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Quello che feci
immediatamente fu precipitarmi in centro città, ero già stato un
paio di volte a Bologna e avevo già percepito l'atmosfera di
movimento nei lunghi portici che dalla stazione ti conducono fino
al pavè di via Rizzoli; quelle larghe vetrine che riflettono il
passaggio di mille studenti mille signore mille vagabondi mille
stranieri, gente di tutte le città, di tutte le anime e di tutti i
ruoli; gente in cerca di qualcosa, come me, o gente ricercata come
alcuni professori dell'Ateneo; gente che corre o gente che
passeggia, gente che vive, che compra, che guarda, che lavora, che
chiacchiera. Ah, Dio, avevo finalmente trovato il mio regno!
Sentivo di trovarmi in mezzo a coloro che sanno cos'è il tempo,
quelli che hanno la nozione del tempo, quelli che non sprecano la
loro esistenza ma anzi si buttano in scivolata su un marciapiede
piastrellato pur di raccogliere una goccia di vita, pur di sentire
sulla pelle anche solo per un istante quel gran vento freddo che è
la vita. Diavolo! Questi sì, che sanno come si fa! Ridevo mentre
attraversavo la folla con le mie borse alla mano, nemmeno mi
pesavano più, quasi correvo mentre arrivavo da mo cugino, in Strada
Maggiore.
Il mio caro cugino
Ramon, più vecchio di me, era anche lui nato a Brescia ma si era
trasferito molti anni prima lì, deciso, senza dubbi nè
ripensamenti, e ora stava ancora lì. Era entusiasta della sua nuova
vita e mi scriveva lunghe lettere piene di novità e di magia, e per
anni avevo covato nel cuore il desiderio di imitarlo, di partire e
raggiungerlo e a mia volta entrare in quella fantastica vita - il
mio adorato cugino è uno scrittore e proprio un mese prima che io
partissi aveva pubblicato il suo primo libro; il mondo si stava
aprendo a lui. Ora si sarebbe aperto anche a me.
Era a casa
ovviamente quando lo incontrai; aveva lasciato il suo lavoro quando
il primo libro era stato venduto, per dedicarsi completamente al
mestiere di scrittore - mio cugino Ramon è nato con le parole
giuste già sulle labbra, è un vero artista dell'inchiostro. Suonai
e lo raggiunsi di sopra e lui mi accolse con un gran sorriso e il
suo solito sguardo semi-assorto, la sua tradizionale aria allegra e
gioviale ma distaccata, come se nulla potesse realmente toccarlo.
Ora io ero il suo parente prediletto per quella vena
pseudo-artistica che scorreva dentro di me, per il mio carattere
instabile che mi aveva permesso di accettare e di ammirare le sue
scelte che a me erano apparse coraggiose e agli altri parenti
stupide. Ma la vita gli stava dando ragione, aveva trovato la sua
verità nell'arte letteraria, e questo era un evento
straordinariamente incoraggiante ed entusiasmante, la vittoria
dell'individuo sui fatalisti, dell'artista sui filistei borghesi.
Era il mio eroe, Ramon.
- Ivan! Ti sei
deciso, finalmente! Vieni, entra!
Mi condusse nella
sua grande dimora, un appartamento spazioso in un vecchio palazzo
del centro, fatto di stanze larghe, e un incredibile adorabile
disordine in onore alla legge dell'Entropia, quella strana e -
chissà perchè - poco conosciuta legge che regola i legami tra
Ordine e Kaos, ossia il contrasto più interessante e vitale
dell'universo intero. Libri erano sparsi un po' ovunque su ogni
mensola libera, tavolo, sedia, tappeto, e talvolta anche sul
pavimento. I tavoli erano pieni pure di fogliame vario o nel
migliore dei casi di quaderni e agende. Scarpe e vestiti giacevano
abbandonati stanchi come ragazzi dopo una festa, in particolare
sugli schienali dei divani e delle poltrone. La cucina era un
incomprensibile guazzabuglio di piatti e pentole tutti
rigorosamente usati.
- Sai - mi disse -
mi capita raramente di essere in casa a mangiare, e allora mi
dimentico anche di pulire - e chiuse la porta della cucina per
nascondermi quella imbarazzante manifestazione di incapacità
domestica. Ma non poteva fregarmene di meno, ero venuto a trovare
un artista e non una massaia.
- Cosa stavi
facendo? . gli chiesi, e lui mi condusse a una grossa vecchia
scrivania in legno scuro piena di fogli e di un paio di biro, una
rossa e una nera, quest'ultima senza cappuccio. Un poster di "Taxi
Driver" sovrastava la scrivania. Sullo schienale della sedia era
appeso un golf grigio scuro, Ramon indossava solo una maglietta
nera con le maniche lunghe, e un paio di pantaloni di tela
verdastri.
- Sto tentando di
scrivere qualcos'altro - mi disse. Interrompendolo lo ringraziai
subito per la copia del suo libro che mi aveva spedito, una
maestosa storia d'orrore metropolitano piena di sentimento, o
almeno così diceva la copertina. In realtà era una entusiasmante
esplosione verbale di quel pazzo giocoliere di parole che anni
prima, quando era ancora a casa, mi faceva ridere con i suoi
interminabili discorsi e i suoi doppi sensi; era una storia scritta
e da leggere tutta d'un fiato, senza quasi la possibilità di
prendere il respiro, m'aveva avvinto in una notte tempestosa pochi
giorni prima di partire. Avevo la copia con me, ovviamente. Era
un'opera d'arte, gli dissi.
Beati coloro che
sanno giocare con le parole e volteggiare tra esse come candidi
surfisti californiani, coloro che abbattono il muro tra prosa e
poesia, tra filosofia e narrativa, tra sentimenti e
avventure.
- Ma ora devo andare
a conquistare la città - conclusi, e gli proposi di accompagnarmi a
scoprire tutto quello che c'era da scoprire. Acconsentì con gioia -
non è uno di quegli artisti difficili che hanno paura di
interrompersi per poi non saper riprendere, quelli per cui la
creazione è un raro e delicato equilibrio tra tanti fattori, per
lui era naturale scrivere come guardare un film, e avrebbe potuto
stare fuori ore con me ed ubriacarsi e poi tornare tardi e
riprendere da dove si era interrotto e in un attimo essere lì a
scrivere come un razzo, come se non avesse mai smesso.
- Bisogna mantenere
la meraviglia di fronte a tutto. Bisogna essere come i bambini, che
piangono per cose che a noi nemmeno colpiscono più, non ce ne
accorgiamo, come stare a guardare il passaggio di un treno. -
Questa era una cosa che mi aveva detto una delle ultime volte che
ci eravamo visti, e mi aveva colpito dritto; non me l'ero più
dimenticata.
Frenetico indomabile
artista che mi propone di fare viaggi in bicicletta su per via
Codivilla a vedere la scritta dedicata ad Aidi - quella di Enrico;
e intanto si parla di fumare e di scrivere, e dei libri di Jack e
quelli di William Blake, di come essere uno scrittore voglia dire
essere capace di esprimere con parole le proprie sensazioni e
questo non è davvero facile, gente, oh no per nulla. Ma lui lo era,
mio cugino, e non solo perchè avesse pubblicato il suo libro perchè
quando sei uno scrittore DENTRO lo sei e basta, capisci che quello
è ciò che la vita vuole da te, anche se poi buttassi via le pagine
che hai scritto - perchè l'atto dello scrivere è importante nel
momento in cui viene compiuto, prima che l'inchiostro si trasformi
in qualcosa di statico da leggere. Questo è quello di cui si
parlava mentre lenti e confusi in mezzo agli studenti ci avviavamo
verso le torri, per poi prendere a scorrazzare per le vie del
centro.
Era fantastico;
sentivo scorrere sotto la pelle una nuova energìa in quelle vie, in
quel viavai di gente di ogni età e razza e provenienza e colore di
capelli. Mi guardavo intorno fissando ogni persona che vedevo come
se volessi imprimerle tutte in mente con una sola occhiata; ogni
passante mi sembrava bello e amabile; sorridevo in maniera
esagerata - forse sembravo pazzo - ma qualcuno rispose al mio
sorriso contagioso, il sorriso di un piccolo spirito inquieto
improvvisamente ritrovatosi in un terreno kaotico a lui decisamente
congeniale, fertile per evoluzioni e voli liberi di
pensiero.
Avevo trovato il mio
Eden. Lo sentivo.