mi sono iscritta a un corso di danza latina.»

 

Ancora ’sto Sud America. Sembra che non abbiano altro da esportare che balli e droga. Un bel connubio. Ma questa era una proposta, inequivocabile. Perché lui si ostinava a guardarla come fosse un’amica?

 

«Allora?»

 

Centofanti rifletté, squadrandola. Pensava di passare inosservato.

 

«Sono un po’ ingrassata?»

 

Beccato in pieno! Che figura. Il boccone gli andò di traverso. «No! Perché? Guardavo... Anzi... E dov’è ’sto posto?»

 

«Una scuola di ballo, qui vicino. Vieni, dài. Dalle otto alle nove di sera. Poi quando usciamo, andiamo a bere qualcosa.»

 

E due! Due proposte in meno di un minuto, o forse qualcosa di più, poche manciate di secondi, comunque.

 

«Ti faccio sapere, dài. Sai, con i miei orari...»

 

Terzo sorriso. Quello che si insinua dentro. Porca di una miseria! Ma ha diciotto anni meno di me. Potrei essere suo pa...

 

«Sai che è venuto mio padre a trovarmi, ieri?»

 

Ma cosa fa? Legge nei pensieri? «Sì? Bene. Bene, bene, bene, bene.» Perché Toccalossi non lo chiamava sul cellulare? Perché non c’è mai una via di fuga, quando dovrebbe? Perché lo stava stringendo all’angolo? Un ultimo boccone al panino. Poi il telefono squillò. «Arrivo», disse a voce alta. Le passò accanto salutandola frettolosamente.

 

«Vai già?»

 

«Sì, scusa, poi ti dico. Bacio.»

 

«Bacio.»

 

Pericolo scampato. Mai mettersi con un’amica, a meno di non voler riscrivere tutte le regole. E le regole per nulla vanno riscritte. Le regole sono regole, altrimenti che regole sono?

 

Pensieri confusi, mentre si incamminava verso il palazzo di Giustizia.

 

Capitolo 5

 

Poco dopo, Centofanti stava sistemando l’autoradio dentro la macchina in attesa che l’attimo del procuratore finisse. D’altronde, pensò, se avesse voluto trattenersi oltre, avrebbe detto: «Mi aspetti un momento», mica un attimo. Ma ha detto attimo, dunque, dovremmo esserci.

 

Eccolo che arriva. Basterà farlo accomodare, aspettare che sia comodo, mettere in moto e, via, appena fuori dal garage, iniziare a snocciolargli tutti i dettagli della notizia fornita da Pedro.

 

«Mi scusi...» disse Toccalossi.

 

«E di che?»

 

«Per il ritardo.»

 

«Lei ha mangiato?»

 

«No.»

 

«Nemmeno io!»

 

«Vuole fermarsi a mangiare un boccone?»

 

«Che ore sono?»

 

«Le due e mezzo.»

 

Riflessione mista a perplessità. «Meglio di no. Mi aspettavano a Genova per l’una.»

 

«Be’, a questo punto...»

 

«Come?»

 

«Non ho fiatato.» Tanto lo so che mi legge nei pensieri, rifletté Centofanti, come Giada. Ma che, sono diventato trasparente?

 

«Io direi di andare. Magari, quando arriviamo là... Oppure no, cenerò stasera.»

 

«Come vuole.»

 

«Che mi diceva prima?»

 

«Della nave?»

 

L’auto uscì dal garage percorrendo via Venti Settembre in direzione autostrada. Pioveva. Le strade erano intasate, come sempre. A Savona basta un po’ di pioggia. I platani avevano perso già le foglie e quelle poche rimaste si erano ingiallite, avvizzite.

 

Una volta era caduto anche un grosso ramo, proprio di fronte all’ingresso del garage, e per un pelo non aveva colpito un’auto.

 

La facciata grigia in cemento del palazzo di Giustizia scorreva lentamente alla loro destra. Il semaforo era di nuovo rosso. L’incrocio con via Luigi Corsi perennemente un ingorgo.

 

«Sì.»

 

«Be’, è venuto questo Pedro, un confidente e mi ha detto che...»

 

Un pensiero lancinante ferì la mente di Toccalossi: devo pagare la rata del mutuo. «Può fermarsi un attimo? Anzi, meglio, giri di là, devo passare in banca.»

 

«Di qui? Svolto?»

 

«Sì.»

 

Una sterzata improvvisa in via Verzellino.

 

«Scusi, ma mi sono ricordato della rata del mutuo. Ho chiuso il conto e devo fare il versamento. La banca sarà già aperta?»

 

«Se aspettiamo ancora un po’ chiude.»

 

«Come?»

 

«Non ho detto nulla.»

 

«Svolti per... di qua, per favore.»

 

«È questa la banca?»

 

«Sì. Arrivo subito.»

 

Subito in che punto sta della graduatoria? Tra attimo e momento? Sembra di più. Più che attimo, più che momento, pare già una bella frazione di tempo.

 

Pochi minuti dopo.

 

«Già fatto?» Rivedere la graduatoria, pensò sorridendo Centofanti: subito viene prima di attimo.

 

L’auto ripartì. Di nuovo in via Venti Settembre per affrontare l’incrocio con via Luigi Corsi. Il palazzo di Giustizia nuovamente sulla destra che scorreva lento, quasi immobile. Dieci minuti. Poi la rampa in salita che porta in corso Ricci e la svolta in corso Tardy e Benech. Sembrava un corteo funebre. Fumi densi si alzavano dalle marmitte catalitiche imprimendo all’aria fredda un gradevole aroma di piombo e additivi profumati. Così non ci si accorge di respirare merda. A passo d’uomo sino in via Stalingrado, austera e fredda, così confacente al suo nome.

 

«I savonesi», esclamò sconcertato Toccalossi, «non hanno ancora capito la funzione delle rotatorie collocate in mezzo a un rettilineo. Le imbroccano a tutta velocità come fossero messe lì per caso, solo per rompere le scatole. Oppure, peggio, si fermano all’improvviso a metà rotatoria, per dare la precedenza a qualcuno che giunge da destra. In via Stalingrado, poi, esiste la rotatoria più piccola del mondo. Poco più di un vaso da giardino. Ecco, non mi sbagliavo, qualcuno ha omesso di dare la precedenza.»

 

Incidente. Suono di sirene. Ritardo.

 

«Allora... Diceva?» riprese Toccalossi.

 

«Riguardo a Pedro?»

 

«Sì.»

 

«Dunque, è venuto questo Pedro e mi ha detto che...»

 

Un’altra fitta trafisse la testa di Toccalossi: mille euro di mutuo, caspita! E altri mille se ne vanno per mantenere i figli a scuola. Poi ci sono millecinquecento euro di alimenti alla mia ex. E siamo a tremilacinquecento euro. Poi ci mettiamo la governante, e sono altri mille. I vestiti, le scarpe... Non posso certo andare in giro vestito come un barbone! Alla fine mi rimane meno di... Chissà quanto guadagna il maresciallo? Se facciamo i conti, valutato tutto, resta di più in tasca a lui che a me. La matematica non è un’opinione.

 

«...piena di droga, cocaina...»

 

E poi lui che spese ha? Non ha figli. Si può permettere un’auto migliore della mia. «Che auto è questa?» domandò a bruciapelo.

 

«Una Mercedes! Scusi, ma che c’entra?»

 

«No... così.»

 

«...e pertanto questi tre, il Grigio, René e l’agente immobiliare...»

 

...e ora mettiamo in conto anche le spese dell’affitto. Devo trovare un alloggio a Genova, vicino al palazzo di Giustizia. Come minimo mi chiedono mille euro, e siamo a... Dunque... cinquemilacinquecento euro di spese fisse. Cavoli! E poi dove la trovo la casa? Non è facile... «Agente immobiliare ha detto? Lei conosce un agente immobiliare, maresciallo?»

 

Una domanda sconcertante. «Io? No. Stavo riferendo quello che mi ha confidato Pedro.»

 

«Su cosa?»

 

Mio Dio!

 

«Eh?»

 

«Stavo riferendo dell’indagine.»

 

«Quale indagine? Stiamo facendo un’indagine sugli agenti immobiliari?»

 

Centofanti rinunciò. Oggi non è giornata, pensò. Troppi impegni, la testa altrove. Meglio lasciar perdere. Meglio parlare del più e del meno, distrarsi, rilassarsi. «A che ora deve incontrarsi con il procuratore generale?»

 

«Nel pomeriggio.»

 

«L’aspetto?»

 

Il sibilo del telepass fece alzare la sbarra d’ingresso come per magia. L’autostrada stranamente era quasi sgombra. Raffiche di vento consigliavano prudenza. Sulla collina enormi palazzoni popolari modello edilizia bulgara testimoniavano lo scempio attuato ai danni di una città trasformatasi in pochi anni da paesone provinciale a paesone provinciale imbruttito. Un cambiamento non da poco. Qualcuno doveva averne tratto vantaggio.

 

Erano stati creati nuovi quartieri popolari, un addensato di alloggi colmi di personaggi agli arresti domiciliari. Piccoli Bronx nei cui garage brulicavano decine di motorini rubati. Zone prive di qualunque servizio, di negozi, di autobus. Un modo come un altro di alimentare sacche di povertà e delinquenza che ad alcuni fanno sempre comodo.

 

L’auto raggiunse Albisola. Una previsione di venti, venticinque minuti, per arrivare nel capoluogo.

 

Il tempo per riferire ci sarebbe. Basterebbe trovare l’attimo, rimuginò Centofanti. Attese qualche minuto, in modo che Toccalossi potesse riordinare i suoi pensieri, poi la sparò: «Secondo lei che cosa devo fare?»

 

«Su cosa?»

 

Magari aveva azzardato troppo presto. Ricominciò, la voce calma, quasi didattica, un po’ antipatica ma senza intenzione: «Dunque, procuratore. Stamattina, mentre lei festeggiava al ricevimento, è arrivato un mio informatore».

 

«Pedro!» esclamò con una luce negli occhi Toccalossi felice di essersi ricordato quel nome.

 

«...appunto! E mi ha dato delle belle dritte.»

 

«Sì, ho capito. È arrivato un bastimento carico di droga.»

 

«Mi prende in giro?»

 

«Io? No.»

 

«Secondo lei che cosa devo fare?»

 

«Quello che fa di solito, due righe di annotazione: fonte confidenziale riferiva ecc. ecc... le trasmette e indaga.»

 

«Sì ma lei non c’è più. A chi le trasmetto? Il nuovo procuratore ancora non è arrivato.»

 

«Al magistrato di turno! Anzi, no. Al magistrato più anziano, al facente funzioni. Quello che comanda in attesa dell’arrivo del nuovo procuratore.»

 

«Quindi al dottor Falck?»

 

«Esatto.»

 

«Bene.»

 

«Altro?»

 

«No.»

 

«Ma l’agente immobiliare di cui mi parlava?»

 

«Dica.»

 

«Può chiamarlo? Devo trovare casa a Genova...»

 

«’Azzarola!» Perfetto, pensò Centofanti sconsolato, il mio capo se ne va, il dottor Falck nemmeno leggerà l’annotazione e la droga sbarcherà senza problemi. Con quella montagna di soldi guadagnata illecitamente edificheranno nuovi orribili palazzi e il gioco continuerà senza fine.

 

Il resto del viaggio proseguì in silenzio. Centofanti, assorto nei suoi pensieri, meditava su quanto squallore c’è nella vita. Si era convinto, con gli anni, che certe scelte urbanistiche fossero preordinate a tavolino per costringere le persone a cercare l’evasione. Evasione da un ambiente fatto solo di cemento e miseria dal quale gli abitanti tentano di fuggire, e non si rendono conto che utilizzano per scappare proprio quegli strumenti lasciati lì apposta da chi ha organizzato il tutto, fuga compresa. E allora si chiudono in casa a ubriacarsi di televisione, nella migliore delle ipotesi, o cercano paradisi artificiali iniettandosi sostanze chimiche. Se costruissero casette a due piani con il giardino, pensò, e tanti campetti per giocare a calcio o a pallacanestro, se edificassero centri sociali per bambini o per anziani, probabilmente nessuno si rintanerebbe in casa a distruggersi giorno dopo giorno.

 

Si era salvato per un pelo lui dalle minacce della strada. Perché il periodo della sua adolescenza era coinciso proprio con quello dell’espansione urbanistica. A un tratto, gioiosi quartieri cresciuti in mezzo agli orti e ai campi erano diventati squallide periferie devastate dal cemento. Abbattevano le casette per costruire palazzoni e là dove c’era un prato ora sorgeva un capannone, là dove giocavano a cerbottane ora avevano costruito un parcheggio. Avevano ridotto gli spazi. Gli spazi che prima erano di tutti adesso erano diventati di qualcuno. E a forza di ridurli, quegli spazi, avevano costretto bambini, ragazzi, anziani a chiudersi in casa, come animali selvatici imprigionati in misere cellette. Ma avevano fatto le cose con astuzia: facendo credere che quella celletta fosse un investimento. E in tanti avevano abboccato, consegnando la loro libertà in cambio di quattro mura, contenti di essere stati truffati.

 

Dal parabrezza apparve Genova in tutto il suo splendore. Genova che non era mai stata paese. Era nata come grande città e lì si sentiva meno il cambiamento subito negli anni del boom. Casomai c’erano altri problemi, ma non il provincialismo deludente di Savona.

 

«Ci siamo quasi.»

 

«Bella, però, Genova.»

 

«Lei dice, maresciallo?»

 

«Ma sì. A me provoca sempre una certa euforia arrivare a Genova. Ci sono la sopraelevata, le grandi navi nel porto, il centro storico che brulica di vita, e poi via Venti, via Luccoli... Insomma è bello vedere come vivono in una grande città.»

 

«Ad esempio?»

 

Uscirono dallo svincolo della sopraelevata alla seconda uscita, quella che conduce al palazzo di Giustizia.

 

«Le serve un esempio, procuratore? Guardi!» Avevano imboccato il tunnel che dal porto arriva al centro, come un fiume sotterraneo che sfocia alla Rinascente. Centofanti superò a destra un’auto, poi tagliò la strada a un’altra.

 

«Ma che fa?» chiese Toccalossi.

 

«Visto?»

 

«Cosa?»

 

«Nessuno che suona il clacson, nessuno che inveisce. A Savona per una cosa così ti fanno ancora le corna dal finestrino.»

 

«Eh già. Sa che non ci avevo pensato?»

 

«Passo di qui?»

 

«Sì. Arriveremo dritti al palazzo di Giustizia. Che ore sono adesso?»

 

«Le tre e mezzo.»

 

«Avviso il procuratore generale del nostro arrivo.»

 

«Nostro?»

 

«Non sale a salutarlo?»

 

«Io? Sa che detesto le cerimonie, i saluti, gli ossequi...»

 

Toccalossi sorrise. Beato lei, pensò. Ma non lo disse.

 

La mattinata di Bussi era passata veloce. Aveva scorso duecentosettantatré e-mail, fatto alcune telefonate, organizzato diverse cose con il suo vice. Ecco un altro compromesso: per stare a casa anche il lunedì, doveva dedicare al giornale almeno una mezza mattinata, ed essere reperibile sul cellulare.

 

Andò a pranzo. Il ristorante dominava col suo dehor (una veranda al chiuso, a ben vedere) galleria Mazzini. Era molto frequentato, soprattutto dai giornalisti. Al piano superiore vigeva una convenzione tacita: prezzo calmierato per la stampa. Sotto, ci si poteva sistemare in una saletta, appollaiati agli sgabelli del bancone, usufruendo della stessa agevolazione. Qui si stava un po’ più scomodi, ma si godeva della vista sulla sala principale, dove si sceglieva alla carta e il pasto costava di più.

 

Il ristorante era anche il punto di ritrovo dei notabili locali: politici e imprenditori. Giocavano a scopone. Partite combattute, durante le quali si decidevano le sorti di Genova, nascevano e morivano alleanze, spesso trasversali, si tessevano affari. Tutto con il beneficio della riservatezza, nel senso che i titolari, due fratelli, consentivano di varcare l’ingresso soltanto a chi era del giro. I giornalisti, salvo rare eccezioni, restavano fuori. Come i cani.

 

Scelse un primo, troffiette al pesto di Recco, un pesce alla ligure come secondo, acqua minerale gassata, caffè. Si fece fare la ricevuta. Infine, si alzò biascicando un saluto ai proprietari e uscì dal dehor.

 

Non aveva voglia di tornare in redazione. Quello che doveva fare, l’aveva fatto. Il cazzeggio con i colleghi voleva risparmiarselo. Tagliò a metà la galleria, imboccò la scalinata che portava in piazza Piccapietra e allungò il passo sino al caffè di piazza Corvetto. Locale storico, stucchi e argenterie ammaccate dal tempo, gli piaceva, quel posto. Aveva stile. Bevve un secondo caffè, guardandosi attorno: nessun collega. Bene, pensò.

 

Guardò l’ora. Erano le quattro e un quarto. Dal giornale non l’avevano chiamato. Probabilmente non l’avrebbero più cercato per quel giorno. Decise allora di andare a dare un’occhiata in libreria. Era un lettore onnivoro. Aveva i suoi filoni, ma si lasciava facilmente conquistare da copertine e risvolti. Guardava soprattutto gli scaffali delle novità.

 

Il tempo non passava mai. Centofanti aveva già percorso avanti e indietro via Venti Settembre un paio di volte, fermandosi anche a sfogliare qualche libro usato su una bancarella. Noia. Piedi stanchi. Poi, all’improvviso, un pensiero: se sono fortunato, lo trovo, si disse.

 

Il pensiero si riferiva a Bussi, un vecchio amico, uno che per anni aveva fatto il cronista a Savona. Uno che tutti i giorni passava nel suo ufficio e gli chiedeva: «Novità?»

 

La domenica mattina, per un certo periodo, si erano trovati in piscina per giocare a pallanuoto. Bussi, perché ex giocatore di serie B, lui per abbassare il tasso di colesterolo. Bartolomeo Bussi ultimamente si allenava con la Waterpolo Golfo Paradiso, una squadra nata tra Genova e Recco, presieduta da un broker di piastrelle e legno, Angelo Figari. Un tipo che, dopo aver giocato nelle giovanili della pluriscudettata Pro Recco, si era costruito una sua squadra, tanta era la passione. Master, cioè over qualcosa: nel loro caso, tutti sopra gli «anta».

 

Il suo amico aveva smesso di fare il cronista, il soldato semplice. Ora faceva il caporedattore centrale. Centofanti non aveva capito bene che cosa realmente volesse dire, ma aveva compreso che aveva fatto carriera e che dopo il direttore e i vicedirettori c’era la sua scrivania.

 

Erano riusciti a rivedersi di rado, con Bussi, dopo che questi aveva lasciato il suo incarico a Savona. Ma erano rimasti in contatto.

 

Vediamo se c’è, si chiese.

 

Alle sedici e venti Bussi sentì vibrare il cellulare nella tasca dei pantaloni. Sul display spuntò un numero che non conosceva. Dopo una breve riflessione decise di rispondere. «Pronto!» Usò il tono grave che ogni giornalista utilizza quando alza una cornetta in ufficio. È una consuetudine, in tutte le redazioni: chi risponde sembra sempre affaticato, schiacciato da un macigno immenso, come se proprio in quel momento, proprio per rispondere, avesse interrotto un’intervista intercontinentale con Barack Obama che gli stava annunciando il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

 

«Sono Centofanti, ciao.»

 

«Oh, ciao Cento. Com’è?»

 

«Sono a Genova. Tu dove sei?»

 

«Anch’io sono a Genova.»

 

«Ma va? E dove?»

 

«In centro. Quasi in via Venti.»

 

«Ma dài! Finisce che siamo a pochi metri. In via Venti dove?»

 

«All’angolo con via Ceccardi, quasi davanti alla libreria.»

 

«Ma sono qui, a pochi passi. Aspetta, che mi guardo in giro. Sì, ti ho visto, metti giù.»

 

Eccolo lì, Bartolomeo, con il suo blazer blu, i mocassini Church neri e il faccione sorridente. I due si scambiarono un abbraccio. Un abbraccio dal quale riaffiorarono ricordi: le indagini della Procura e le inchieste giornalistiche vanno quasi in simbiosi; l’una non deve prevaricare l’altra, altrimenti sono guai. Una notizia pubblicata in anticipo può compromettere un’indagine; un’indagine divulgata in modo mediatico può smettere di essere indagine per trasformarsi in notizia, in pettegolezzo, a volte.

 

Bussi e Centofanti questo lo avevano sempre saputo, per questo erano amici. Bussi non aveva mai chiesto nulla a Centofanti e Centofanti non aveva mai spifferato nulla a Bussi. Entrambi avevano svolto il loro lavoro nel pieno rispetto dell’altro, a volte collaborando.

 

Un paio di frasi di rito, poi, dopo un lungo annusarsi, iniziarono a toccare i nervi scoperti: quelle riflessioni sulla vita che gli amici veri sanno accennare, insoddisfazioni, realizzazioni incompiute, progetti, sogni.

 

Entrambi, visti dall’esterno, potevano apparire tutt’altro che inappagati, scontenti, o delusi. La loro era un’inquietudine che nasceva da dentro, che aveva radici lontane. Forse in infanzie sul sagrato della chiesa, a tirare calci a un pallone, o in soggiorni estivi in campagna. O in ripetuti settembre di solitudine e magone. O dentro cabine di stabilimenti balneari ormai scomparsi, a spiare dal buco la vicina d’ombrellone che si spoglia. Forse. O non era nemmeno questo. A volte chissà cos’era. La consapevolezza che la vita è qualcosa che gira intorno? E non riesce completamente a imbrigliarti? Un senso costante d’inadeguatezza?

 

Per Centofanti era così. Tanto più ora che aveva visto apparire in fondo al tunnel la luce della pensione. Per Bussi invece no. Lui non era malinconico, anche se poteva sembrarlo. Piuttosto era distaccato. A malavoglia affrontava le battaglie che la vita gli poneva di fronte, ne avrebbe fatto a meno volentieri. Le guardava con sufficienza, come grattacapi comparsi all’improvviso a frullargli i marroni, ma alla fine accettava la tenzone e si gettava a testa bassa nella mischia. Che fatica, però. Forse c’entrava il segno zodiacale, Toro, animale che chiedeva soltanto di essere lasciato in pace, tranquillo, ma che immancabilmente veniva tirato per le corna da qualche rompicoglioni con i vestiti ricamati e un drappo rosso sventolante. Questi cagacazzi facevano tanto che alla fine doveva incazzarsi per forza.

 

Bussi decise di compiere il primo passo: «Qual buon vento?» chiese, tradendo la sua passione per il mare. Possedeva anche una barca e, quando poteva, utilizzava termini marinareschi, infilandoli nei discorsi più vari.

 

«Buono? Non direi. Ho accompagnato Toccalossi a Genova. Da domani presterà servizio nel capoluogo alla Direzione Distrettuale Antimafia.»

 

«Bene! E tu lo seguirai?»

 

«Ma figurati! Tra un anno sono in pensione. Vuoi che mi metta a viaggiare proprio adesso come una giovane recluta?»

 

«In pensione? Ma se non hai nemmeno cinquant’anni!»

 

«E che ci vuoi fare? Da noi bastano trentacinque anni di servizio. Ce ne regalano cinque, il cosiddetto “scivolo”. Io mi sono arruolato a diciotto e ho cominciato a lavorare a quattordici, fai tu il conto. Come vedi, tra un anno avrò raggiunto i quarant’anni di contributi.»

 

«E poi? Che farai?»

 

«Mi comprerò un orto.»

 

Bussi scoppiò a ridere. «Ma va! Tu a zappare!»

 

«Sì, invece. Sai, tra ferie dell’anno scorso e quelle di quest’anno, mi restano da fare solo nove mesi effettivi. A ottobre del prossimo anno sarà finita. Probabilmente tirerò avanti sino all’inizio dell’estate, poi esaurirò le ferie, un ultimo giorno di servizio e via, fine della corsa. È ora che io pensi al futuro.»

 

«Ti piaceva scrivere, ricordo. Perché non scrivi un libro? Puoi pescare dalle tue esperienze. Magari, potresti buttarti sui polizieschi...»

 

«E chi vuoi che lo legga? E poi, ormai sono troppo vecchio per fare lo scrittore esordiente.»

 

«Dunque, hai deciso. Ci molli, eh?»

 

«Non ne ho più voglia. Sai, come diceva Sean Connery quando girava gli ultimi film di 007, ormai sono troppo vecchio per questo lavoro...»

 

«Non ti ci vedo. Per me cambi idea.»

 

«Io dico di no. Tu, piuttosto, che fai?»

 

«Lavoro a Torino.»

 

«Questo lo so. Ma che cosa fai esattamente? Non ho più letto tuoi pezzi.»

 

«Ecco, vedi? Metti il dito nella piaga. Sei proprio stronzo.»

 

«Ma no, dài. Lo so che sei diventato un pezzo grosso e che questo comporta scrivere meno.»

 

«Non scrivere più. Ma lasciamo perdere, per favore. E tu, nell’attesa di sederti su una panchina ai giardinetti o di zappare l’orto, che combini?»

 

«Io sto in provincia, non ti ricordi più? L’hai cancellata dalla tua mente Savona? Sembra che nessuno si accorga di niente. Tutti fingono di non vedere. Potrebbe anche sbarcare un nuovo tipo di droga che...» Centofanti si morse la lingua.

 

«Sbarcare, hai detto?»

 

Cazzo! Non gli sfugge nulla a questo. «...Ma tu come stai? Torino ti sta sempre stretta? E la famiglia, tutti bene? Che libro ti sei comprato? Fa vedere.»

 

Bussi arricciò il naso. Gli spiaceva che il suo amico mentisse. Guarda come si stava ingarbugliando con i discorsi! Puerile. Un amico non dovrebbe mentire. Certo non poteva nemmeno spifferargli notizie riservate, ma almeno un occhio di riguardo.

 

«S’intitola Moby-Duck, il libro. Lo ha scritto un americano, ed è su quelle trentamila paperette di plastica che stanno fluttuando intorno al mondo.»

 

«Paperette?»

 

«Ma non la conosci la storia? Nel gennaio 1992, l’Ever Laurel, una portacontainer salpata da Hong Kong e diretta a Tacoma negli Stati Uniti, è incappata in una violenta tempesta e ha perso dodici container. Uno si è aperto ed è finito in mare tutto il contenuto: ventottomilaottocento giocattoli di plastica tra rane, tartarughe e papere nate per galleggiare nelle vasche da bagno, di quelle gialle, con gli occhi tondi neri e il becco arancione che ride. Da allora, secondo gli scienziati, queste paperelle hanno percorso ventimila chilometri intorno al globo, sospinte dalle correnti marine. Molte sono state recuperate e sono diventate prede ambite per i beachcombers, i raccoglitori di oggetti spiaggiati, nonché oggetto di studio per gli scienziati. Ma per buona parte stanno ancora fluttuando negli Oceani. L’azienda che le stava aspettando, la First Year, ha messo addirittura una taglia sulle restanti: cento dollari per ogni pezzo originale riconsegnato. Le hanno avvistate ovunque, dall’Australia alle Hawaii, dal Giappone all’Indonesia e persino nello stretto di Bering, tra Russia e Alaska, da dove sono riuscite attraverso il Passaggio a nord-ovest a raggiungere l’Atlantico. E continuano ad andare alla deriva...»

 

«Però, bella storia», disse Centofanti, ma aveva lo sguardo perso nel vuoto.

 

«Prendiamo un caffè?» propose Bussi, cercando di non perdere l’attenzione dell’amico.

 

«Già preso.»

 

«Un aperitivo?»

 

«No, grazie. Davvero.»

 

«Che dici se vengo a trovarti a Savona, domani?»

 

«Per me è un piacere, Bartolomeo. Quando vuoi, sai dove trovarmi.»

 

«Va bene, ti chiamo mentre sono in viaggio. Ora devo scappare, devo incontrarmi con un collega. Mi ha fatto piacere rivederti.»

 

«Anche a me.»

 

«Ciao, allora. A domani.»

 

«Ciao.»

 

Bussi s’incamminò da dove era venuto. Quell’incontro con Cento gli aveva lasciato in bocca il sapore amaro del carciofo crudo. Non gli era piaciuto, l’aveva sentito scarico, mollo. Ma come si fa ad andare in pensione a quell’età? Nel pieno delle forze, quantomeno psichiche. Centofanti faceva già discorsi da pensionato. L’orto... Magari si mette pure a piantare fiori. Mah...

 

Nonostante fosse a un passo dalla morte civile, però, restava sempre un carabiniere. S’era lasciato sfuggire qualcosa, ma aveva frenato subito. Droga, sicuramente cocaina, e che altro? E su una nave, chiaro. La casistica non manca: ogni tanto riescono a beccare qualcuno. Bussi aveva sempre sospettato che fosse il risultato di qualche dritta. Sta a vedere che valeva anche per loro l’ipotesi della Grande Terapia...

 

Era quasi tentato di richiamarlo, ma si fermò sulla tastiera. Al telefono, lo sapeva, l’amico non parlava. Sì, doveva andare a Savona. Lo doveva incontrare fuori dal palazzo di Giustizia. Potevano fare colazione insieme, ad esempio. Qualcosa gli avrebbe dovuto dire...

 

Tornò in Piccapietra. Scese nel garage e recuperò la macchina. Il traffico non era ancora allo zenith. Meglio. Attraversò il centro, imboccò via Brigate Partigiane, raggiunse la Foce e s’incanalò su corso Italia, la promenade. Cercava sempre di fare quella strada, quando poteva. Boccadasse, Sturla, Quarto... guidò fino a Quinto, il suo quartiere.

 

Gli piaceva quella parte di Genova, era come stare in Riviera, ma godendo dei benefici della città. Si poteva quasi fare un tuffo scendendo le scale di casa. E nel suo caso, era proprio così: via alla Scogliera, sulla quale si apriva il portone di casa sua, scendeva dall’Aurelia al mare con un carrugio ripido che scivolava tra due palazzi. Un’infilata di muri color rosa antico, le macchie delle persiane verde scuro e l’azzurro del mare che si confondeva col cielo. In fondo c’era una caletta, con una piccola rimessa di imbarcazioni abbarbicata alla scogliera. Con la bella stagione, si poteva fare il bagno proprio lì sotto. Oppure, a circa cinquanta metri in linea d’aria, c’era la spiaggetta di Murcarolo, un fazzoletto di ciottoli tra gli scogli e le case, frequentato soprattutto da quelli del quartiere, che diradava su un’acqua il più delle volte pulita. Un miracolo a pensarci bene, trattandosi pur sempre di un pezzo di città.

 

Lui dall’ultimo piano sentiva il mare, e dominava l’orizzonte, che nelle giornate più limpide spaziava dal promontorio di Portofino alla Corsica e a Sanremo. Si era innamorato di quella casa appena l’aveva vista.

 

L’aveva messa in vendita un costruttore un po’ border line, il classico tipo che paga sempre tutto in contanti, cambia spesso residenza e dice di essere amico di tutti e che tutti gli devono dei favori. Quelli che ti rivelano con nonchalance che i soldi li tengono a Montecarlo e danno per scontato che anche tu sia un habituè delle banche del Principato. Aveva messo la casa in vendita attraverso un agente immobiliare della zona (stranamente senza agenzia) e lo aveva avvolto per bene nella sua rete. Bussi e sua moglie, che allora non era ancora tale, avevano acquistato l’immobile, fidandosi. Non che avessero sbagliato, ma, alla firma del rogito, il costruttore aveva lasciato loro in conto qualche noia con i vicini, che avevano dovuto poi risolvere in tribunale. Per il resto, era una casa da sogno: grande, centotrenta metri quadrati togliendo i muri, spessi come quelli di una volta, più la terrazza, almeno altri trenta metri quadri. C’era anche l’ascensore, un lusso non scontato in quelle case che erano state di pescatori e che oggi valevano un occhio della testa. Si pagava il quartiere, residenziale, ma con un’anima ancora popolare, sopravvissuta all’escalation sociale, a differenza di quanto era accaduto invece ad altre delegazioni bene della città. Si pagava la vista mare, o comunque la sua vicinanza, e il clima mite, che d’inverno regalava sempre due o tre gradi in più rispetto al centro cittadino. E, naturalmente, si pagava l’atmosfera più tranquilla, raccolta, controllata e in un certo senso l’aria di benessere che ispirava.

 

Capitolo 6

 

La sera arrivò come un’estranea sotto i portici di Genova.

 

Centofanti camminava tenendo le mani nelle tasche del giubbotto e i pensieri ritorti su se stesso. Non gli piaceva la sera, non gli era mai piaciuta, eppure l’amava sopraffatto dal senso d’inquietudine che lo assaliva, stringendogli un nodo alla gola. Era un sentimento ambiguo, di dolce tenerezza, che gli rammentava l’infanzia e dal quale si lasciava cullare. Paura e seduzione, fascino e mistero. Nella zona periferica in cui lui abitava, immerso nella campagna, come quando era bambino, il buio era ancora tale e l’emozione che provava, o meglio che lo assaliva era la stessa di allora: un freddo dell’anima, un freddo che senti crescere dalle ossa, un freddo che viene da dentro, situazione che ti fa sentire a disagio e nel contempo in pace con il mondo. Il magone non come stato di cui vergognarsi ma come qualcosa di estremamente intimo. Nella solitudine il buio lo senti, lo vedi, lo pensi, lo temi ma ne sei attratto. Scavi a fondo nei tuoi pensieri.

 

Nelle grandi città, invece, ci sono troppe luci perché uno possa percepire lo sgomento che nasce a quell’ora. Tra vetrine illuminate, lampioni e fanali non c’è che una mescolanza di luci, chiarori, bagliori e riverberi. Non è buio. E anche il freddo non è affatto lo stesso freddo dei quartieri desolati, delle campagne! Lì, in mezzo alla gente, tra lo sfavillio dei negozi, le stufe catalitiche dei dehors, gli aliti che si mescolano, fili di fiato come zucchero filato, la sera gli piaceva ancora meno, anzi non gli piaceva affatto, priva di quell’alone di mistero che lo sapeva sedurre.

 

Passeggiando avanti e indietro sotto i portici in attesa dell’arrivo del procuratore, si rese conto che no! Non avrebbe seguito il suo capo a Genova.

 

Non era fatta per lui quella città tentacolare, insidiosa, piena di carrugi nascosti dove succede di tutto, città dentro la città, ora Medina, ora Bronx, ora vecchia camorra.

 

Senza rendersene conto, scendendo da via Luccoli, si era infilato in un meandro di vicoli aggrovigliati e aveva schivato il sorriso senza denti di due vecchie bagasce alla De André, lo sguardo inquietante di un nigeriano con un dente d’oro e l’occhio ammaliante di un travestito brasiliano. Dov’era? Dove si era cacciato? Schiacciò con l’ascella il calcio della sua fedelissima Beretta che portava nella fondina. Quel contatto lo rassicurò. Poi si guardò intorno. Con un po’ di fortuna poteva ritrovare la strada. Cercò di percorrerla in senso inverso ma dopo un po’ era al punto di partenza. Allora ebbe un’idea. Avrebbe proseguito sino al mare. Ogni tanto lo scorgeva in lontananza tra i vicoli. Vedeva le nuove costruzioni del Porto Antico. Da lì avrebbe preso un autobus per tornare in via Venti Settembre. Così fece. Quando arrivò nei pressi del palazzo di Giustizia sollevò il capo. Erano le dieci di sera. C’era una sola vetrata illuminata. Una vetrata d’angolo, al nono piano.

 

Toccalossi ancora non si era insediato e già faceva le ore piccole.

 

Estrasse il cellulare e lo chiamò.

 

«Procuratore, scusi il disturbo. Io sono qui sotto... se vuole tornare a casa.»

 

Una voce assente rispose leggermente meravigliata.

 

«Aaah... sì... ma che ore sono? Arrivo subito.»

 

Subito.

 

Infatti, dopo circa due ore, era lì.

 

Capitolo 7

 

Martedì 4 ottobre

 

Centofanti indugiò non poco di fronte alla targhetta metallica dell’ufficio del sostituto procuratore prima di bussare. Erano le nove del mattino. Aveva dormito poco e male. Toccalossi, infatti, al rientro da Genova, lo aveva convinto a cenare con lui, a casa di amici. Si erano seduti a tavola a mezzanotte passata e avevano continuato a mangiare, piluccare, sgranocchiare sino alle due di notte. Ora sentiva il fuoco nello stomaco e a nulla erano valsi i Maalox (tre), il bicarbonato (mezzo bicchiere) e il citrato (qualche granulo). Alla sua età solo una cosa era necessaria: una bella, sana e prolungata dieta.

 

A ciò si aggiunga che l’idea di entrare nell’ufficio del dottor Falck aumentò nel suo stomaco la secrezione gastrica provocandogli uno scompiglio devastante.

 

Il dottor Falck era un ottimo magistrato, ne era convinto, ma tra loro due... Insomma, non c’era alcuna sintonia. Per di più Centofanti era abituato a lavorare senza troppe formalità, spesso comunicando a voce a Toccalossi le notizie su cui indagare, e solo successivamente formalizzando le carte. Si era autoconvinto che forse non era del tutto simpatico al dottor Falck. Chissà perché? Per un attimo pensò di fregarsene. In fin dei conti la fonte confidenziale l’aveva ricevuta lui, se avesse tenuto la bocca cucita nessuno avrebbe saputo nulla. Nessun altro. Poi, spinto dallo scrupolo e dal senso del dovere, bussò.

 

Dieci minuti dopo era indubbiamente pentito.

 

«Maresciallo», diceva con enfasi il dottor Giuliano Falck, sostituto procuratore «una cosa è evidente, balza agli occhi...»

 

Brillante, preparatissimo, scrupoloso, dotato di intuizioni geniali, si portava addosso l’irrimediabile aura di antipatia che avvolge i primi della classe, o meglio, che emanano quelli abituati a prendere dieci a ogni interrogazione e che sembrano un po’ tutti come i professori dei governi tecnici: giudiziosi, rassicuranti, tono di voce pacato, ma, chissà perché, quando parlano da dietro i loro occhiali, chi ascolta si tiene stretto il portafogli.

 

Ed era lui il magistrato più anziano, quello che, in attesa dell’insediamento del nuovo procuratore, avrebbe ricoperto il ruolo di facente funzioni. Che sfiga!

 

Dopo che Centofanti, balbettando, gli aveva esposto i fatti, quello, con flemma irritante, aveva aperto un codice e cominciato a disquisire. Aveva riportato un bel po’ di giurisprudenza, a memoria, condito il tutto con qualche citazione in latino e troncato il discorso con un: «Mi spiace, ripassi quando avrà maggiori elementi».

 

«Capisco, dottore... No, non conoscevo quella sentenza. Sa, il procuratore Toccalossi...»

 

Il dottor Falck, in piedi accanto alla scrivania, aveva allungato il codice annotato e mostrato a Centofanti una sentenza: «Vede? Gliel’ho appena spiegato! La fonte confidenziale non costituisce notizia di reato. Il de audito... per sentito dire... non basta.»

 

«Il procuratore Toccalossi mi aveva detto...» aveva tentennato Centofanti.

 

«Il procuratore Toccalossi non c’è più, maresciallo. So quanto le dispiaccia, umanamente, intendo. Ma veda di adeguarsi. Faccia come le dico», e aveva assunto un tono paterno, «mi porti altri elementi, qualcosa in supporto alla semplice voce che le è giunta alle orecchie, e io aprirò un fascicolo processuale iscrivendo sul registro degli indagati tutti i sospettati di questo, per ora soltanto presunto, traffico di stupefacenti.»

 

«Agli ordini, dottore. Allora vado. Arrivederci.»

 

«Ad maiora, maresciallo.»

 

La porta dell’ufficio del dottor Falck si era chiusa alle sue spalle, mentre dalla bocca di Centofanti, una volta nel corridoio, la risposta al saluto, dal sapore vagamente latino, era uscita mascherata da un borbottio: «Ad... fanculo, dottore». La fonte confidenziale non costituisce notizia di reato, ripeté tra sé con il capo mesto.

 

«Uhei, Centofanti!» Il colonnello Ricciardi. «Finita la pacchia, eh!»

 

Centofanti lo guardò. Che ci faceva lì? Perché era arrivato sino in Procura? Con chi doveva parlare? E di cosa?

 

Gli bastò quella battuta per intuire.

 

«Caro il mio Centofanti, ora che Toccalossi se n’è andato, è inutile che lei rimanga qui. Può tornarsene al Comando. Sto valutando di farla rientrare al più presto.»

 

Eccolo lì! Per anni il colonnello non aveva fatto altro che lisciarlo per farsi ben volere da Toccalossi, ma ora il vento era cambiato. Quando cambia un capo, i primi a farne le spese sono i suoi collaboratori. È sempre stato così.

 

«Agli ordini, colonnello.» Perfetto! Due batoste in soli cinque minuti. Non male come inizio mattinata. Ed erano soltanto le nove e mezzo. Ci mancava che iniziasse a piovere...

 

Sulle vetrate della Procura iniziò a ticchettare.

 

Ora, Centofanti non aveva nulla, ma proprio nulla contro la pioggia. A parte che la presagiva, grazie alla sua cervicale, ma più di tutto lo preoccupavano gli effetti devastanti sulla città. Perché a Savona bastano due gocce che la gente prenda l’automobile. E il traffico si blocca e gli autobus arrivano in ritardo e i passanti si scontrano con gli ombrelli e il vento fa gonfiare quegli ombrelli come mongolfiere fino a farli volare e sotto i portici, dove si potrebbe camminare senza bagnarsi, si scivola, perché il Comune ha messo il marmo. Bella scelta! E soprattutto i bar si riempiono, come per magia: i clienti stanno un’ora con il cappuccino in una mano e la brioche nell’altra. E lui non avrebbe potuto nemmeno sfogarsi cinque minuti con Giada e farsi un po’ consolare dal suo sorriso.

 

Uscì. La pioggia era diventata fitta e insistente. Il tempo di attraversare via Venti Settembre ed era già tutto bagnato. Che coincidenza, pensò, anche a Genova c’è via Venti Settembre, ma che differenza! Là è tutto uno sfavillio di vetrine, qui... bah, lasciamo perdere. Forse l’idea di seguire Toccalossi non era da sottovalutare. Magari... ripensandoci...

 

I portici di piazza del Popolo, la prima scivolata del cuoio sul marmo bagnato. Però un caffè a quell’ora ci stava proprio bene, anche a costo di rompersi una gamba. Anzi, pensandoci, non sarebbe stata affatto una brutta soluzione: due mesi col gesso, la riabilitazione, poi le ferie e, arrivederci e ciao, pensione.

 

Centofanti entrò nel bar: l’odore di brioche appena sfornate si mescolava a quello della bratta di caffè ancora tiepida. Salutò Giada tenendo lo sguardo fisso negli occhi di lei: «Ciao!»

 

«Com’è?»

 

«Boh! E tu?»

 

«Insomma...»

 

«Già.»

 

Più che discorsi i loro erano gorgheggi. Suoni gutturali pieni zeppi di significati, ma quasi intraducibili per chi non conosce l’alfabeto della complicità, dell’affinità, dell’intimità cercata, voluta, ma non consumata appieno.

 

«Che fai?»

 

«Nulla di particolare.»

 

«Sei un po’ giù?»

 

«Così così. Tu?»

 

«Va...»

 

Il tutto condito da sguardi d’intesa, rimandi a precedenti discorsi, particolari noti solo a loro. Così che gli altri, i clienti, quelli che li guardavano e percepivano i loro bisbigli, rimanevano inevitabilmente tagliati fuori, incapaci di comprendere, esclusi.

 

«Ecco...» riferito alla goccia di latte a forma di cuore nel caffè.

 

Sorriso.

 

Occhiata. «Stasera?»

 

Spallucce.

 

«Tu? Vieni?» riferito alla scuola di ballo.

 

«Non so», sguardo che significa: una pizza noi due, non sarebbe meglio?

 

«Ho pagato in anticipo.»

 

«Allora...»

 

«Magari dopo.»

 

«A che ora?»

 

«Verso le dieci.»

 

Alle dieci il suo stomaco rifiutava la pizza, andava in fiamme. Non era più un ragazzino. «Facciamo un altro giorno.»

 

«Ok.»

 

«Problemi?»

 

«Come al solito.»

 

«Pranzi qui?»

 

«Forse.»

 

«Ciao. Bacio.»

 

«Bacio.»

 

Sguardo riconciliatore con il mondo.

 

Ora non si spiega come uno possa sentirsi meglio dopo una chiacchierata del genere, ma Centofanti si sentì sollevato, più rilassato. Pronto ad affrontare le avversità della vita, anche a costo di farsela da solo, quell’indagine.

 

I clacson delle auto invitavano un automobilista in doppia fila a spostarsi, l’autobus era stracolmo di persone, un’anziana mollò l’ombrello che si alzò in volo, rovesciato come una grossa medusa nera spinta fuori dal mare. Il cielo era grigio. Insomma, Savona quando piove è una città capace di conciliare il sonno come una culla con il suo altalenante movimento sempre uguale.

 

«Cento!» urlò una voce alle sue spalle. Inconfondibile. Non tutti lo chiamavano spezzando in due il suo cognome. No, non tutti, soltanto gli amici. Era Bussi.

 

Anche Centofanti utilizzava un nomignolo per il suo amico. Era un vezzo tra loro, una specie di sfida a colpi di fioretto, un modo per stare sul chi va là, ma per gioco. «Ehi, Barto!» esclamò Centofanti guardando l’ora sul cellulare (non indossava l’orologio, mai). «Mattiniero, oggi!»

 

Solitamente era ben difficile, quasi impossibile, vedere Bussi prima delle dieci del mattino. Oh, esisteva quella possibilità! Ma si trattava di un evento alquanto strano, perché prima di quell’ora Bussi era una specie di ectoplasma: etereo, stralunato, quasi invisibile. Gli occhi gonfi, il viso segnato dal cuscino, alcuni suoni gutturali, gli unici capaci di uscire dalle sue labbra. Se, ad esempio, uno avesse avuto la fortuna di incontrarlo prima di quell’ora (e sarebbe stata una rarità) e avesse osato l’azzardo di chiedergli: «Ma che hai fatto? Sei tutto stropicciato!», oltre a un grugnito incomprensibile, (a essere proprio fortunato) avrebbe potuto trovarsi spiazzato da una risposta appena biascicata, quasi avvolta da un grosso sbadiglio, come il mugolio del gatto quando viene disturbato durante il suo pisolino, che sembra voler dire: per stavolta la passi liscia, ma non provare più a stuzzicarmi.

 

Col tempo, conoscendolo, Cento aveva imparato a decifrare quel linguaggio fino a leggerne il significato nella sua interezza. Era accaduta la magia tra Bussi e Centofanti. La loro conoscenza, all’inizio del tutto professionale, maresciallo uno, giornalista l’altro, si era in breve tempo trasformata in una frequentazione personale: gli incontri in piscina la domenica mattina, qualche birra alla sera, fino a diventare un’amicizia con quell’affinità emersa dalle pieghe dell’anima. Gli amici si scelgono. E loro si erano scelti, reciprocamente.

 

A quel punto, la vita aveva giocato le sue carte, facendo incrociare in modo ineluttabile i loro destini: attendente del procuratore della Repubblica, Centofanti, e redattore Bussi. Il primo leggeva, sfogliava, trattava tutti i fascicoli del procuratore, il secondo passava in Procura per raccogliere notizie.

 

Erano stati necessari anni perché Centofanti imparasse a interpretare il linguaggio di Bussi. A parte il fatto che mai e poi mai si sarebbe permesso di chiedergli perché era ridotto in quello stato (cazzi suoi, magari aveva trombato tutta la notte, beato lui), ma qualora l’avesse fatto, anche solo per gioco, sarebbe stato finalmente in grado di decriptare la risposta dell’amico: «Hostudiatounlibrodistoriafinoatardi», detto così, tutto attaccato. E l’avrebbe pronunciata quella frase, Bussi, con così tanto autocompiacimento e altrettanto distacco che quel suo modo di essere, a un osservatore distratto, avrebbe potuto apparire antipatico, un farsi bello, un tirarsela, un fare lo strano. Ma per chi lo conosceva bene, come Centofanti, quella risposta era capace di disegnare in maniera stilisticamente perfetta il suo modo di pensare, che era il seguente: è solo un caso che io sia qui, che stia svolgendo questo lavoro, che mi trovi invischiato in questa vicenda; con la testa sono là, sulle rotte perdute dell’Atlantico, magari su una baleniera, come il capitano Achab. Perché Bussi era soprattutto un uomo di mare, e non era un modo di dire.

 

Per cui il vedere Bussi a Savona, per giunta prima delle dieci (erano le dieci meno dieci, per la precisione), provocò in Centofanti un turbinio di domande. Nell’ordine: Che ci fa a Savona? Come mai a quest’ora? Ha capito che ieri gli ho mentito?

 

Un carabiniere non smette di essere tale se si trova davanti un amico. Ormai la sua mente è forgiata in un certo modo, è difficile cambiare.

 

Ora, tutto quel po’ po’ di ragionamento, Centofanti lo fece nel breve arco di tempo che impiegò a voltarsi e, per dissimularlo (cosa che non insegnano certo alla scuola per sottufficiali), lo mascherò con un sorriso cordiale.

 

Bussi fece altrettanto, allungandogli una pacca sulla spalla che poteva certo sembrare un segno di benevolenza, ma nel suo linguaggio aveva un significato del tutto opposto: Vecchia carogna, volevi prendermi per il culo, ieri, eh? Ora sono qui, sul posto, vediamo come te la cavi!

 

Così i due, per un impercettibile istante, studiarono il da farsi, per guadagnare tempo nel tentativo di superare quell’impasse.

 

«Questo è grecale!» sentenziò Bussi riferendosi al vento di traverso.

 

«Avrei detto ponentino», ironizzò Centofanti, che non ne capiva nulla.

 

Questa storia sui venti merita di essere approfondita. Non che Centofanti fosse così ignorante da non dedurre che ponentino deriva da ponente, grecale da Grecia e cose così, ma l’indugio era relativo a tutti gli altri. Forse tramontana poteva derivare da tramonto? E scirocco? Boh. E poi la cosa difficile è sapere in che posizione uno si trova rispetto ai venti. Perché se uno fa le prove (e lui le aveva fatte) e si mette nel centro della sua stanza con il libro dei venti in mano e una bussola, qualcosa ne tira fuori. Dice: là c’è il nord, all’opposto il sud e fa tutti i calcoli. Ma quando si trova in mezzo alla strada? Magari in un’altra città?

 

Ecco, il ghiaccio era rotto. Era bastata una battuta. Centofanti in quel frangente aveva bisogno di sfogarsi. Pareva che il suo amico Bussi lo avesse intuito. E poi, ragionando, qualunque confessione gli avesse fatto, non avrebbe certo commesso un reato. Quella notizia non era nemmeno stata iscritta sul registro della Procura. Non c’era dunque nessuna rivelazione di segreti d’ufficio. Pedro la notizia l’aveva data a lui, a lui soltanto, dunque nessun altro ne era al corrente. Il dottor Falck, inoltre, nemmeno la considerava notizia di reato, in mancanza di altri riscontri. A questo punto tacerla o riferirla a un amico sarebbe stata la stessa identica cosa. Anzi, probabilmente l’inchiesta giornalistica avrebbe avuto maggiori chanche di scoprire qualcosa rispetto all’indagine giudiziaria. Non ci sarebbero stati per Bussi tutti i vincoli e i freni che impedivano a quest’ultima finanche di partire.

 

I giornalisti non hanno un codice di procedura da dover rispettare. Hanno un codice deontologico, semmai. Il suo amico della carta stampata avrebbe posto un po’ di domande in giro, magari stuzzicando i lettori con gli argomenti giusti, potendosi spingere laddove a lui era impedito farlo, sentendo informatori senza dover rendere conto a nessuno. E, c’è da giurarci, i malfattori temono sicuramente di più l’impatto mediatico che un interrogatorio di fronte a un magistrato. Nei processi, tra cavilli e attenuanti, tra prescrizioni e riforme del codice, con un buon avvocato, possono sempre sperare di cavarsela. Ma di fronte a una condanna decretata dall’opinione pubblica non c’è scampo. Devono nascondersi, scappare, attendere anni prima che la gente dimentichi. La foto sbattuta in prima pagina è una sanzione maggiore di qualunque pena detentiva.

 

Magari, perché no?, con le opportune maniere, senza esagerare, avrebbe fatto scattare in Bussi la molla della curiosità. Non poteva indagare lui? Lo avrebbe fatto Bussi al posto suo: un inconsapevole strumento nelle sue mani, particolarmente appuntito ed efficace, un’arma che, usata nel modo giusto, avrebbe potuto buttare giù un muro di omertà e silenzi.

 

Aaah, se Bussi non fosse stato così spigoloso! Doveva trovare il modo di renderlo più malleabile, impresa non facile con uno così. Bussi era un uomo tutto d’un pezzo, lo conosceva bene. E poi non era certo stupido, tutt’altro. Eppure avrebbe fatto qualunque cosa per riuscire nella sua impresa, anche a costo... anche a costo di andare a fare un giro in barca con il suo amico, lui che, cresciuto in campagna, detestava il mare.

 

Capitolo 8

 

Ci sono giorni in cui un uomo decide di imprimere una svolta alla sua vita. A volte lo fa chiudendosi in convento, a volte diventando buddista, a volte con segnali più esigui, ma non per questo meno preponderanti. C’è un momento in cui un’epoca finisce e ne comincia un’altra e, qualunque sia il segno di questo mutamento, ne esce fuori sempre una persona diversa.

 

Quella stessa mattina, mentre Centofanti dialogava con Bussi, Toccalossi guardava smarrito e un po’ perplesso il monitor del suo computer portatile, verificando con mano che una parte della sua carriera era finita e che un’altra stava cominciando. Se ne rese conto quasi per caso, non certo per una cosciente e filosofica valutazione.

 

Genova sbocciava dalle finestre come un fiore invernale, una primula fuori posto, lucente, tersa e biancastra. Un modo per dire: ehi, procuratore, guarda!, sono qui. La tua nuova città, bella, accogliente, grande, capace di questi prestigi, di un raggio di sole infilato nel tuo ufficio come scagliato dall’arco di una divinità del cielo.

 

Ma lui non ci fece caso. Era troppo concentrato sul file che aveva aperto. Sotto il logo della Repubblica italiana spiccava in grassetto l’intestazione: Procura della Repubblica di Savona. In quel preciso momento si accorse che si era lasciato alle spalle un pezzo della sua vita e che doveva ricominciare, daccapo. Fu rabbuiato da un’amara considerazione: mi tocca sostituire tutte le intestazioni, seguita da un lieve improperio mentale. Provò a contare sommariamente tutti i file contenuti nel computer: tra decreti di perquisizione, sequestro, intercettazione, acquisizione erano centinaia; a questi dovevano aggiungersi i verbali di interrogatorio, d’informazioni testimoniali, di spontanee dichiarazioni; e poi c’era tutta la cartella delle rogatorie internazionali e quella dei rapporti con il Consiglio Superiore della Magistratura.

 

Insomma, doveva predisporre nuovi modelli, decine e decine di file da cambiare. E in quel momento, forse per rafforzare l’idea del cambiamento, forse per un impulso incosciente del tutto svincolato da qualsiasi considerazione esistenziale, decise che da quel giorno non avrebbe più utilizzato l’austero carattere Arial 14, ma il più delicato Times New Roman 13. Guarda te che svolte può prendere la vita.

 

Stava infatti preparando la sua prima missiva al procuratore generale come magistrato addetto alla Direzione Distrettuale Antimafia. E lì considerò che una pagina si era chiusa per sempre.

 

Rievocò gli anni trascorsi a Savona, le amicizie che ne erano fiorite, le discussioni con i colleghi e inevitabilmente il suo pensiero finì per confluire su Centofanti. Non solo perché era sopraffatto dalla nostalgia, ma soprattutto perché, in un simile frangente, quel problema appena nato sarebbe stato subito risolto.

 

Centofanti si sarebbe seduto al computer e avrebbe detto: «Non si preoccupi procuratore, ci penso io», e in breve tempo tutti i file sarebbero stati cambiati.

 

Magari, chiamandolo... Compose il numero.

 

Centofanti stava ancora ridendo con Bussi per quella storia dei venti, quando vide apparire sul display il numero di Toccalossi, memorizzato alla voce Capo. Rispose come suo solito: «Comandi!»

 

«Salve, maresciallo, come va?»

 

«Diciamo bene, e lei? Come si trova a Genova?»

 

«Insomma... Ascolti, avrei bisogno di un piacere: lei, nel pomeriggio, è occupato?»

 

«Se ha bisogno, mi libero.»

 

«La ringrazio. Sa, dovrei farle fare un piccolo lavoro al computer, una cosina di poco conto... Magari così parliamo un po’.»

 

«A che ora?»

 

«Alle tre?»

 

«D’accordo.»

 

«Oppure alle due, così mangiamo un boccone insieme.»

 

«Vada per le due.» Chiuse il telefono.

 

«Rogne?» chiese Bussi.

 

«Macché.»

 

«Vai a Genova oggi?»

 

«Sì. A trovare il capo.»

 

«Se vuoi, ti ci porto io. Devo tornare là.»

 

«Sarebbe un piacere. Anzi, sai che facciamo adesso? Prendi l’automobile e vieni con me.»

 

«Dove?»

 

«In un posto. Un posto dove vengono le idee.»

 

Dieci minuti più tardi l’auto di Bussi si fermò proprio all’entrata del poligono di tiro. L’edificio era situato in collina, in uno dei punti più strategici e più a nord di tutta la città. Da lì si godeva una magnifica vista. Si poteva osservare senza essere visti il golfo di Vado Ligure, la Darsena, il mare fino all’orizzonte. Savona sembrava un plastico ai propri piedi.

 

Centofanti scese ed esortò l’amico a seguirlo in un piccolo spiazzo e a sporgersi.

 

«Guarda!» disse.

 

«Belìn, che vista!»

 

«Toglie il fiato, eh?»

 

Bussi annuì.

 

«Da ragazzino venivo sempre sin quassù, di corsa. Ma non era come lo vedi oggi, eh! Erano tutti orti», indicò con la mano, «e quelle case là, quelle vicino all’autostrada, non c’erano. Sai, a volte mi viene da riflettere: trent’anni fa la popolazione era di circa settantamila persone, adesso Savona non arriva a cinquantasette. Eppure le case sono raddoppiate. Contale...»

 

«Cosa?»

 

«Le gru.»

 

«Quali gru?»

 

«Quelle dei cantieri. Osserva: una, due, tre... sei, sette... dieci... dodici, anche là... quattordici gru. Ossia quattordici nuovi palazzi in costruzione. Buffo, no? La popolazione diminuisce e le case aumentano.»

 

«E allora?»

 

«Mi prendi in giro?»

 

«Ho capito, sì ovviamente qualche speculazione c’è, ma non capisco il nesso...»

 

«A proposito di nesso... guarda laggiù, Bussi, verso Vado. Guarda quelle navi che entrano in porto. Io, comunque non ti ho detto niente...»

 

«Belle. Una è un mercantile...»

 

«Grazie per i dettagli tecnici. Sai quanta merda arriva con quelle navi?»

 

«Dal Sud America...»

 

«E noi qui, a grattarci i marroni. Dài, rientriamo in macchina.»

 

Silenzi. I loro ineguagliabili silenzi. Sicuramente meglio di tante inutili parole. Ciascuno immerso nei propri pensieri. E il bello era che nessuno chiedeva all’altro a cosa stesse pensando.

 

Centofanti si stava ripromettendo che di più non gli avrebbe svelato. Non gli avrebbe fatto i nomi del Grigio o degli altri due che Pedro gli aveva spifferato. L’aveva messo al corrente, in maniera molto sobria e, sperava, arguta, della relazione tra il traffico di stupefacenti e le speculazioni edilizie. Bussi non era certo uno sprovveduto. Che ci avrebbe messo a capire, a collegare, a scovare i responsabili? Con un po’ di visure camerali sarebbe risalito in fretta ai nomi dei costruttori e da lì agli amministratori pubblici corrotti. Sarebbe scoppiato uno scandalo e lui avrebbe potuto finalmente indagare.

 

Il dottor Falck voleva qualche elemento di più? Glielo avrebbe trovato in men che non si dica. Guardò il suo amico. Conosceva quello sguardo: Bussi stava riflettendo ed era anche contrariato, ma non esternava. Rimuginava dentro. Bussi era uno cristallino, dunque s’incazzava se un amico non si dimostrava all’altezza delle sue aspettative.

 

Se era fortunato, il giro in barca poteva anche scamparselo.

 

Bussi guidava in silenzio. Imboccò l’autostrada: i viadotti, la galleria delle Fornaci, considerata la più pericolosa d’Europa, Albisola con una esse... Quante volte l’aveva percorsa? Mille almeno, pensò. Certe notti avanzava col pilota automatico, a memoria. Tanto che gli succedeva spesso di non ricordarsi di aver traguardato uno svincolo, una curva, un paese. Allora si risvegliava dal torpore lucido e si costringeva a fare mente locale, a tracciare un punto nave. Sì, da Varazze sono passato.

 

Guardò ancora Centofanti seduto al suo fianco. Era taciturno, pensava agli affari suoi, senza renderlo partecipe. Guardava fuori dal finestrino, ogni tanto si girava per fare una battuta che sembrava forzata. Chissà che aveva in testa?

 

Decise, così, di raccontargli una storia. Magari l’avrebbe scosso un po’, facendogli ritornare la voglia di parlare, di confidarsi. Bussi sapeva che aveva qualcosa in ballo. Doveva soltanto incoraggiarlo a sbottonarsi un po’ di più. Fece un bel respiro per riordinare le idee e poi disse: «Sai che su Internet si trovano ancora le coordinate geografiche di un’isola che non c’è più?»

 

«In che senso?»

 

«Si chiamava Isola delle Rose. Ne hai mai sentito parlare?»

 

«No.»

 

«Nel 1968, in piena rivoluzione sociale, un ingegnere di Bologna, Giorgio Rosa, proclamò la nascita di uno Stato indipendente e sovrano su una piattaforma, tipo petrolifera. Era ampia quattrocento metri quadrati. L’aveva ancorata a dodici chilometri al largo di Rimini, cinquecento metri fuori delle acque territoriali italiane. Una micronazione che chiamò Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose. L’idioma ufficiale era l’esperanto.»

 

«Ma va!»

 

«Guarda che è vero. È Storia.»

 

«Mai sentito.»

 

«Leggessi ogni tanto!»

 

«Non dire cazzate.»

 

«Vabbe’, volevo menartela un po’.»

 

«E come è andata a finire?»

 

«Il progetto della struttura era dell’ingegnere: una piattaforma leggera e nello stesso tempo molto resistente, con nove piloni d’acciaio che la fissavano al fondale. Sopra, Rosa vi aprì una specie di bar ristorante e un ufficio postale. Pensa che la Repubblica si dotò anche di una moneta, il mill, col cambio alla pari con la lira, però non fu mai battuta. Sono stati emessi invece diversi francobolli, oggi ricercatissimi dai collezionisti. L’ingegnere aveva anche intenzione di aprire negozi e altri esercizi commerciali. Qualcuno dice che aveva in testa di metterci un casinò e un impianto di distribuzione del carburante per le barche da diporto. Il tutto naturalmente esentasse, accise comprese.»

 

«E glielo hanno lasciato fare?»

 

«Figurati!»

 

«Continua.»

 

«Cominciarono ad arrivare frotte di visitatori. La piattaforma era diventata un’attrazione. Tieni conto che proprio in quegli anni stava cominciando a decollare il turismo. Avevano aperto l’autostrada Rimini-Bologna...»

 

«Sì, ma vai al sodo per favore.»

 

«Il governo ritenne che la piattaforma minasse la sicurezza nazionale e così arrivò l’ordine di demolizione da parte della Capitaneria di porto. Fu organizzato un blocco navale, si mossero i servizi segreti. Poi, il 25 giugno 1968, l’assalto di Carabinieri, Finanza, Digos e ispettori delle Imposte, che presero possesso dell’isola, facendo prigioniero l’unico abitante, cioè il custode.»

 

«Incredibile!»

 

«Aspetta, non è finita. Rosa, che ho intervistato poco tempo fa, mi ha raccontato che scrisse al presidente della Repubblica, che allora era Giuseppe Saragat, e al Tribunale internazionale dell’Aja, ma inutilmente. A suo dire, il ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, non voleva sentire ragioni, e anche Aldo Moro gli si sarebbe messo contro. Sta di fatto che la Repubblica dell’Isola delle Rose andò in esilio. Emise un francobollo di protesta, che se ben ricordo recitava “La rabbia del nemico distrusse l’opera non l’idea”, e proseguì nella battaglia legale: Tar, Consiglio di Stato e compagnia bella. Finché, nell’inverno 1969, gli incursori della Marina fecero saltare tutto con settantacinque chili di esplosivo.»

 

«Belìn, che storia!»

 

«Un grande, Rosa. Quando gli ho chiesto se lo rifarebbe, mi ha risposto che, conoscendone l’esito, no, perché non ama ripetere gli errori. Gli ho anche domandato quanto ci aveva perso, con ’sto giochetto. Sai che mi ha detto? Che la piattaforma gli era costata trenta, trentacinque milioni di lire, ma che si era rifatto in abbondanza della perdita perché poi aveva esercitato la libera professione con molta fortuna. Pensa che i suoi clienti dopo tutto quel casino quasi raddoppiarono. Senza contare che, in ogni caso, ’sto Rosa è passato alla Storia...»

 

«Pazzesco, davvero. Ma dove le trovi...?» Centofanti si mise a ridere. Finalmente si era un po’ sbloccato, gli era ritornato il buon umore. Bussi sperò che gli si sciogliesse anche la lingua.

 

Nel frattempo, erano arrivati a Genova. La Punto cabrio s’infilò nello svincolo che conduceva in centro.

 

«Dove devi andare?»

 

«A palazzo di Giustizia.»

 

«Ti ci porto.»

 

«Grazie.»

 

«Che hai?»

 

«Riflettevo.»

 

«Su cosa?»

 

«Sulla tristezza del gesto individuale: se il sogno di quell’isola l’avessero sostenuto in cinquantamila persone, in duecentomila persone, se ci fosse stato un pensiero politico alle spalle... Tu pensi che sarebbe possibile un mondo diverso da quello in cui viviamo?»

 

«Oggi mi sembri proprio rintronato. Che cosa intendi?»

 

«Un mondo con regole diverse. Chi prova a cambiare le regole, o diventa un eroe per le generazioni successive o viene distrutto, isolato, rinchiuso...»

 

E parla, Cento, confidati! Cos’hai in mente? Bluffò, osò: «Pensi ancora a quella nave?»

 

«Già.»

 

«Piena di droga...»

 

«Uhm!» Lo sguardo di Centofanti era fisso sul nulla.

 

Chissà quali pensieri lo tormentano, si chiese Bussi. Non si sbottona, non parla, eppure avrebbe bisogno di scaricarsi. Però, è strano! Non è la prima volta che della droga arriva via mare, e Cento non si è mai così turbato. Cosa gli sta succedendo? Che intenzioni ha? E perché mi ha mostrato tutte quelle gru? Ci deve essere un nesso tra l’arrivo della droga e le speculazioni immobiliari. Ma perché la prende così? Forse sta vivendo male il fatto di essere prossimo alla pensione, forse non ha retto il trasferimento di Toccalossi... «Se vuoi, possiamo cenare insieme.»

 

«No, Bussi, due pranzi fuori nella stessa giornata il mio stomaco non li regge. Devo pranzare con Toccalossi. Stasera vado a letto presto e magari digiuno.»

 

«Come vuoi. Ti do uno squillo stasera.»

 

«Per la buonanotte?»

 

«Scemo.»

 

«Io sono arrivato. Lasciami qui.»

 

«Ciao, Cento.»

 

«Ciao, Bussi. Ci sentiamo.»

 

L’ufficio di Toccalossi si trovava al nono piano del palazzo di Giustizia. Gli armadi erano ancora vuoti. Pile di libri in attesa di essere sistemati. Toccalossi stava inutilmente tentando di concludere la motivazione di un decreto di perquisizione d’urgenza, ma gli mancava l’ispirazione. Magari, di notte...

 

«Procuratore?»

 

Si voltò.

 

Centofanti sorrise stringendogli la mano. «Già all’opera, procuratore?»

 

«Sì, ma mi mancano dei dati.» Chiuse il file. «Finirò più tardi. Andiamo a pranzo?»

 

«Volentieri. Dove?»

 

«Vanno tutti in un ristorantino qui dietro, i miei colleghi...»

 

«Appunto. Se permette, conosco io un posto.»

 

Toccalossi sorrise. «Lei proprio non li sopporta i papaveri. Eppure avere delle conoscenze è sempre una buona cosa.»

 

«Perché?»

 

«Per aprire delle porte.»

 

«Vivo in un monolocale. Non ho bisogno di porte.»

 

«Come vuole. Tanto ha sempre ragione lei. Le presentavo il procuratore generale, il colonnello della Guardia di Finanza, il...»

 

«Sarà meglio avviarci, sennò facciamo tardi. Vabbe’ che qui siamo a Genova, non a Savona. Probabilmente c’è ancora qualcuno aperto. Sa, a Savona, se uno si presenta dopo le due del pomeriggio, trova il coprifuoco...»

 

«Lei ha sempre il dente avvelenato su tutto. Andiamo a piedi?»

 

«Sì, non è distante.»

 

«Come va a Savona?»

 

«Benissimo.»

 

Occhi negli occhi.

 

«Mi dica. È successo qualcosa?»

 

«Il colonnello Ricciardi... mi farà rientrare al comando. In effetti, ero solo aggregato alla Procura, non trasferito, ma adesso pare che le esigenze siano terminate, dal momento che lei non c’è più.»

 

«Ma che...? Telefono io al colonnello.»

 

«No, procuratore, grazie. Sa che non mi piacciono queste cose.»

 

«E poi?»

 

«Quella notizia confidenziale... Il sostituto procuratore, il dottor Falck, mi ha detto che la notizia confidenziale non costituisce notizia di reato, che ci vorrebbero altri elementi. Ma come li trovo se non ho uno straccio di autorizzazione per indagare? Non posso certo fare una perquisizione senza un mandato.»

 

«Qual è il nome della nave?»

 

«Consuelo.»

 

«Sembra il nome della barca di un vip.»

 

«E invece si tratta di una bananiera. Arriverà a Genova domani mattina, ho controllato tramite l’autorità Portuale. È bastata una telefonata. Sono stato generico, ovviamente, e ho chiesto l’elenco delle navi in arrivo nel mese di ottobre. C’è anche la Consuelo.»

 

«Bravo.»

 

«Grazie.»

 

«Questo Pedro non mi ha mai mentito. Si ricorda quella volta dei due Tir provenienti dall’Austria? Ottocento chili di marijuana.»

 

«Già.»

 

«Sono sicuro che la dritta è giusta, e la cosa mi preoccupa. Sa perché? Perché i narco-trafficanti, secondo quello che mi ha riferito Pedro, vogliono creare dipendenza anche tra i consumatori occasionali di cocaina. Finora non era mai successo. La sniffata del sabato sera, per quanto discutibile, poteva essere un fatto sporadico. Il consumo di eroina e le motivazioni sociali che spingevano una certa fascia di popolazione ad assumerla sono venuti meno. La cocaina è la droga di chi è dentro il sistema, non contro il sistema. È il cosiddetto “aiutino” per reggere il ritmo, la sfida quotidiana. Creare dipendenza tra i consumatori occasionali di cocaina può creare un disastro, sociale ed economico.»

 

«Dov’è adesso Pedro?»

 

«Non ne ho idea. Ma ho un numero telefonico, se vuole sentirlo.»

 

«Me lo lasci, magari lo sentiamo insieme, quando rientriamo.»

 

«Ecco... è questo.»

 

Centofanti indicò l’entrata del ristorante.

 

«Ma è messicano!» esclamò Toccalossi.

 

«Problemi?»

 

«No.»

 

Un cameriere sorridente li fece accomodare. Poca gente, solo tre tavoli occupati. Si sistemarono in un angolo, per poter chiacchierare tranquillamente. Toccalossi scorse perplesso il menu.

 

Capitolo 9

 

Bussi camminava verso galleria Mazzini. L’ora di pranzo era passata da un pezzo e il ristorante era ormai quasi vuoto. Perché aveva fatto così tardi? Neanche si era reso conto di aver passeggiato, o meglio bighellonato, trascinato dai suoi pensieri.

 

Un collega del quotidiano cittadino lo salutò con freddezza.

 

«Una cotoletta», chiese Bussi.

 

Mangiare da solo, lui c’era abituato, non gli pesava. Certo, non era il massimo dell’allegria, ma aveva smesso da un pezzo di cercare compagnia non gradita per aggiungere un coperto.

 

Guardò distrattamente l’orologio. Dal giornale non lo avevano più chiamato. Aveva telefonato lui, la sera prima, e aveva chiesto al suo vice di sostituirlo ancora per un giorno, perché lui non si sentiva tanto bene. Si era anche preoccupato, il collega. Chissà se era davvero interessato, oppure se lo faceva soltanto per convenzione. Comunque sia, erano rimasti d’accordo che sarebbe rientrato l’indomani, ma con calma. Il vice lo avrebbe coperto ancora per la riunione del mattino e avrebbe iniziato al suo posto anche quella del pomeriggio. Lui, poi, sarebbe arrivato...

 

Il caporedattore centrale, in un grande giornale, è una figura chiave, il fulcro intorno a cui ruota l’intera macchina redazionale. In sostanza, è un animale da soma, condannato a tirare tutto il santo giorno. È l’uomo che fa da trait d’union tra la direzione e la redazione, che trasforma in realtà le indicazioni, i desiderata, gli ordini del direttore; e che, soprattutto, dopo averli tradotti in servizi, li fa rispettare. È l’uomo che deve accendere i motori e farli funzionare, oliandoli durante l’intera giornata e parte della nottata, intervenendo se malauguratamente si mettono a tossire. Sta a lui predisporre, rendere possibile, custodire e adeguare il «timone», vale a dire la successione delle pagine e rispettivi contenuti, una magna charta che nasce e muore in ventiquattro ore, per trecentosessantacinque giorni all’anno (un po’ meno in verità, considerando le festività non lavorate dalla categoria e i bisestili). Un miracolo, se si considera l’enorme sforzo collettivo che comincia ad abbozzarsi in una riunione del mattino, prende ulteriore forma nelle due successive, del pomeriggio e della sera, e si consolida con la messa a punto continua del progetto giornale, sull’onda delle notizie vomitate da agenzie di stampa, network televisivi, web, diversi settori della redazione centrale, redazioni e uffici distaccati, corrispondenti, inviati e collaboratori; fonti tra le più diverse, inclusi lettori, amici e vicini di casa. Un’enorme, martellante corrente di parole e di adrenalina che invade l’open space del giornale e che, con qualsiasi gioco di venti, alla fine travolge senza pietà la scrivania del caporedattore centrale.

 

Stava pensando proprio a questo, Bussi, mentre i minuti scivolavano sull’orologio. Alla macchina del giornale e alla sua voglia di togliersi i guanti di custode del motore. Al suo desiderio di tornare a fare davvero il giornalista. Alla pazzia di aver preso un giorno di ferie, aggiungendo un martedì alla sua tripletta, per andare a fare visita all’amico Cento a Savona per via di quella notizia scappata: un carico di droga...

 

Un carico di droga? Ma che cazzo gliene fregava a lui della droga? Non era più un cronista, aveva smesso da un pezzo, e poi erano questioni locali. Un tempo, sì, gli sarebbero interessate. Certo non oggi, che si occupava del mondo... Eppure, aveva sentito accendersi qualcosa nel profondo. Il gusto della dritta, del cogliere da una mezza parola, da un certo tono la scintilla dell’intuizione. Il piacere di scoprire, di scovare una notizia. Da quanto tempo non lo faceva più?

 

Le tre e un quarto. Quaranta minuti per una cotoletta! Oltre sarebbe stato davvero troppo. Ancora dieci minuti per sorseggiare un caffè. E poi? Poi avrebbe iniziato a fare buio.

 

Bussi si passò una mano sul mento. La barba era di un giorno, ruvida.

 

Capitolo 10

 

Centofanti guardò l’orologio appeso alla parete: le otto di sera. Fuori stava piovendo, le luci della città brillavano sul vetro dell’ufficio. Aveva già sistemato un centinaio di file, mentre Toccalossi silenzioso stava mettendo a posto le sue cose.

 

Erano stati al ristorante, avevano discusso, poi erano rientrati in ufficio. Centofanti si era messo al computer e Toccalossi alla scrivania, come ai vecchi tempi. Vecchi? Cavolo, era così soltanto fino a due giorni fa, pensò Centofanti. Eppure sembrava passato un secolo. Come cambiano in fretta le cose!

 

Centofanti sbirciò nuovamente l’orologio. Calcolando il traffico, gli ci voleva un’ora per rientrare a casa. Anzi, no, di più: era arrivato con Bussi, non aveva l’auto, doveva per forza prendere il treno.

 

Eppure, lasciare lì da solo Toccalossi gli dispiaceva, perché sapeva che il procuratore avrebbe tirato tardi, rimanendo fino a notte fonda con le luci accese, con gli uffici deserti. Bellissimo. Quante notti avevano trascorso insieme, quante volte fatto l’alba, così, senza parlarsi, senza fiatare? Ciascuno intento nel proprio lavoro. Lui a scrivere al computer, il suo capo a leggere l’annotazione di qualche fascicolo.

 

No, non se ne andrà. Resterà lì. Si collegò a Internet e scorse l’orario dei treni: c’era il Regionale delle 21.54 da Brignole che arrivava a Savona alle 23.22. Oltre sarebbe stata dura. Bene, ancora due ore circa da passare con il suo capo. Poi i saluti, il viaggio, il lento cullare delle rotaie, il sonno...

 

Qualcuno spense le luci nel corridoio. Forse c’era un timer, forse era passata la guardia giurata per il giro d’ispezione.

 

Ora il loro ufficio d’angolo era l’unico rimasto ancora illuminato.

 

Toccalossi leggeva concentrato, il viso truce, assorto, gli occhi fermi dietro le lenti degli occhiali. Centofanti scriveva, apriva il file, sceglieva il carattere, l’intestazione, lo richiudeva, ne apriva un altro. Nessuno dei due parlava, eppure ciascuno era contento che l’altro fosse lì, che stesse lavorando al suo fianco.

 

Ogni tanto, una parola rara, qualche «Stanco?» oppure «Non capisco», appena mormorato.

 

Toccalossi sollevò gli occhi dal foglio che stava leggendo: «Aggiusti prima i decreti di perquisizione».

 

Centofanti obbedì.

 

Non chiede mai perché, non si lamenta, esegue senza fiatare, pensò Toccalossi. Per questo lo stimava.

 

Oh, se aveva da fare una rimostranza non se ne stava certo zitto, Centofanti, ma qualunque cosa gli chiedesse il suo capo per lui era un piacere eseguirla. Chiuse il file su cui stava lavorando e aprì la cartella «perquisizioni». Modificò tutti i moduli, cambiò l’intestazione, il carattere, si preoccupò di vedere che la firma non restasse sola soletta nell’altro foglio, riaggiustò i margini. Toccalossi lo guardava compiaciuto.

 

Le nove e mezzo. Ora doveva proprio andare, altrimenti perdeva il treno.

 

«Procuratore, io...»

 

«Vada pure, maresciallo, grazie.» Stava per dire: «A domani», ma si trattenne.

 

Centofanti corse verso la stazione di Brignole. Sembrava un ladro che fugge nella notte.

 

Toccalossi lo guardò dalla finestra dell’ufficio. Poi si diresse al computer, aprì la cartella «perquisizioni», quindi il file e cominciò a scrivere...

 

Capitolo 11

 

Mercoledì 5 ottobre

 

La costa si stagliava in lontananza, dinnanzi alla prua. Era notte piena, la macchia scura che riempiva i contorni dell’Appennino ligure era disseminata da minuscoli punti luce.

 

La Consuelo avanzava a velocità standard. Era una reefer vessel costruita in Corea nel 1999. Una nave frigorifero lunga 167 metri e larga 25, con una capacità di 5.600 pallets sottocoperta e di 220 container da 40 piedi sul ponte. Il comandante era un olandese di quarantaquattro anni dal volto arcigno. Sorrideva poco, impartiva ordini secchi, non dava confidenza. Gli avevano insegnato che chi comanda non deve essere amico di nessuno, tantomeno del proprio equipaggio, composto da quindici persone, tutti uomini, filippini in maggioranza; solo gli ufficiali erano europei, due scandinavi e un inglese.

 

Sul ponte di comando era buio pesto, eccetto per gli aloni giallognoli delle strumentazioni elettroniche, che spezzavano la monotonia cromatica della notte. Il timoniere reggeva una ruota che sembrava il volante di un’auto da corsa. Sulle navi moderne, ormai, non c’era più spazio per l’iconografia classica, quella che vuole il timone in legno, con tanto di caviglie. La rotta era impostata, non c’era corrente, non c’erano problemi di scarroccio. Tutto procedeva nella norma. Il secondo ufficiale stava fumando una sigaretta sull’aletta di dritta. Il marinaio di vedetta stava combattendo col sonno, ingaggiando una battaglia di resistenza con il piano della vetrata. Il comandante passeggiava nervosamente. Sentiva la tensione dell’approdo.

 

La Consuelo era salpata da Puerto Moin, Costarica. Dopo dieci giorni di navigazione era arrivata a Lisbona. Tre giorni di scalo per scaricare parte del carico poi la nuova partenza per Genova, con una sosta a Marsiglia. Una linea circolare, che toccava anche la Colombia e la Spagna. Sempre quella, ogni mese dell’anno. Stessa merce.

 

Alle sei del mattino attraccò alla banchina.

 

Centofanti si era svegliato presto, alle cinque. Aveva fatto una colazione ricca di carboidrati, con due tazzine di caffè e una spremuta. Si era infilato il maglione, il berretto di lana e la giacca a vento e alle sei era già lì sul posto, pronto a... a non fare nulla.

 

Perché, da solo, che cosa avrebbe potuto fare? Per un’operazione del genere ci sarebbero voluti almeno venti uomini e forse neppure sarebbero bastati. Quattro nascosti tra gli scaricatori, e il loro sarebbe stato il compito più difficile, perché avrebbero dovuto nascondere l’attrezzatura: pistola, manette, radio portatile; quattro in sala intercettazione con i primi telefoni dei sospettati sotto, due dei quali pronti a scattare in caso di un pedinamento improvviso; tre cinofili con i cani antidroga; sei uomini nascosti su un furgone e altri tre in divisa, per un posto di blocco, all’uscita del porto. Minimo. Con meno uomini si sarebbe rischiato il fallimento. Aaah, ci fosse stato lui a capo di un’operazione del genere! Ma era lì, da solo, schiaffeggiato dalla tramontana.

 

Cosa ci sto a fare, poi?, si domandò quando la voglia di pisciare lo assalì all’improvviso.

 

La nave era ferma. Dal ponte qualcuno gettò le cime. Altre navi erano ormeggiate, tutte mercantili: una proveniva dall’India, una dal Marocco, una dalla Corea. Avevano nomi buffi, quasi illeggibili.

 

Una volta, tempo prima, aveva fatto per svago una visita con il battello dentro il porto di Genova, attraversando la diga foranea, mentre una guida acciaccata dagli anni e dal salino spiegava che molte imbarcazioni erano confiscate perché non avevano pagato le tasse di attracco, o qualcosa del genere. Alcune erano vecchie carcasse in stato di totale abbandono, arrugginite e decrepite. Gli era parso, si ricordò, il set cinematografico di un poliziesco degli anni Settanta.

 

Era buffo pensare che tutto il mondo era collegato e che, in qualche modo, attraverso il mare, le frontiere non c’erano mai state.

 

Alcuni marinai, tre per la precisione, posero piede sulla terraferma. Doveva essere una bella sensazione dopo i giorni di navigazione. Uno si accese una sigaretta, un altro tirò un calcio a una lattina di Coca-cola abbandonata sulla banchina, facendola carambolare in mare, il terzo estrasse dalla tasca del giaccone un foglio.

 

Una squadra di scaricatori si avvicinò loro, erano in quattro. Contemporaneamente un furgone alle loro spalle mise in moto e sgommò sino al pontile: sei uomini scesero dal mezzo con le armi in pugno. I quattro scaricatori estrassero a loro volta le loro e tutti e dieci insieme si inerpicarono lungo lo scalandrone, proiettandosi all’interno della nave. I tre marinai cominciarono a correre verso l’uscita del porto. Arrivò un altro blindato con la scritta Polizia: tre uomini in divisa scesero, tenendo al guinzaglio i cani, e li bloccarono.

 

Un servizio tale e quale a quello che avrebbe organizzato lui. Ma come...?, si domandò Centofanti. Poi ripensò allo sguardo sornione di Toccalossi. Ma guarda te! Ecco perché voleva sistemati i decreti di perquisizione, rifletté. Allora, era stato ad ascoltarmi! Gli scappò da ridere. Diavolo di un Toccalossi!

 

Inforcò il binocolo per non perdersi neanche un dettaglio di quell’operazione. Non conosceva nessuno di quegli uomini. Nessuno di loro era un volto noto. Saranno di Genova, della DIA, pensò, di sicuro.

 

Poco fuori dal porto due posti di blocco: i poliziotti controllavano ogni auto, ogni camion in uscita.

 

Sei ore dopo, giusto per l’ora di pranzo, l’operazione era terminata. Bilancio: disastroso! Droga rinvenuta: zero! Persone arrestate: nessuna! Persone denunciate: nessuna! In gergo quello che sia chiama un fallimento.

 

Che cosa penserà ora Toccalossi? si domandò Centofanti.

 

Capitolo 12

 

Il tg regionale diede la notizia, con tutto quel dispiego di forze il blitz non era passato inosservato.

 

Bussi era steso sul divano di casa sua, al cospetto del quadro di Azzurra ’83, il manifesto originale disegnato da Ugo Nespolo per la prima avventura italiana in Coppa America. Premette il tasto sul telecomando per alzare il volume. Che cosa era successo? C’era stata un’operazione antidroga non andata a buon fine, gli uomini della DIA avevano messo a soqquadro una nave senza trovare nulla... E che notizia era?

 

Si alzò, aprì la portafinestra del salone e uscì sul terrazzo. Il mare era lì, giù, a pochi metri, calmo. La giornata tiepida. Respirò a pieni polmoni l’aria iodata. Amava quell’aria, per quel motivo non se n’era mai andato davvero. Gli piacevano l’odore del mare, gli schizzi dell’acqua nelle notti di vento.

 

Decise che, prima di andare a prendere la macchina e partire per Torino, avrebbe fatto una passeggiata. Doveva essere al giornale intorno alle 16, magari una mezz’oretta dopo al massimo, giusto per dare il tempo al suo vice di aprire la riunione del pomeriggio, quindi sarebbe partito verso le 14,30, meglio qualcosina prima.

 

Allungò lo sguardo sul promontorio di Portofino: c’era il cappello, vale a dire una nuvola spessa sulla vetta, segno che il tempo avrebbe volto al cattivo. Afferrò una giacca a vento, percorse il corridoio e uscì di casa.

 

Arrivò fino al porticciolo di Nervi, s’inoltrò nel piazzale e si fermò davanti alla sua barca, tirata a secco, poggiata sul carrello. Era un dinghy 12 piedi in legno e vetroresina, una sorta di lancia con la vela. Detta così, però... Andò a scartabellare nella memoria...

 

Dunque, il dinghy nasce in Inghilterra nel 1913 su disegno di George Cockshott che aveva cercato di tenere a battesimo una barca semplice ed economica. Dopo essersi affermato soprattutto nei paesi del Nord Europa, il dinghy ottiene la qualifica di Stazza Internazionale dall’International Yacht Racing Union, un evento che gli apre le porte alle Olimpiadi. In Italia arriverà soltanto nel 1929.

 

Lui il suo l’aveva acquistato da un ristoratore di Portofino che da anni deteneva il titolo di campione italiano di classe. Gli piaceva quella barca: era classica, aveva stile, non era troppo aggressiva, ma bisognava avere le palle per portarla come si deve.

 

La guardò, la rimirò, alzando il telo che la ricopriva, proteggendola dalla pioggia e dal sole. La accarezzò. Gli veniva di farlo con tutte le barche che gli piacevano, piccole o grandi che fossero. Passava la mano, leggera, seguendone le linee. Aveva bisogno di toccarle, quelle curve, quegli spigoli, come fossero belle donne.

 

Poi, si voltò verso la piscina: vasca vecchia, teatro di tante battaglie, soprattutto di altri. Sì, anche lui ci aveva giocato, ma quello era un tempio della Serie A. Peccato che, a differenza sua, le mareggiate non la tenessero in così alto conto, e a ogni inverno la scuotessero come un panno nella tinozza. Immancabilmente, danneggiavano, se non buttavano giù, il pallone che ricopriva la piscina, costringendo tutti, pallanuotisti, sincronette, nuotatori amatoriali, a emigrare verso altre acque.

 

Che strano sport, la pallanuoto. Giocato da pochi, prevalentemente in Liguria, Campania, Sicilia e Lazio, guardando all’albo d’oro delle società più scudettate, eppure così nobile. Richiedeva uno sforzo immane nuotare su e giù per quei trentatré metri, una fatica bestiale affrontare il corpo a corpo con gli avversari, ma anche velocità, rapidità di esecuzione, visione del gioco e fantasia. Però, decise in quel momento, gli piaceva di più la vela.

 

Tornò a casa con il passo sempre più pesante. Sentiva l’ora di mettersi in macchina per Torino come le avvisaglie di un mal di pancia. Guardò ancora una volta il mare, che in quel tratto di Aurelia talvolta, durante le libecciate, riusciva a vincere la forza di gravità sino a risalire il muraglione della spiaggia e a riversarsi sulla carreggiata. Se ne riempì lo sguardo e continuò a camminare.

 

Si cambiò e ridiscese subito. Una focaccina farcita in caffetteria e tirò fuori la macchina dal garage. Era una Lancia Delta, blu, tanto per cambiare. La usava per andare avanti e indietro, mentre la Punto era solo per muoversi a Genova.

 

Porca troia puttana bagascia...

 

Ogni volta la stessa esclamazione. La ripeteva come un mantra, ormai. Inforcava il casello di Nervi, attraversava il caotico nodo autostradale genovese e risaliva l’Appennino. Nei pressi di Masone cominciava già a cambiare umore e poi, all’uscita della galleria che annunciava Ovada, quella consuetudine: imprecava. Lasciatosi alle spalle il passo del Turchino, il varco che collegava Genova al basso Piemonte, il mare alla pianura, temeva sempre il peggio, come il resto dei suoi concittadini.

 

Tutti i genovesi, a quel punto serrano le mani intorno al volante, si incassano nelle spalle e si guardano attorno guardinghi. Sono gesti incondizionati, nemmeno se ne accorgono. È come se viaggiassero sulla Route 51: non sia mai che spunti un ufo. In realtà, quel che spesso accade loro è di trovarsi all’improvviso proiettati in un’altra stagione. Passano dal sole al grigio e questo salto temporale li destabilizza, forse, anche li impaurisce. Di sicuro li rattrista.

 

A Bussi si stringeva la bocca dello stomaco e sotto la forza di quella morsa s’incupiva. Tanto da aver bisogno di prendersela con qualcuno, con qualcosa, con il mondo. Gli veniva fuori allora tutta la rabbia dell’emigrante, quella che aveva intriso il suo DNA e che parlava della stessa rabbia che avevano provato i suoi concittadini e corregionali costretti a lasciare le loro terre per le Americhe. Quelli che erano partiti con i transatlantici da Genova ed erano stati parcheggiati a Ellis Island, o erano finiti in qualche catapecchia a Boca, o andati a lavorare come bestie lungo i binari delle ferrovie nelle pampas... Quelli che avevano sognato di tornare, almeno per posare le ossa dov’erano nati.

 

Porca troia puttana bagascia...

 

Capitolo 13

 

Erano le nove di sera, pioveva. Centofanti non se l’era sentita di prendere l’auto. Non aveva voglia di guidare con quel maltempo. Meglio lasciarsi cullare dal treno, guardare la pioggia con gli occhi semichiusi e rimuginare nel silenzio. Sì, nel silenzio interrotto dai lamenti del convoglio.

 

Ci aveva provato in occasione di viaggi precedenti a quello a portarsi dietro della musica da ascoltare con le cuffiette, ma non si era trovato bene. E allora, aveva deciso di farne a meno.

 

Forse, si era detto, sarebbe stato meglio parlare di persona a Toccalossi, raggiungerlo in ufficio, di sera. Era andato in auto alla stazione, aveva parcheggiato ed era salito sul primo treno utile. Meglio così, con quel tempaccio!

 

Toccalossi gli aveva telefonato poco prima chiedendogli di raggiungerlo in ufficio.

 

Centofanti guardò le lucine gialle della città: era bella Genova con il buio. Dava l’idea di grande, di magico, di città vera. Non come Savona che sembra sempre un paesone stanco, rifletté.

 

Già immaginava le parole di Toccalossi. Non avrebbe nemmeno avuto il viso arrabbiato, non avrebbe alzato la voce, non se la sarebbe presa. Gli avrebbe detto solamente...

 

«Maresciallo, abbiamo fatto una figuraccia.»

 

«Lo so, procuratore, ma Pedro...»

 

«Pedro non si trova più. È sparito. Quel numero telefonico che lei mi ha lasciato è inattivo.»

 

«L’avranno fatto fuori?»

 

«Speriamo di no. Ma la notizia era fasulla.»

 

«È strano, però. Che interesse poteva avere Pedro a rifilarci una bufala?»

 

«Questo è vero.»

 

«Non potrebbe... Le spiace se faccio un controllo?»

 

«Prego.»

 

«Devo usare il telefono.»

 

«È lì.»

 

Avrebbe chiamato un giornalista che conosceva, uno che lavorava all’unico vero quotidiano marittimo nazionale, un «foglio» fatto di rubriche indispensabili per chi opera in porto e per il porto, con gli arrivi e le partenze delle navi, le previsioni, gli elenchi delle merci sbarcate.

 

«Pronto, Ermanno? Ciao, sono io. Ho bisogno di un controllo, per cortesia, scusa l’ora... Mi puoi verificare la rotta che ha seguito una nave? Aspetta ti do i dati... Hai da scrivere? Bene, è una bananiera, arriva dal Costarica, ha attraccato stamattina alle sei a Genova. D’accordo, ci sentiamo dopo.»

 

Viso soddisfatto di Toccalossi. «Ho capito! L’hanno sbarcata prima.»

 

«Attendiamo.»

 

«Quando la richiama il suo amico?»

 

«Non è un mio amico. È un conoscente.»

 

«Già, lei non ha amici.»

 

«Pochi, ma buoni.»

 

«Quel Bussi, ad esempio...»

 

«Bussi è una persona di cui ci si può fidare.»

 

«Lo so, lo so. Non si scaldi. Risponda, non sente che suona il telefono?»

 

«Pronto? Sì, ciao, Ermanno. A Marsiglia, hai detto? Grazie. Ti devo un favore.» Poi, rivolgendosi a Toccalossi: «Ha sentito, procuratore? La nave prima di arrivare a Genova ha fatto scalo a Lisbona e poi a Marsiglia. È chiaro no? Hanno sbarcato la droga in Francia. Adesso si dovrebbero organizzare dei posti di blocco alla frontiera, ma forse è troppo tardi».

 

Guardarono l’ora: ventidue e trenta. Sì, era troppo tardi.

 

«Che si fa?» domandò Centofanti.

 

«Aspettiamo. Domani sapremo.»

 

«Lei ha già cenato?»

 

«No.»

 

«Andiamo a mangiare un boccone insieme?»

 

«Magari dopo. Già che è qui, mi darebbe una mano a sistemare quei file?»

 

Centofanti adorava quei momenti. Non vedeva l’ora che Toccalossi glielo chiedesse. Si diresse al computer e iniziò a scrivere.

 

Poco più tardi guardò l’orologio. Fuori stava piovendo, le luci della città brillavano sul vetro dell’ufficio. Sorrise. Non sentiva fame, neppure appetito.

 

L’ufficio del suo capo era ancora disadorno, mancavano alle pareti tutti quegli orpelli che riassumono la vita di una persona: premi, riconoscimenti, attestati di stima, articoli di giornale incorniciati. Mancavano anche i crest che, inevitabilmente, ogni anno a Natale, i comandanti dei vari reparti delle Forze dell’Ordine si pregiano di offrire ai magistrati.

 

Quelli appesi al muro dietro la scrivania, a Savona, ancora giacevano imballati tra fogli di giornale dentro capienti scatoloni ammonticchiati uno sull’altro nel vecchio ufficio. Prima o poi sarebbe andato a prenderglieli. Perché non averci pensato prima? Avrebbe potuto portarglieli quella sera stessa per sistemarli sulla parete bianca e triste.

 

Quante cose c’erano da fare! Arredare l’ufficio, sistemare i file, disporre i codici, ritagliare gli articoli...

 

Toccalossi afferrò un’annotazione da un fascicolo e cominciò a leggerla.

 

Tutto come ai vecchi tempi, quando erano a Savona.

 

Oh! Centofanti sapeva benissimo che non avrebbero cenato, che sarebbero rimasti lì sino a mezzanotte, all’una, alle due. Finché, voltandosi, avrebbe scorto Toccalossi addormentato sulla sedia. Allora si sarebbe alzato, avrebbe spento la luce, avviandosi alla porta per uscire silenziosamente. L’importante era arrivare in macchina, perché con i treni, dopo una certa ora, marcava male.

 

I suoi colleghi di Genova si sarebbero abituati presto a vedere Toccalossi accasciato sulla scrivania e a trovarlo già in ufficio al mattino, con il viso stravolto.

 

Gli piaceva tutto questo. Adorava stare lì, accanto al suo capo, a scrivere, di notte, con il silenzio, il rumore delle ruote degli autobus dentro le pozzanghere, il sibilo feroce di qualche sirena che non lascia presagire nulla di buono, forse un’ambulanza, forse il camion dei Vigili del Fuoco, forse una volante della Polizia. Aveva imparato a distinguerli, quei suoni, quasi fossero la colonna sonora di un film, o meglio di un telefilm, uno sceneggiato seriale, infarcito di riprese ripetitive, di vedute già viste, di immagini immaginate.

 

Toccalossi sollevò gli occhi dal foglio che stava leggendo e sorrise. Centofanti continuò a scrivere silenzioso.

 

E scese il buio anche su Savona. Erano quasi le undici.

 

La redazione del quotidiano in piazza del Teatro (in realtà, si chiamerebbe piazza Diaz, ma il teatro intitolato al poeta e drammaturgo seicentesco Gabriello Chiabrera ha avuto la meglio sulla toponomastica) era prossima alla chiusura. Quasi tutti i redattori avevano già abbassato le tapparelle e se n’erano andati da un pezzo. Quasi tutti. Soltanto una lampada da tavolo era ancora accesa a illuminare il piano di lavoro di una postazione. In provincia si chiude prima rispetto alle pagine nazionali, sempre che non accada qualcosa: un fatto di cronaca, una notizia da dare (le notizie, in gergo giornalistico, si danno, non si scrivono né pubblicano) assolutamente.

 

Marco Raffa, il cronista di turno, stava masticando un cracker sbriciolato, rinvenuto per puro caso nella tasca della giacca, mentre controllava per l’ultima volta il suo pezzo. Aveva saltato la cena. Per fortuna aveva affittato un monolocale a Savona, altrimenti, in casi come quello, come se la sarebbe cavata? Guidare sino a Lavagna, dove abitava con la famiglia, era fuori discussione.

 

Quella notte, infatti, la notizia inattesa era arrivata e lui stava facendo tutto quello che doveva fare: telefonare ai Carabinieri, parlare con il magistrato, andare sul posto, scrivere il pezzo:

 

Un broker finanziario di 38 anni, L. B., è stato trovato privo di vita ieri sera nel suo appartamento di via Tasso. Il cadavere era riverso sul pavimento del salotto. A fianco del corpo, un foglio di carta stagnola spiegazzato, una carta di credito (intestata alla vittima) e tracce di polvere bianca.

 

A dare l’allarme è stata la fidanzata dell’uomo, quando è rientrata a casa. La donna ha chiamato il 113, è arrivata la volante e successivamente gli agenti della Scientifica. La Procura ha aperto l’inchiesta, il magistrato di turno ha disposto per l’autopsia. L’esame autoptico dovrà stabilire le cause e l’ora della morte. Gli inquirenti non escludono che il decesso possa essere stato provocato da una dose eccessiva di stupefacente, in particolare cocaina.

 

Il broker era molto conosciuto negli ambienti finanziari liguri. Aveva un ufficio a Savona ma lavorava anche sulla piazza genovese e su quella milanese. Era inoltre titolare di una quota di partecipazione in una società finanziaria di Lugano. In città era anche noto per i suoi trascorsi sportivi. Aveva infatti militato nelle fila della Rari Nantes Savona, giocando per diversi anni nelle squadre giovanili della società e nella rappresentativa maggiore.

 

Marco Raffa

 

Capitolo 14

 

Giovedì 6 ottobre

 

Erano le cinque del mattino quando Centofanti abbandonò l’ufficio di Toccalossi. Una rapida occhiata all’orologio per rendersi conto che il tempo era volato e che, per giunta, doveva tornare a Savona e presentarsi in servizio. Il suo capo dormiva beato sulla poltrona, la testa riversa di lato, il volto sereno come quello di un bambino. Solo un lieve russare tradiva la sua età.

 

Centofanti era abituato a scene come quella, ormai non ci faceva più caso. Quante volte era finita così?

 

Salvò il lavoro, chiuse il computer e si avviò alla porta. Spense la luce. Avrebbe anche detto «Buon riposo, capo», prima di avviarsi, se non fosse stato un po’ patetico.

 

Quando sporse il viso fuori si accorse che era ancora buio e che l’aria del mattino più che frizzantina poteva definirsi fredda. Sì, faceva un freddo cane.

 

La strada per arrivare alla stazione Brignole per fortuna era breve, solo sette minuti. La percorse assonnato. Salì sul primo locale disponibile e chiuse gli occhi non appena ebbe preso posto sul sedile. Poi un ripensamento: programmò la sveglia sul cellulare e finalmente si addormentò. Il rollio del treno gli piaceva da sempre, gli conciliava il sonno. Dormì profondamente, e sognò.

 

Il sogno era lo stesso da anni: lui su una spiaggia di Phuket insieme a una ragazza. Il suo chiosco di bibite affollato di gente e lui che, incredibile!, parlava un inglese fluente e anche un po’ di thai. Soldi a palate, sole, mare e relax. E fica!

 

Il treno raggiunse Sampierdarena, una breve sosta, poi ripartì. Centofanti sistemò la testa sull’avambraccio.

 

Centinaia di clienti perché il suo era il chiosco più bello di tutti, con il tetto di bambù, i tavolini sull’arenile e alcuni stuzzichini italiani che preparava personalmente.

 

Il convoglio si fermò ancora. Centofanti continuò a sognare.

 

E poi c’erano le sue favolose pizzette. Beninteso: Centofanti non aveva la minima idea di come si preparasse una pizzetta, ma nel sogno tutto era possibile. Anche che lui parlasse un inglese fluente e si trasformasse in cuoco straordinario.

 

Il treno giunse a Sestri Ponente.

 

Ma la cosa più inverosimile è che lui lavorava per hobby, non aveva alcuna necessità. La sua pensione, in Thailandia, bastava e avanzava. Ma adorava avere un chiosco.

 

Una voce dall’altoparlante annunciò la stazione di Arenzano.

 

E alla sera era tutta una festa: turisti di tutto il mondo radunati sulla spiaggia a ballare, e lui che, gettati via gli abiti del cuoco, indossava quelli dell’animatore. Guarda te i sogni. Nemmeno una barzelletta sapeva raccontare, ma tant’è! Nel sogno tutti ridevano alle sue battute e facevano l’alba. Quando poi lui partiva con le colazioni, cappuccini, brioche appena sfornate e focaccia italiana, anzi savonese, bella unta (una sciccheria, pucciata nel caffellatte), allora era festa grande.

 

Ovvio che nei sogni il tempo sia irrilevante. Il cervello viaggia di suo seguendo una non-logica. Tra colazioni, aperitivi, cene, balli notturni, quando mai avrebbe trovato il tempo di riposarsi? Ma non ci fece caso.

 

Il treno giunse a Cogoleto.

 

E poi, ciliegina sulla torta, la sua idea vincente: quella di esportare in Thailandia la farinata. Anzi, nel mondo. Una seria di rivendite in franchising. Farinata di grano e di ceci, semplice o farcita: con il rosmarino, la salsiccia e le cipolle.

 

Il treno frenò ad Albisola. La sveglia suonò. Centofanti aprì un occhio, schiacciò un tasto sul cellulare e interruppe quel suono fastidioso. Poi si riaddormentò.

 

Il treno si fermò pochi minuti dopo alla stazione di Savona. Centofanti era lungo disteso sul sedile.

 

Aveva preso un sacco di farina e l’aveva messo sulla porta semichiusa del suo locale. Tra poco sarebbe entrato Bussi e allora, aprendo la porta, il sacco si sarebbe rovesciato sulla sua testa...

 

Una mano sulla spalla lo svegliò di soprassalto.

 

«Signore, siamo arrivati. Il treno ferma qui.»

 

«Eh? Cosa?»

 

«Il treno è arrivato, signore.»

 

Centofanti si passò le mani sul viso. «Aaah... sì, grazie.»

 

Scese. Guardò l’ora: le sei e trenta. Il tempo di scendere le scale che conducevano al sottopassaggio, salutare due agenti della Polfer e recarsi all’edicola a prendere L’Informazione e poi al bar per un caffè, in rigoroso ordine. Che senso avrebbe fare colazione senza sfogliare il quotidiano?

 

Saltò tutte le pagine della politica. Scorse velocemente quelle culturali, poi si soffermò sulla cronaca locale, deformazione professionale:

 

Un broker finanziario di 38 anni, L. B., è stato trovato privo di vita ieri sera nel suo appartamento di via Tasso. Il cadavere era riverso sul pavimento del salotto...

 

Imprecò dopo aver letto ogni dettaglio. Be’, non poteva essere sicuro che la nuova partita di droga avesse già mietuto la sua prima vittima e che la dritta di Pedro fosse giusta, ma qualcosa gli diceva che era proprio così. Quello poteva essere il primo di una probabile lunga serie di decessi.

 

C’è molta differenza tra coloro che leggono il quotidiano al mattino: alcuni lo fanno distrattamente; altri perché non sanno cosa fare; infine, c’è chi lo fa per mestiere, per ricavarne elementi d’indagine. Centofanti apparteneva a quest’ultima categoria.

 

Pedro era stato chiaro: la nuova partita di droga avrà effetti devastanti. Doveva darsi da fare per scoprire chi fosse questo L. B. Niente di più facile, era sufficiente attendere le nove. A quell’ora il rapporto sarebbe giunto in Procura e lui non avrebbe dovuto far altro che passare di lì, mentre Erminia lo registrava...

 

Capitolo 15

 

«Ciao, Erminia, come stai? Ti ho portato un caffè. Ti va?»

 

«Grazie, Cento.»

 

«Non ho messo lo zucchero. Non sapevo se ti andava.»

 

«Rimedio subito. Ci sono le bustine nella macchinetta nel corridoio.»

 

«Vado io.»

 

«No, non ti disturbare. Sei già stato molto gentile.»

 

«Ti aspetto qui.»

 

«Torno subito.»

 

Bene, è andata. Dunque, tre soli fogli sulla scrivania, vediamo... ecco: Annotazione della Squadra Volanti della Questura... Luciano Bensi è stato trovato privo di vita alle ore 20.30 del 5 ottobre... nel suo appartamento di via Tasso. Il cadavere era riverso sul pavimento del salotto. A fianco del corpo, un foglio di carta stagnola spiegazzato, una carta di credito e tracce di polvere bianca. Verbalizzate le dichiarazioni della testimone che ha rinvenuto il cadavere, Annamaria Corti di anni 35, fidanzata della vittima... bla bla bla, informato il pubblico ministero, ecc. ecc. ...i primi accertamenti... Merda, Erminia!

 

«Già fatto?»

 

«E che ci vuole? La macchinetta è qui vicino.»

 

«Bene, gustiamoci questo caffè, allora.»

 

«Con piacere. Notizie di Toccalossi?» Erminia aveva provato per Toccalossi, e provava ancora, un affetto sincero che non esitava a definire amore. Più volte aveva tentato di convincerlo a mettersi con lei ma senza alcun successo.

 

«È in perfetta forma. Sono stato da lui ieri sera.»

 

«Sera?»

 

«Praticamente sono venuto via stamattina. Ora un bel caffè, e poi via, al lavoro. Novità?»

 

«Un morto, ieri sera. Stavo registrando il fascicolo. Anzi, aspetta che finisco. Ecco: 13210. Perfetto.»

 

Centofanti se lo annotò a mente.

 

«E che dice il procuratore?» continuò Erminia.

 

«Che vuoi che dica? Sta là, lavora, viaggia come un pendolare. Dovrà trovarsi una sistemazione a Genova.»

 

«Poverino.»

 

«Be’, dirige un ufficio importante.»

 

«Manca a tutti.»

 

«Non potrebbe essere diversamente.»

 

«Sei stanco?»

 

«Un po’. Non ho quasi chiuso occhio. Va be’, io vado. Buon lavoro.»

 

«Grazie per il caffè.»

 

13210, scrisse sulla mano con una biro. Bene, ora si va in Comune. D’altronde, non era stato il dottor Falck a chiedergli di trovare ulteriori elementi?

 

Gli uffici dell’anagrafe erano aperti dalle sette e trenta del mattino. Centofanti passò dalla porta riservata al personale superando le postazioni per il pubblico.

 

«Buongiorno a tutti.»

 

Erano anni che passava di lì. Anni che sfogliava gli schedari. Non aveva bisogno di mostrare il tesserino, lo conoscevano tutti.

 

«Ciao, Carla.»

 

«Uhei, Cento. Qual buon vento?»

 

«Rogne. Mi guardo due o tre schede...»

 

«Fai pure.»

 

Dunque la B è là, a sinistra. Barri, Belli... Bensi, ecco, Luciano Bensi. Trovato! «Faccio una fotocopia.»

 

«Accomodati.»

 

Via, tutto a posto. «Arrivederci a tutti, buona giornata.»

 

«A te, Cento.»

 

Adesso aveva tutto ciò che gli occorreva: nome, cognome, data di nascita, foto e residenza. Doveva soltanto attendere che il magistrato di turno disponesse l’autopsia per leggerne i risultati. Se nel sangue e nei tessuti della vittima avessero rinvenuto tracce di una sostanza stupefacente non ancora nota e con un elevato principio attivo, allora avrebbe avuto anche la conferma alle sue ipotesi investigative.

 

Be’, in qualche modo, grazie ad Erminia, sarebbe riuscito a leggerla quella consulenza del tossicologo.

 

Rientrò nel suo ufficio e si sistemò di fronte al terminale. Inserì le password per accedere alla Banca Dati, quindi i nominativi, attese qualche secondo, poi la schermata: Luciano Bensi aveva dei precedenti per spaccio e uso di stupefacenti. Consultò altre schermate: la vittima era stata fermata per un controllo un anno prima dai Carabinieri di Albenga, in compagnia di una persona molto nota. Ne appuntò il nome su un foglietto riproponendosi di farne cenno a Toccalossi.

 

Capitolo 16

 

«Che porco che sei!» Barbara bloccò la furia dell’assessore Giannoni che si era scaraventato su di lei, spingendola sul letto e strappandole la camicetta.

 

«Aaah! Vieni qui...» disse lui senza fermarsi.

 

Al mattino Giannoni si sentiva sempre una furia. Era uscito di casa, a Celle Ligure, con il pensiero di Barbara in testa. Aveva salutato la moglie Ilaria e si era precipitato in auto, correndo come un pazzo per vederla. Una trentina di chilometri percorsi in un baleno, per sfogare le sue pulsioni prima di andare a Genova, in Regione.

 

Barbara doveva mostrarsi almeno un po’ coinvolta, visto l’assegno che le passava Giannoni. Guardò la testa pelata del suo amante, la faccia di lui immersa nei suoi seni, la nuca tonda e lucida come una palla da biliardo in evidenza. Come l’avrebbe fracassata volentieri!

 

Vecchio, sì, trent’anni più di lei. Ma ricco e potente. Un grandissimo figlio di puttana.

 

Giannoni era quasi in apnea dentro quei seni grossi. Adorava le sue tette, il suo corpo magro e giovane, la sua sensualità. E ora poteva vederla tutte le volte che voleva. Ora che l’aveva condotta nella sua villa di Noli.

 

«Non mi hai nemmeno detto se ti piace» le domandò, riferendosi alla villa nella cui stanza da letto i due ora stavano avvinghiati.

 

«È bellissima!»

 

Barbara Bellinceri e Duilio Giannoni: la loro relazione, se così si poteva chiamare il rapporto a pagamento tra una escort di alto bordo e un politico trafficone, durava da circa un anno. Poi la decisione dell’assessore corrotto di farne una cosa sua: una specie di esclusiva. E così quella villa concessale in affitto per un compenso irrisorio soltanto per poterla possedere ogni volta che la desiderava, il che avveniva almeno due volte a settimana.

 

Giannoni, infatti, l’aveva destinata a lei quella delizia urbanistica intestata a una società fittizia. Un’alcova da un paio di milioni di euro: quattordici stanze, quattro bagni, salone, parco e piscina, sulle alture dell’ex Repubblica marinara. Un gioiello della Riviera di Ponente con un centro storico stupendo che era riuscito a sopravvivere al tempo e agli immobiliaristi.

 

Giannoni si tirò giù i calzoni e le mutande. Lei simulò un po’ di finto pudore, neanche troppo, e frappose le sue gambe rannicchiate tra il suo corpo e quello di Giannoni. Lui le schiuse e la infilzò. Dopo un attimo cominciò a gemere di piacere. Lei pure, ma le donne sanno fingere benissimo. Mentre l’uomo ansimava come un bufalo impazzito, Barbara fissava il soffitto: gocce di luce, filtrando dalle veneziane mosse dal vento, si stampavano sulla volta della stanza, sembravano uno sciame di mosche spaventate.

 

Fabio Pozzo, Roberto Centazzo - Signor giudice basta un pareggio
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