È il pensiero dominante. Ambrosoli non ha la fortuna dell’onorevole Evangelisti, forse perché non gli viene in mente di comprare soldatini dal giocattolaio Schwarz. Sa che Sindona vive in un appartamento all’Hotel Pierre, all’angolo tra la Fifth Avenue e la 61st Street, ha già reso la sua deposizione ostile e potrebbero ucciderlo, nel frastuono e nel traffico, gli uomini della mafia di Long Island quando, per più di mezz’ora, cammina rasente il Central Park, lungo i tendoni bianchi degli alberghi vigilati dai portieri e dalle guardie armate.

Chissà che cosa avrebbe voluto dire, sapere, chiedere a quello che lui definisce «il genio del male» con cui ha convissuto ogni giorno e ogni notte da quattro anni. Delucidazioni tecnico-finanziarie, quesiti per colmare i buchi neri dell’inchiesta o anche qualcosa di impalpabile, un voler capire che uomo c’era veramente dietro quell’intrico di idee malefiche e qualche volta scintillanti, portatrici di ricchezza malata, di devastazione, di sangue?

 

Alla fine di dicembre cominciano le telefonate di morte. Otto telefonate minacciose, circostanziate, documentate. Sindona ha scelto ormai senza esitare la via della morte.

28 dicembre 1978: «Mi cerca quattro volte al telefono, in studio prima e in banca poi, tale “Cuccia”. Lamenta che in Usa non avrei detto la verità su Michele Sindona. Devi tornare là entro il 4 gennaio con i documenti veri, dice, perché se Michele Sindona viene estradato tu non campi. È la prima telefonata minatoria dopo quattro anni e può essere un pazzo. Però sapeva che ero stato in Usa - però non sapeva che in studio non ci sono mai e - per essere in pazzo - ha insistito tutto il giorno per riuscire a parlarmi».

Ambrosoli fa di tutto per sembrar normale, è convinto di essere nel giusto e non ha paura. È il suo ultimo San Silvestro. Passa il Capodanno a Bormio con Giorgio Balzaretti e altri amici, poi si ferma in montagna qualche giorno. Certo, quella voce - la voce del Picciotto, come scrive, con la maiuscola - rompe le pareti, mette a nudo tutte le fragilità.

5 gennaio 1979: «Ritelefona due volte il soggetto che si presenta a nome “Cuccia”: stavolta a nome “Sarcinelli”. Insiste perché vada in Usa e dice che il 15 gennaio può intervenire estradizione. Avverto Urbisci. Cena Rosica».

All’Epifania va di nuovo a Bormio. A Milano lo aspetta la voce minacciosa.

8 gennaio 1979: «Telefona il solito “Sarcinelli”. Faccio rapporto a Viola».

9 gennaio 1979: «Altre due telefonate del solito soggetto ma da Roma. Sa di Andreotti e Cuccia. Dice che mi dovrebbe aver telefonato Ciampi. Entra in funzione il controllo telefonico, ma se effettivamente il tipo è a Roma c’è poco da contarci. Il Picciotto dice che Andreotti trama contro di me: tutti dicono che se la cosa non si fa è colpa mia».

10 gennaio 1979: «Viene Guzzi e apre: “Le ha telefonato Ciampi?”. Allora mi secco e gli faccio sentire la telefonata del Picciotto. È a terra. Dice di aver detto a M.S. che Stammati gli aveva assicurato che Ciampi mi avrebbe chiamato per parlare con Sarcinelli e Guzzi: evidentemente - dice - M.S. l’ha detto al Picciotto. Iniziativa che deplora. Oggi telefonerà a M.S. Alle 12 chiama Picciotto. Sente che Guzzi - presente- non mi ha detto di andare in Usa e non mi ha dato memoriale. È offeso con gli avvocati e dice che telefonerà alle 3 a M.S.».

 

È un continuo gioco degli specchi. In che modo, l’avvocato Guzzi, ricorda ai giudici che lo interrogano quel 10 gennaio 1979? «Io incontro l’avvocato Ambrosoli alle ore 12 presso la Banca Privata. [...] L’avvocato Ambrosoli, nello scambiarci preventivamente alcune considerazioni di come avessimo trascorso le vacanze natalizie, mi dice che egli purtroppo è stato disturbato da telefonate minacciose. Mi dice anche che con tutta probabilità questo interlocutore anonimo che egli definisce “picciotto” avrebbe richiamato di lì a poco. Infatti, mentre stiamo conversando sulle questioni della Banca Privata Italiana e sui contatti avuti, il picciotto chiama e l’avvocato Ambrosoli, inserendo un amplificatore, mi fa assistere alla telefonata. Il tenore della telefonata, nel suo contenuto essenziale, è pressappoco questo: “Allora, avvocato, ha deciso di andare a New York per quei documenti?”. Ambrosoli risponde: “Ma io veramente non ho capito di quali documenti si tratta”. [...] Il picciotto insiste e dice: “Ma allora quando va a New York?” [...]. Non ricordo ma mi sembra di poter aggiungere che in quella telefonata il picciotto facesse riferimento anche al dottor Ciampi nel senso che Ciampi era disponibile e che Ambrosoli invece si rifiutava di collaborare.»7

Giorgio Ambrosoli, allarmato, parte per Roma, incontra Mario Sarcinelli, tenta di capire che cosa sta succedendo. Perché adesso? Che cosa significano quegli accenni a Carlo Azeglio Ciampi?

11 gennaio 1979: «Sarcinelli conferma chiamata a Palazzo Chigi. C’era Franco Evangelisti: assente G. Andreotti per viaggio in Libia. Mostrategli lettere Bin a me e quella di Michele Sindona a Bin, Sarcinelli replica: chi rende fondi 126 miliardi a Banca d’Italia? Discorso chiuso. Ora ripreso tramite Stammati su Ciampi ma questi contesta competenze Sarcinelli. Sarcinelli disposto dimissioni piuttosto che cedere».

Ambrosoli fa appena in tempo a ritornare a Milano. La voce lo aspetta. Il 12 gennaio, a mezzogiorno, come di solito. È l’ultima telefonata, la più sinistra. A Pino Gusmaroli, che è presente, sembra di esser dentro la scena di un film sulla mafia.

Sconosciuto: «Pronto avvocato!».

Ambrosoli: «Buongiorno».

Sconosciuto: «Buongiorno. L’altro giorno ha voluto fare il furbo? Ha fatto registrare tutta la telefonata».

Ambrosoli: «Chi glielo ha detto?».

Sconosciuto: «Eh, sono fatti miei chi me l’ha detto. Io la volevo salvare, ma da questo momento non la salvo più».

Ambrosoli: «Non mi salva più?».

Sconosciuto: «Non la salvo più perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e bastardo!».

12 gennaio 1979: [...] Polizia tributaria armata. Novembre e Carluccio sono veri amici. Aveva telefonato Guzzi: insisteva nel dirmi imminente la telefonata di Ciampi. Ora - dice - ritelefono a Stammati. Lo richiamo dopo la telefonata del Picciotto e lo informo. Appare in difficoltà e dice che è una gaffe in più del cliente».

Poi le telefonate cessano di colpo. Ambrosoli non va a New York a cambiare la sua deposizione davanti al grand jury, non si ammorbidisce, non fa nulla di quanto lo sconosciuto gli chiede.

Perché le telefonate cessano del tutto? Ambrosoli dà un’interpretazione riduttiva: «Hanno capito che non c’è niente da fare» dice a Silvio Novembre «e allora hanno smesso». O meglio: «Sindona ha avuto solide assicurazioni dai suoi referenti politici e ha accantonato l’idea di un’azione violenta».

Non lo sfiora il sospetto che, di fronte all’intransigenza, Michele Sindona ha già deciso di uccidere.

 

Ambrosoli non sa di Enrico Cuccia, non conosce il suo ruolo nell’affare Sindona. Il nome «Cuccia» salta fuori dalla telefonata minacciosa. Ambrosoli vorrebbe farlo sapere all’amministratore delegato di Mediobanca che non conosce. Ha una via riservata e sicura. Sinibaldo Tino, avvocato, nipote di Adolfo Tino, il vecchio presidente di Mediobanca, è uno dei consulenti di Ambrosoli, suo stretto collaboratore fin dal settembre 1974. Tino ha lo studio nel cortile di Mediobanca e dopo le telefonate va a parlare con Cuccia a nome dell’avvocato Ambrosoli. Gli racconta dell’anonimo che certe volte si qualifica per «Cuccia». Ha ricevuto anche lui delle telefonate di minaccia? Cuccia risponde di sì, ma dice che preferisce non parlarne. Non ha nessuna fiducia nei magistrati, non ha nessuna fiducia nello Stato.

 

Pochi giorni dopo, Giorgio Ambrosoli ha un altro colpo al cuore. Va a Lugano e passa la sera con Carlo De Mojana e con Pier Sandro Magnoni. Sono un gioco dell’assurdo quegli incontri svizzeri. I duellanti si studiano, pensano ognuno di ricavare più informazioni dell’altro. Sindona spera anche che possa essere quello il posto della lusinga o della corruzione. Ambrosoli non rifiuta mai una sfida, ma è cosciente del rischio, in allarme.

«Masochismo, il mio» scrive sull’agenda il 16 gennaio 1979. «Hanno la mia seconda relazione al giudice istruttore, ma ribattuta.»

È una gelida notte, quasi l’alba. Il maresciallo Novembre aspetta l’avvocato Ambrosoli alla frontiera di Chiasso. Ambrosoli è stravolto: «Silvio, hanno la relazione. E noi abbiamo il nemico in casa».

Le precauzioni usate, gli errori di battitura infilati tra le righe, diversi da copia a copia, non sono serviti a nulla. Sindona non ha fatto vanterie quando ha detto che lui è in grado di entrare in possesso anche del documento più riservato. Ora ha messo le mani, chissà come, su una copia della seconda relazione e l’ha fatta ricopiare dalla segretaria americana per impedire l’identificazione della talpa.8

Silvio Novembre prova una grande amarezza. Calvinista travestito da guardia, si sente con le mani nude davanti a quel segno di onnipotenza.

Mancano sei mesi alla morte di Ambrosoli. Da quella notte, Novembre è roso da un tarlo. Se avesse fatto sì il proprio dovere, ma se non avesse fatto di più del proprio dovere, incalzando, mordendo, non avrebbe aiutato Ambrosoli a vivere? Poi ricaccia quel pensiero molesto. Sa che al suo amico Giorgio non sarebbe piaciuto.

 

XIV

«A Natale il giudice Emilio Alessandrini è già un condannato a morte. I terroristi di Prima linea cominciano in quei giorni il lavoro di ricognizione»: nel loro linguaggio significa che la decisione di uccidere è già presa. Minuziosi nell’indagine, gli vanno sotto casa, in viale Montenero 8, tra Porta Vittoria e Porta Romana, lungo la cerchia delle mura spagnole, si impratichiscono della zona, studiano per intere giornate le sue abitudini. Il magistrato esce la mattina presto, ha una Renault 5 color arancione, accompagna quasi sempre il figlio Marco che ha nove anni alla scuola elementare Ottolini-Belgioioso in via Colletta, a pochi isolati di distanza, poi va al Palazzo di Giustizia, in macchina, in tram, a piedi.

«Il sostituto procuratore della Repubblica Emilio Alessandrini viene assassinato il 29 gennaio 1979 alle 8.30 della mattina all’incrocio tra viale Umbria e via Tertulliano. Sergio Segio spara per primo con una 38 Smith & Wesson, Marco Donat Cattin con una 357 Magnum Luger, Mazzola e Viscardi li coprono alle spalle, Russo Palombi li attende in auto. Il giudice ha solo il tempo di fare un gesto con la mano, quasi a dire: “Ma che cosa fate mai?”, muore subito, colpito da sette rivoltellate. Si piega sui sedile della macchina, col capo lievemente reclinato sulla destra e le mani in grembo. Gli occhiali non sono caduti, il loden è insanguinato, il rimbombo dei colpi è arrivato alla scuola di via Colletta.»1

Giorgio Ambrosoli accompagna tutte le mattine il figlio Betò che ha sette anni alla scuola elementare di via Ruffini. I saluti davanti alla porta e poi davanti all’aula sono interminabili, padre e figlio si staccano a fatica, dopo un via vai che dovrebbe essere ogni volta l’ultimo.

Betò è un bambino inquieto, intelligente e curioso, affascinato dalla figura del padre: sa che sta facendo un lavoro importante e un po’ misterioso, tiene gli orecchi dritti, vuoi sapere.

Una mattina la sua maestra di seconda elementare, la signora Pampaloni, manda a chiamare Annalori Ambrosoli. Da tre giorni il bambino, appena arriva a scuola, cade con la testa sul banco e s’addormenta: «Che cos’hai Umberto?».

E il bambino: «Ho delle gravi preoccupazioni».

«Sta succedendo qualcosa nella sua casa?» domanda la maestra.

«No, no» risponde Annalori sempre attenta in quegli anni a non far trasparire nulla di quel che prova. Al ritorno da Bormio, Giorgio le ha raccontato delle telefonate minatorie, ma l’ha anche pregata di non farne parola con nessuno.

A tavola, Annalori parla con tutti e tre i bambini, Francesca ha dieci anni, Filippo ne ha nove, Betò è il più piccolo: dice soltanto che non devono tener nulla dentro di sé - il dolore, la gioia -, ma dir tutto, sempre, alla mamma, al papà. Francesca e Filippo la guardano interrogativi, Betò è muto, la testa bassa. Poi arriva la nonna Linda. È lei a prender da parte Betò e Betò scoppia in un pianto dirotto e racconta di quella notte.

Dormiva, quando è tornato a casa il padre. O forse lo stava aspettando, in dormiveglia. Era quasi l’una. Si è alzato, ha camminato in punta di piedi per la casa, si è appiattito dietro la porta del guardaroba e ha sentito il padre e la madre che su un registratore ascoltavano la voce di un uomo che urlava: «Ti ammazzeremo come un cane, ti ammazzeremo come un bastardo».

La nonna non sa nulla di quelle telefonate, ne è atterrita, l’angoscia del bambino le stringe ancora di più il cuore. La sera il padre, affettuoso, suadente, mette a letto lui Betò: «Non devi aver paura. Quella voce è di un pazzo, ce ne sono tanti a Milano che fanno dei numeri di telefono a caso per spaventare le persone».

Ma Betò ha sentito anche una frase che poteva esser rivolta solo a suo padre avvocato: «Ma no» si ribella. «Quelle parole erano per te.»

Giorgio Ambrosoli gli parla allora come a un adulto, gli confida quella che è una sua convinzione profonda: «Proprio perché sappiamo chi sono, non lo faranno mai, non uccideranno. Sanno che noi pensiamo a loro, sarebbe un delitto firmato. Stai tranquillo, Betò, io morirò vecchiettino nel mio letto di Ronco».

 

Milano è una città desolata e avvilita. La sera, se si esclude il corso Vittorio Emanuele, la galleria, piccole Manhattan di un universo oscuro, è deserta. Sulle saracinesche di Motta e di Alemagna è affisso un metaforico cartello: «Questo negozio resterà provvisoriamente chiuso per operazioni inventariali».

La città è stretta tra le difficoltà economiche, la perdita di potere politico, il crollo delle certezze degli anni del boom. La grande industria è in crisi, le piccole e piccolissime aziende, invece, vanno a gonfie vele: il lavoro nero, gli arrangiamenti quotidiani, l’occupazione fuorilegge sprizzano salute. L’avanguardia ideologica degli anni ottanta. L’economia sommersa. La caduta delle regole dello stato sociale.

Sembrano sommerse anche le persone, calcificate, pietrificate, prigioniere di se stesse. I circoli della borghesia intellettuale, vitali negli anni del Centro-sinistra e poi negli anni delle bombe, sono sbarrati. La paura è dominante, i piccoli borghesi si iscrivono ai poligoni di tiro frequentati anche dai terroristi, gli industriali e i commercianti si muovono solo con la scorta armata. Il terrorismo è sempre più sanguinario e gratuito. I più colpiti, umanamente e politicamente, sono i comunisti. Chi identificava la propria vicenda individuale con il calendario del socialismo e chi amava semplicemente le avventure dei ribelli e chi manifestava solidarietà per i diseredati si sente espropriato, spogliato, incapace di esprimere le proprie idee e le proprie speranze perché sul mondo offeso pesa la cappa di quegli assassini che rivendicano la rappresentanza degli oppressi.

 

Il sostituto procuratore della Repubblica Guido Viola, il 23 gennaio 1979, ascolta come testimone Giorgio Ambrosoli. L’avvocato gli racconta delle telefonate ricevute dal Picciotto, come lo chiama, che si presenta col nome di Sarcinelli o di Cuccia. Con un linguaggio italo-siciliano-americano, zeppo di insulti e di minacce, gli ha dato strani ordini:

«Tu devi andare in America per fare il documento»; «Tu devi dire di sì, hai capito?»; «Sono tutti d’accordo, anche il grande capo è d’accordo». E ad Ambrosoli che gli ha chiesto: «Ma chi è il grande capo, Michele Sindona?», il Picciotto ha risposto: «No, no, il grande capo è Giulio Andreotti».

Sembra una storia grottesca, è invece tragica. Il conto della vita di Giorgio Ambrosoli si accorcia sempre di più.

Guido Viola lavora con il commissario liquidatore da più di quattro anni. Era stato pubblico ministero nel processo della Sfi e in quell’occasione, tra un parere e una richiesta di condanna, aveva avuto fugaci contatti con l’avvocato.

L’ha ritrovato nel settembre 1974, quando alla Procura della Repubblica arriva una nota della Banca d’Italia, sede di Milano. L’ispezione fatta alla Banca Privata Italiana ha rivelato gravi illeciti amministrativi. Potrebbero saltar fuori anche dei reati penali. Una cartellina smilza, rubricata nel registro C della Procura della Repubblica. Viola, giovane magistrato napoletano, si è occupato fino allora delle neonate Brigate rosse, del caso Feltrinelli, delle bande neofasciste. Non sa nulla o quasi di reati economico-finanziari, per questo chiede aiuto alla Guardia di finanza. Non può immaginare che quella cartellina con dentro pochi fogli si gonfierà a dismisura, che quel fatto provocherà un’indagine tra le più difficoltose della storia giudiziaria della Repubblica, creerà polemiche, conflitti, rivelerà crudamente le connessioni tra politica e criminalità.

Darà vita anche a nuovi rapporti con la giustizia americana. Viola legge sui giornali che Sindona ha gravi problemi negli Stati Uniti per la Franklin National Bank, per l’operazione Talcott, per una serie di transazioni. Dai funzionari della Securities and Exchange Commission arrivati a Milano per parlare con Ambrosoli, viene a sapere che alla Procura distrettuale di Manhattan è stata aperta un’inchiesta preliminare su Sindona.

Non esistono, allora, trattati di assistenza giudiziaria tra i due Paesi e i trattati di estradizione sono antiquati. Fuori da ogni regola, Viola scrive, in italiano, una lettera al procuratore distrettuale di New York: gli dice che sta indagando sulla vicenda della Banca Privata Italiana e che ritiene utile un incontro per esaminare la possibilità di collaborazione. Dopo un paio di mesi, il procuratore distrettuale risponde. Ai giudici americani interessa soprattutto sapere con quali fondi Sindona ha comprato la Franklin.

I giudici italiani cominciano così a collaborare con i giudici americani, anche se tutto è complicato dalle procedure, dalle mentalità diverse, dalle diffidenze. Poi i muri cadono e i rapporti tra la Procura distrettuale di Manhattan e la Procura della Repubblica di Milano diventano fruttuosi sia per il processo di bancarotta sia per la procedura di estradizione.

Al Palazzo di Giustizia di Milano è già stata formalizzata in passato un’inchiesta per falso in bilancio, vecchia questione nata da un’ispezione alla Banca Unione. L’inchiesta, condotta dal giudice Ovilio Urbisci, accelera i tempi: nasce così il tandem dei magistrati collegato con il commissario liquidatore e con la squadretta della Guardia di finanza.

Giorgio Ambrosoli, diffidente e irritato, all’inizio, per la presenza della Guardia di finanza, che poi troverà preziosa, ha fiducia in Viola e in Urbisci, anche se spesso li accusa di essere dei tiratardi, di allungare all’infinito atti che vorrebbe vedere esauriti in tempi più stretti.

 

Dopo Ambrosoli, Viola interroga l’avvocato Guzzi. Il sostituto procuratore scopre subito alcune stravaganze: l’avvocato sta girando per l’Italia con un progetto di sistemazione della Banca Privata Italiana. Il progetto ha autorevoli protettori politici. Persino l’amministratore delegato di Mediobanca Enrico Cuccia - sembra - è stato coinvolto per dare il suo assenso all’operazione. Secondo il piano, le banche rinunciano ai loro diritti. A pagar tutto dovrebbe restare, in nome della collettività nazionale, la Banca d’Italia. I problemi da superare sarebbero solo tecnici: lo stato di insolvenza, infatti, è già stato confermato anche dalla Corte di Cassazione e non può essere rimesso in discussione, come non può essere rimessa in discussione la liquidazione coatta amministrativa.

Viola ascolta anche Ciampi e Sarcinelli. Sarcinelli non ha subito minacce. Il sottosegretario Franco Evangelisti l’ha convocato a Palazzo Chigi e gli ha spiegato il progetto di salvataggio a nome del presidente Andreotti. Sarcinelli ha risposto che l’operazione è infattibile. Cuccia ha una gran paura e bisogna interrogarlo a lungo prima che dica qualcosa: sì, gli è stato presentato un progetto; sì, gli è stato chiesto un avallo anche se lui non c’entra nulla; sì, è stato minacciato.

Il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Guido Viola va a interrogare anche il presidente del Consiglio a Palazzo Chigi.

Ma che cosa può dirgli Giulio Andreotti? Che è il presidente e che quindi ha il dovere di interessarsi di tutto quanto riguarda l’interesse della nazione. L’avvocato Guzzi è un professionista stimato, gli ha presentato un progetto e lui ha detto semplicemente: «Fatelo vedere ai tecnici, se si può fare si faccia» e l’ha passato a Evangelisti che ne avrà parlato con Sarcinelli.

Il magistrato cerca di dire al presidente che la posizione di Sindona è indifendibile. E l’altro, imperturbabile, gli risponde che il governo si è impegnato e si sta impegnando al massimo per ottenere la sua estradizione.

 

Gli uomini di Sindona sono preoccupati. L’agenda dell’avvocato Guzzi sembra un concitato bollettino di guerra.

«30 gennaio: Tel. Cuccia.

1º febbraio: Riunione a Lugano con Pier Sandro Magnoni e Silvano Pontello.

3 febbraio: Chiamato Gelli.

8 febbraio: Telefona Michele Sindona - Della Gratton.

17-18 febbraio: New York - colloqui Della Gratton - Colazione occasionale al Pierre con Michele Sindona.

23 febbraio: Riunione con Giulio Andreotti.

27 febbraio: Telefono sig.ra Enea.

1º marzo: Tel. sig.ra Enea.

6 marzo: Riunione con Gelli.

9 marzo: Tre telefonate Michele Sindona.

13 marzo: Memo Giulio Andreotti (n. 7).

14 marzo: Memo Giulio Andreotti (n. 7).

17 marzo: Telefonata Michele Sindona lunedì indictment molto deluso e preoccupato.

19 marzo: Telefonata Michele Sindona - Indictment.

20 marzo: Memo Giulio Andreotti.

21 marzo: Tel. Calvi, Gelli, Urbisci.

22 marzo: Giulio Andreotti (Riunione).

23 marzo: Memo Giulio Andreotti (n. 7).»2

 

È in discussione l’estradizione, ma è in discussione anche l’incriminazione negli Stati Uniti per la questione della Franklin Bank. È un continuo intrigare, un gran patteggiare, tipici della politica mafiosa.

Guzzi ha sempre bisogno di parlare con Andreotti e sommerge di messaggi la signora Enea, segretaria del presidente. Michele Sindona ha messo in piedi una specie di gabinetto di crisi e si è installato nell’ufficio di Della Gratton. Si sprecano le telefonate, gli incontri, i dossier: sono otto i memorandum che solo nei primi quattro mesi del 1979 vengono destinati a Giulio Andreotti. Sindona spara le sue cartucce, avvertimenti e ricatti a scatola chiusa.

Racconta Guzzi: «Dall’America mi è giunta notizia che gli avvocati americani di Michele Sindona hanno chiesto al procuratore distrettuale un termine perché il loro cliente deve fare importanti rivelazioni che potrebbero compromettere la stabilità democratica dei due Paesi. La signorina Della Gratton che si interessa di questa questione appare molto preoccupata e mi dice di riferire con urgenza a Giulio Andreotti perché possa valutare questa situazione. Tutti i memo [...] riguardano questa questione del rischio di compromettere attraverso le dichiarazioni di Sindona la stabilità democratica dei due Paesi [...]. Io non conosco nulla di quello che Sindona intendesse dire all’A.G. americana né conosco fatti e/o persone alle quali Sindona intendesse riferirsi. Io ho trasmesso a Giulio Andreotti, per una valutazione della questione, tutto quello che mi veniva detto direttamente dalla signorina Della Gratton che fra l’altro era in contatto diretto con Giulio Andreotti perché il presidente del Consiglio che è il depositario dei segreti di Stato valutasse lui il da farsi».3

L’eccitazione e il nervosismo crescono. La situazione, nel clan sindoniano, è definita drammatica. A Guzzi viene chiesto di chiedere un intervento su Warren Christopher, sottosegretario agli Esteri americano.

Guzzi ad Andreotti: «Mi duole doverla disturbare... è una sollecitazione che mi viene chiesta dal cliente e dalla signorina Della Gratton».

Andreotti a Guzzi: «Le istruzioni sono state date da giorni, torno a sollecitare direttamente con la dovuta riservatezza».4

Andreotti nel suo diario, 19 marzo 1979: «Ho visto, inviato da Carter, il vicesegretario di Stato americano Warren Christopher. Riferisce gli sforzi personali del presidente per convincere Egitto e Israele all’accordo. Christopher ha visitato anche Amman e Ryad e ci comunica le reazioni. In relazione alla mia idea di un incontro Carter-Breznev, l’inviato di Carter mi dice che la conclusione del negoziato Salt 2 è ormai molto vicina; e in quell’occasione i due Capi parleranno di tutti i problemi più caldi».5

È possibile che Andreotti abbia parlato di Sindona sullo sfondo dei problemi mondiali, sapendo poi - lui così empirico - che Warren Christopher ha fama di politico legalitario?

Ancora Guzzi: «Con riferimento al precedente memorandum devo ritenere che l’on. Andreotti sia intervenuto presso il dipartimento di Stato».6

Non servono gli incontri, le riunioni, i piani, i programmi, i rinvii, le minacce, i ricatti, le raccomandazioni, le mediazioni: il 20 marzo, Michele Sindona viene incriminato dalla magistratura americana per la bancarotta della Franklin National Bank.7

Delle rivelazioni di Sindona «capaci di compromettere la stabilità democratica dei due Paesi» non si ha più notizia.

Il 22 marzo, Giulio Andreotti incontra l’avvocato Guzzi. Mostra meraviglia per l’incriminazione di Sindona, ma non sembra troppo preoccupato. La storia scivola, nulla è mai compromesso o perduto. Sorridente, plurivalente, mediatore nato tra gli uguali e gli opposti, tra l’Italia ufficiale e il Paese ai margini del legale, topo furbo, animale senza spine, senza ossa, senza muscoli, senza principi, usa l’intelligenza nell’appianare, nell’assorbire, nell’ammorbidire, nello smussare, nel cancellare, seguendo gli echi e le tentazioni della sua vecchia cultura di suddito delle Legazioni, di uomo che ha frequentato fin da bambino le stanze violacee del Vaticano.

«Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.»8

 

Il governo della solidarietà nazionale è in crisi. È finita una fase politica, ne comincia un’altra. Andreotti sta formando un ministero che preparerà le elezioni anticipate. Il terrorismo seguita a insanguinare il Paese. Il clima è torbido. Il 20 marzo viene assassinato a Roma Mino Pecorelli, direttore dell’Agenzia OP, specialista in scandali, depistaggi, ricatti, in combutta coi servizi segreti.

Il 24 marzo 1979, Andreotti nota sul suo diario: «Alle 9 notizia di un malessere grave di La Malfa, trasportato d’urgenza a Villa Margherita. Vi trovo già Pertini. È stato colpito da emorragia cerebrale diffusa e i medici dicono che è inoperabile e senza speranze.

«Ieri sera aveva lavorato fino a tardi e mi ha dato appunti per il discorso. In queste settimane si era impegnato a fondo e veramente muore sul campo.

«A turbare ancor più la giornata viene in clinica Baffi a dire che Sarcinelli è stato arrestato e lui stesso ha ricevuto un mandato di comparizione per la Vigilanza sui crediti alle grandi imprese.»9

Ugo La Malfa muore due giorni dopo. Si ha la sensazione di un crepuscolo doloroso di cui non si conoscono o si conoscono solo in parte i fatti e i retroscena. La morte di La Malfa, scomparso nel momento più alto della sua delusione, sembra quasi la metafora di una resa di conti che sfugge alla ragione. Insieme con quella morte arrivano pressanti le notizie di un’Italia all’avventura: l’assassinio di Mino Pecorelli e l’incriminazione e l’arresto dei massimi dirigenti della Banca d’Italia, un’isola rimasta pulita in una società devastata.

«Sono talmente indignato che ho perso qualsiasi interesse per l’economia italiana» commenta un illustre economista, Franco Modigliani.

E Giuseppe Fiori, nel suo editoriale domenicale al Tg2, dice che non «è questione tecnica, o soltanto tecnica. Quest’offensiva contro la Banca d’Italia (quale che sia il grado di coscienza dei singoli che vi partecipano) rischia di produrre insicurezza, fenditure profonde nel sistema economico del Paese più di quanto non vi siano riusciti le bombe, il terrorismo ad alta perfezione tecnico-militare, la violenza diffusa, minuta».10

Il Paese è in una palude di manovre, di vendette, di ricatti di cui sono protagonisti giudici, imprenditori corrotti, uomini dei servizi segreti e di altri apparati dello Stato che giocano senza scrupoli sulla pelle della Repubblica.

Scrive Giorgio Ambrosoli sulla sua agenda. 26 marzo 1979: «Muore La Malfa. Invio a governatore un telex per solidarietà con lui e Sarcinelli e mi dichiaro pronto a rassegnare il mandato».

28 marzo 1979: «Si parla di Milazzo e Stammati alla Banca d’Italia».

31 marzo 1979: «Sarcinelli sempre in carcere. Pare vogliano revocare Baffi da governatore».

6 aprile 1979: «Sarcinelli libero da ieri sera, ma sospeso. Barone dice che il rifiuto a Michele Sindona è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso».

15 aprile 1979: «Pezzo durissimo di Massimo Riva su Andreotti. Chiede convocazione straordinaria Camera per Baffi».

 

Proprio Massimo Riva, senatore della sinistra indipendente e giornalista, ha presentato e pubblicato nel febbraio 1990 il diario postumo di Paolo Baffi: quattro anni - dal 1978 al 1981 - della sua vita e del suo lavoro di governatore della Banca d’Italia.11

«Purtroppo» scrisse Baffi nella lettera a Riva che accompagna il testo «come la classe politica (e i potentati a essa legati nello scambio di favori) ha dovuto accorgersi di me, io ho dovuto accorgermi della potenza del complesso politico-affaristico-giudiziario che mi ha battuto».

Il racconto dell’ingiustizia subita e dei modi offensivi e volgari in cui sono stati condotti l’arresto e gli interrogatori, il ritorno continuo e ossessivo, con gli stessi ruoli e con le stesse certezze di impunità dei personaggi della politica e del mondo affaristico e finanziario che hanno inquinato gli anni settanta e anche il decennio successivo, rendono amaro il documento.

Nell’affare Baffi-Sarcinelli c’è una sostanziale ripetitività e specularità con l’affare Ambrosoli, più bruciante, più tragico. I giornali che attaccano il governatore e il suo modo indipendente di guidare la Banca d’Italia sono gli stessi che hanno avallato Michele Sindona nelle sue avventure, disavventure e nel tentativo di salvataggio: Il Fiorino, Il Borghese, Il Secolo d’Italia, l’Agenzia Alpe e l’Agenzia OP di Mino Pecorelli.

Anche il gioco delle parti è lo stesso, uguali o simili i personaggi, Andreotti, Evangelisti, Stammati, gli uomini del Banco di Roma, la Società Generale Immobiliare, i palazzinari romani, i giornalisti della P2, con in più i magistrati della Procura della Repubblica e dell’ufficio istruzione di Roma, Luciano Infelisi, Achille Gallucci, Antonio Alibrandi.

Baffi e Sarcinelli vengono accusati di interesse privato in atti d’ufficio e di favoreggiamento personale. Pretesto o trappola, per l’attacco al gruppo dirigente della Banca d’Italia, sono i finanziamenti ottenuti dalla Sir, il gruppo chimico di Nino Rovelli, tramite l’Imi e il Credito industriale sardo.

«Ci tengono molto» scrive nel diario il governatore «che vada in porto la sistemazione dei debiti dei fratelli Caltagirone», finanziatori della corrente di Giulio Andreotti. Ma non è certo indifferente agli umori dell’attacco la posizione ferma di Sarcinelli nei confronti della richiesta di salvataggio della Banca Privata Italiana fatta da Evangelisti a nome di Andreotti, oltre che da Stammati e da Guzzi, e una sorta di rivalsa, di vendetta, per l’ispezione ordinata al Banco Ambrosiano dalla Vigilanza della Banca d’Italia durata dal 17 aprile al 17 settembre 1978.

 

28 marzo 1979: «Primo interrogatorio a Palazzo di Giustizia da parte di Alibrandi e Infelisi; ero assistito da Vassalli. L’interrogatorio è stato violento, ostile; l’Alibrandi ha anche urlato, tanto che lo sentivano nel corridoio. Ho avuto repliche piuttosto energiche; ma all’uscita ero scosso come forse non può non essere l’imputato anche innocente. Quei fotografi all’ingresso; quelle forche caudine della porta con la grande scritta “Tribunale penale”; quella pretesa che uno debba tutto ordinatamente ricordare e riferire mentre viene sottoposto a un trattamento da shock. La notte non ho chiuso occhio anche per il senso dell’ingiustizia subita. Questa doveva essere la fine di quarantatré anni di lavoro prestati con piena dedizione e col sacrificio di ogni altro diletto, affetto, interesse? [...]».12

4 aprile 1979: «Su consiglio di Guarino e di Vassalli, ho firmato la sospensione obbligatoria per Sarcinelli in applicazione della delibera adottata dal Consiglio superiore il 29. Gli avvocati giudicano che mancando la sospensione non verrebbe concessa la libertà provvisoria. Io stesso verrei nuovamente incriminato per omissione di atti d’ufficio e sospeso dalla carica ex articolo 140 Codice penale.

«La firma della lettera di sospensione a Sarcinelli è l’atto più avvilente al quale sia stato chiamato nella mia vita. La mortificazione mi viene inflitta con l’incriminazione e con questo atto che impone l’abbandono della carica: non posso continuare a identificarmi col sistema delle istituzioni che mi colpisce, o consente che mi si colpisca in questo modo.

«Inoltre sono paralizzato nell’esercizio delle mie funzioni: come potrei discutere di industria chimica al Cicr [Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio] o inviare rapporti al giudice penale su ipotesi di reati simili a quelli di cui sono imputato?»

31 maggio 1979, stralcio della relazione del governatore della Banca d’Italia: «Ai detrattori della Banca, auguro che nel morso della coscienza trovino riscatto dal male che hanno compiuto alimentando una campagna di stampa intessuta di argomenti falsi o tendenziosi e mossa da qualche oscuro disegno [...].

«Queste parole piuttosto pacate» commenta Baffi «non danno certo la misura dell’amarezza e dello sdegno che io provavo in quei giorni: ma se vi avessi dato sfogo, forse mi sarei procurato nuove incriminazioni; né volevo consultarmi con avvocati perché la decisione doveva essere tutta mia e il segreto assoluto [...]».13

 

Il presidente del Consiglio vuole apparire neutro, quasi anglosassone. Il 2 aprile scrive sul suo diario: «Per reagire contro l’arresto di Sarcinelli e l’avviso a Baffi un gruppo di professori firma una dichiarazione-manifesto. Temo che non giovi a trovare una rapida via d’uscita».14

Hanno firmato la dichiarazione-manifesto uomini e donne, di ogni parte politica, della più autorevole cultura economica: Federico Caffè, Nino Andreatta, Luigi Spaventa, Claudio Napoleoni, Paolo Savona, Ada Becchi Collidà, Siro Lombardini, Mario Monti, Luciano Cafagna, Ezio Tarantelli, Franco Reviglio e altri.

Arturo Carlo Jemolo scrive un duro e appassionato articolo pubblicato sulla prima pagina della Stampa - «Eccessivo potere di un giudice»15 - e Baffi ne è profondamente commosso. Nel carteggio tra Jemolo e Baffi16 si ritrova la lancinante delusione del governatore cosciente di aver servito lo Stato con dedizione. Una lettera di Jemolo deve averlo allora ripagato, se le parole possono servire a lenire l’ingiustizia subita in quell’«oscuro disegno».

Mi commuove il Suo biglietto in data di oggi, così benevolo per me, fino a qualificarmi di alta autorità morale (e credo di essere tanto poco conosciuto), mentre sono ancora scosso dal leggere le dichiarazioni che hanno accompagnato la Sua relazione.

Comprendo benissimo che siamo già entrati in una situazione di sfacelo in cui non si dà più separazione di poteri e di competenze, e il governatore dell’Istituto di emissione è tra l’incudine e il martello, la prepotenza dei politici, e quella dei magistrati, che si considerano ormai organo sovrano con poteri illimitati.

Credo che conosca il mio pessimismo circa le sorti dell’Italia e le illusioni di chi crede in una solidarietà europea; tuttavia anche il rallentare la caduta, la discesa verso il baratro, è opera di amor patrio (per quanto poco, ormai, questa parola dice ancora qualcosa?), ed è uno di quei sacrifici tanto più grandi, in quanto non è la massa del popolo a comprenderli e rendersene conto. [...]

Il Suo allontanamento non può quindi essere che un pregiudizio non lieve per il Paese.

Le scrivo con un particolare acuirsi del peso che ho sul cuore nel vedere l’Italia d’oggi, io che ho visto e ancora servito, sia pure in posizioni modeste, quella dell’inizio del secolo; ma posso solo dirLe come italiano: si sacrifichi finché può; e so che è una esortazione-preghiera che non sono degno di fare perché ignoro la mia capacità di sacrificio, essendo state ben insignificante cosa le scelte e rinunce che in anni lontani ebbi a fare.

Creda nella mia sincera ammirazione e nella mia sconfinata stima e mi abbia

Suo dev. e se permette aff. Arturo Carlo Jemolo17

Lo stile e il linguaggio di Giulio Andreotti sono meno risorgimentali. Nell’elogio funebre scritto dopo la morte di Baffi e prima della pubblicazione del diario del governatore, l’uomo politico ricorda quei giorni difficili:

[...] Presiedendo il governo, dovetti intervenire per sottolineare che la Banca d’Italia ha un ruolo così superiore e atipico che dovrebbe conseguirne una salvaguardia particolare persino nelle procedure penali. E potei farlo con una certa efficacia proprio perché - pur prendendomi da alcuni male parole e incomprensioni - non mi misi a polemizzare in pubblico, come altri fecero, dando addosso al giudice. [...]

I legionari della zizzania non persero tuttavia - né perdono - l’occasione per insinuare chi sa quali retroscena politici per lo svolgersi di quella penosa congiuntura. Non era certo l’opinione di Paolo Baffi, con il quale ho avuto in seguito rapporti più amichevoli di prima. Tra l’altro dalla operosa quiete di Fregene scriveva lettere molto belle e articolate, con consigli preziosi e sensi di grande cordialità.

Ai suoi figli, ancora in giovane età e di cui parlava con tanto affetto, va la solidarietà più piena. Fieri, come devono essere, della stupenda figura del padre.18

Il governatore Baffi, dolente figura di uomo di Stato ancorato ai principi della corretta amministrazione, non rimarginò mai più quella sua ferita.19

 

XV

Il 10 e l’11 aprile 1979, l’amministratore delegato di Mediobanca, Enrico Cuccia, incontra Michele Sindona all’Hotel Regency di New York. In quell’occasione, Sindona dice a Cuccia che avrebbe fatto scomparire Ambrosoli. Che non ne sarebbe rimasta traccia. Cuccia sta zitto, non fa denunce, non dice nulla a nessuno, tace anche con il commissario liquidatore.

«Non ho voluto parlare perché ho sempre pensato che in questa materia il silenzio è ancora la difesa migliore; non mettere in movimento apparati che poi risultano tutt’altro che efficienti. Sono della convinzione che meno gente si occupa del problema e maggiori possibilità hai di cavartela. Per questo non ho parlato. Per quanto riguarda la minaccia al compianto Ambrosoli, devo dire che non l’ho fatto perché non avevo il modo, avrei avuto una denunzia per calunnia, e sarebbe stata la sola cosa che avrei potuto avere. Le minacce, Ambrosoli le riceveva direttamente dai picciotti che gli telefonavano.»1

È una sinistra avventura quella che lega Enrico Cuccia a Michele Sindona. In cui Cuccia assomiglia a un sequestrato che per salvare la vita si assoggetta a un’infinita catena di azioni, riunioni, viaggi, incontri. Gli viene chiesto di esercitare la sua influenza, riceve ordini mascherati con le blandizie dell’ossequio, subisce ricatti che dovrebbero servirgli da sprone. Gli bruciano due volte la porta di casa e per anni sono infinite le telefonate che devastano le sue notti.

La sua è una battaglia isolata, desolata, primitiva, in cui sa usare con pazienza l’arma bianca dell’intelligenza e dell’astuzia. Una partita a scacchi senza il senso dello Stato, lui banchiere sommo dello Stato. («Se facevo la denuncia che difesa maggiore ne avrei avuto?») Resiste, non sgarra. Studia, ristudia o finge di studiare i progetti di salvataggio della banca di Sindona che devono fargli orrore, dà consigli che consigli non sono, non coinvolge nessuno dei potenti che conosce, riesce a ingabbiare in una impossibile terra di nessuno avvocati e killer, consiglieri, mafiosi e faccendieri che si dividono le parti in nome del padre che sta all’Hotel Pierre. Sfugge come un’anguilla, «la sirena dei mari freddi», si salva poi semplicemente perché quando, nel 1980, è arrivata l’ora della sua morte, cambia casa.

È un don Abbondio: «Per amore del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!».

È un dissimulatore, un attore, un personaggio da romanzo. È un burattino coscienzioso, parte, viaggia, trotta, ubbidisce, va dove gli dicono di andare, parla con chi vogliono che parli, ma guadagna sempre tempo, non fa nulla di disdicevole. Con la macchia di quel terribile silenzio.

 

Enrico Cuccia conosce Michele Sindona alla fine degli anni cinquanta. Glielo fa conoscere Franco Marinotti, presidente della Snia Viscosa. Non è ancora l’uomo del grande prestigio, ma ha autorità, acutezza. Non sono passati molti anni da quel 23 gennaio 1946 quando il Consiglio d’amministrazione della Banca Commerciale presieduto dall’avvocato Camillo Giussani delibera, dopo aver sentito le comunicazioni dell’amministratore delegato Raffaele Mattioli, di partecipare alla «costituzione di una Società per azioni che avrà sede in Milano, capitale non inferiore a un miliardo di lire e per oggetto l’esercizio del credito finanziario a medio termine e si denominerà “Unione Bancaria per il credito finanziario”». La famosa Mediobanca, quella che diventerà la più importante investment bank italiana. Cuccia, direttore centrale della Banca Commerciale, viene nominato allora direttore generale.

Nato a Roma nel 1907, di famiglia siciliana, ha sposato Idea Nuova Beneduce, figlia di Alberto, il fondatore dell’Iri. Ha lavorato alla Banca d’Italia, all’Iri, agli Scambi e valute, prima di approdare alla Banca Commerciale. Ha compiuto delicate missioni all’estero, dall’Etiopia, ai tempi del maresciallo Graziani, a Lisbona, agli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Fin dalle origini è stato vicino al movimento di Giustizia e libertà che nel 1942 darà vita al Partito d’azione.2

Non è ancora l’eminenza grigia degli anni seguenti, ma ne ha già allora le stimmate, le capziosità intellettuali, il senso esasperato della riservatezza e del mistero che si consuma nelle ovattate stanze di via Filodrammatici, tra i tappeti rossi, i legni caldi, i tavoli sgombri delle decisioni raffinate.

È un modello, per Michele Sindona, quell’anomalo personaggio così diverso da quello che lui è e così lontano dalla sua estroversione dissennata. Fin da quando Sindona arriva a Milano e comincia a farsi conoscere, avvocato fiscalista con lo studio in via Turati 29, quel giovane «biondo carino e paffutello», secondo il ritrattino di Giovanni Malagodi, è forse l’uomo che vorrebbe segretamente essere. E ancora di più, vorrebbe essere, avanti negli anni, quel vecchio solitario, ombroso, tenebroso, dalla palandrana blu e dal cappelluccio con la tesa di sghimbescio sulla fronte.

«Mediobanca concluse con Sindona soltanto due operazioni di credito ipotecario che furono regolarmente rimborsate. Ebbi occasione di presentare Sindona al gruppo belga Sofina il quale acquistò da lui una società di ingegneria petrolifera, Ctip; nacque una contestazione fra venditore e compratore in quanto il bilancio della Ctip, firmato e garantito da Sindona, non risultò, a detta della Sofina, veritiero. A seguito di questo episodio interruppi i rapporti con Michele Sindona, circa alla metà degli anni sessanta.»3

Nel 1973 Sindona comincia a parlare di un complotto della finanza laica ai suoi danni. Accusa Cuccia: è convinto che sia stato lui a pesare sulla decisione del ministro del Tesoro Ugo La Malfa di negare l’aumento di capitale della Finambro al quale affida tutte le sue speranze di resurrezione.

Si accumula così in Sindona un doppio sentimento (o risentimento): ostilità e necessità, vendetta, riparazione, volontà di punire.

L’obiettivo di Sindona è privo di mascherature: Cuccia deve usare, questa volta a suo favore, tutta la sua influenza nei confronti di La Malfa, di cui è amico da sempre, ma anche nei confronti della Banca d’Italia, della Banca Commerciale, del Credito Italiano. Garante sindoniano in partibus infidelium.

Cuccia diventa così il capro espiatorio, il deus ex machina, l’uomo che tutto può muovere con il suo prestigio e con la sua autorevolezza. Per Sindona incarna l’idea di un potere assoluto.

«“Ma voi chiedete la luna, fare revocare il mandato di cattura, fare cessare lo stato di insolvenza.” Tutta roba che non stava né in cielo né in terra: “Ma voi mi chiedete la luna, non ha senso di chiedere queste cose”. Poi mi venne chiesto se potevo trovare un acquirente per la Finambro. Devo far presente che tutte le volte che mi sono stati fatti riferimenti a difficoltà finanziarie di Sindona o altre cose, quando mi fu detto di trovare un acquirente per la Finambro, dissi: “Devo trovare l’acquirente per una scatola vuota piena di debiti e di cause, non esiste al mondo una persona che se la compri, che discorsi sono?” e il discorso rimase lì, dopo di che con Magnoni non ci siamo più visti.»4

Dalla primavera del 1977, Enrico Cuccia diventa il bersaglio di una campagna intimidatoria. I telefonisti si annunciano a Cuccia col nome di Ambrosoli. L’avvocato Guzzi e Sindona parlano di lui al telefono con un nome in codice, Ermanno.

Ermanno subisce. Da un avvocato che fa da messaggero sa di un progetto per sequestrare uno dei suoi figli. Sua figlia viene pedinata. Il portone e la sua porta di casa vengono incendiati. Telefonate che arrivano come da un lontano sottosuolo rivendicano la paternità delle minacce al «signore di New York».

Cuccia, l’onnipotente eminenza grigia della finanza italiana, prigioniero dei voleri di Sindona. Il 7 luglio 1977 è costretto a partire per Londra dove incontra Pier Sandro Magnoni. Il 5 ottobre è costretto a partire per Zurigo dove incontra ancora Magnoni. Di nuovo, il 1º dicembre 1977 è costretto a partire per Zurigo. E ancora una volta è costretto a partire per Zurigo il 18 ottobre 1978. C’è anche Guzzi, con Magnoni, ed è quella la volta che deve ascoltare la lettura della sua condanna a morte.

Tutto è condito di assillanti telefonate, incontri, riunioni, patteggiamenti. Basta scorrere l’agenda dell’avvocato Guzzi, dal febbraio 1978 all’aprile 1980.

23 marzo 1978: «Riunione con Cuccia presso Mediobanca: approccio durissimo - si entra nel merito - si ribadisce: a) non mi espongo; b) collaboro se munito di documenti; c) grosse difficoltà - durata due ore; il ghiaccio è rotto - Federici deve correre con me».5

È un continuo rimbalzare del nome Cuccia: riunione con Cuccia, colloquio telefonico con Cuccia, riunione con Cuccia, riunione con Cuccia, riunione con Cuccia. Per anni, un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, riunioni, riunioni, riunioni. Che cosa riesce a dire Enrico Cuccia, che cosa riesce a promettere, a concedere, a fare, a non fare, di fronte all’azione sincronizzata legale e illegale dei suoi persecutori, che cosa borbotta davanti a quei pasticciati programmi di salvataggio privi della più elementare cultura economica, dove anche l’ammortamento delle perdite è considerato un profitto?

Cuccia tiene le posizioni, tiene i nervi fermi, ascolta, corregge, media, medita, attutisce, smussa, non rompe mai i fili: «Ritenevo che tenendo aperto un discorso con questa gente avrei potuto, non dico controllare, ma mantenere un contatto con le persone che svolgevano attività criminosa. In altri termini io ho sempre cercato di evitare che queste minacce potessero essere messe in opera senza preavviso nei confronti dei miei figli e proprio perché esistevano queste minacce e io volevo evitare danni ai miei figli ho mantenuto contatti con l’ambiente di Michele Sindona [...]. Ribadisco che esiste un rapporto eziologico di causa-effetto tra le minacce che io ho subito nel corso del tempo e le mie conversazioni con Sindona e i suoi amici, parenti e affini».6

Enrico Cuccia tiene anche dei verbalini dove fa il resoconto di quel che viene detto durante le riunioni più importanti con gli uomini del clan Sindona.

22 novembre 1978: «L’avv. Guzzi mi riassume i contatti telefonici che ha avuto con Sindona dopo il nostro precedente incontro. Sindona lo aveva sollecitato affinché Evangelisti prendesse contatti con me: l’avv. Guzzi, per calmare le irrequietezze del Sindona, gli aveva detto di un suo colloquio interlocutorio con me (che naturalmente non è mai avvenuto) e il giorno 15 gli aveva fatto sapere che si riservava di contattarmi il sabato 18.

«Durante questo periodo, il Sindona avrebbe avuto un contatto telefonico diretto con Andreotti ed è previsto un incontro tra l’avv. Guzzi e Andreotti per il giorno 4 dicembre. Dopo la mia comunicazione a Guzzi della nuova iniziativa minatoria da parte di Sindona, Guzzi ha parlato con Pier Sandro Magnoni e per due giorni si è rifiutato di parlare con Sindona, che l’ha raggiunto telefonicamente soltanto domenica mattina alle h. 5. La tesi di Sindona è che l’iniziativa minatoria non parte da lui, ma dall’ambiente italoamericano di New York.

«Dico all’avv. Guzzi che egli mi ha portato la prova che l’iniziativa viene da Sindona, in quanto, come è già accaduto la volta precedente, l’iniziativa minatoria del Sindona ha avuto luogo nella notte tra il giovedì e il venerdì, ossia il giorno dopo che Sindona aveva saputo (ciò che io non sapevo) del proposito dell’avv. Guzzi di prendere contatto con me il sabato mattina.

«L’avv. Guzzi mi dice che Sindona - il quale è in una situazione particolarmente tesa per l’andamento delle procedure giudiziarie in America, tutte a lui sfavorevoli - ha chiesto all’avv. Guzzi di organizzare un incontro con me a New York, presente naturalmente lo stesso avv. Guzzi.

«Dico all’avv. Guzzi che non riesco a capire che utilità può avere questo incontro. Il Sindona può desiderare di rileggermi questo cahier de doléances che l’avv. Guzzi e io avevamo letto a Zurigo e io non ho nessuna voglia di riascoltare questo cahier de doléances o di recitare il mio per tutte queste iniziative facinorose che il Sindona ha assunto contro di me.

«A un certo punto l’avv. Guzzi si lascia sfuggire che il Sindona voleva studiare con me il modo di contrastare eventuali iniziative criminali nei riguardi miei o di membri della mia famiglia. Dico all’avv. Guzzi che con questa nuova comunicazione egli si è reso tramite di una nuova minaccia del Sindona nei miei riguardi.

«Ciò costituisce una ragione di più per non andare a vederlo [...].»7

Il gioco del ricatto è diventato ormai scoperto.

Nel marzo 1979, l’amministratore delegato di Mediobanca riceve una telefonata di Pier Sandro Magnoni: gli comunica che ha un messaggio molto importante per lui. E Cuccia, il 22 marzo, parte ancora una volta per Zurigo, ascolta Magnoni, prende nota: «La situazione di Sindona è diventata particolarmente grave; nei giorni scorsi ha avuto una riunione con l’avvocato che tiene i rapporti con la mafia italoamericana il quale gli ha detto che Sindona è da considerare un uomo morto; e di conseguenza anche Cuccia e i suoi familiari dovranno essere uccisi.

«Dico a Magnoni la mia indignazione che egli abbia potuto rendersi messaggero di un tale avviso mafioso divenendone complice. Magnoni si giustifica dicendo che ha ritenuto suo dovere mettermi in guardia in quanto la cosa non riguardava solo me, ma anche i miei familiari. Gli dico che restavo della mia opinione, tanto più in quanto ci troviamo di fronte a un matto, con il quale non c’è nessuna possibilità di avere un colloquio [...]. A proposito dei rapporti di Sindona con gli ambienti mafiosi, il Magnoni aggiunge che in pochi giorni la mafia americana ha raccolto 500000 dollari, che ha messo a disposizione di Sindona per fornire la cauzione.

«Alla fine della conversazione, Magnoni riprende l’argomento del mio incontro con Sindona. Rispondo che il signor Sindona può togliersi dalla mente che io vada a vederlo sotto la spinta di messaggi mafiosi».8

Cuccia va a vederlo. Organizza l’incontro come un vertice presidenziale, chiede garanzie, chiede che sia Sindona a telefonargli l’invito, pone condizioni, ribadisce i punti che gli premono.

Parte per New York, ascolta quelle minacce per sé e per la vita di Giorgio Ambrosoli, torna, sta zitto, non fa saper nulla ad Ambrosoli neppure attraverso il nipote del suo vecchio amico Adolfo Tino, che ha lo studio d’avvocato nel cortile di Mediobanca. Rifiuta, cancella, rigetta l’esistenza dello Stato, delle istituzioni, della legge scritta, dei giudici, dei carabinieri, rifiuta anche la legge naturale, la coscienza civile, la solidarietà umana.

«La morte non ti riguardava», l’atroce morte degli altri? Anche quando si tratta dell’uomo che ancora per poco lavora nello stesso quartiere, nello stesso isolato, quasi nella porta accanto?

Non aveva il modo, non aveva il modo...9

 

XVI

In maggio Giorgio Ambrosoli smette di scrivere il suo diario-agenda. L’ultima nota è del giorno 12: «Malpensa - parte Pier Luigi per Usa». Non si sa e non si capisce perché da allora le pagine restano bianche. Per stanchezza, per noia, perché la speranza è caduta? Perché il lavoro si sta esaurendo, perché le giornate sono dedicate soprattutto a preparare la rogatoria dei giudici americani che arriveranno a Milano nella prima estate? Oppure il rifiuto, l’assenza sono un segno della sconfitta e il silenzio un inconscio preannuncio che l’avventura è finita?

A Milano, d’improvviso, la gente ha ricominciato a uscire di casa. Basta la notizia di una qualsiasi manifestazione, di un convegno, di un corso di lezioni, basta una riunione o una festa perché tutti accorrano e sono sempre gli stessi degli anni del boom, degli anni della contestazione, degli anni delle bombe, passati attraverso tanti travestimenti fisici e ideologici. Sessantamila giovani affollano l’Arena per il concerto pop, rock, jazz in onore del musicista Demetrio Stratos morto di leucemia. A un concerto diretto da Claudio Abbado al Palazzo dello sport sono presenti trentacinquemila persone.

La situazione economica appare più serena, c’è un’espansione del credito e degli investimenti, la disoccupazione sta calando, arrivano ogni giorno algerini, eritrei, somali per fare i lavori umili e pesanti rifiutati dai giovani nostrani. La nuova parola d’ordine di chi ha responsabilità politiche ed economiche è, come negli anni cinquanta, positività. Qualcuno già scrive che è arrivata l’ora del sentimento.

Non è finito il terrorismo, non è finita la crisi. Il caso 7 aprile, aperto a Padova dal giudice Pietro Calogero, ha creato lacerazioni e conflitti. L’inverno sarà di nuovo plumbeo di violenza, l’arresto di Patrizio Peci, di Rocco Micaletto, di Roberto Sandalo sveleranno squarci di verità sull’universo terrorista, sulla sua specularità col sistema politico, sull’uso che il sistema politico ne fa e ne farà. Il 1980 sarà un anno di morte e a Milano saranno uccisi studenti, uomini della polizia, il direttore della Magneti Marelli, carabinieri, terroristi delle Brigate rosse e di Prima linea, il direttore tecnico della Falck, il giudice istruttore Guido Galli, il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Ma quella primavera milanese del 1979 sembra un piccolo orto di minute consolazioni ritagliate in un incomprensibile Paese in fiamme.

 

Ambrosoli studia con cura la rogatoria internazionale dei giudici americani. Sindona, il 20 marzo, è stato incriminato per la bancarotta della Franklin National Bank e ora la Corte federale di New York, distretto Sud, in vista del processo in aula, fa una richiesta di assistenza giudiziaria. Il giudice Thomas Griesa ha necessità di acquisire una documentazione sulla banca americana di Sindona. Vuol ricostruire l’autenticità, i contenuti, la sostanza, la forza di prova di numerosi atti del commissario liquidatore della Banca Privata Italiana.

L’avvocato Ambrosoli e il maresciallo Novembre lavorano insieme a tirar fuori i documenti contabili e amministrativi, e anche a far controlli, verifiche, confronti, collazioni, comparazioni. Sono attenti che non manchi nulla, preparano sintesi, note esplicative, scrivono riassunti, disegnano minuscoli grafici.

Giorgio Ambrosoli è preoccupato della procedura rigorosa della giustizia americana. Sa che il testimone deve esser capace di spiegare ogni documento, di illustrarlo e possibilmente di produrlo. E lo deve saper fare con semplicità e con chiarezza, oltre che con autorevolezza.

La rogatoria dei giudici americani è una prova acquisita, ufficiale. Gli avvocati di Sindona martelleranno Ambrosoli di domande, faranno di tutto per metterlo in difficoltà e per togliergli credibilità.

Bisogna riuscire a essere convincenti, senza sbavature di incertezza e di dubbio.

Quel che ha fatto il commissario liquidatore sarà scrutato come una tela di ragno: Ambrosoli è il principale teste d’accusa, ha scoperto le magagne e le truffe di Sindona e le ha documentate nelle sue relazioni. Ha scoperto anche che Sindona ha comprato la Franklin con soldi non suoi e ha quindi mentito all’autorità americana.

Sindona è invelenito, accusa Ambrosoli - pubblico ufficiale che ha il dovere della correttezza - di aver nascosto documenti che avrebbero potuto scolparlo, lo accusa di aver dichiarato il falso, di avere precedentemente prodotto una documentazione incompleta e parziale per farlo risultare colpevole.

Ambrosoli ha la coscienza netta, è convinto che le carte raccolte in tanti anni di lavoro rivelino la verità in modo solare. È accanito, come sempre, nella ricerca. Approfondisce i problemi, inquadra ogni documento nella sua piccola o grande storia.

 

Il 3 giugno 1979 si sono tenute le elezioni politiche anticipate, il Pci ha perso un milione e mezzo di voti, il prezzo della «non sfiducia» e della fiducia al governo Andreotti e poi delle larghe intese, del consociativismo, dell’ambiguità nata dalla politica del compromesso storico. La Dc è lievemente arretrata, i socialisti del nuovo corso, che stanno eliminando il loro vecchio simbolo, la falce, il martello e il libro e hanno inventato il garofano, sempre più aspri coi comunisti, pieni di livori, e accattivanti con democristiani come Fanfani, Bisaglia e Donat Cattin, non hanno ampliato di molto i loro consensi.

Giorgio Ambrosoli sembra tranquillo, le minacce di dicembre e gennaio sembrano svanite senza lasciare traccia. La Banca d’Italia ha resistito, almeno in parte, all’offensiva giudiziario-politico-affaristica. Sarcinelli è stato infatti escluso dalla Vigilanza sugli istituti di credito. Ma non pare che la Banca centrale abbia perso autorità e indipendenza nei confronti del potere politico. A Paolo Baffi, in settembre, succederà Carlo Azeglio Ciampi, la successione avverrà dunque secondo le regole consolidate della tradizione e non secondo i principi della subalternità governativa e della lottizzazione partitica.

Di progetti di salvataggio non si sente parlare. Ambrosoli non sa che l’avvocato Guzzi continua imperterrito nelle sue tessiture, non sa che Cuccia a New York ha incontrato Sindona, non sa che il 22 marzo Pier Sandro Magnoni ha incontrato Cuccia e gli ha accennato a «un’ipotesi di sostituzione di Ambrosoli come liquidatore della Banca Privata per affidarla a persona più aperta alle suggestioni di Sindona».1

Ambrosoli non sa neppure che Guzzi seguita a consigliarsi con Licio Gelli e che, impavido, non si stanca di distribuire nuovi memoriali. Come il Vallasciani, romanzesco personaggio di Paolo Volponi.

L’ultimo l’ha consegnato il 26 giugno a Giulio Andreotti ancora a Palazzo Chigi. Si intitola Sindona e le sue banche, l’ha preparato Sindona, l’ha rivisto, con Guzzi, il professore Gambino, l’ha letto o corretto, chissà, Cuccia e forse qualcun altro.

Il clima generale è disteso, una diffusa bonaccia. O almeno così sembra.

Il 13 giugno, sant’Antonio da Padova, è un mercoledì. Quel giorno un commesso della Banca Privata Italiana scende in cantina dov’è conservata una parte dell’archivio e sul coperchio di un bidone della spazzatura trova i pezzi di una pistola, una 7,65. La canna, l’otturatore, il carrello, il cane sono accuratamente segati.

Grande allarme, grande trambusto. È una provocazione, una sfida. Ambrosoli cerca di razionalizzare i fatti. Novembre ricorda che in una cassaforte della banca erano custodite una volta numerose pistole che appartenevano agli scortavalori. Poi Ambrosoli ne ha vendute una buona parte. Ne sono rimaste altre?

La pistola segata - risulta dal numero di matricola - è una di quelle pistole. Ma la chiave della cassaforte conservata da un impiegato è scomparsa. Ambrosoli possiede un’altra chiave. In una cassaforte della banca, al secondo piano, dovrebbero esserci ancora quindici pistole. Ce ne sono invece soltanto dieci.

Ambrosoli va subito in Questura, denuncia il furto al commissario Pagnozzi e il commissario minaccia quasi di arrestarlo. Deve intervenire il giudice Viola, con energia.

Le pistole sono state denunciate. Il commissario liquidatore aveva via via denunciato alla polizia anche le vendite fatte. Ma nel 1978, un decreto antiterrorismo ha disciplinato in modo diverso la vendita e il possesso delle armi. Il commissario, secondo la legge, avrebbe dovuto denunciarle di nuovo ed essere autorizzato a conservarle come collezionista.

Ambrosoli è preoccupato, pensa alla forza criminale di Sindona, alla sua potenza mafiosa, alla sua capacità di spadroneggiare e di intimidire. È riuscito a rubare quel documento così riservato, ha fatto quelle minacce di morte, manda i suoi uomini ad aprire la cassaforte di una banca, lancia avvertimenti che gelano il sangue. Ma Ambrosoli pensa soprattutto, o almeno cerca di farlo credere, che lo si voglia mettere in difficoltà mentre stanno per arrivare a Milano i giudici americani. Sarebbe meno credibile, soggetto a critiche e attacchi, con un procedimento penale sul gobbo al momento della rogatoria.

Nell’ultima settimana di giugno, Pino Gusmaroli accompagna Ambrosoli a casa ogni sera. L’avvocato gli dice a mezza bocca che dovrà andare di nuovo a testimoniare negli Stati Uniti: «Vado e non torno più» gli confida. «Mi fanno fuori.»

Glielo ripete più di una volta. Ancora oggi, Pino Gusmaroli seguita a chiedersi: «Perché, perché? Aveva ricevuto nuove telefonate, nuove minacce di morte?».

O ha semplicemente in testa il messaggio mafioso di quella pistola segata?

Ti faremo a pezzi, ti faremo a pezzi nel bidone della spazzatura.

 

XVII

I giudici americani della rogatoria e l’assassino di Giorgio Ambrosoli arrivano a Milano la mattina dell’8 luglio 1979. Hanno viaggiato sullo stesso aereo?

Ambrosoli, adesso che non tiene più il suo diario, nota i suoi appuntamenti su un’agendina tascabile coi bordi smussati e dorati. Galati, Galati, Galati, scrive per tre volte il 9, il 10 e l’11 luglio. Giovanni Galati è il giudice istruttore al quale la Corte d’Appello di Milano ha affidato l’incarico di condurre la rogatoria.

Nel suo studio al secondo piano del Palazzo di Giustizia si incontrano i magistrati italiani e americani, gli avvocati di Sindona, gli interpreti: con Galati e i suoi segretari, Domenico Izzo e il maresciallo Gotelli della Guardia di finanza, il pubblico ministero Guido Viola e il testimone Giorgio Ambrosoli, ci sono William E. Jackson, Special Master del Distretto Sud di New York, l’Assistant Special Master Samuel H. Gillespie; l’Assistant Attorney Walter S. Mack. E poi gli avvocati, John G. Kirby e Steven J. Stein. E gli interpreti, Daniele Adelma, Gabriella Mauriello e Paolo Invancich. Tredici persone.

È una rogatoria durissima. Ambrosoli viene inquisito, tartassato, braccato, ma si difende sempre con molta calma, con il suo stile pacato. Conosce profondamente la materia, ci è annegato dentro per quasi cinque anni, si è minuziosamente preparato e non è mai in difficoltà, anche quando 1o scontro tra le parti diventa acceso.

Il giudice Galati vuole sapere dove sono gli archivi, come sono custoditi e dove sono conservati i documenti della Banca Privata Italiana. Ambrosoli lo spiega, illustra i documenti che ha prodotto, estratti conto, vendite di azioni, operazioni di cambio, cosiddette di «lavaggio», operazioni tra la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria e la Franklin National Bank.

Il clima è teso, la mattina del 10 luglio, quando comincia la seconda udienza. Ai tredici si è aggiunto un quattordicesimo, l’interprete del procuratore distrettuale Mack, Susan Croft. Ambrosoli spiega problemi tecnici, la produzione di conti di società mai possedute da Sindona, entra nei misteri della Fasco A.G., parla della Pacchetti, della Alifin, della Steelinvest, della Albalux, della Kilda, della Kaitas, tira fuori numeri, operazioni, conteggi e ognuno è una stilettata al cuore di Sindona.

Continua implacabile a enumerare le vendite di titoli di società sindoniane, una ragnatela che è riuscito a rendere leggibile. Poi parla del bilancio della Fasco A.G., documenta i profitti per la vendita della Pacchetti S.p.a., 40 milioni di azioni a 809 lire, 32 miliardi e 360 milioni: «Questo bilancio [...] dovrebbe essere agli atti del processo del dott. Urbisci. L’originale, firmato da Pier Sandro Magnoni, mi risulta essere stato inviato in America a un certo Daniel Porco nel maggio 1973 e poiché Sindona conosce Dan Porco non dovrebbe essere difficile averlo».

Ogni volta che Ambrosoli risponde a una domanda è come se facesse una requisitoria: «Non uno dei dollari ricavati dalla vendita della Zitropo al gruppo Ambrosiano è stato utilizzato per acquistare la Franklin così come per aumentare il capitale dell’Amincor».

Spiega le operazioni fiduciarie della Fasco, 10 milioni di dollari pagati a titolo di mediazione a un vescovo americano e a un banchiere milanese: monsignor Marcinkus e Roberto Calvi.

Ambrosoli sembra liberato da un lungo incubo, fa considerazioni, commenti, suscita spesso l’ira degli avvocati di Sindona. È ironico, sardonico: «Le operazioni tra le banche italiane e la Franklin sono documentate da una massa di materiale di circa otto chili che produco in copia».

Svela gli altarini: «Si tratta per la maggior parte di operazioni cambi tra la Banca Unione e la Franklin Bank ideate allo scopo di migliorare il bilancio della Franklin e che Banca Unione ha considerato operazioni non vere, nel senso che alla scadenza non avrebbero avuto alcun scambio di monete. La banca italiana non le ha mai considerate nella propria contabilità».

Il commissario liquidatore illustra i tracciati dei depositi fiduciari e il suo asettico racconto ha suggestioni romanzesche.

Gli avvocati di Sindona lamentano una carenza di documenti che sarebbero stati negati dall’autorità italiana. Il giudice Viola si arrabbia: «I documenti posti a base del procedimento penale italiano sono tutti a disposizione dei difensori italiani del Sindona e del perito Marcello Guido. Sebbene io ritenga che tutti questi documenti non siano affatto utili al procedimento esistente negli Usa, li mettiamo a disposizione degli avvocati americani. È chiaro che l’intenzione degli avvocati americani è quella di far apparire a verbale per il giudice Griesa che non possono difendere il loro assistito perché il governo italiano non mette a disposizione documenti ritenuti importanti. E questo è falso».

La terza udienza comincia alle 10.20 di mercoledì 11 luglio. Di nuovo i medesimi temi, l’archivio della banca, l’Amincor, la Talcott, i telex di Sindona.

La rogatoria sembra ormai una lunga litania: «Quale documentazione ha prodotto o esibito in relazione al punto 18?».

«Quale documentazione ha prodotto o esibito in relazione al punto 19?»

«Quale documentazione ha prodotto o esibito in relazione al punto 20?»

Le ultime parole di Giorgio Ambrosoli, prima che, alle 12.30 dell’11 luglio 1979, il giudice istruttore Giovanni Galati chiuda l’udienza, sono grigie, fredde, da manuale di ragioneria: «I conti indicati appaiono solo in detti documenti».

Giorgio Ambrosoli ha poco più di dodici ore di vita.

 

XVIII

Io non so perché Giorgio Ambrosoli viene ucciso proprio allora. Non so perché questo delitto politico tra i più gravi della storia della Repubblica avviene la notte dell’11 luglio 1979.

L’avvocato di Milano ha conservato intatta la sua credibilità di testimone. I difensori di Sindona speravano probabilmente di coglierlo in fallo e di togliere peso alla forza dirompente delle sue accuse. La rogatoria è terminata, non ha importanza se manca ancora la firma, nessuna Corte di giustizia metterebbe in dubbio la parola di un uomo di legge assassinato. Il processo della Franklin National Bank è avviato e non è la morte di Giorgio Ambrosoli a poterne deviare il corso. E anche la procedura d’estradizione, nonostante gli infiniti ostacoli, è ormai incardinata.

Gli avvocati di Sindona hanno telefonato negli Stati Uniti rivelando al loro cliente l’esito poco felice della rogatoria? E Michele Sindona, paranoico com’è, dominato dalla follia criminale, ha ordinato di uccidere? Ma l’assassino è a Milano da tre giorni e già il 2 luglio sapeva di dover partire. Avrebbe dovuto solo ferire, incendiare, spaventare?

 

Il capo di imputazione di Michele Sindona nei confronti dell’avvocato Giorgio Ambrosoli è lungo, composito, senza attenuanti.

Ambrosoli ha gravi responsabilità per l’incriminazione di Sindona avvenuta negli Stati Uniti per la bancarotta fraudolenta della Franklin National Bank.

Ambrosoli ha gravi responsabilità per l’aiuto dato alla giustizia americana e all’Fbi.

Ambrosoli ha gravi responsabilità per aver scoperto il marchingegno della Fasco A.G.

Ambrosoli ha gravi responsabilità per aver documentato e per aver contribuito ad affrettare la procedura di estradizione.

Ambrosoli ha gravi responsabilità per aver fatto di tutto al fine di impedire il salvataggio della Banca Privata Italiana.1

Giorgio Ambrosoli viene probabilmente ucciso per tutte queste ragioni.

E per un’altra, forse preminente. Il commissario liquidatore è in assoluto l’inciampo. Quanti dei protettori politici, dei garanti, degli interlocutori italiani di Sindona hanno attribuito ad Ambrosoli la responsabilità del loro fallimento, del loro non riuscire a condurre in porto il salvataggio della banca? Se non ci fosse Giorgio Ambrosoli...

La persecuzione nei suoi confronti è antica, crescente, le minacce via via sempre più corpose. Una scala di violenza.

Ambrosoli, solo, si è trovato di fronte un nemico incommensurabilmente potente, legato a uomini politici di governo, legato alla finanza internazionale, dalla City di Londra a Wall Street alle banche svizzere, legato al Vaticano, ai servizi segreti italiani e americani, legato alla P2 e alla massoneria, legato alla mafia e ai poteri criminali.

Sindona ha a sua disposizione gli uomini che possono operare alla luce del sole, nello Stato, nel governo, nel Parlamento; ha con sé anche gli uomini delle zone grigie, gli uomini della nebbia, gli uomini delle tenebre; e poi ha con sé gli uomini delle basse operazioni a livello alto e gli uomini delle basse operazioni a livello infimo. Agisce contemporaneamente su tutti i possibili gangli della politica, della criminalità, degli affari, contigui, complici, che proprio in quegli anni in Italia si stanno compenetrando tra loro con effetti devastanti.

Come ha scritto Marco Vitale, subito dopo il delitto, «L’assassinio di Ambrosoli è il culmine di un certo modo di fare finanza, di un certo modo di fare politica, di un certo modo di fare economia. I magistrati inseguano gli esecutori e i mandanti. Ma dietro a questi vi sono i responsabili, i responsabili politici. E questi sono tutti coloro che hanno permesso che la malavita crescesse e occupasse spazi sempre più larghi nella nostra vita economica e finanziaria; questi sono gli uomini politici che definirono Sindona salvatore della lira e si comportarono di conseguenza; sono i governatori della Banca d’Italia che permisero che i Sindona penetrassero tanto profondamente nel tessuto bancario italiano, pur avendo il potere e il dovere di fermarli per tempo; sono i partiti che presero tangenti formate da denari rubati ai depositanti sapendo esattamente che di questo si trattava; sono quelli il cui nome è scritto nella lista dei “cinquecento”; sono tutti quelli che, da vent’anni al vertice della politica e dell’economia, hanno perso persino il senso di cosa sia la professionalità, cioè il subordinare la propria fetta di potere, piccola o grande che sia, agli scopi dell’ordinamento, delle istituzioni, della propria arte o professione, all’interesse del pubblico».2

Sindona è un capo di Stato maggior generale che usa tutti gli uomini e i mezzi di cui dispone senza far mistero dell’uno con l’altro. Secondo il giudizio politico, secondo la valutazione dei fatti, anche secondo l’umore o il capriccio.

«Fra il settembre e l’ottobre del 1978, Michele Sindona, evidentemente non soddisfatto di come si stanno muovendo i suoi uomini in Italia (i vari Guzzi, Magnoni, Navarra, Cavallo ecc.), preoccupato per il fatto di non essere riuscito, neppure attraverso le pressioni su Gelli, Andreotti, Stammati ed Evangelisti, a far decollare i suoi progetti di sistemazione, sempre più allarmato per l’atteggiamento rigoroso di Ambrosoli, sempre più esasperato per la scarsa collaborazione di Enrico Cuccia, decide di chiedere soccorso agli ambienti del crimine organizzato italoamericano.»3

La mafia, con la quale Sindona ha sempre avuto commercio fin dagli anni della giovinezza, subito dopo lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia. Le connessioni di Sindona con la mafia verranno confermate in modo manifesto nell’estate 1979, neppure un mese dopo l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, quando Sindona organizza il suo falso rapimento in Sicilia, gestito dalla mafia e da suoi uomini rappresentativi come Rosario e Vincenzo Spatola, Francesco Fazzino, Antonio Caruso, Giacomo Vitale, Joseph Macaluso e, soprattutto, da John Gambino, il nipote del capo di una delle più importanti famiglie di Cosa Nostra, Charles Gambino.4

Il rancore e il desiderio di vendetta hanno avuto sempre un ruolo nell’animo di Sindona. Ma non sono essenziali per far capire. Il finanziere è un combattente, mai domo, mai pago, teso solo al futuro, alla ricerca nevrotica di nuove trame che lo ripaghino della sfortuna del passato e dei torti subiti, alla ricerca di soluzioni impossibili che nella sua immaginazione considera assolutamente ragionevoli.

Sindona è un giocatore perenne che affida tutto se stesso alla prossima mano di carte. Non si sente mai uno sconfitto.

Giorgio Ambrosoli viene ucciso, dunque, per un coacervo di ragioni, per tutto quanto è riuscito a fare o si è rifiutato di fare, ma soprattutto per lasciare sgombro il campo e per aprire nuove strade di trattativa, di composizione, di ricominciamento.

 

William J. Arico arriva all’aeroporto della Malpensa la mattina dell’8 luglio 1979, una domenica. Ha già incassato 25000 dollari di anticipo della somma pattuita per uccidere Giorgio Ambrosoli.

Noleggia una macchina, una Opel Ascona, all’agenzia dell’Avis e va al suo solito albergo milanese, l’Hotel Splendido, dove si fa registrare col nome del suo passaporto falso, Robert McGovern.

Arico ha conosciuto Sindona nell’autunno 1978. È stato assoldato allora per togliere la tranquillità e, se necessario, la vita a Giorgio Ambrosoli e a Enrico Cuccia.

A far da tramite con Sindona è stato Robert Venetucci, un trafficante di eroina. Arico l’ha incontrato nel carcere di Lewisburg dove stava scontando la pena per una rapina a mano armata. Il tramite fra Venetucci e Sindona è stato un mafioso italoamericano, Luigi Cantafio, assassinato a Brooklyn il 20 dicembre 1978, in affari con il finanziere. Venetucci e Arico lavorano in una società di Cantafio che fa da schermo ai loro traffici criminali, la Mini Film Mart, di cui Sindona è consulente finanziario.

Il vecchio salvatore della lira, che ha smesso di frequentare le stanze delle banche centrali, le sale degli esclusivi banchieri di Londra, i sotterranei del Vaticano, gli studi privati dei ministri, ora si fa vedere spesso al Motel Conca d’Oro, a Long Island. Ha una consulenza finanziaria con una società dei Gambino, la Genovese Concrete Contracting.

È la decima volta, dal settembre 1978, che Arico arriva a Milano. I suoi viaggi corrispondono spesso ad azioni intimidatorie, a minacce, a violenze. Per esempio l’incendio appiccato al portone della casa di Enrico Cuccia, in via Maggiolini.

L’ultima volta che è venuto a Milano è il 13 giugno, il giorno in cui alla Banca Privata Italiana è stata scoperta la pistola segata lasciata bene in vista sul bidone della spazzatura.

Arico - con lui c’è la moglie Joan - si è fermato in città fino al 27 giugno. Probabilmente allora Arico ha sezionato i quartieri, ha studiato le strade e le piazze, ha pedinato l’avvocato tra la banca, lo studio privato e la casa, ne ha imparato le abitudini, ha pensato ai luoghi più adatti per il delitto.

Il suo quartier generale è sempre l’Hotel Splendido, quasi all’angolo con la piazza della Stazione Centrale, tra i caffè, le bancarelle, il disordine dei posteggi abusivi, il night club Gatto verde, un porto di mare, un andare e venire di giapponesi, egiziani, spagnoli, tedeschi sui pullman del turismo di massa. L’albergo, di prima categoria, sembra un palazzotto blindato, ornato di ottoni, di metalli lustri, di vetri doppi, con un bar frequentato da clienti immobili, il viso coperto da occhiali neri. Il Robert’s bar. In ricordo di quell’affezionato cliente che si faceva chiamare Robert McGovern morto il 19 febbraio 1984 nello sfortunato tentativo di evadere dal carcere di New York?5

La mattina dell’11 luglio, il giorno del delitto, William Arico restituisce l’Opel Ascona noleggiata alla Malpensa. L’Avis è quasi davanti all’albergo, sull’angolo della galleria delle carrozze della stazione. L’auto ha percorso 247 chilometri.

Un po’ più in là, sotto la stessa galleria delle carrozze, c’è l’autonoleggio Maggiore dove Arico sceglie pochi minuti dopo una Fiat 127 targata Roma T42711.

È la 127 rossa che il portinaio di via Morozzo della Rocca 6 vede sfrecciare dalla parte di corso Magenta, quasi in coda ai tre colpi di pistola rimbombati in quella notte d’estate.

William Arico la riconsegna all’agenzia Maggiore la mattina del 12 luglio 1979: ha fatto solo 70 chilometri. L’assassino paga con una carta di credito intestata al suo vero nome. Riparte per New York col volo di mezzogiorno della Twa.

(Sul passo carraio dove è caduto l’avvocato non è rimasto alcun segno. Povero Ambrosoli, morto forse per nulla in nome dei principi di onestà. Da ragazzo aveva sognato di morire in battaglia per la patria su un cavallo imbizzarrito. Come Petya Rostov. È morto assassinato su un marciapiede di città, per una patria smarrita.)

 

«L’anno 1979, oggi 12 luglio 1979, alle ore 12.30, nell’ufficio del giudice istruttore dott. Giovanni Galati, sono presenti tutte le parti di cui al precedente verbale, tranne lo Special Master Jackson.

«Non è presente l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Il giudice istruttore precisa che, come risulta a foglio 50, tutte le parti erano d’accordo che in data odierna si desse lettura dell’intero verbale di deposizione testimoniale reso dall’avv. Giorgio Ambrosoli e in particolare che lo Special Master Jackson, rappresentante del giudice Griesa, autorizzava tale lettura e delegava per l’assistenza e la firma, anche in sua sostituzione, il sig. Gillespie.

«Il giudice istruttore fa presente che l’avv. Giorgio Ambrosoli è stato assassinato in data 11 luglio 1979, alle ore 24 circa.»6

 

Corrado Stajano - Un Eroe Borghese
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