Appena fuori dal Cavallino, anziché attraversare piazza Boldoni, si infilò in via Gavazzi. Poi su per la Pradegiana, nel budello delle contrade del vecchio nucleo e, da lì, a prendere la strada per Bonzeno.
Cimitero sulla destra, buio assoluto, non c'erano lampioni.
Bene così.
Ponte sull'Orrido.
Sbucò in una località detta Castègna.
C'era una mulattiera. La prese. Scese, silenzioso.
Passò sotto una galleria che chiamavano, chissà perché, la Tomba. Rabbrividì comunque.
Infine sbucò nel piazzale della stazione.
Gettò un'occhiata per controllare la strada.
Nessuno.
Oplà!, quindi.
E fu ai binari.
Il biglietto?
L'avrebbe fatto sul treno.
La multa?
Dieci ne avrebbe pagate.
Venti, trenta.
Un infinito numero di multe.
Pur di allontanarsi da quel paese.
99
«Eccolo qua, il nostro pilota.»
La voce lo colpì alle spalle.
Il muso dell'accelerato delle venti e quindici, con dieci minuti di ritardo, era appena sbucato dalla galleria di Dervio.
Tranne lui non c'era nessun altro viaggiatore in attesa. Un lusso.
Nell'attesa si era nascosto. Non tra le piante del giardinetto dove c'era anche la vasca coi pesci rossi, nossignore.
Aveva previsto ogni cosa. Anche la presenza del capostazione che, per dare il segnale di partenza, si sarebbe rivolto alla testa del treno e così avrebbe potuto vederlo.
Dall'altra parte invece, all'estremità opposta. Nel buio. Tra due asfittici oleandri, immobile come loro, per beccare la coda del treno.
In coda.
Dove c'era il vagone postale.
Verso il quale, lentamente, quando l'accelerato cominciò a frenare, s'incamminò il capostazione reggendo un pacco.
Il Mencioni non se n'era accorto.
La voce del ferroviere lo colpì alle spalle come una sassata.
Sorrideva, quello.
«Come mai da queste parti?» chiese, senza fermarsi.
Raggiunse il vagone postale, consegnò il pacco al collega e poi ritornò verso il pilota.
«Anche a me sarebbe piaciuto volare» disse.
Il Mencioni era imbambolato.
«E be'...» mormorò.
Il capostazione si infilò in bocca il fischietto, diede il segnale di partenza.
«Decollo!» disse scherzando.
Il rumore di ferraglia del treno che si rimetteva in movimento invase l'aria.
100
Sabato mattina era tutto come Dio comandava.
Non un alito di vento. Lago piatto.
Cielo azzurro, visibilità perfetta.
Nessuna imbarcazione - battello, barca a vela o barca a remi - nel raggio di un chilometro.
Non c'erano nemmeno gabbiani sulla murata del molo, scacciati dall'insolita folla che vi si era pigiata.
Che aspettava.
Dalla massa dei curiosi saliva un brusio appena percettibile. Tutti avevano le orecchie tese a cogliere un rumore, quello.
Che, infine, cominciò a percorrere l'aria appena terminato lo scampanio di mezzogiorno.
Quando le campane si zittirono, la folla era già muta.
Il ronzio era nell'aria, un rumore di vespa, di calabrone.
Decine di occhi si levarono a scrutare il cielo in direzione della Puncia del Cane: da lì, infatti, sarebbe comparso.
Per intanto si sentiva solo il rumore. Un cadenzato canto metallico. Sembrava una mitragliatrice.
Tac-tac, tac-tac...
«Sta scaldando i motori» disse uno.
In parecchi si girarono a guardarlo.
Muti.
Ma avevano la domanda nello sguardo.
«Ci vorrà almeno mezz'ora» diagnosticò quello, con fare da esperto.
La folla reagì con un baritonale mugugno.
Poi, subito, tornò il silenzio.
Nessuno si mosse.
Aspettavano da una settimana.
Niente li avrebbe privati dello spettacolo.
101
Gerolamo Vitali l'aveva previsto il bel tempo.
«In ogni caso», aveva detto il podestà la sera prima, «domani, con qualunque tempo, voi salite su quell'aereo e volate.»
Il Mencioni se l'era trovato nella sala da pranzo del Cavallino, seduto al tavolo che solitamente occupava per la cena.
Era tornato dalla stazione smadonnando, ma senza convinzione.
Ormai non percepiva neanche più rabbia.
Piuttosto, si sentiva come se gli avessero messo un sacchetto in testa che pian piano gli toglieva l'aria.
Cos'altro poteva fare? Dire la verità?
Sì, a patto di volerne subire le conseguenze. E passi farsi un po' di galera.
Ma quel podestà gli sembrava temibile nella sua vanità. Non gliel'avrebbe perdonata. Chissà a chi si sarebbe raccomandato per fargliela pagare salata. Sarebbe bastato dirlo alla folla che da una settimana stazionava intorno all'idro: l'avrebbero linciato.
«E poi preparatevi», aveva aggiunto il podestà, «poiché, per domenica, ho in serbo per voi un incarico di altissimo onore.»
Ofelio Mencioni aveva fatto sì con la testa: cos'altro poteva fare?
102
I
Non c'era niente da fare.
«Niente» ribadì, con voce aspra, il dottor Frassoni dell'ospedale civile di Velletri.
Le fratture costali si sarebbero saldate in quaranta giorni. Quella del setto nasale avrebbe richiesto un paio di mesi. I peli, tutti, dalle ascelle al buco del culo, sarebbero ricresciuti anche loro.
«Ma per quello che avete sul cranio non c'è niente da fare.»
«Non è possibile» sussurrò Claudio Mazzagrossa, quasi piangendo.
Era ricoverato ormai da una settimana: esattamente dalla sera del lunedì che avrebbe dovuto inaugurare una settimana di follie erotiche con la mogliettina del professore.
Invece, anziché l'avvenente signora, appena entrato in casa s'era trovato faccia a faccia con quattro figuri che non gli avevano nemmeno dato il tempo per dire be'.
«Ci manda il professore» aveva detto uno.
Gli altri tre, intanto, l'avevano immobilizzato, legato per benino e, giusto per fargli intendere che era meglio se avesse collaborato, gli avevano mollato un paio di colpi al costato e uno sul naso che l'avevano spedito nel mondo di là per un quarto d'ora.
Al risveglio s'era ritrovato completamente nudo, depilato in ogni parte del corpo e ormai anche quasi completamente pelato. Aveva tentato un minimo di reazione, ma un nuovo colpo alla schiena l'aveva ridotto all'immobilità.
«Fermo», gli aveva detto uno, accento meridionale, «che sennò il lavoro viene male.»
C'era voluta un'ora buona nel corso della quale il Mazzagrossa aveva sofferto le pene dell'inferno. Trascorso quel tempo l'avevano rimesso in piedi e, nudo com'era, l'avevano accompagnato alla porta di casa, congedandolo con un calcio nel sedere.
Era notte. Acciaccato, dolorante e con la testa in fiamme, il Mazzagrossa aveva camminato come un sonnambulo in direzione di Velletri sino a quando era stato notato da una guardia notturna che aveva immediatamente avvisato i carabinieri. Costoro, dopo averlo individuato, l'avevano circondato, fermato e coperto, dopodiché, pensando di aver a che fare con un alienato, l'avevano portato immediatamente all'ospedale. Per quella notte il Mazzagrossa non era stato in grado di spiccicar parola. Solo la mattina seguente era riuscito a declinare le proprie generalità a un carabiniere che era rimasto a piantonarlo. I militari avevano immediatamente effettuato il riscontro dell'informazione, con esito stupefacente.
Claudio Mazzagrossa trovavasi a Bellano, un paesino sul lago di Como, aveva dichiarato la signora Mazzagrossa interpellata in vece del marito lontano da Roma per ragioni di affari.
Claudio Mazzagrossa sono io, aveva ribadito il giovanotto.
Ah sì? aveva ironizzato un brigadiere dell'Arma. E questo qui fuori è il lago di Como!, aveva detto indicando il panorama collinare che si vedeva dalla stanza del ricoverato.
Per un istante il Mazzagrossa aveva pensato al suo amico Ofelio che stava facendo le sue veci sul lago di Como.
Chissà!
Ma di ben altro doveva preoccuparsi adesso.
Aveva chiesto che accompagnassero sua madre in ospedale, affinché lo riconoscesse...
Quando lo vide la madre!
II
Ofelio rivolse un pensiero alla sua, di madre, chiedendole di pregare per lui. Poi spinse la leva dell'acceleratore.
La carlinga iniziò a vibrare, la prua dell'idro piegò a sinistra.
Diede un colpo alla pedaliera di destra.
Troppo forte, il muso virò a destra.
«Calma» mormorò.
Mollò il piede, l'idro si rimise in asse.
L'indicatore di velocità all'aria segnava trenta chilometri orari.
Era ora di spingere in avanti il volantino affinché il velivolo cominciasse a planare sull'acqua.
Mise la mano sullo strumento. Poi diede un rapido sguardo al perfetto panorama che aveva all'intorno: un acquerello.
Quindi pigiò sul volantino.
Ai cinquanta chilometri orari l'idro prese a planare.
Sessanta.
Settanta.
Ottanta chilometri orari.
Il momento cruciale era giunto.
«Rilasciare la pressione sul volantino e poi iniziare a tirarlo» ripeté il Mencioni.
Fece così.
La velocità raggiunse i novanta chilometri orari.
L'ora era giunta.
L'idro cominciò a staccarsi dall'acqua, poi spiattellò una, due, tre volte.
Normale. Adesso, però, si doveva staccare. Lo fece.
Nel corso dell'ultimo minuto Ofelio s'era dimenticato di respirare.
Inalò un quintale di aria.
L'idro ripiombò sull'acqua.
Cazzo!
S'era dimenticato di restituire un po' di volantino in avanti. Il velivolo aveva assunto un assetto troppo cabrato, era ricaduto.
La velocità era attorno agli ottanta chilometri orari.
Spiattellò ancora un paio di volte poi riprese a staccarsi.
Saliva.
Stava salendo.
«Dai bello, dai bello» gridò come un forsennato il Mencioni.
III
C'era voluto del bello e del buono per convincere la signora Mazzagrossa a seguire i carabinieri.
Era riuscito nell'intento un educatissimo capitano che peraltro s'era dovuto sorbire per tutta la durata del tragitto da Roma a Velletri le lamentele della donna.
«Quando lo saprà mio marito» aveva esclamato entrando in ospedale.
Ma poi.
Quando era entrata nella camera di suo figlio e l'aveva riconosciuto, la signora Mazzagrossa non aveva avuto bisogno di fingere uno svenimento: si era afflosciata ritornando in sé dopo un paio di minuti.
IV
In un paio di minuti il Mencioni raggiunse la quota di duecento metri.
Controllò la velocità, cento chilometri orari.
Ridusse i giri del motore.
Stabilizzò l'idro nella velocità di salita.
Buttò un occhio al lago sotto di lui.
Sorrise.
La fase di decollo era finita, tutto procedeva nel migliore dei modi.
V
Dal modo in cui il dottore le aveva chiesto di poterle parlare in privato, la signora Mazzagrossa aveva capito che c'era qualcosa di misterioso nella situazione del figlio.
«Cosa ha fatto?», aveva chiesto.
Il dottore le aveva risposto di non saperlo: i carabinieri, forse, le avrebbero potuto spiegare l'accaduto.
A lui competeva aggiornarla sulla situazione clinica che avrebbe richiesto qualche giorno di degenza in ospedale.
Per le fratture ci voleva tempo e qualche giorno di osservazione. Per evitare complicazioni, aveva detto.
Mentre..., il dottore aveva esitato.
Mentre per quello che aveva sul cranio...
«Sul cranio?», aveva sospirato la signora Mazzagrossa.
Era tutto bendato, non si vedeva niente.
«Altre ferite?»
Il dottore aveva esitato ancora. Era stato lì per parlare ma alla fine non se l'era sentita.
«Sì», aveva bofonchiato, «diciamo così: piccole ferite.»
«E si vedranno molto?» aveva chiesto la donna.
VI
Appena appena.
Un puntino bianco.
Traballante.
Il primo tra la folla sul molo che vide l'idro lo indicò col braccio.
«Eccolo!» gridò.
Dove?
C'era il fondale dei monti di Dervio che ne ostacolava la visione, la confondeva.
Bisognava che salisse ancora un po'.
Allora sì, contro l'azzurro del cielo, che tutti lo avrebbero visto.
VII
Che fosse successo qualcosa lo si vedeva, aveva detto il capitano dei carabinieri.
«Ma cosa?», aveva chiesto la signora Mazzagrossa.
Il capitano aveva allargato le braccia.
«Un'aggressione, possiamo supporre. Ma se vostro figlio si ostina a non dire niente a noi non resta altro da fare che procedere d'ufficio.»
La Mazzagrossa aveva fatto intendere di non capire.
«Atti osceni in luogo pubblico, oltraggio al pudore. Vi ho raccontato in che condizioni e dove abbiamo fermato il giovanotto. Cara signora, è un atto dovuto.»
Alla Mazzagrossa erano venute le lacrime agli occhi.
«Non temete capitano», aveva sospirato, «se non vuol dire niente a me lo farà sicuramente con suo padre.»
Proprio.
Piuttosto Claudio si sarebbe mozzato la lingua.
O, meglio, quell'altra parte per la cui soddisfazione s'era cacciato in quel guaio.
Tra sé l'aveva giurato: appena passata quella buriana basta donne.
Meglio solo.
VIII
Meglio, molto meglio così.
Il podestà Meccia ci aveva ragionato sopra tutta la notte tra venerdì e sabato.
Se mettersi lì in mezzo alla folla, in posizione privilegiata, oppure starsene in disparte.
Aveva deciso per quest'ultima soluzione e adesso si confermò che aveva fatto la scelta migliore.
Molto meglio così: s'era piazzato in sala del consiglio, dietro le cui finestre poteva godere di una vista a tutto campo del lago. Non aveva perso una mossa dell'idro. Quando, finalmente, s'era levato in volo, era uscito sul balcone del municipio. Alcuni tra coloro che erano stipati sul molo l'avevano visto, se l'erano indicato, avevano salutato.
Lui aveva risposto con gesti misurati.
Allora gli era venuta l'idea. Finito il primo volo di prova avrebbe annunciato alla folla il grande onore che, l'indomani, sarebbe toccato al paese tutto.
«Grazie al nostro aereo», avrebbe detto, «Sua Eccellenza il signor Prefetto di Como raggiungerà Bellagio, inaugurando così, di fatto, la nuova linea aerea che collegherà, prima nella storia del lago di Como, il nostro paese al capoluogo di provincia e fors'anche all'amica Svizzera.»
Sorrise per la soddisfazione. Immaginando il discorso aveva chiuso per un poco gli occhi.
Tornò ad aprirli, cercò l'idro.
Non lo vide subito.
Era lì, pochi secondi prima...
IX
Era qui, aveva detto il gentile capitano.
«Vostro figlio era qui, a Roma.»
Quello era un fatto dal quale non si poteva prescindere.
Non poteva essere in quel paese sul lago di Como, come la signora Mazzagrossa aveva dichiarato.
Alla signora s'erano inumiditi gli occhi.
Premuroso, il capitano l'aveva rincuorata.
«Non sto dicendo che voi mi avete raccontato delle bugie. Sono convinto della vostra buona fede. Ma mi permetto di osservare che, se vostro figlio è qui, e non là, dove voi credevate che fosse, ciò rende ancor più fitto il mistero della vicenda che lo riguarda. Non pare anche a voi?»
Pareva anche a lei. Ma non sapeva cosa farci se Claudio non voleva parlare, spiegare.
Aveva tentato per l'ennesima volta, martedì mattina, chiesta licenza al capitano, di interrogare il figlio.
«Oh mamma!» aveva mormorato quello a denti stretti.
X
Oh mamma! esclamò il Mencioni.
Oh mamma, perché mi hai messo al mondo? balbettò.
XI
Oh mamma, aveva detto il Mazzagrossa, perché non mi lasci in pace?
«Non vengo certo per procurarti fastidio» aveva reagito piccata la signora Mazzagrossa.
Che, comunque, anche il venerdì era corsa in ospedale al capezzale del figlio Claudio, resistendo però alla tentazione di interrogarlo nuovamente e piuttosto mettendolo al corrente che il giorno dopo, sabato, non si sarebbero visti per via di un impegno non rinviabile che lei s'era assunta mesi prima: un torneo di canasta.
Tanto domani sera, aveva aggiunto con una punta di veleno, arriverà tuo padre. Spiegherai a lui quello che è successo.
XII
Com'era potuto succedere?, si chiese Ofelio.
Dei ladri, certamente.
Dei ladri bastardi.
Bastardi, loro.
Cretino lui, che non aveva controllato.
Ma, con tutto quello che l'aveva agitato, distratto, preoccupato in quegli ultimi giorni come poteva immaginare che qualche ladro infame fosse andato a fottersi la benzina dell'idro?
XIII
A farsi fottere anche suo padre, aveva pensato al risveglio, sabato mattina, Claudio Mazzagrossa.
Tuttavia, la prospettiva di incontrarlo di lì a qualche ora lo inquietava.
Per suo padre gli affari venivano prima di ogni altra cosa. E se, per combinarne uno buono, era necessario raccontare qualche bugia, non c'era niente di male.
Il primo vero affare della sua vita, raccontava spesso l'ingegnere, l'aveva fatto così: fingendo di essere zoppo, producendo una falsa radiografia, convincendo gli ufficiali medici che l'avevano destinato a servizi di retrovia durante la guerra.
In quel magazzino militare aveva imparato più che se fosse andato a scuola: i furbi, solo quelli, riuscivano a primeggiare. I fessi e gli onesti erano al mondo per garantire il benessere altrui: soldati di trincea, appunto, carne da cannone.
Adesso, quell'affare lui glielo aveva mandato probabilmente all'aria e doveva cavarsela.
A ogni costo.
Applicando la lezione paterna.
Una bella bugia.
Una mezza idea aveva cominciato a battergli nella testa. L'avessero lasciato tranquillo, l'avrebbe definita del tutto.
Invece poco dopo mezzogiorno arrivò l'infermiera. Era ora di sbendare la testa. Poi sarebbe passato il dottore. E, se tutto fosse stato in ordine, l'indomani, domenica, se ne sarebbe potuto tornare a casa.
L'infermiera aveva mani delicate.
Belle manine, pensò il Mazzagrossa.
Ma era seria.
Lo fu sino a quando tolse l'ultima benda che gli fasciava il cranio.
Poi non riuscì a trattenere una risata.
«Cosa c'è?» chiese Claudio.
In quel mentre entrò il dottore e l'infermiera si eclissò.
Il dottore gli chiese come si sentisse.
Bene, rispose Claudio.
«Non vi siete ancora guardato in testa?» si informò il medico.
No, rispose Claudio, non l'aveva ancora fatto.
«Allora fatelo adesso» ordinò il dottore.
XIV
Ofelio Mencioni guardò l'altimetro, cinquecento metri.
Il rumore del motore era già una tosse inquietante. Subito dopo cominciò a perdere colpi.
Forse l'asticella era bloccata.
Diede due botte allo strumento.
Niente, restò bloccata a filo del tappo.
Manipolò allora l'interruttore dei magneti.
Niente da fare. Le candele andavano benissimo.
Il problema era di alimentazione, non c'era più un cazzo di carburante.
Su quel pensiero il motore si spense.
Improvvisamente, silenzio.
Fruscio d'aria.
La bellezza del paesaggio.
Il molo, là in fondo, stracarico di gente che guardava, chiedendosi come mai quell'improvviso mutismo dell'idro, sparito il crepitante rumore che sino a poco prima aveva percorso l'aria.
La quota!
Era appena sotto i cinquecento metri.
Forse sarebbe riuscito ad ammarare davanti al molo.
E dopo?, si chiese il pilota.
Cassò la domanda: poteva anche non esserci un dopo.
Prua verso il molo. Tirò il volantino. La velocità toccò i settanta chilometri orari, il minimo per planare.
Sistemò l'assetto del velivolo per mantenerla.
Forse era un po' corto, pensò Ofelio, non sarebbe riuscito ad ammarare davanti alla folla.
Diede un'altra tirata di volantino. L'idro rispose male, vibrò. La velocità era troppo bassa, non riusciva a volare. Stava per andare in stallo.
Ofelio buttò giù la prua, nel tentativo di riprendere i settanta chilometri orari.
Mancavano sì e no cento metri al punto di ammaraggio.
Diede un'altra tirata al volantino. L'idro rispose con una violenta vibrazione.
Lo mollò immediatamente.
Cinquanta metri all'ammaraggio.
Una nuova serie di vibrazioni scosse l'idro.
Cos'era?, si chiese Ofelio.
Le ali stavano stallando.
Tuttavia aveva guadagnato un'altra quindicina di metri.
Rilasciò il volantino nel disperato tentativo di riprendere i settanta chilometri all'ora.
L'idro non ce la fece.
Allora Ofelio tirò con angosciata violenza.
«Dai!», urlò.
L'idro vibrò.
Le ali oscillarono.
«Saluta» disse qualcuno tra la folla.
Poi l'ala di sinistra si abbassò.
Ofelio girò il volantino a destra per tirarla su.
Non c'era più niente da fare.
Fece un tentativo per appruare il muso e dare più autorità al volantino.
Ma il lago era troppo vicino.
Lo scarpone sinistro dell'idro ruppe il liscio specchio dell'acqua con un colpo sordo.
La prua si girò di novanta gradi a sinistra.
L'idro si cappottò sulla destra.
Un silenzio di tomba si stese su ogni cosa.
Sulla folla ammutolita.
Sul podestà annichilito.
Su Renata che aveva assistito guardando dal lungolago.
Su Dulù che aveva con sé un piccolo binocolo da teatro.
Sul segretario Carré cui, subito, vennero in mente «i rischi connessi all'impresa».
Sull'assistente ai voli Gerolamo Vitali che l'aveva quasi pensata quella fine.
Silenzio che pareva dovesse durare sino a chissà quando.
Lo ruppe dapprima un blob gigantesco, prodotto da una bolla d'aria che affiorò mentre l'idro cominciava pian piano ad affondare.
Seguì il rugginoso cantilenare degli scalmi della barca dei vigili del fuoco che partì in soccorso del pilota.
Indi scoccò il tocco dell'una.
XV
Lesse, rilesse.
Compitò.
Sillabò.
Davanti allo specchio.
Con un altro specchio tenuto sul vertice del capo, necessario per vedere quella cosa invereconda che gli avevano tatuato in testa.
Claudio Mazzagrossa sembrava catatonico.
Lesse, rilesse.
Compitò.
Sillabò.
SO' FROCIO.
103
Era sabato sera.
L'ingegner Mazzagrossa sedeva alla scrivania del suo studio, le mani intrecciate davanti al naso.
Di fronte a lui il figlio, sul capo una coppoletta.
Si stavano guardando da un quarto d'ora.
«Sentiamo» disse infine il Mazzagrossa senior.
Claudio deglutì.
«Sicari» disse.
Il padre non batté ciglio.
Scherani, proseguì Claudio, prezzolati da Ofelio Mencioni, uomo della suburra, cresciuto a stretto contatto con gente che, per poche lire di compenso, si prestava a qualunque tipo di malaffare.
Un piccolo cenno del capo di suo padre rincuorò il giovanotto.
Lo aveva atteso, continuò, domenica sera, lungo la strada, mentre lui si avviava alla volta della stazione. Aveva finto di passare di lì, in macchina, con alcuni amici. Gli aveva offerto un passaggio.
Lui, ingenuamente, aveva accettato.
«Quindi...» disse l'ingegnere, senza tono di domanda.
Una volta in macchina l'avevano stordito. Probabilmente avevano usato cloroformio. Da quel momento in poi lui non aveva più alcuna memoria di ciò che era successo. Si era svegliato dalle parti di Velletri pesto, confuso, nudo e depilato.
«Perché» disse il genitore, sempre senza tono interrogativo.
Invidia, rispose Claudio.
Non c'era altra spiegazione. Ofelio lo invidiava. Desiderava essere lui. Avere la sua posizione sociale. Il suo successo con le donne. Volare. Senza di lui non era nessuno.
Certo, proseguì Claudio Mazzagrossa, l'errore principale l'aveva commesso proprio lui, facendo di Ofelio un suo amico, portandolo con sé in volo, introducendolo all'aeroclub.
Chissà, piano piano, cos'era maturato dentro di lui.
Invece, poi, la realtà...
Il brusco ritorno alla realtà doveva aver liberato nell'animo di Ofelio chissà che meccanismi perversi. Si erano scatenati probabilmente quando lui gli aveva comunicato che il tempo dei giochi era finito: suo padre si era messo nel ramo aereo e lui doveva cominciare a lavorare sul serio.
Ognuno, quindi, per la sua strada.
L'ingegner Mazzagrossa socchiuse gli occhi.
«Adesso ascoltami bene» disse.
104
I
L'ingegner Mazzagrossa era rientrato a Roma dall'Egitto alle quattro di quello stesso giorno.
Alle cinque era già perfettamente aggiornato su ciò che era accaduto.
Lo avevano informato della lezione che suo figlio Claudio aveva ricevuto, e del perché.
Gli avevano detto che ce n'era anche per lui: si scordasse appoggi o vie preferenziali al ministero e desse pure l'addio ai finanziamenti che aveva chiesto. Poteva prendere il suo progetto di voli commerciali e turistici, buttarlo nel cesso e tirare pure l'acqua.
Inoltre era stato avvisato di non farsi nemmeno sfiorare dal pensiero di raccontare a chicchessia l'accaduto, sarebbero stati guai veramente grossi: il suo passato da simulatore nell'esercito e il suo presente di uomo d'affari dai metodi non esattamente cristallini era sempre pronto per farlo cadere in disgrazia.
Più stordito che arrabbiato per le grame novità che l'avevano atteso al rientro sul suolo patrio, l'ingegnere, anziché dirigersi subito a casa, aveva voluto passare dall'ufficio.
Aveva un dubbio: se suo figlio aveva combinato quel casino, cosa diavolo stava succedendo lassù, sul lago di Como, a Bellano?
Aveva telefonato in municipio, poco convinto di trovare qualcuno a quell'ora tarda.
Invece il telefono aveva fatto un solo squillo.
Una voce che non conosceva gli aveva risposto.
II
La voce era stata quella del segretario Antonino Carré.
Allo squillare del telefono il podestà Meccia aveva sgranato gli occhi terrorizzato e fatto cenno al Carré di rispondere: lui non c'era per nessuno.
Dopo il disastro del mattino non se l'era sentita nemmeno di tornare a casa sua.
S'era ritirato nello studio in municipio per cercare di pensare, riflettere.
Ma, niente.
Non c'era stato verso di sbloccare la testa, piena di quelle sole immagini: l'idro che perdeva malamente quota, lo scarpone che colpiva l'acqua, l'ala che si infilava facendo perno e la conseguente, grottesca capriola dell'aereo.
Nelle orecchie aveva continuato a zufolargli l'impressionante silenzio che aveva fatto seguito alla scena: un silenzio che aveva il rumore del vento e che non se n'era più andato.
Un silenzio che gli aveva impedito di sentire le grida, i richiami, le risate, anche, della gente che si era accalcata sul molo e che a un certo punto, quando la barca dei vigili del fuoco era riuscita a recuperare il pilota, s'era girata verso il balcone del municipio.
Ma lui non c'era già più. S'era ritirato nello studio e aveva seguito le operazioni di recupero sbirciando da dietro la persiana accostata, assistendo anche al definitivo affondamento dell'idro.
III
Evangelia, del disastro, era stata informata da Renata. Non le era sfuggita una nota di mal dissimulata allegria che la ragazza aveva dato alla comunicazione.
«Ma è una vera disgrazia!» aveva esclamato lei.
Renata aveva scrollato le spalle.
«Se lo dici tu...» aveva ribattuto.
Certo che lo diceva. Lo diceva, lo pensava, ne era convinta. Ma non per l'idro, il pilota, i soldi... quelli erano affari del podestà, non ci metteva lingua.
Ma chissà, adesso, quanto ancora, non il signor podestà, ma suo marito Agostino avrebbe rinviato il momento per affrontare l'altra questione.
L'altra, quella che a lei interessava, che riguardava proprio lei, Renata.
Che era, come dire?, mah!... inquieta, nervosa, una molla!
Meditava qualcosa?
Evangelia ne era certa.
Aveva anche tentato di indagare. Ma, alla sua timida curiosità, «C'è qualcosa che non va?», «Niente», aveva risposto lei.
Bugie.
Ci voleva ben altro per entrare nei segreti della ragazza. Un intervento paterno, anche d'autorità. Senza perdere tempo.
Evangelia aveva riflettuto che le sarebbe toccato ribadire il concetto. Ma a mezzogiorno suo marito non s'era fatto vedere. Comprensibile, non s'era preoccupata.
Aveva cominciato a farlo verso le tre del pomeriggio. E man mano che i minuti passavano il suo umore, incline per natura al pessimismo, l'aveva portata a disegnare scenari sempre più cupi. Al calare delle prime ombre s'era decisa ad agire.
Agostino poteva essere solo in municipio. Non se l'era sentita però di affrontarlo. Per una volta non l'aveva temuto. Piuttosto s'era fatta lo scrupolo di non metterlo in imbarazzo. Allora era filata a casa del segretario Antonino Carré e gli aveva chiesto se poteva, in vece sua, avvicinare suo marito e poi farle sapere come stava.
Il segretario Carré, durante le ore di quel pomeriggio, aveva avuto tutto il comodo per fare i conti di quello che sarebbe costato all'amministrazione comunale il disastro della mattina: una cifra da far venire ricci i capelli a un calvo. Un debito, perché debiti avrebbe dovuto fare il comune di Bellano per pagare i danni, che si sarebbe protratto per intere generazioni di podestà: e questo grazie alla stupidità dell'attuale e delle sue manie di primato.
Tuttavia non aveva osato dire di no alla signora Evangelia, comprendendo le ambasce in cui si trovava. Le aveva assicurato che avrebbe provveduto immediatamente e che poi l'avrebbe aggiornata sullo stato del marito.
Era uscito di casa quando erano da poco passate le cinque del pomeriggio. Anche lui non aveva avuto alcun dubbio: il podestà era sicuramente nel suo studio in municipio.
L'aveva trovato là infatti.
Attonito.
Flosce le guance.
Lo sguardo fisso verso un punto della stanza che cominciava ad ammantarsi di buio.
Non aveva nemmeno risposto al suo saluto ma l'aveva invitato a sedere davanti a lui, ripiombando poi nel silenzio.
Lo squillo del telefono era stato un colpo secco di moschetto 91 e osservando la faccia del podestà il segretario aveva pensato ai cecchini quando colpivano la gente alla schiena.
IV
Il Mazzagrossa aveva, volutamente, usato un tono di voce lieve, salottiero.
Saputo con chi stava parlando aveva raccontato di essere appena rientrato dall'Egitto, dove aveva compiuto un lungo giro d'affari, e quindi aveva subito chiamato per essere aggiornato sulla situazione.
Il segretario Antonino Carré aveva sospeso la risposta e ciò aveva ghiacciato il sangue dell'ingegnere.
Lo sguardo del segretario s'era posato sul podestà, che continuava a fissare intensamente quel punto nel vuoto della stanza.
Passargli la cornetta?, s'era chiesto.
Non gli era sembrato il caso, il Meccia sembrava paralizzato.
Dall'altro capo del filo gli era giunto all'orecchio un secco colpo di tosse.
In quel minuto che era trascorso, l'ansia aveva asciugato le fauci del Mazzagrossa.
Aveva compreso che anche lì lo aspettavano guai.
«Cos'è successo?» aveva chiesto.
«Volete proprio saperlo?» aveva ribattuto il Carré.
Non aveva atteso risposte: aveva parlato tanto per rompere il silenzio, vedere se dal podestà giungesse qualche segnale di ripresa.
Niente da fare.
Allora era partito lui e aveva elencato puntualmente gli avvenimenti della mattinata.
Il Mazzagrossa aveva seguito il resoconto a occhi chiusi.
Quando il segretario aveva taciuto, dopo aver dato gli ultimi ragguagli sullo stato dell'idro, ormai invisibile sotto il pelo dell'acqua, il Mazzagrossa s'era sentito come un ghiacciolo.
Quello non era un guaio.
Era un disastro, una tragedia. Roba da finire in galera.
Bisognava pararsi il culo, e alla svelta.
«E adesso?» aveva chiesto il segretario.
Non c'era tempo da perdere, il Mazzagrossa non aveva avuto esitazioni.
«Non c'è un minuto da perdere» aveva detto.
Dovevano lasciarlo lavorare e garantirgli di essere sempre reperibili nelle prossime ore.
«Avrei bisogno del podestà» aveva aggiunto. «Voi segretario abbiate la cortesia di trovarlo e di dirgli che nelle prossime ore lo chiamerò, a questo numero. Si tratta di un'emergenza, fateglielo presente.»
Il Carré aveva fatto la sua ambasciata.
S'era accertato che il podestà avesse compreso.
Quindi, poiché s'erano fatte le sei della sera e aveva ospiti a cena, aveva deciso che per lui era ora di tornare a casa.
Non prima, però, di essere passato dalla signora Evangelia per rassicurarla, mentendo, e per avvisarla che probabilmente era inutile che lo aspettasse anche per la cena, poiché affari urgentissimi avrebbero trattenuto il signor podestà in municipio forse sino a notte inoltrata.
V
L'ingegner Mazzagrossa aveva raggiunto casa a passo di carica, sudando e sacramentando.
Sulla porta la moglie aveva tentato di bloccarlo per dargli un anticipo di ciò che era accaduto.
«So tutto» aveva risposto lui.
S'era infilato nello studio.
Poi aveva ordinato alla moglie di comunicare al figlio che lo voleva lì.
Claudio Mazzagrossa s'era presentato, esitante.
Senza parlare, il braccio teso a indicare la poltrona davanti alla sua scrivania, il padre gli aveva ingiunto di sedere.
S'erano confrontati, silenziosi, per un lungo quarto d'ora.
Il vecchio sapeva che la situazione era disperata. Per uscirne ci sarebbe voluto un colpo di genio, da incantatore di serpenti. Da superare, infatti, c'erano due enormi scogli.
L'idrovolante, dapprima: irrecuperabile.
Cen-to-mi-la-li-re !
Tanto valeva. E tanto avrebbe preteso l'aeroclub Umberto I di Monza, presso il quale lui l'aveva affittato per conto della SISTAR così da cominciare a introitare i primi soldi per la sua impresa dall'amministrazione comunale di Bellano.
Non sarebbe stato un problema: con la formuletta dei rischi connessi all'impresa quel podestà beccaccione se lo sarebbe ritrovato lui sul gobbo quel debito. Se suo figlio non avesse fatto, però, quell'immensa cazzata.
Come s'erano ormai messe le cose, al podestà di lassù sarebbe stato possibile impugnare il contratto, contestarlo. E ne avrebbe avute tutte le ragioni.
Contratto non rispettato: il pilota non era quello, anzi, non era nemmeno un pilota, era privo di brevetto!
Un disastro, un disastro!
Per questo ci voleva un colpo di genio.
A suo figlio d'altronde, se veramente era tale, se veramente aveva il suo stesso sangue, non poteva essere sfuggito che per cavarsi d'impaccio avrebbe dovuto inventarsi qualcosa.
Non una semplice bugia. Qualcosa di più organico, articolato, fantasioso.
Dopo averlo squadrato a lungo s'era deciso ad ascoltarlo.
Man mano che Claudio si inoltrava nella spiegazione dell'accaduto, il Mazzagrossa senior si rinfrancava.
Niente male, la storia.
Magari, qua e là, qualche particolare andava sistemato, migliorato, modificato. Ma nel complesso teneva bene.
105
«Adesso ascoltami» ripeté il Mazzagrossa senior.
Ciò che era successo realmente doveva restare un segreto tra loro due.
Claudio approvò.
«Inoltre», aggiunse il genitore, «sino a che i capelli non ti saranno convenientemente cresciuti non uscirai di casa.»
Il giovanotto tentò un'obiezione.
Suo padre non gliela permise.
«Ti devo salvare il culo» sibilò. «Rubacuori dei miei coglioni.»
106
Il podestà Agostino Meccia comparve alla soglia del municipio quando le otto erano passate da poco.
Una stella baluginava in cielo. Venere, a perpendicolo sopra la conca di Menaggio.
Il podestà la guardò, e sorrise. Una bolla d'aria gli salì dallo stomaco. Ruttò.
Bella forza, era a stomaco vuoto sin dalla mattina. Ma non si mosse ancora.
Guardò la linea scura della superficie del lago, lì dov'era affondato l'idro. Dove, sino a un'oretta prima, sembrava che fosse annegato anche lui.
Sorrise. Pensò a quella bolla d'aria che aveva visto poche ore prima emergere dalla profondità del lago come un estremo saluto alla sua disgrazia.
Sorrise ancora, e un altro rutto.
Poche ore prima pensava di essere finito.
Adesso invece aveva fame.
107
Evangelia balbettò per la sorpresa. S'era aspettata un marito distrutto, l'aveva di fronte sorridente e affamato.
Forse, ragionò, stava fingendo per evitare di preoccupare anche lei coi suoi pensieri, aveva messo su una maschera. Non era nemmeno da scartare l'ipotesi che l'accaduto l'avesse sconvolto al punto da provocare una reazione di segno opposto, rendendolo ilare: nel qual caso avrebbe dovuto chiamare il dottore.
Ma il podestà entrò in casa ribadendo il suo appetito e dirigendosi in cucina.
Luci basse.
Nessun odore di cibo nell'aria, nemmeno Evangelia e Renata avevano cenato.
«Ma cos'è», esclamò Agostino, «vi è morto il gatto?»
Evangelia, dietro di lui, rifletté che conveniva assecondarlo.
«Ma no» rispose. «È che non ti aspettavamo... sai... dopo quello che è successo...»
Agostino si girò. Un sorriso aperto gli comparve in viso.
«E cos'è successo?» chiese.
Oddio!, pensò Evangelia.
Non osò rispondere.
Renata era seduta al tavolo, fingeva di leggere una rivista. Alzò su suo padre uno sguardo interrogativo, corrugò la fronte.
«Niente» disse il podestà. «Non è successo niente.»
Evangelia fece un cenno alla figlia. Renata si alzò, stese la tovaglia.
«Vanno bene due uova?» chiese poi. «C'è anche un po' di salame.»
«E una bottiglia di quello buono» aggiunse Agostino. «Mi pare che sia proprio l'occasione giusta.»
«Certo» approvò Evangelia, sempre più sconcertata.
«La berremo alla salute di tal Ofelio Mencioni» annunciò il podestà. «Sedicente pilota d'aereo che credeva di venir qui a prendere per i fondelli il sottoscritto e che invece, da qui, se ne andrà dritto come un fuso in galera, a meno che non abbia, cosa della quale dubito fortemente, di che pagare la bella cifra di centomila lirette!»
Renata stava affettando il salame.
Si girò e guardò suo padre.
Ecco perché era tanto allegro.
Non perché fosse sconvolto al punto da aver perso contatto con la realtà.
Piuttosto perché, in qualche maniera, aveva trovato il modo di cavarsi d'impaccio, un bel capro espiatorio.
E la faccia era salva...
Le parole della zia Rosina le ritornarono in mente.
«Ma allora...» buttò lì.
Suo padre la guardò corrugando la fronte.
«Ma allora?», chiese.
Ma allora non aveva sentito la voce che correva in paese?
Che il pilota era morto?
108
Morto.
Quindi inservibile, pensò Renata. Le toccava ricominciare tutto da capo.
Il trucco, quello che la zia Rosina aveva usato una sola volta nella sua vita e aveva funzionato a meraviglia, inutile.
Era stato quando s'era incapricciata di un uomo di Varenna, bello, elegante e sposato. Lavorava a Bellano e lei l'aveva circuito sino a farlo cascare nella trappola. Dopodiché aveva scoperto che tutta quella bellezza, l'eleganza, le buone maniere andavano ad affogare sino ad annullarsi in un pattume senza fine, una noia mortale così che nel giro di poche settimane l'uomo era riuscito a distruggere la passione della zia Rosina. Purtroppo, le si era attaccato come una piattola, giungendo anche a manifestare accessi di gelosia.
Allora, per toglierselo dai piedi, la zia Rosina aveva tirato fuori l'asso dalla manica: gli aveva confessato di essere incinta.
Era svanito nel nulla, in un battibaleno.
Come avrebbe reagito il podestà se Renata fosse andata a dirgli di essere incinta?, era uscita a dire la zia Rosina qualche giorno prima.
Renata aveva sgranato gli occhi, restando senza parole.
La zia Rosina l'aveva rassicurata. Non la voleva spingere a tanto.
Ma se avesse finto, come aveva fatto lei con quel suo antico amante?
Se avessero avuto per le mani uno che si fosse prestato alla pantomima?
Uno che, a un certo punto, sparisse dalla circolazione o col quale, addirittura, inscenare una fuga d'amore con tanto di drammatico ritorno al paesello e un dispiacere nella pancia?
Renata aveva ascoltato la diabolica zia Rosina in un crescendo di interesse.
«Il pilota?», aveva chiesto.
Certo, il pilota, aveva risposto la vecchina.
Era l'unica persona ad avere quelle caratteristiche ed era, da parte loro, perfettamente ricattabile.
Non bisognava dimenticare il bottone, grazie al quale loro due avevano compreso che c'era un segreto dietro la sua presenza a Bellano.
Quale fosse, a loro non interessava. A patto che accettasse di collaborare.
«E anche a patto», aveva aggiunto la zia Rosina, «che il Vittorio ti piaccia al punto di imbarcarti in un'avventura di questo genere.»
Quello, aveva risposto Renata, era fuori discussione. Il Vittorio le piaceva e lei piaceva a lui.
Aveva solo bisogno di pensarci su qualche giorno, prepararsi mentalmente, abituarsi all'idea.
Avvisare il Vittorio di ciò che si stava preparando, che non si lasciasse ingannare dai fatti e dalle eventuali voci.
Del pilota a lei fregava niente.
Meno ancora, adesso. Anzi, niente del tutto se era vero che era morto, quindi inservibile.
109
Morto?
Il podestà Meccia restò con la bottiglia appena stappata a mezz'aria.
Paralizzato, una statua.
Pallido, un sudorino alla fronte, i masseteri contratti.
«Come morto?»
La voce aspra, castrata. Nemmeno la più esile traccia dell'allegria di poco prima.
«L'ho sentito dire» rispose Renata.
«Da chi?»
Da nessuno in particolare. Da tutti. Girava la voce. Lei l'aveva sentita nel tardo pomeriggio quand'era uscita di casa per la solita visita alla zia Rosina, visita che aveva avuto il sapore di una veglia funebre.
«Cristo!» esclamò il podestà.
«Agostino!» intervenne Evangelia.
«O cristo!» gridò lui.
Cosa se ne faceva di un capro espiatorio morto!
Calò la bottiglia sul tavolo.
Non poteva stare in quell'incertezza. Doveva sapere, avere informazioni precise, immediatamente.
«Renata» ordinò.
Dava meno nell'occhio mandare sua figlia all'ospedale. Anzi, aveva anche il sapore di un atto profondamente pietoso.
Ma se quello era morto davvero...
«Ti butto le uova adesso?» chiese Evangelia.
Macché uova!
110
È come morto, aveva detto il professor Giudetti, direttore sanitario dell'ospedale Umberto I, quando aveva visitato Ofelio Mencioni dopo che i vigili del fuoco glielo avevano portato.
Come morto, per via dello shock emotivo e del trauma cranico. Le funzioni vitali però erano stabili, quindi, trascorso un tempo che sarebbe stato difficile prevedere, il giovanotto si sarebbe risvegliato. Solo allora si sarebbe potuto fare il conto di eventuali danni permanenti.
«Per intanto», aveva detto, «va lasciato in pace.»
E s'era raccomandato con la suora del reparto e con Ivano Zecchinetti custode dell'astanteria, uomo incline alla permissività con coloro che lo omaggiavano di bottiglie di vino, di proibire qualsivoglia visita.
«Ho già lasciato passare la sua fidanzata» disse il Zecchinetti, il florido naso color cremisi, gli occhi luminosi, a Renata. «Mezz'ora fa.»
«Fidanzata?», pensò Renata.
«Devo solo vederlo un momento» disse.
L'altro sbuffò un'invisibile nuvoletta alcolica.
«Se arriva il professore...»
«Gli direte che è stato un ordine del podestà» tagliò corto Renata.
Il custode deglutì.
«Primo piano» la informò, alitando. «Stanza numero ventisette.»
111
Fidanzata.
Dulù s'era presentata come la fidanzata del pilota.
Tale, ormai, si sentiva.
Il portiere le aveva creduto quando le aveva visto comparire in mano una bottiglia che poi aveva immediatamente stappato.
Mezz'ora, non di più, aveva promesso la donna.
Si stava preparando ad andarsene, quando Renata entrò nella stanza.
Un lampo di odio le attraversò lo sguardo. Renata si bloccò sulla porta.
«Sareste voi la fidanzata?» chiese, non riuscendo a frenare la lingua.
La telefonista agitò nervosamente le dita delle mani: come le sarebbe piaciuto metterle attorno al collo di quella smorfiosa!
«Perché?» chiese.
«Lui lo sa?» ribatté Renata.
«A tempo debito lo saprà.»
«Allora non è morto» concluse Renata.
«Vi dispiace?»
Renata fece un passo nella stanza. Aveva colto, nella mimica, nei gesti, nel tono della voce di Dulù i segni della tigre in calore.
«Forse tra noi due si è generato un equivoco» disse.
Dulù fermò il movimento delle dita.
«Credete?»
«Sì, ma non è questo il momento per parlarne» fece Renata.
«E perché?» chiese Dulù.
Perché?
Perché altre cose urgevano più di quella.
«E quando lui», disse Renata indicando con un dito il Mencioni che sembrava dormire pacificamente, «si sveglierà, oltre che informarlo dell'avvenuto fidanzamento con voi, sarà opportuno metterlo al corrente di ciò che lo aspetta.»
«Vale a dire?» chiese Dulù.
«Adesso vi spiego» rispose Renata.
112
Lunedì mattina il viceprefetto ispettore Corrado Afragòla entrò negli uffici del comune di Bellano senza salutare nessuno e si presentò solo quando fu davanti al segretario Antonino Carré che, sollevando gli occhi da una pratica che stava scorrendo, lo guardò come se fosse un fantasma.
Il Carré, a sua volta, si presentò.
«E cosa desiderate?» chiese.
La risposta fu un colpo di rivoltella.
«Ho l'ordine di fare un'ispezione.»
Un colpo di rivoltella sparato dritto al cuore.
Ispezioni così all'improvviso non capitavano mai.
Cosa significava?
«Richiesta espressamente da Sua Eccellenza il signor Prefetto» chiarì l'Afragòla.
113
Il giorno prima, domenica, don Contardo Coregoni, parroco di Bellagio, aveva ritardato di mezz'ora l'inizio, fissato per le undici, della messa nel corso della quale doveva benedire il gagliardetto della neonata associazione degli olivicoltori comaschi perché Sua Eccellenza il Prefetto non era ancora arrivato, benché avesse garantito la sua presenza per l'ufficio. Aveva fama di persona puntigliosa e puntualissima ma un guaio, un contrattempo poteva capitare a tutti.
Il podestà di Bellagio aveva mandato giù quel rospo e accettato il rinvio. Teneva tantissimo alla presenza del prefetto ma gli dava sommamente fastidio che tanta autorità dovesse giungere nel suo dominio con un colpo di propaganda del podestà Meccia: in aereo, anziché in battello, com'era più logico invece, più naturale per gente che abitava città e paesi affacciati alla riva del lago.
Alle undici e trenta, pur con dispiacere, il parroco aveva fatto presente al podestà che non era più possibile attendere. Tra l'altro, il popolo numeroso accorso da ogni angolo del lago, stimato in circa quattrocento unità, cominciava a rumoreggiare, alcuni avevano già scartato panini e stappato bottiglie, c'era il rischio che la tensione mistica potesse venir meno.
A malincuore, e dopo aver dato un ultimo orecchio all'aria, per cogliere l'eventuale segnale di eliche o motori, indizio del prefetto che, pur in ritardo, stava giungendo finalmente a Bellagio, il podestà Ghislanzoni aveva ceduto alla richiesta del parroco.
La speranza che Sua Eccellenza comunque arrivasse non l'aveva abbandonato per tutta la durata dell'ufficio solenne. Non c'era stato niente da fare. All'uscita della messa la gran folla s'era rumorosamente dispersa tra osterie, trattorie e panchine. Le autorità, invece, tra le quali aveva continuato a spiccare l'assenza del prefetto, s'erano avviate verso il Grand Hotel Villa Serbelloni ove li attendeva un banchetto sopraffino.
L'argomento principale della conversazione era stato, naturalmente, l'inspiegabile, mancato arrivo del capo della provincia.
Chissà perché, chissà come mai, possibile che se ne fosse dimenticato...
Era stato un cameriere a risolvere i dubbi.
Mentre stava servendo gli antipasti aveva colto la conversazione degli illustri personaggi e non era riuscito a frenarsi. Aveva chiesto urbanamente licenza di parlare e raccontato che, proprio il giorno prima, si trovava a Bellano in visita a una sua sorella che era colà sposata. Insieme a suo cognato aveva tirato mezzogiorno confuso tra la folla che, dal molo, aspettava il primo volo di un idrovolante di cui tutto il paese parlava: così gli era capitato di assistere a un vero e proprio disastro aereo.
Perciò, aveva concluso, si spiegava come mai il signor prefetto non fosse arrivato a Bellagio, se l'idrovolante sul quale avrebbe dovuto volare riposava sotto qualche metro d'acqua anziché nell'alto del cielo.
Il podestà Ghislanzoni aveva avuto un ghigno di soddisfazione, trattenuto con fatica.
Gli stava bene a quel gradasso del Meccia.
«Mi dispiace» aveva però detto, ad alta voce, affinché tutti potessero sentire, e con tono accorato: lui non godeva delle disgrazie altrui.
Ma poiché Sua Eccellenza il Prefetto era noto, oltre che per la puntualità, anche per essere piuttosto permaloso, s'era augurato che non l'avrebbe fatta passar liscia al collega bellanese.
114
Altre voci giravano attorno a Sua Eccellenza il Prefetto.
Permaloso, puntiglioso, puntuale.
E anche, da qualche mese, un po' rincoglionito, sussurravano alcuni.
Lui sapeva e fingeva di nulla.
Ma, domenica mattina, quelle voci gli erano tornate prepotentemente alla memoria e, se avesse avuto tra le mani uno di quelli che le andava spargendo, l'avrebbe ucciso personalmente.
Attorno alle nove e trenta una macchina guidata da un carabiniere autista con un secondo carabiniere di scorta era passata a prenderlo a casa, come da accordi precedenti, per accompagnarlo nell'area dell'aeroclub di Como, ove sorgeva anche lo stadio di calcio, luogo dell'appuntamento col pilota che sarebbe sceso da Bellano per caricarlo e portarlo a Bellagio: questo era il programma che il podestà Meccia aveva concordato col suo segretario personale.
Sino alle dieci era filato tutto liscio.
Il carabiniere autista silenzioso, le mani appoggiate sul volante, lo sguardo fisso alla conca dove il ramo di Como andava a morire.
Di fianco a lui, il graduato di scorta, comandato di rispettare il silenzio che andava interrotto solo per rispondere a eventuali domande del signor prefetto.
Dietro, a destra, seduto nel posto che gli competeva per autorità, il signor prefetto che aveva aperto bocca solo per commentare la bella giornata e porre domande banali provocando dal graduato di scorta altrettante banali risposte.
Sino alle dieci. Ora in cui era cominciata l'attesa vera e propria.
L'aeroclub di Como, era, quella mattina, inattivo. Non ci sarebbe stata quindi possibilità di equivoci o errori. Un solo idrovolante sarebbe dovuto comparire all'orizzonte, quello in arrivo da Bellano.
Alle dieci e un quarto, all'interno della macchina, s'era levato un primo colpo di tosse: era stato il graduato di scorta.
Vera o finta che fosse, aveva pensato il signor prefetto, nella mezz'ora appena trascorsa non aveva mai tossito. Nessuno aveva parlato, il carabiniere autista era rimasto attaccato al volante, i suoi occhi avevano continuato a scrutare il cielo. Era passato un altro quarto d'ora. Sull'orizzonte del lago, limpido, preludio a una giornata di mite temperatura, non s'era stagliata altra ala che quella di qualche gabbiano. Poco dopo le dieci e trenta il graduato di scorta aveva chiesto licenza di scendere dalla macchina per fare due passi. Il signor prefetto l'aveva concessa ma non gli era sfuggito che, scendendo, il carabiniere aveva scoccato al collega uno sguardo.
Il graduato aveva fatto qualche passo su e giù tra la macchina e l'ampio portone della rimessa dell'aeroclub. S'era anche concesso una sigaretta. Era stato interpellato da un paio di turisti bisognosi di informazioni. Era risalito in macchina alle undici meno un quarto e s'era seduto lasciandosi scappare un profondo sospiro.
A quel punto Sua Eccellenza, per rompere l'imbarazzante silenzio, aveva chiesto conto dell'ora. La sapeva perfettamente, avrebbe comunque potuto controllarla sulla cipolla con catena d'oro che portava sempre con sé, ma non aveva trovato altro di meglio da dire.
Era stato il graduato di scorta a rispondere.
Erano le dieci e cinquantadue minuti.
Tanta puntigliosità nella risposta aveva solo un significato: far notare a Sua Eccellenza che, da altrettanti minuti, avrebbe dovuto essere in volo. Invece era ancora lì, in attesa di un idrovolante di cui non c'era ancora traccia.
«Perbacco!», aveva esclamato.
«Mi dispiace di farvi perdere tempo, ragazzi», aveva aggiunto.
«Figuratevi, Eccellenza!», aveva risposto il graduato di scorta.
Ma con un tono...
Il tono compassionevole che si usa coi vecchi scemi.
Il signor prefetto s'era sentito montare una rabbia incontenibile. E al pensiero di quel coglione del podestà di Bellano. Ma, anche, al pensiero che, magari, quella scorta se l'erano giocata, poiché nessuno voleva farla. Nella fantasia gli si era scatenata l'immagine del comandante della caserma mentre avvisava i suoi sottoposti di quel servizio extra, provocando nella truppa il dileggio nei confronti della sua persona.
«Mi dispiace ragazzi ma ci tocca» doveva aver detto il comandante. «Voglio due volontari, mettetevi una mano sul cuore», e via di questo passo.
Il carabiniere autista non aveva ancora modificato la sua posizione. A un certo punto, però, stanco di guardare l'orizzonte, aveva cominciato a seguire i battelli che andavano e venivano.
Basta, aveva pensato il signor prefetto.
Alle undici esatte mi riportate a casa, aveva detto.
Mancano due minuti, aveva fatto notare il graduato di scorta.
Alle undici esatte, aveva ribadito Sua Eccellenza.
Così era stato.
Era rientrato a casa con un diavolo per capello.
Non s'era dato pace sino a che non era riuscito a mettersi in comunicazione col viceprefetto ispettore Afragòla.
«Domani», aveva ordinato, «ve ne salite a Bellano per un'ispezione di quelle coi fiocchi. Gli dovete far vedere i sorci verdi.»
Dopodiché l'aveva invitato a casa sua per la cena.
«Nel corso della quale vi spiegherò tutto» aveva concluso Sua Eccellenza.
115
Com'era stato possibile?
Com'era potuto accadere che il podestà Agostino Meccia si fosse completamente dimenticato l'impegno assunto con Sua Eccellenza il Prefetto?
Ci voleva una spiegazione soddisfacente, disse l'Afragòla.
Il segretario Carré si guardò bene dall'entrare in argomento.
Non era di sua competenza, spiegò.
Ma, aggiunse, avrebbe immediatamente provveduto a far avvisare il podestà, della qual cosa incaricò il messo Sbercele.
116
Colpevole, si dichiarò immediatamente il podestà davanti al viceispettore.
Colpevole e disposto a pagare per l'inopinata dimenticanza che non celava, peraltro, difetti di stima o di considerazione nei confronti dell'alto profilo umano e morale di Sua Eccellenza il Prefetto.
A sua discolpa aveva una sola giustificazione: ciò che era successo.
L'imbroglio nel quale, in totale buona fede, era caduto e del quale era riuscito a scoprire la trama solo grazie a uno strenuo lavoro d'indagine, senza risparmiarsi, dimenticando sonno, fame, famiglia e anche, purtroppo, il signor prefetto e l'impegno che s'era assunto con lui.
Un sacrificio doloroso e involontario.
Grazie al quale, se poteva esprimersi così, adesso, a magra giustificazione di ciò che era accaduto, era in grado di offrire a Sua Eccellenza un dettagliato resoconto e anche, e a quel punto il podestà assunse un'espressione di feroce determinazione, un colpevole che avrebbe a breve pagato il fio del suo ardire.
Lui aveva fatto il suo dovere.
Restava comunque a disposizione di Sua Eccellenza e avrebbe accettato qualunque decisione egli avesse voluto prendere nei suoi confronti.
Infine, pregava il signor viceprefetto ispettore di porgere a Sua Eccellenza, oltre alla puntuale relazione dei fatti appena accaduti, le sue umili scuse di fedele servitore.
117
Come cazzo aveva fatto a dimenticarsi del prefetto?
Non lo sapeva. Se n'era scordato, punto e basta.
Ma la cosa importante era essere uscito a testa alta anche da quel guaio.
«Avreste dovuto vedere la faccia del viceprefetto» disse Agostino Meccia.
Era seduto a tavola. Davanti, la bottiglia di vino che aveva stappato la sera prima senza però assaggiarne nemmeno un goccio.
Adesso, invece, continuava a versarsene un dito dopo l'altro, divenendo via via sempre più loquace.
Così lo voleva sua moglie, bello in vena di chiacchiere, non cupo e muto come nelle ore appena passate: ciarliero, come adesso, perché lei doveva assolutamente ricordargli che c'era un'altra, l'altra!, questione da affrontare: familiare, ma non meno importante di quelle pubbliche.
«Che faccia aveva?» chiese Evangelia tanto per tener vivo il dialogo.
Renata, nel frattempo, stava aspettando che suo padre smettesse di bere per cominciare a sparecchiare.
Una faccia severa, rispose Agostino.
Un viso che esprimeva comprensione per le difficoltà in cui s'era trovato e insieme ammirazione per come le aveva brillantemente superate.
Insomma, disse il podestà: l'Afragòla, per dirla francamente, era venuto su da Como col preciso ordine di dargli una ripassata maiuscola e se n'era tornato giù, ne era convinto, con la certezza che il suo operato meritasse un encomio.
Così, concluse Agostino, per la seconda volta in pochi giorni aveva dimostrato che quello che poteva fregarlo era ancora nei pensieri di Nostro Signore.
«E quello di ieri come sta?» chiese poi, riferendosi al sedicente pilota Ofelio Mencioni e guardando sua figlia.
«Lo chiedi a me?» fece Renata.
La sera prima, quando era rientrata a casa, riferendo che il pilota non era morto anche se, come aveva detto il professore, la prognosi era ancora riservata, suo padre le aveva chiesto di tenerlo informato.
Era così che gli ubbidiva?
«Non sei andata in ospedale oggi?» chiese il genitore.
«No» rispose Renata.
Cosa le importava, ormai.
Il piano di zia Rosina era morto: lui sì, morto sul nascere. Con Dulù di mezzo, adesso, non sarebbe stata cosa facile ricattare, farsi complice il Mencioni. Impossibile addirittura: la tigre che si celava nella telefonista non sarebbe stata a guardare.
Insomma, bisognava scovare un'altra strada.
«Male» dettò il podestà, trangugiando l'ennesimo dito di vino.
«Ci andrai adesso» aggiunse.
E la bottiglia era finita.
118
Dulù aveva fatto progressi. Adesso era seduta al capezzale di Ofelio e gli teneva teneramente la mano.
Renata entrò silenziosamente nella stanza e richiamò l'attenzione della telefonista.
Era intenzionata a salutare e poi chiedere come stava il giovanotto: non riuscì a fare né l'una né l'altra cosa.
Al vederla, Dulù lasciò repentinamente la mano di Ofelio e fece cenno, agitando le dita per aria, che ne erano successe di grosse.
Quindi indicò a Renata il corridoio: meglio parlare lì fuori.
«Non vorrei svegliarlo» spiegò.
«Svegliarlo?» fece Renata.
«Certo, dorme» confermò Dulù.
Ofelio Mencioni dormiva, grazie a un sedativo che il professore gli aveva fatto somministrare un'oretta prima, dopo che s'era svegliato improvvisamente da quella specie di letargo in cui era dal giorno prima.
Lei era appena arrivata, disse Dulù, e aveva assistito al miracolo di quel risveglio.
Era toccato a lei spiegargli cos'era successo, perché era lì: all'inizio il giovanotto era un po' confuso.
Poi era filata ad avvertire il professore il quale era subito accorso, l'aveva visitato per bene e infine aveva proclamato che si poteva essere soddisfatti: l'incidente non avrebbe lasciato reliquati.
Infine, a una sua precisa domanda, aveva affermato che, tempo due o tre giorni, se non fosse successo niente, Ofelio Mencioni sarebbe potuto tornare in libertà.
Quelle parole avevano ricordato a Dulù ciò che Renata le aveva raccontato la sera precedente.
La telefonista allora aveva aspettato che il professore se ne andasse e poi aveva messo al corrente di ogni cosa il giovanotto.
«Avreste dovuto vedere!» esclamò Dulù.
Che reazione!
«E sentire!»
Che parolacce!
Ma lo si poteva capire.
Perché erano un sacco di bugie. La verità era un'altra.
Non c'era stato nessun pestaggio, non c'erano sicari... tutte balle!
«Volete sapere, piuttosto, come sono andate veramente le cose?» chiese Dulù.
Renata tacque un istante.
Cos'avrebbe fatto o detto la zia Rosina in un frangente simile?
«Certo» rispose.
Dulù chiese solo un minuto per controllare che il sonno di Ofelio continuasse tranquillo.
Poi ritornò in corridoio.
119
«Alla buon'ora» disse il podestà a mo' di saluto.
In attesa del ritorno della figlia dall'ospedale s'era accomodato nella poltrona in sala.
Evangelia, appena uscita Renata per ubbidire all'ordine paterno, aveva sparecchiato in quattro e quattr'otto.
«Li laverò dopo» aveva detto guardando i piatti.
Non voleva perdere l'attimo.
Invece, in quel breve lasso di tempo, due, tre minuti al massimo, suo marito, grazie al vino bevuto a tavola, s'era appisoccato.
Svegliarlo?
Neanche a pensarci. Avrebbe avuto grugniti in risposta alle sue domande.
Aspettare una nuova occasione, non aveva altra scelta.
Ma intanto il tempo passava, correva, fuggiva...
Più di un'ora!
Risvegliandosi bruscamente, quando Renata rientrò in casa, il podestà si accorse che era passata più di un'ora.
La miseria! Cosa ci voleva per andare e tornare dall'ospedale?
Evitò, però, di fare polemiche.
Gli premeva di più sapere.
«Allora?»
«La prognosi è ancora riservata» comunicò Renata.
Che poi, per evitare altre domande, disse di avere sonno e si rifugiò in camera sua.
120
I
La prognosi è ancora riservata. Così aveva ordinato di dire la zia Rosina. «Ma non è vero» aveva obiettato Dulù. «La verità la fa chi comanda» l'aveva fulminata l'anziana, ordinandole poi di mettersi a sedere e di starla a sentire.
II
«Ci penserò io a raccontare la verità!» era stato il grido di battaglia emesso da Dulù non appena finito di rivelare la versione dei fatti di Ofelio Mencioni.
Ahi!, aveva pensato Renata.
Le parole della telefonista le avevano appena fatto venire un'idea. Una buona, un'ottima idea, le era parso.
Ma, Ahi!, s'era detta quando Dulù aveva terminato il suo resoconto: la tigre stava cominciando a scatenarsi e minacciava scandali.
Lei invece, per mettere in atto il piano che s'era andato via via delineando nella sua testa, avrebbe avuto bisogno di silenzio, segreto, che nessuno sapesse...
Doveva domare la telefonista insomma. Da sola, però, non ce l'avrebbe fatta, le ci voleva aiuto. Per questo l'aveva trascinata con sé dalla zia Rosina. Davanti alla quale Dulù non aveva cambiato atteggiamento. Aveva predicato per un quarto d'ora di fila, gesticolando come se fosse su di un palcoscenico, l'occhio rivolto a una folla inesistente, il bel collo teso nella foga oratoria.
La zia Rosina l'aveva lasciata fare, divertendosi.
Ma quando aveva finito, aveva emesso la sua sentenza.
«La prognosi è ancora riservata.»
Dulù aveva tentato nuove obiezioni.
«Adesso tocca a me parlare» l'aveva messa a tacere la zia Rosina.
III
«Chi c'era su quell'aereo?», aveva chiesto la zia Rosina.
Dulù l'aveva guardata senza capire cosa volesse intendere.
C'era, o no?, il suo fidanzato, come ormai la telefonista lo chiamava, Ofelio Mencioni?
Quindi, qualunque fosse la verità, non bisognava dimenticare che c'era una precisa responsabilità in ciò che era accaduto, dalla quale non si poteva prescindere.
«In ogni caso», aveva proseguito la donna.
In ogni caso, anche tralasciando quell'aspetto dei fatti, benché fosse tutt'altro che un particolare, si rendeva conto Dulù contro chi si sarebbe messa? Aveva un'idea del calibro dei suoi avversari?
«La verità la fa chi comanda» era uscita a dire.
E lì, di pezzi grossi, a partire dal podestà di Bellano per finire, passando per Como, a quel tal ingegnere romano, di pezzi grossi ne avrebbe incontrati parecchi.
«Gente che non parla a vanvera, anche quando racconta balle.»
Quindi era meglio riflettere bene sulla strategia da adottare.
Un silenzio pesante era caduto nella cucina della zia Rosina.
Dulù non aveva più alcuna espressione melodrammatica in viso. Le parole dell'anziana l'avevano turbata e convinta.
«Voi cosa fareste?» aveva chiesto la telefonista rompendo il silenzio.
«Per intanto riserverei ancora per un po' la prognosi» era stata la definitiva risposta della zia.
121
«Può capitare» disse martedì il professor Guidetti, durante il giro serale dei ricoverati.
Ma con un tono di voce incrinato dal dubbio. Quello di aver forse esagerato il giorno prima col sedativo fatto somministrare a Ofelio Mencioni, provocando così un repentino ritorno del giovanotto in quella specie di letargia, o stato di shock che fosse, dal quale sembrava essersi risvegliato tanto bene il giorno prima.
Diede quindi disposizioni affinché le misure di cautela abolite venissero ripristinate.
«La prognosi resta ancora riservata» disse infine, e se ne andò lasciandosi alle spalle una soddisfattissima Dulù.
122
Lunedì non s'era fatto vedere.
Martedì nemmeno.
Mercoledì.
Ormai erano quasi le undici.
Se il podestà non fosse comparso nemmeno quella mattina, ragionò il segretario Carré, l'avrebbe fatto avvisare che in municipio c'era bisogno di lui.
Il presidente dell'aeroclub Umberto I di Monza s'era fatto vivo non più tardi di un'ora prima chiedendo con urgenza un abboccamento col responsabile locale del progetto SISTAR.
«Ci sono parecchie cose da discutere» aveva detto.
E i contratti parlavano chiaro, aveva aggiunto.
Il Carré s'era astenuto dal fare commenti.
Non aveva più munizioni da sparare, s'era sentito solo, abbandonato dal comando, circondato dal nemico.
Aveva alzato bandiera bianca.
«Riferirò al signor podestà» aveva detto.
«Quanto prima» l'aveva pungolato l'altro.
«Oggi stesso» aveva assicurato lui.
Poi, tanto per tirare le undici e per uso strettamente personale, aveva compilato la lista della spesa.
7.500 lire per l'adesione al progetto.
300 lire mensili, per un periodo di mesi sei, all'assistente ai voli Gerolamo Vitali, totale 1.800 lire.
250 lire per il soggiorno del pilota al Cavallino.
500 lire per il trasporto tramite ferrovia dell'idrovolante.
70 lire per l'affitto della darsena Gavazzi.
40 lire per il rifornimento di benzina.
3 lire e 50 centesimi la telefonata del pilota a Roma.
10.163 lire e cinquanta centesimi, due terzi secchi dei fondi di riserva, se n'erano già andati.
Ma in più, inoltre e soprattutto, c'era quell'affare che stava da ormai più di tre giorni sott'acqua.
Quanto valeva un coso così?
Quanto sarebbe costato recuperarlo?
E le spese ospedaliere del contuso?
Chi avrebbe pagato? si chiese il segretario Carré.
Lui, la risposta la conosceva.
I contratti parlavano chiaro. Gli venne un brivido.
123
Entrò negli uffici comunali che erano da poco passate le undici, anche lui scosso da un brivido.
«Frescolino eh?» disse ad alta voce il podestà.
La primavera si stava facendo desiderare.
Il segretario lo sentì ma non volle credere alle sue orecchie.
Si preoccupava della primavera in ritardo?
Si alzò, ben deciso ad avvisarlo immediatamente di quello che gli si stava preparando, altro che primavera.
Quasi si scontrò con lui, mentre questi stava entrando nel suo ufficio.
«Segretario buongiorno. Potete venire un momento nel mio studio?» chiese il Meccia.
«Ben volentieri» fu la risposta.
124
Erano le sei di sera.
Renata era appena rientrata dall'ospedale e si mise immediatamente ad apparecchiare la tavola.
«No» disse Evangelia a un certo punto.
Renata la guardò senza parlare.
Evangelia voleva dire che era inutile apparecchiare anche per Agostino. Quella sera, le aveva detto prima di uscire, era inutile aspettarlo per cena: aveva in programma una giunta straordinaria che prometteva di andare per le lunghe. Se avesse avuto fame, si sarebbe arrangiato per conto suo, una volta rientrato. E lei aveva deciso di non rinviare oltre quella stessa sera il momento per affrontare finalmente la questione, l'altra questione!, della quale il marito sembrava essersi dimenticato.
Renata aveva ancora in mano il piatto che stava per mettere al posto di suo padre, a capotavola.
Guardò sua madre.
Poi il posto vuoto del genitore. L'immagine del Vittorio, seduto a capotavola ma in una casa tutta loro, le si parò davanti. Lo guardò bene in viso, aveva l'espressione corrucciata, insofferente, quella che gli aveva notato negli ultimi giorni durante i brevi minuti in cui s'erano incrociati a casa della zia Rosina.
Cogliere l'occasione, sussurrò la voce della zia dentro di lei.
Il momento era giunto, l'occasione era lì.
125
«Devo andare dalla zia Rosina» comunicò Renata al termine della cena.
«Come mai?» chiese la madre.
Non c'era già stata durante il pomeriggio?
«Certo.»
Ma siccome per strada aveva trovato un'amica che le aveva fatto perdere un sacco di tempo in chiacchiere e altro ne aveva perduto per andare in ospedale, in obbedienza agli ordini del padre, aveva finito per fare dalla zia una toccata e fuga, anziché fermarsi un po' come era solita fare.
«Sono salita e scesa» spiegò Renata. «Giusto un saluto. Non le ho dato nemmeno il tempo di dirmi se aveva bisogno di qualcosa. Non gliel'ho nemmeno chiesto!»
Bisognava che ponesse riparo a quella sventatezza. Adesso, subito.
«Sennò non riesco a dormire tranquilla.»
«Va bene» disse Evangelia. «Fai pure. Penserò io a sparecchiare.»
«Grazie mamma» rispose Renata. «Vado solo un momento in camera mia e poi esco.»
Rimasta sola, mentre la figlia era ancora in camera, Evangelia sorrise.
Benedetta ragazza, pensò. Era proprio affezionata a quella cara Rosina.
Già, mormorò Evangelia socchiudendo gli occhi e facendosi improvvisamente seria: Renata aveva cuore, era generosa, esuberante. Ma era ancora giovane, troppo giovane per intuire i pericoli della vita, i tranelli, gli inganni.
Sospirò.
Giovane, generosa, esuberante...
E imprevedibile, aggiunse mentre la guardò uscire di casa dopo averla salutata.
Renata s'era messa in testa il basco.
Evangelia sorrise di nuovo: glielo aveva regalato lei l'inverno scorso. E non c'era mai, mai!, stato verso di farglielo indossare, eppure le stava così bene.
E adesso, in base a chissà quale fantasia o pensiero, la ragazza se l'era calcato sulla testa spontaneamente.
Benedetta figliola...
126
Dulù aveva fatto le cose per bene, seguito gli ordini alla lettera. La prognosi doveva continuare a essere riservata per Ofelio Mencioni ma anche per l'Ivano Zecchinetti che serviva loro sempre cotto al punto giusto sino al compimento del piano. Allo scopo era necessario rifornirlo del suo carburante preferito, il vino della Lena.
Quando Renata sbucò nell'astanteria dell'ospedale, l'Ivano se ne stava dietro il bancone della portineria con il capo appoggiato alle braccia incrociate: gli occhi, dietro le palpebre cadenti, sembravano quelli di un cane da caccia in pensione.
Renata si avvicinò.
«Lo so, lo so», biascicò quello, «ordine del podestà.»
A maggior garanzia, Renata estrasse da sotto lo spolverino che indossava una nuova misura di vino che l'Ivano, rigenerato alla vista, arpionò e fece sparire in un battibaleno.
«Serata fortunata» disse fra sé.
Con quella che s'era portato da casa, per consolarsi durante le ore noiose del turno di notte, quella era la terza bottiglia. |
127
Quando, la mattina successiva, suor Eteria, dopo aver assistito alla messa nella cappelletta dell'ospedale, gli portò una tazza di caffè, il Zecchinetti stava già cercando di far quadrare i conti.
Nascoste, sotto il bancone, che se il professore se ne fosse accorto l'avrebbe licenziato sui due piedi, c'erano tre bottiglie di vino. Vuote, naturalmente, ma questo non aveva importanza.
Una era quella che s'era portato lui da casa.
La seconda era quella che gli aveva portato la telefonista.
La terza era quella che gli aveva portato la figlia del podestà.
Che erano, poi, le uniche due persone che erano entrate in ospedale la sera prima. E che lui aveva visto andar via a braccetto, saran state le sette e mezza, otto meno un quarto.
Solo che, ed era lì che non gli quadrava il conto, la figlia del podestà gli era ricomparsa sotto gli occhi: saran state le otto, otto e un quarto, quando l'aveva vista uscire.
A furia di pensarci, l'Ivano lasciò freddare il caffè. Forse, ragionò, la sera prima s'era lasciato andare un po' troppo.
Ma qualcosa... c'era qualcosa che...
Bevve un sorso di tiepida brodaglia.
Va bene, tornò a ragionare, aveva bevuto un po' più del solito. Mica era colpa sua se non riusciva a resistere. Il vino gli piaceva ma se non ce l'aveva, poteva tranquillamente farne a meno. Però, se glielo mettevano sotto il naso... E comunque l'aveva sempre tenuto bene, non era mica tanto facile ubriacarlo. Tant'è che, se fosse stato veramente ubriaco, non avrebbe certamente notato quel particolare, il baschetto.
La figlia del podestà ce l'aveva in testa quando era entrata.
Ce l'aveva in testa quando era uscita a braccetto con la telefonista.
Non ce l'aveva più quando invece era uscita da sola, la seconda volta.
C'era l'errore?
E se c'era, dov'era?
L'Ivano buttò giù del tutto il caffè ormai freddo.
Chi se ne frega, mormorò nel momento in cui la figura imponente del professor Guidetti gli si stava parando davanti.
128
Alle otto e un quarto c'era un treno per Milano.
Ofelio Mencioni lo sapeva bene.
E alle undici e venti ce n'era uno che dalla stazione Centrale partiva per Parigi, via Domodossola.
Parigi? era sbottato il giovanotto.
Perché?
Dulù gli aveva ripetuto per sommi capi la lezione della zia Rosina, Renata le aveva dato man forte: in Italia non poteva restare. Sarebbe stato un bersaglio troppo facile, non aveva santi in paradiso mentre gli altri ne avevano sin troppi.
Non restava che arrendersi, quindi, e pagare per gli altri o fuggire all'estero.
Su quale estero, la zia Rosina non aveva messo becco.
Parigi l'aveva scelta lei, Dulù.
Anzi, Paris.
«Ci andremo assieme» aveva sospirato, guardando Ofelio con occhi di fuoco.
«Ma adesso», aveva subito aggiunto, «cambiati.»
«Cambiarsi?», aveva chiesto Ofelio.
Ma certo, gli aveva risposto Renata.
Voleva forse correre il rischio di essere riconosciuto da qualcuno e fermato sul più bello?
Intanto Renata s'era tolta lo spolverino che indossava, sotto il quale aveva occultato una gonna un golfino e un paio di scarpe sottratte al guardaroba di sua madre che, in quanto a piedi, era decisamente ben dotata.
«Ecco qua» aveva detto.
«Ecco qua?», aveva ripetuto Ofelio.
Dulù era intervenuta.
«Poche storie» aveva detto e in quell'istante Renata era stata certa che il giovanotto non le sarebbe mai più sfuggito.
Entrambe, poi, l'avevano guardato con occhio critico giusto per cogliere eventuali anomalie nel travestimento.
Col buio, aveva commentato Renata, quelle gambe storte potevano anche passare inosservate. Ma la pettinatura no. Non aveva nulla di femminile.
«E allora?», aveva chiesto Dulù.
Nessun problema, aveva risposto Renata, che s'era poi tolta il basco per calcarlo sulla testa di Ofelio.
Ormai bisognava solo passare all'azione.
Nella camera d'ospedale buia e silenziosa i tre s'erano guardati senza parlare.
«Non so come ringraziarvi» aveva detto Dulù. «Se potessi ripagarvi dell'aiuto che ci avete dato...»
«Lo state facendo» aveva risposto Renata.
«Ma come...» aveva cercato di indagare la telefonista.
«Su, su» l'aveva interrotta Renata. «Il tempo corre. È ora di andare.»
Ofelio Mencioni aveva scosso la testa.
«Speriamo che vada tutto bene» aveva detto.
Temeva, tra sé, il capostazione maledetto.
Imbecille, invece, aveva mormorato al suo indirizzo mezz'ora più tardi quando, con fare da uomo di mondo, aveva augurato buon viaggio alle due belle signore.
129
Renata udì il fischio del treno quando era a metà strada tra l'ospedale e casa sua.
A metà strada, rifletté soddisfatta, e a metà dell'opera. Le si allargò il respiro. Ma, subito, si richiamò all'ordine. Non era il momento per concedersi cali di tensione, il più doveva ancora venire. Ma già il fatto che Dulù e il suo fidanzato fossero al sicuro, le dava una mezza certezza che tutto, con un po' di fortuna, sarebbe filato liscio.
Rivolse gli occhi al cielo che luccicava di stelle: lì, in mezzo a quei miliardi di puntini luminosi, c'era anche la loro di stella, la sua e quella di Vittorio.
Al pensiero del giovane, Renata ebbe la tentazione di non fare immediatamente ritorno a casa. A quell'ora il giovanotto era di sicuro al lavoro: poteva fargli una sorpresa, passare un volo da lui e dargli un bacio caldo come una delle michette che sfornava.
Sarebbe stato bello, ma...
Meglio di no. Non bisognava correre rischi di nessun genere. Nemmeno il Vittorio doveva sapere cosa stava bollendo in pentola.
Mandò un bacio sonoro verso il cielo e a quella stella e tirò dritta quando passò a filo da via Porta, dove c'era il forno, e dalla quale scendeva già un caldo effluvio di pane.
Sua madre era ancora in piedi, notò Renata vedendo la finestra della sala illuminata.
In piedi, per modo di dire.
Uscita Renata, Evangelia, rimasticando il discorso che avrebbe fatto, a qualunque ora della notte, a suo marito, s'era accomodata nella poltrona del suocero e, tempo mezz'ora, immersa nel profondo silenzio della casa s'era addormentata.
«Mamma!» la svegliò Renata.
Evangelia spalancò gli occhi.
«E la Rosina?» chiese.
«Bene, bene» la rassicurò la ragazza.
Ma non era meglio, osservò poi, andare a letto anziché stare lì in poltrona?
Evangelia si dichiarò d'accordo. Non poteva certo rivelare alla ragazza le sue intenzioni.
Si avviarono entrambe verso le rispettive camere.
Ma, passata mezz'ora, Evangelia, che non s'era svestita, tornò a uscire dalla sua e, camminando a piedi nudi, le scarpe in mano e senza nemmeno accendere la luce, riguadagnò la poltrona.
130
La giunta finì tardi, oltre la mezzanotte.
Quando Agostino Meccia si ritrovò, finalmente solo, in strada, aveva fame e il profumo di pane appena sfornato che lo avvolse, fatti pochi passi verso casa, non fece che acuirla.
Bon, si disse: due uova era capace anche lui di cucinarsele.
Ma non aveva previsto l'imboscata di sua moglie.
La finestra della sala, debolmente illuminata, lo mise in allarme, era l'unica luce su tutto il lungolago. Rallentò istintivamente il passo e, giunto all'altezza di casa sua, schiacciato contro il muro, sbirciò dentro.
Evangelia era lì, seduta sulla poltrona, completamente vestita, il capo reclinato su una spalla. Dormiva che sembrava morta.
Che fare?
Era chiaro che sua moglie aveva avuto l'intenzione di attenderne il ritorno.
Perché?
Chiaro anche quello. C'era l'altra faccenda che, giorno dopo giorno, stante gli avvenimenti, lui aveva rinviato.
Il podestà tirò su col naso. Una traccia dell'odore di pane fresco che aveva inalato poco prima impregnava ancora le sue mucose.
Non aveva poi questo gran appetito, si disse.
Aprì senza far rumore la porta d'ingresso e, appena dentro, richiuse e si tolse le scarpe. Senza accendere la luce filò in camera da letto. Aveva già sulle spalle una giunta lunga e laboriosa, non aveva nessuna voglia di una nuova discussione. E poi, in fin dei conti, non gli sembrava che poche ore di attesa avrebbero cambiato lo stato delle cose.
Buonanotte, mormorò come se Evangelia fosse accanto a lui, dopodiché piombò nel sonno.
131
Il ragionier Erminio Giovannini, assessore con delega al bilancio ed economo dell'ospedale Umberto I, amava andare a letto presto.
Quando tornò a casa era rintronato. Oltre alle ore di sonno perdute, il cui pensiero era già di per sé sufficiente a garantirgli un riposo pessimo, aveva in testa, come fosse un ritornello, quel nome, Ofelio Mencioni, ripetuto sino alla nausea dal podestà durante la riunione della giunta indetta per mettere a punto la linea di condotta dell'amministrazione comunale.
Il ragioniere, spesso tentato di cedere al richiamo del sonno, aveva seguito con fatica le parole del podestà, e non poteva certo affermare di avere ben chiari in testa tutti i perché e i percome: in ogni caso aveva votato, come gli altri, a favore della proposta di denunciare il sedicente pilota Ofelio Mencioni quale responsabile unico, penale e civile, di quanto era accaduto.
Lui, come gli altri, non avevano avuto né la voglia né, tanto meno, gli argomenti per mettere anche minimamente in dubbio ciò che il Meccia aveva loro raccontato.
Quando aveva creduto che la giunta fosse finita, il Giovannini aveva dovuto invece sorbirsi l'intervento del segretario Antonino Carré che aveva chiesto la parola per elencare una lista di quelle che aveva definito «spese vive»: soldi che erano già stati impegnati con delibere di giunta precedenti e il cui ammontare era pari a due terzi dei fondi di riserva.
Ma, per fortuna, il podestà s'era dimostrato clemente nei confronti di tutti. Seccamente aveva risposto al segretario che non credeva fosse il caso di appesantire ulteriormente la serata e aveva chiesto di rinviare l'argomento a una giunta successiva. Tutti erano stati d'accordo e finalmente avevano potuto fare ritorno a casa.
Era stato nel silenzio delle contrade che al ragioniere quel nome aveva cominciato a ronzare nelle orecchie e non c'era stato verso di strapparlo da lì. L'aveva anche sognato ed era cosa inspiegabile come si potesse sognare un nome. Tuttavia era capitato così e s'era svegliato di malumore e di malumore s'era recato al lavoro presso l'ospedale.
Ma non aveva fatto nemmeno due passi nell'astanteria del nosocomio che se l'era trovato tra i piedi anche lì.
Ofelio Mencioni, Ofelio Mencioni.
Quel nome correva come una parola d'ordine sulle bocche di suore, infermiere, ricoverati e dottori.
Ofelio Mencioni, svanito nel nulla.
132
Nel nulla, ribadì il ragionier Giovannini al cospetto del podestà.
Era sera ormai, le cinque del pomeriggio.
Nel salotto del podestà la lunga lampada a stelo emanava una luce vaporosa dalla quale il ragioniere si sentiva attratto: ma doveva relazionare, secondo quanto la mattina, diffusasi la notizia della fuga dall'ospedale di Ofelio Mencioni, il Meccia gli aveva chiesto.
Era stata una giornata a dir poco convulsa quella appena trascorsa nell'ospedale Umberto I.
Il professor Guidetti dapprima aveva sguinzagliato infermieri e portantini, affinché battessero l'intero edificio, frugassero in ogni angolo nell'ipotesi che il Mencioni, risvegliatosi dal sopore ma non ancora in pieno possesso delle proprie facoltà, disorientato nel tempo e nello spazio, si fosse perduto da qualche parte. Non avevano cavato un ragno dal buco. Quando aveva preso corpo l'ipotesi che il ricoverato non fosse più all'interno di quelle mura ma altrove, e chissà dove!, il professore aveva avviato un'indagine interna nel tentativo di scoprire se qualcuno avesse visto o sentito qualcosa di utile alla ricostruzione della dinamica dell'incredibile sparizione.
Il principale indiziato era stato l'Ivano Zecchinetti, il quale aveva rilasciato dichiarazioni fantasiose e contrastanti soprattutto quando gli era stato ordinato di riferire puntualmente circa movimenti di eventuali visitatori o degenti che fossero transitati nell'atrio.
Lo Zecchinetti, a quel punto, era sembrato confondersi e aveva raccontato, cosa da prendere naturalmente con beneficio d'inventario, di aver visto solo la telefonista Dulù uscire al braccio della figlia del signor podestà, saran state le sette e mezza, otto meno un quarto.
«Mia figlia?» interloquì il podestà, interrompendo il ragioniere.
Sì, confermò il Giovannini. Ma era dichiarazione da prendersi con le molle, invalidata da un'altra fatta sempre dallo Zecchinetti che aveva affermato di aver visto ancora la figlia del signor podestà uscire dall'ospedale, saran state le otto, otto e un quarto. Insomma, l'aveva vista entrare una volta sola e l'aveva vista uscire due.
A rendere vieppiù inattendibili le dichiarazioni del custode c'era anche una storia di baschi che, secondo lui, la ragazza indossava quando era entrata in ospedale e non più quando ne era uscita. Ma, soprattutto, a bollare come inattendibile tutto il racconto c'era stata la scoperta, effettuata da suor Eteria, di numero tre bottiglie di vino vuote che il custode aveva tentato di occultare nel suo gabbiotto. Scoperta che aveva determinato il licenziamento in tronco dello stesso Zecchinetti, deciso dal professor Guidetti.
Un profondo silenzio calò nel salotto.
Il ragionier Giovannini aveva ancora una cosa da dire quando dal corridoio giunse la voce di Renata.
«Faccio un salto dalla zia Rosina» disse la ragazza, rivolta a sua madre.
«Salutamela» disse Evangelia.
E poi, col candore dell'innocenza:
«Ma, Renata» proruppe, in tono di gioioso rimprovero.
Benedetta ragazza, le era già passata la mania del basco, che adesso usciva senza?
«Stavi così bene ieri sera.»
Il podestà sobbalzò.
Udì il rumore della porta che si chiudeva, vide la sagoma di Renata passare davanti alla finestra che dava sul lungolago.
Il ragionier Giovannini notò un'ombra calargli sul viso: una smorfia, come se avesse mal di pancia.
Decise quindi che non era poi così urgente comunicargli che, in qualità di economo dell'ospedale Umberto I, avrebbe dovuto spedire le spese di degenza di Ofelio Mencioni all'amministrazione comunale.
133
Baschi e mutande.
Sulle mutande stava glissando da un po', rifletté il podestà.
Sul basco, però, non poteva fare altrettanto.
Forse era arrivata l'occasione per un confronto a quattr'occhi con sua figlia.
Le parole del ragionier Giovannini.
Le dichiarazioni dello Zecchinetti, che potevano anche non essere così strampalate.
L'ignoranza: la beata ignoranza dei fatti da parte di sua moglie Evangelia.
Tutto, ragionò il Meccia, sì, proprio tutto contribuiva a gettare un'ombra di mistero sul comportamento di Renata.
Si alzò dalla poltrona, passeggiò su e giù per la sala, buttò l'occhio sul lungolago, buio e deserto.
La ragazza andava affrontata.
Ne poteva venir fuori un bel putiferio, col caratterino che si trovava...
Agostino Meccia scrollò le spalle: era tutto da vedere chi ne avrebbe fatto le spese.
Però, prima di decidere, volle fare un'ultima verifica.
Si trasferì in cucina, dove Evangelia armeggiava ai fornelli.
La donna, trascorsa la maggior parte della notte sulla poltrona del suocero, aveva passato l'intera giornata rincorrendo la determinazione della sera prima che, latitante alla luce del giorno, stava ritornando man mano che la sera avanzava. Stava solo cercando di capire se fosse stato meglio affrontare suo marito prima o dopo cena, cioè a stomaco vuoto o pieno, quando lui entrò in cucina.
«Di' un po'», chiese Agostino, spiccio, «per caso anche ieri Renata è andata dalla zia Rosina?»
La donna stava affettando porri per fare una frittata.
Entrava lui in argomento?
Molto bene!
«Certo», rispose con decisione ma senza guardarlo, «come tutti i giorni.»
«E ti ricordi a che ora ci è andata?»
Evangelia arrestò il movimento del coltello.
Sollevò gli occhi verso il marito.
«Ci è tornata ieri sera, dopo cena» rispose. «Durante il pomeriggio infatti non aveva avuto molto tempo da dedicarle perché...»
«Va bene, va bene» troncò Agostino riprendendo la via dello studio e lasciando la moglie a bocca aperta.
Alea iacta est, mormorò il podestà, e si lasciò cadere nella poltrona di suo padre.
134
«Posso buttare la frittata?» chiese Evangelia.
Aveva deciso che sarebbe stato meglio affrontare dopo il marito, a stomaco pieno.
«No» rispose Agostino. «Prima devo parlare con Renata.»
«Con me?» fece la ragazza.
Un cenno del capo, suo padre confermò.
«E non puoi farlo mentre ceniamo?» osservò Evangelia.
Nuovo no, non poteva.
In sala.
E chiuse la porta.
Forse, ragionò Evangelia, era venuto il momento.
Chissà!, pensò, e sedette ad attendere gli eventi.
Renata inspirò a fondo.
L'occasione.
Non le aveva detto altro, poco prima, la zia Rosina: l'occasione. Coglierla quando si fosse presentata, o crearla. Il momento era arrivato, il ferro era caldo, quei due già lontani, ormai quasi imprendibili.
Suo padre, invece, adesso vulnerabile.
L'occasione era lì, Renata lo avvertì con violenza.
Il genitore le aveva appena chiesto dove fosse stata di bello la sera prima, dopo cena.
Non l'aveva sentito.
«Eh?» fece.
Il podestà ripeté.
Renata fu lì per dire la verità, si frenò in tempo. ,
Che si scoprisse lui per primo.
«Dalla zia Rosina» mentì sorridendo. ;
Agostino sospirò.
«Dalla zia Rosina...» solfeggiò.
«E l'hai dimenticato lì, il baschetto?» chiese subito dopo.
Ah!, pensò Renata.
Qualcosa, allora, sapeva. E stava tentando di giocare con lei, come il gatto col topo.
Ma il gatto era lei. E per di più innamorato.
«Può darsi» sospirò.
«Può darsi» ripeté suo padre.
Può darsi!
Sapeva lei che proprio quel giorno un pover'uomo poteva aver perso il posto di lavoro perché nessuno aveva voluto credere a ciò che aveva affermato: cioè di averla vista la sera prima entrare in ospedale con tanto di baschetto e averla vista uscire senza?
Renata fece il viso dell'innocenza.
E forse, riattaccò il podestà, non sapeva nemmeno del caso grave e strano che s'era verificato in ospedale: la fuga, perché di fuga vera e propria si trattava, di quel sedicente pilota che tanti danni aveva procurato all'amministrazione comunale la quale, offesa, lo aspettava al varco della guarigione per fargli pagare il fio delle sue malefatte.
«Sull'entità delle quali non c'è alcun dubbio» disse il podestà. «E se anche ce ne fossero, basterebbe questa fuga per dimostrare un'implicita ammissione di colpevole...»
Adesso!, parve a Renata di udire.
Alle sue spalle.
La voce della zia Rosina.
Limpida, squillante, nessuna traccia degli ottantadue anni.
Adesso, mentre le due zeta di colpevolezza ronzavano ancora nell'aria.
«Per chi non sa la verità, papà» disse Renata.
Evangelia, non percependo più il brontolio della voce di suo marito, pensò che i due avessero finito.
Si avvicinò alla porta della sala.
«Posso buttare la frittata?»
Toccò a Renata risponderle di no.
Toccava a lei parlare adesso.
«La verità, papà» disse.
Quella che era stata abilmente manipolata affinché, alla resa dei conti, uno solo, il più fesso, avesse a pagare il saldo.
Ma di fessi, senza offesa, in quella storia ce n'era più d'uno.
«Ti ricordi, papà, il bottone, la C, la O?» chiese Renata.
Non c'era stata un po' di leggerezza nel fidarsi ciecamente?
Non c'era stata fin troppa presunzione nel non dare ascolto a nessuno?
«E se la verità del sedicente pilota fosse venuta a galla?», chiese Renata.
Se fosse venuta a galla, proseguì, con quello lontano, irreperibile, svanito: non si sarebbe dovuto trovare un altro capro espiatorio?
Il più debole, dopo il Mencioni, della catena.
«E chi sarebbe?» mormorò il podestà.
«Saresti tu, papà» dichiarò Renata.
«Ma tu come hai fatto...»
«A sapere?» chiese Renata. «Lo so e basta. Lo so. E potrei tenerlo per me.»
Il podestà sgranò gli occhi.
«Potresti?» sillabò. «Cosa significa?»
Renata sorrise.
«Che il mio silenzio ha un prezzo.»
«Un prezzo?»
Evangelia, senza più chiedere a nessuno, aveva buttato le uova.
Adesso la frittata era fatta.
Lo gridò. Chi voleva cenare che andasse in cucina.
EPILOGO
I
Le nozze tra la figlia del podestà e il fornaio Vittorio Barberi vennero celebrate in una solare domenica del mese di giugno 1931.
A dire la verità, una volta strappato il consenso a suo padre, Renata non avrebbe avuto niente in contrario nell'aspettare ancora qualche mese: ormai si sentiva tranquilla.
Era stata la zia Rosina a convincerla che era inutile temporeggiare.
«Se sei sicura che il Vittorio è l'uomo della tua vita», aveva detto, «sposalo e non pensarci più. Non sono due o tre mesi in più o in meno che faranno la differenza. Piuttosto tuo padre: adesso l'hai domato ma in futuro non si sa mai. Correre rischi non conviene.»
Renata aveva accettato quel consiglio così come ne aveva accettati tanti altri ed era stato in occasione di quel colloquio che una domanda le era salita alla punta della lingua. Non l'aveva fatta però, certa, ma non avrebbe saputo dire perché, che la zia Rosina non le avrebbe risposto.
Fu, naturalmente, un matrimonio che richiamò molto popolo, oltre al centinaio di invitati.
Nella folla di curiosi che si assieparono sul sagrato della chiesa per vedere gli sposi si mischiarono anche il messo Sbercele e Gerolamo Vitali, tribolato perché il suo incarico avventizio volgeva ormai al termine e lui paventava il rischio di restare nuovamente senza lavoro. Se ne lamentava quotidianamente col cognato. Il quale, quotidianamente, gli ripeteva che non aveva motivo di preoccuparsi: da che lui era entrato alle dipendenze dell'amministrazione comunale, non aveva mai visto un avventizio restare col culo per terra, a meno che non l'avesse voluto lui. Che se ne stesse tranquillo, avrebbe fatto il suo stesso iter: da avventizio a stabile, all'inizio magari come spazzino o bidello e poi magari messo comunale, quando anche per lui fosse scattata una promozione.
Il podestà si era lungamente preparato a sostenere la parte: avrebbe dovuto passare tutta una giornata gomito a gomito con la sua antica morosa e con l'altrettanto antico timoniere che gliel'aveva soffiata.
Sarebbe stato con lei all'altare per la seconda volta: era quel pensiero a tormentarlo.
A lenire l'ansia dell'attesa era arrivata, verso la fine di maggio, la sentenza del tribunale di Lecco a seguito della denuncia sporta dall'amministrazione comunale nei confronti di Ofelio Mencioni: il pilota era stato dichiarato colpevole di frode, truffa, istigazione alla violenza, millantato credito e quant'altro; le testimonianze dei due Mazzagrossa, padre e figlio, erano state fondamentali così come quelle di alcuni testimoni ben imboccati che avevano corroborato la loro versione dei fatti.
Il Mencioni ne era uscito con le ossa rotte: dieci anni di galera e il pagamento dei danni, idrovolante compreso. Ma era contumace.
«E chi se ne frega!» aveva commentato il podestà Meccia.
L'importante era che fosse colpevole e dichiarato tale da una corte. Così, con nell'animo quella sentenza che era stata un toccasana per la sua prosopopea, aveva affrontato a cuor leggero anche il matrimonio.
Che all'atto pratico si rivelò meno imbarazzante del previsto: lui stesso, si rese conto, faceva ormai fatica ad avere ricordi precisi di ciò che era accaduto tanti anni prima, in quella lontana domenica del marzo 1905.
Ma soprattutto una curiosità recente continuò a deviare i suoi pensieri: la zia Rosina.
Che cazzo, disse tra sé, incurante del fatto di essere in chiesa, vedendola al banco dei testimoni poiché così aveva voluto sua figlia.
Come cazzo aveva fatto a riprendersi così in fretta, dopo che per settimane e settimane l'aveva sentita compatire in casa sia da Evangelia sia da Renata?
Come diavolo aveva fatto a risorgere dal baratro in cui sembrava essere finita?
Un miracolo, gli aveva detto Evangelia, cose da non credere.
Ma ai miracoli, lui, ci credeva sì e ci credeva no.
Quando il prete fece il suo ingresso sull'altare, il podestà cassò ogni pensiero.
Renata, al suo fianco, era pallida per l'emozione.
«Sta' tranquilla» mormorò la zia Rosina.
Renata le restituì un sorriso.
Poi si chinò verso di lei.
«Non ti ho mai chiesto perché mio padre ce l'avesse così tanto col Vittorio» sussurrò all'orecchio della vecchina.
La zia Rosina sorrise.
«Pensa a sposarti adesso» rispose. «Te lo racconto poi. Sarà il mio regalo di nozze.»
II
L'antivigilia di Natale di quell'anno accadde un fatto eccezionale: la zia Rosina ricevette la prima lettera della sua lunga vita.
Tanto eccezionale che la stessa Rosina dubitò che la missiva fosse per lei e controllò assieme al postino l'esattezza dell'indirizzo.
Era giusto, senza possibilità di equivoci o errori.
Non restava, a quel punto, che leggerla: cosa che zia Rosina fece, seduta al tavolo di cucina, riflettendo, dopo aver dato una scorsa alle prime righe, che quella, più che una lettera, era un vero e proprio regalo di Natale.
«Cara signora Rosina», era scritto, «mi rivolgo a voi perché è a voi che penso quotidianamente dalla sera in cui io e il mio fidanzato abbiamo lasciato l'Italia.
L'Italia! So, sappiamo benissimo che non ci potremo più far ritorno, a meno di non voler pagare il fio di quelle false accuse. Ma devo confessare che non ci manca più di tanto. Anche la Francia, Parigi, non è male!
Devo ancora ringraziarvi per i preziosi consigli. È grazie a voi se adesso possiamo vivere tranquillamente e senza ansie, guardando serenamente al futuro. Sono, anzi, felice di comunicarvi che di qui a qualche mese io e Ofelio regolarizzeremo la nostra posizione, convolando a giuste nozze. Stiamo bene, mia cara signora, e non ci manca nulla: Ofelio ha trovato impiego come elettricista, io invece lavoro in un ortomercato. Ma, e ci tengo particolarmente a dirvelo, sono anche stata scritturata in una piccola compagnia Filodrammatica. Per intanto faccio piccole parti ma quando vedo il mio nome d'arte, Dulù l'Amour, carino, no?, stampato sui manifesti, qualcosa mi dice che il futuro mi riserverà qualche sorpresa.
E comunque, se non fosse così, non avrò di che lamentarmi. Amo il mio fidanzato e futuro marito, e lui ama me.
È l'amore che fa la differenza.
O no?
Un caro abbraccio, Dulù.
P.S.
Vorrei chiedervi di salutare tanto la cara Renata e di augurarle il massimo della felicità, la stessa di cui io sto godendo.»
Zia Rosina fece di più, non si limitò a salutare la figlia del podestà come Dulù le aveva chiesto.
Le passò la lettera e gliela fece leggere.
Renata s'era chiesta spesso che fine avessero fatto quei due.
Adesso lo sapeva.
Sapeva tutto, ormai.
«Bene» disse, restituendo la lettera alla zia.
Voleva significare che tutto era finito bene, nessuno s'era fatto male in quella vicenda.
Nemmeno l'Ivano Zecchinetti che, per diretto intervento del podestà, era stato reintegrato nel suo ruolo.