L'applicato di ragioneria, Vitali.

Il messo, Sbercele.

Il rumore della porta dello studio del podestà che si apriva, seguito da quello di passi, interruppe il silenzio. Passi strascicati. Quelli del Vitali che per uscire dal municipio e andare finalmente al lavoro doveva per forza passare davanti agli impiegati e al segretario.

Passò il Vitali.

Testa bassa.

Mogio.

Senza salutare.

A guardarlo di schiena, come stava facendo il segretario Carré, sembrava anche ingobbito.

«Va be'» disse a mezza voce: peccato non aver guardato in quella busta.

Adesso toccava attendere l'uscita del podestà.

Che, in quanto tale, non potevano certo star lì a guardare come avevano fatto con il Vitali, manco fosse una bestia rara. 

Con un cenno del capo agli impiegati, il Carré fece intendere loro che sarebbe stata buona cosa abbassare gli occhi alla scrivania e aspettare gli eventi.

Come quando, al fronte, arrivavano i colpi dell'artiglieria nemica e lui faceva buttare a terra i suoi soldati. 

 

 

26

 

 

 

A qualcuno doveva dirlo.

Voleva.

Era, quella che da un po' di mesi aveva dentro, nella testa e nel cuore, ma anche nello stomaco, e più giù, una gioia che andava condivisa.

Solo così ne avrebbe gustato il suo pieno sapore.

Ma a chi?

Renata aveva subito scartato le amiche. Da quando s'era innamorata del figlio di Jacopo Barberi e Gerbera Neri, le erano sembrate quattro ochette con poco cervello e la lingua troppo lunga.

A sua madre?

Ne avrebbe avuto, in cambio, sospiri e occhiate, premurose domande e avveduti consigli.

A suo padre?

Neanche a pensarci.

Si sarebbe messo a fare il podestà anche con gli affari suoi, soppesando e valutando, con quel fare da mente superiore che a lei faceva venir da ridere.

A suo tempo, quando lei fosse stata sicura al cento per cento di quel sentimento che per adesso era bello forte e selvatico, anche lui avrebbe saputo.

Ma a qualcuno bisognava che lo dicesse per godere nel sentire il suono delle sue stesse parole che spiegavano il perché e il percome, il come, dove e quando.

La zia Rosina, quell'anziana che di vecchio aveva soltanto l'età anagrafica, era sembrata a Renata la persona giusta cui confidarsi.

La quale zia Rosina, anche se Renata non le avesse detto niente, aveva già capito.

Gli anni che aveva sulle spalle erano tanti. Ma erano trascorsi velocemente. Così velocemente che quelli belli della gioventù sembravano appartenere all'altro ieri: se si girava a guardarli, la Rosina li vedeva ancora lì.

Ne riconosceva i colori, i profumi. Rivedeva le cose belle che erano avvenute, i sentimenti, gli amori.

Trovava i segni, le tracce.

Come sul viso della Renata, dove l'amore non riusciva a nascondersi: fioriva sulle guance, nella lucentezza dello sguardo.

Sarebbe entrata lei in argomento se la ragazza non lo avesse fatto.

Era stato così.

Dopo cena, infatti, l'anziana non era riuscita a trattenersi.

«Chi è il fortunato?» aveva chiesto.

Renata aveva riso per la felicità.

Gliel'aveva detto.

«O Madòna de Lèscen!» aveva pensato la zia Rosina.

 

 

27

 

 

 

Nel 1902 la zia Rosina aveva cinquant'anni.

Lavorava sodo, non avendo mariti su cui contare. Sbarcava il lunario con l'unico lavoro che sapeva fare, e bene: la sarta.

Aveva confezionato lei il vestito da sposa per Gerbera Neri.

A venti giorni dalle nozze aveva chiesto alla ragazza di fare qualche prova in più: il vestito doveva essere perfetto, troppi occhi l'avrebbero guardato, criticato, giudicato.

Nonostante avesse cercato di stare sulle sue, la Rosina non aveva potuto fare a meno di notare che la futura sposa non aveva alcun entusiasmo: durante le prove era appena più viva di un manichino, alle domande non rispondeva che «Fate voi», oppure «Come credete».

A una settimana dalla data fatale l'abito era pronto: un gran bel lavoro, l'aveva giudicato la zia Rosina.

E l'aveva detto alla sposina.

«Farete un figurone» aveva proclamato. «Vedrete, ne parleranno per dei mesi.»

Per tutta risposta Gerbera Neri s'era messa a piangere.

La sarta era rimasta di stucco.

Che fare? s'era chiesta.

Ormai aveva capito che qualcosa non andava.

Aveva messo una mano sulla spalla della ragazza.

«Non lo volete sposare?» aveva chiesto.

«No» aveva singhiozzato Gerbera.

«Proprio no?»

«No.»

La zia Rosina aveva sospirato.

«Allora rifiutatelo. Non rovinatevi la vita per obbedire a delle convenienze. La vostra libertà vale più di qualunque patrimonio. Però...»

Gerbera aveva sollevato gli occhi al suono di quel però.

«Dico», aveva ripreso la zia Rosina, «però sbrigatevi. Ricordate che non avete più molto tempo. Manca una settimana alle nozze.»

 

 

28

 

 

 

Gli impiegati, compreso il segretario Carré, avrebbero potuto essere nudi.

Il podestà non se ne sarebbe accorto.

Uscì dal suo studio un quarto d'ora dopo il Vitali.

Procedette impettito, come se gli avessero messo un baccolo nel didietro.

L'occhio sgranato, fisso in avanti.

Né un saluto né un cenno, come se non li vedesse, venne inghiottito dalla porta e sparì.

Nonostante le apparenze, il segretario Carré giudicò che il più provato fosse proprio lui.

Avesse guardato cosa c'era nella busta!

E adesso, si chiese, cos'altro sarebbe accaduto?

 

 

29

 

 

 

Freddo.

Solo a guardare l'acqua del lago, limpida e immobile, venivano i brividi.

Pareva dura, sembrava possibile camminarci sopra.

Sul lungolago faceva un freddo becco ma lui non lo sentiva.

Bolliva, dentro.

Di rabbia, di vergogna, di impotenza.

Poteva tornare a casa dalla moglie con quella bella novità?

Dirle che Renata s'era innamorata del figlio di Gerbera Neri, la donna che l'aveva rifiutato all'altare?

Spiegarle, anche, che lei aveva preso il posto di quella per una mera questione di forma, per salvare la faccia?

Che lui non poteva sopportare l'idea che Renata gli portasse in casa il figlio della donna di cui s'era innamorato vanamente?

Che, invece, aveva sposato uno dei suoi amici, il fido timoniere, il sensale del suo primo fidanzamento?

Poteva raccontarle tutte queste cose, per giustificare il no a quella frequentazione, un no fermo, deciso, irrevocabile?

No.

Non poteva.

Per mille ragioni.

Soprattutto perché a Evangelia non aveva mai detto niente.

Quella vecchia storia era un segreto suo e di nessun altro.

Sepolto...

Sepolto?

Ben nascosto nel profondo della sua memoria e guai a chi avesse osato riportarlo alla superficie.

La partita, semmai, era tra lui e Renata.

Renata.

Non avesse avuto quel carattere.

Non fosse stata come suo padre, il cavaliere.

Perché mai, s'era spesso chiesto Agostino Meccia, quel carattere, come il resto dell'eredità, non era toccato a lui e s'era invece rivelato nei gesti, nelle azioni, nelle parole della figlia?

La quale, esattamente come il cavalier Renato, quando si metteva in testa una cosa, non c'era verso di distrarla.

Bastava prendere ad esempio la faccenda di quelle mutande che era andata a ordinare alla Mercede: da qualche parte, forse proprio al cinema, le aveva viste e aveva cominciato a desiderarle. Per farne cosa, il podestà preferiva non pensarci. Sta di fatto che non aveva chiesto niente a nessuno; le aveva ordinate e basta.

Renata era il vero problema.

Prenderla di petto, costringerla a obbedire, tentare di imporsi?

Sarebbe stata una guerra dall'esito molto incerto.

Meglio circuirla piuttosto, temporeggiando.

Dando, al tempo, tempo: buon alleato solitamente.

Entrò in casa.

Sapeva cosa l'aspettava e s'era preparato.

«Allora?» chiese subito Evangelia.

«Diamo tempo al tempo» rispose lui. «E intanto, domenica, andiamo tutti a Bellagio, dal podestà Ghislanzoni.»

 

 

30

 

 

 

Il podestà di Bellagio era un vecchio trombone, noioso come una mosca.

Agostino Meccia l'aveva sempre definito così e, in famiglia, non perdeva occasione per dileggiarlo.

Più che parlare, emetteva sentenze. Su tutto. Non aveva alcuna fantasia. Con lui non si poteva scherzare, prendeva ogni cosa sul serio e, alle sue parole, non ammetteva repliche.

Per queste ragioni era inviso alla maggior parte degli altri podestà del lago e, quando capitava che il prefetto li convocasse a Como, era una gara a chi riusciva a non sederglisi accanto.

Sua moglie Anacleria era forse più noiosa di lui.

I due avevano anche una figlia, Carlotta. Cresciuta in tale ambiente, non poteva che essere tale quale al padre e alla madre: appunto, noiosa anche lei.

Il Ghislanzoni era il più anziano di tutti i podestà dei comuni del lago ed essendosi tolte tutte le voglie possibili, gliene restava una sola ormai, un'ossessione: quella di lasciare una qualche traccia di sé, qualcosa per cui la posterità l'avrebbe ricordato.

Le aveva tentate tutte.

Aveva anche pubblicato, a spese proprie, un volumetto di versi dall'improbabile titolo Versi in camicia nera che aveva fatto sorridere tutti coloro che l'avevano, in omaggio, ricevuto. 

Sei mesi prima il Ghislanzoni s'era convinto di aver trovato l'idea giusta per meritarsi, dopo morto, l'onore di un monumento, un busto o almeno una targa alla memoria.

Aveva infatti ideato la costituzione di una Confederazione Comasca degli Olivicoltori Fascisti ed era partito in tromba, cominciando con l'informare la federazione provinciale del partito, per ottenerne un esplicito appoggio.

La risposta della federazione era stata tiepida: le categorie rurali, ivi comprese quelle degli olivicoltori, stavano bene dov'erano, cioè nel rispettivo sindacato e, di lì a poco, nelle costituende corporazioni, vedesse lui.

Nell'attesa, il Ghislanzoni aveva preparato lo statuto dell'associazione, delineato l'organigramma, approntato una bozza della tessera che sognava di consegnare personalmente a tutti gli olivicoltori associati e un memorandum, da spedire a tutti i podestà del lago, fitto di considerazioni circa l'utilità della confederazione che si sarebbe validamente opposta allo strapotere degli olivicoltori meridionali, toscani e liguri.

Anche le risposte dei vari podestà erano state tiepide: si rendevano tutti conto della bontà dell'iniziativa ma l'idea di aver a che fare col Ghislanzoni li terrorizzava.

Il podestà Meccia aveva, più di tutti, dileggiato il collega bellagino.

«Manco morto» aveva spesso detto, anche in casa, parlando di quella faccenda.

Quindi.

Cosa significava quel repentino cambio di opinione, quella gita a Bellagio messa in programma per il giorno seguente?

Renata non ci aveva dormito.

Aveva bisogno di parlarne con qualcuno.

«Vado a vedere se la zia Rosina è guarita del tutto» disse.

Evangelia fu lì per replicare che non era mai stata ammalata ma tacque, opportunamente.

La zia Rosina ascoltò il lungo elenco di obiezioni che la ragazza le espose.

Perché? chiese alla fine Renata.

L'anziana sapeva che sarebbero arrivati a quel punto: non pensava che dovesse accadere così in fretta.

Cosa doveva fare adesso? Rivelare a Renata quello che sapeva? Dirle perché suo padre l'avrebbe osteggiata con ogni mezzo?

Nessuno ci avrebbe guadagnato. Certi segreti stavano bene dov'erano.

Ma Renata non doveva patirne.

«Tuo padre sospetta, o sa, qualcosa. E credo che non gli vada a genio l'idea che sua figlia frequenti un semplice fornaio.»

Sul volto di Renata passò un velo di stizza.

«Bene» disse «allora vuoi dire...»

La zia Rosina la bloccò con un gesto della mano.

«Vuol dire che anche tu, per adesso, farai finta di niente» disse. 

«Cioè?» chiese Renata.

A prenderlo di petto, spiegò la donna, aveva tutto da perdere: soprattutto adesso che la scoperta era freschissima.

Meglio, invece, aspettare.

«Aspettare cosa?» ribatté aspramente Renata. 

L'occasione giusta, spiegò Rosina.

Quella di cui approfittare.

«Sì» obiettò la ragazza «ma se non capita?»

«Capita» la rassicurò la zia Rosina. «Basta saperla aspettare e naturalmente coglierla.»

Doveva fidarsi.

Di lei, che di occasioni, nella vita, se n'era lasciate scappare ben poche.

 

 

31

 

 

 

Vittorio Barberi la aspettò sino alla metà del secondo tempo. Poi comprese che non sarebbe più arrivata e se ne andò chiedendosi cosa fosse successo.

Tra l'altro il film era barbosissimo e lui l'aveva già visto.

Faceva sempre così: andava anche allo spettacolo del sabato sera per farsi un'idea del film, quanti bui ci sarebbero stati, a che punto della vicenda; quante occasioni, insomma, per stringere Renata, baciarla, osare qualche carezza.

E a proposito di carezze proprio una settimana prima, sul finire della proiezione, Renata gli aveva promesso che per quella domenica gli avrebbe preparato una sorpresa.

Sorpresa? aveva chiesto lui.

Quale sorpresa?

Renata aveva sorriso.

Che razza di sorpresa sarebbe stata se glielo avesse detto?

«Ma ti posso dire che me la troverai addosso» aveva aggiunto subito dopo.

Al Vittorio erano tremati i polsi.

Quella ragazza non finiva mai di stupirlo, era una forza della natura.

L'aveva baciata un'ultima volta poco prima che finisse il film ed era stata lei a infilargli la lingua tra i denti.

 

 

32

 

 

 

Olio, olivi e olivicoltori.

Il podestà Ghislanzoni era proprio rincoglionito: non aveva parlato d'altro.

Lo disse, sul battello che finalmente li riportava a Bellano, il podestà Meccia.

Renata, nonostante il freddo, aveva voluto andarsene a prua. Godeva dell'aria gelida che la sferzava dopo la soporifera domenica trascorsa presso la villa del Ghislanzoni dove ogni cosa, fino il risotto che era stato servito a tavola, le era sembrato avere sapore di muffa. Pure, grazie all'aria che le scompigliava i capelli, le era sembrato che sbollisse anche la rabbia che aveva provato sabato mattina, quando, dopo aver salutato la zia Rosina, prima di tornare a casa, s'era recata alla merceria trovandola chiusa: sul portone un cartello avvisava la clientela che la merciaia era ammalata.

Contava poco, ormai.

La famosa mutanda, con la quale avrebbe voluto giocare una sorpresa a Vittorio, poteva anche tenersela la Mercede.

Ben altro bolliva in pentola.

Bellano ormai, buia, con l'eccezione di una lanterna dalla luce giallognola all'attracco del battello, era vicina.

Renata rientrò nel locale passeggeri.

Suo padre stava continuando a stigmatizzare, di fronte a una muta Evangelia, i vaniloqui del collega bellagino circa olii e olivi.

«Perché ci siamo andati allora?» non si trattenne dal dire la figlia.

Se ne pentì subito: uscita inopportuna, forse zia Rosina non avrebbe approvato.

Agostino scrollò le spalle, fece un mezzo sorriso e non fiatò.

Aveva vinto la prima battaglia con sua figlia, tenendola lontana dal cinema e dall'innominabile fidanzato.

A prezzo, è vero, di aver promesso al Ghislanzoni una sempre più stretta collaborazione per realizzare la confederazione degli olivicoltori.

Ma erano state promesse da marinaio, e fatte a un vecchio che si rincoglioniva un giorno dopo l'altro.

Adesso aveva un'intera settimana a disposizione per escogitare qualcosa d'altro per la domenica a venire.

Bisognava dare tempo al tempo. A quell'età si dimenticava in fretta.

Lui lo sapeva bene.

Oddio...

Il podestà lasciò perdere.

Spettrale, la piazza Tommaso Grossi sembrava attendere che loro tre l'attraversassero per poi spegnere le luci dei lampioni e andare a dormire.

Camminarono a passi rapidi, i fiati fumosi, ciascuno chiuso nei propri pensieri, Evangelia a darsi dell'oca poiché non aveva in casa brodo per la minestrina domenicale.

 

 

33

 

 

 

Era sembrato facile, al Vittorio, far finta di niente.

Cose che possono succedere, s'era detto, uscendo dal cinema.

Sì, ma, cos'era successo in fin della fiera?

Non aveva fatto ancora dieci passi lungo via Roma che quella domanda aveva invaso i suoi pensieri, facendolo tremare anche, e non solo per il freddo che, con folate appuntite, veniva giù dall'Orrido e giocava a far mulinelli in piazza della chiesa.

Poteva essere successo di tutto.

Anche l'irreparabile.

Renata poteva essersi svegliata e, di punto in bianco, aver deciso che lui non era più quello giusto, cancellandolo quindi dalla sua vita.

Non ci sarebbe stato niente da dire. Anzi, sarebbe stato perfettamente in linea con il carattere istintivo, esuberante, ingovernabile di quella ragazza cui l'iniziativa non faceva certamente difetto.

Perché, a volerla contare giusta, se non fosse stato per lei, lui non si sarebbe mai sognato di farle proposte come quell'ultima di incontrarsi al cinema alla domenica pomeriggio.

Sette o otto mesi prima, approfittando di una breve malattia di sua madre, Renata s'era incaricata di provvedere alla spesa e aveva cominciato a frequentare il forno.

Come mai, come non mai, aveva chiesto il Barberi padre.

Lei aveva raccontato della febbricola materna. Così, tutte le mattine Renata aveva dovuto relazionare sulle condizioni di Evangelia. Che, però, a un certo punto era guarita. Renata, invece, aveva continuato a venire lei al forno. Cercando di attaccare discorso col Vittorio il quale, più che monosillabi, non spiccicava.

Finché una mattina, approfittando dell'assenza del padre, Renata era partita all'attacco:

«Tu hai occhi solo per le michette?» gli aveva chiesto ridendo.

Il Vittorio s'era imbarazzato.

«O ti interessa anche il companatico?» aveva aggiunto lei, senza più ridere.

Era cominciata così: brevi incontri, prima, scappate veloci, mezz'ore rubate alle passeggiate con le amiche.

Poi, finalmente, il cinema: un luogo che era sembrato discretamente sicuro, per stare insieme un po' di più, chiacchierare, fare progetti. Baciarsi anche, e il resto.

Il campanile avvisò il Vittorio che erano ormai le sette di sera. Di lì a un'ora doveva infilarsi nel forno e cominciare a impastare la farina.

Con quel dubbio in testa, sai che bel divertimento!

Rifletté. 

Una mezza idea ce l'aveva.

Doveva rischiarla?

Chi non risica non rosica.

Partì.

Al bar dell'Imbarcadero c'era un telefono pubblico. La ragazza che stava alla cassa era sua amica. Non gli avrebbe negato il favore di chiamare a casa del podestà fingendosi un'amica di Renata per poi passargliela.

Di corsa, si disse Vittorio.

 

 

34

 

 

 

Una, due, tre volte.

Tre tentativi.

Inutili.

Il telefono era sempre occupato.

«È sempre occupato» disse la ragazza della cassa. «E io devo tornare al lavoro.»

Vittorio mormorò un ringraziamento.

«Magari l'hanno staccato» disse ancora la ragazza.

Il Barberi ormai era preda dei pensieri più cupi.

Né l'aiutò a sollevarsi il buio tenebroso che aveva avvolto ogni cosa, il silenzio di tomba che cullava il sonno dell'intero paese.

A pochi passi dal forno si lasciò vincere dalla malvagia fantasia di Renata che, apposta, proprio per evitare una sua telefonata, aveva staccato la cornetta del telefono, escludendolo per sempre dalla sua vita.

 

 

35

 

 

 

Il telefono squillò in casa del podestà Meccia.

Potevano essere le sette, forse qualche minuto prima.

Rispose lui in persona.

Mica facile fregarlo, non era cretino. Sapeva prevedere le mosse degli avversari.

Niente di più semplice immaginare che quello facesse fare una telefonata da un'amica per poi farsi passare Renata.

Rispose, quindi, già pronto a dileggiare la finta amica.

Invece era il podestà Vestreni, di Dervio.

Un sempliciotto, chissà come avevano potuto innalzarlo a tale carica: nelle occasioni ufficiali non mancava mai di fare qualche figuraccia a causa della sua goffaggine.

Esordì salutando in dialetto e poi, saltando direttamente al motivo della telefonata:

«Per quella faccenda», disse, «quand'è che possiamo trovarci? Il tempo stringe ormai.»

Quale faccenda? pensò il Meccia.

Ancora olii e olivi.

Non poteva essere altrimenti.

Di certo il podestà Vestreni s'era lasciato abbindolare dalle chiacchiere del Ghislanzoni e, da quell'essere di corte vedute che era, gli aveva garantito appoggio e solidarietà. Probabilmente il Ghislanzoni gli aveva telefonato, vantandosi di aver conquistato alla causa il Meccia e spingendolo a prendere immediatamente contatti con lui.

Una bella rottura di coglioni.

«Ma no», rispose il Meccia, «c'è tutto il tempo che vogliamo. Il Ghislanzoni viaggia un po' troppo di fantasia e...»

Il Vestreni lo interruppe.

«Cosa c'entra il Ghislanzoni?» chiese. «Non mi risulta che al comune di Bellagio sia stato proposto di entrare nell'affare.»

Agostino Meccia ebbe un momento di sconcerto.

«Scusa tanto», disse, «ma non mi hai telefonato per la faccenda degli olivicoltori, per la confederazione che il Ghislanzoni vorrebbe mettere in piedi?»

Il podestà Vestreni rise francamente: un boato si riversò nell'orecchio del Meccia.

«Ancora in ballo con le fantasie di quel vecchio pazzo?» chiese poi.

«No?» fece il Meccia.

«Ma no, figurati se abbiamo tempo da perdere con quelle cazzate!»

Perché, allora, gli aveva telefonato?

Perché? chiese il Vestreni, stupito che il collega bellanese gliene chiedesse il motivo.

Spiegarlo era subito fatto.

Ma si meravigliava, non mancò di far notare, che lui se ne fosse dimenticato.

 

 

36

 

 

 

L'impiegata avventizia Edvige Rinaldi prendeva servizio presso l'amministrazione comunale di Bellano quel lunedì mattina.

Quindi non poteva sapere. Non c'era stato il tempo materiale di spiegarglielo.

Che, quando il podestà Agostino Meccia entrava negli uffici con quel passo da parata, i masseteri contratti e la bocca stretta a culo di gallina, significava che era incazzato nero e bisognava lasciarlo nel suo brodo o, al massimo, subire.

Lei, invece, al suo ingresso, scattò in piedi mentre gli altri impiegati si ingobbirono sulla sedia.

«Buon...»

«Il segretario» sillabò il podestà.

La Rinaldi si confuse. Gli altri impiegati tacevano.

«Avvisatelo che ho bisogno di lui e lo aspetto nel mio studio. Immediatamente» ordinò il Meccia.

Dopodiché girò sui tacchi e sempre a passo di marcia si infilò nel corridoio che portava verso il suo ufficio.

Il messo comunale Sbercele sollevò la testa solo allora, si guardò in giro e con la mano tagliò l'aria a fette. Voleva dire che erano cazzi.

Il podestà infatti sapeva benissimo che il segretario Carré, a quell'ora, era nel suo ufficio: bastava aprire la porta e chiamarlo.

Se faceva ricorso a quel giro dell'oca era perché voleva far capire di essere sommamente irritato e che ci teneva a farlo vedere e sapere: che il segretario si preparasse a sentire le sue.

La signorina Rinaldi era ancora in piedi.

«Adesso ti puoi sedere» le disse il messo.

«Devo avvisare il signor segretario» ribattè la Rinaldi.

«Ci penso io.»

La Rinaldi tirò un sospiro, ringraziò, sedette.

Il messo invece si alzò e andò a bussare alla porta dell'ufficio di segreteria.

All'Avanti rauco di risposta, cacciò appena la testa nel locale e fece l'ambasciata. 

Poi si impalò di lato alla porta e attese.

Quando il segretario, sbuffando, comparve, lo precedette di un paio di metri, lo annunciò al podestà, richiuse la porta ma, anziché ritornare al suo tavolo di lavoro, restò lì dov'era.

Per origliare.

In nessun'altra maniera sarebbe potuto venire a conoscenza del motivo che aveva fatto andare in bestia il signor podestà.

 

 

37

 

 

 

«Perché non sono stato informato?» gridò il podestà.

Di cosa? pensò il messo.

«Di cosa?» chiese il segretario, calmissimo.

Di questo, fu la risposta.

Seguì un momento di silenzio. Il podestà aveva allargato le gambe quindi si portò le mani ai fianchi.

«Di questo» ripeté. 

E, subito, sottolineò che aveva dovuto saperlo dal podestà di Dervio, la sera prima.

Ostia! pensò il messo.

«Ma cosa?» tornò a chiedere il segretario Carré.

Si trattava del fatto che, all'incirca un mese prima, la SISTAR, Società per l'Incremento e lo Sviluppo del Turismo Aereo, con sede in Roma, aveva fatto pervenire, per conoscenza, alle amministrazioni comunali di Varenna, Bellano e Dervio, una proposta di convenzione per l'istituzione di servizi aerei sul lago di Como.

La SISTAR stava già attivamente lavorando per ottenere i relativi permessi per eseguire voli di collegamento con la Svizzera: proponeva una linea di voli bisettimanali che da Como salisse verso uno dei paesi del centrolago per andare poi verso Lugano e ritorno.

L'amministrazione comunale del capoluogo di provincia stava valutando l'offerta. Con Lugano e la municipalità svizzera le trattative erano a buon punto.

Mancava, ormai, di trovare lo scalo di centrolago e per quella ragione la SISTAR aveva scritto ai tre comuni, reputando che ciascuno di essi avesse le caratteristiche ideali per divenire tappa intermedia.

L'amministrazione di Varenna aveva risposto di non essere interessata.

Quella di Dervio invece aveva visto in tale proposta una straordinaria occasione per lanciare il proprio nome a livello nazionale e garantirsi un ritorno economico. Ma l'impegno di spesa, 4.500 lire in caso di accettazione cui aggiungerne altre 2.500 annue con l'inizio dei voli, era esorbitante.

Così al podestà di Dervio era venuto in mente di scrivere al collega bellanese se fosse interessato a costituire col suo comune un consorzio, per dividere le spese e non perdere l'occasione.

Non avendo ricevuto risposta alcuna, la sera prima gli aveva voluto telefonare per ricordargli che la scadenza era vicina.

Il Meccia era caduto dalle nuvole ed era riuscito a non farsi cogliere in flagrante ignoranza mentendo: aveva raccontato che quello era per lui un periodo denso di preoccupazioni e la cosa gli era passata di mente; ma, aveva aggiunto, aveva dato disposizioni per uno studio approfondito della questione e a breve avrebbe avuto tutte le risposte desiderate.

«Quanto prima ti farò sapere» aveva chiuso.

Dopodiché aveva lasciato cadere la cornetta sul ricevitore e aveva passato una notte tribolata.

«Allora?» gridò il podestà. «Perché non sono stato informato?»

Il segretario Carré si strinse nelle spalle.

Le parole, la rabbia del podestà gli facevano un baffo: erano cartucce caricate a salve, non facevano alcun male.

«Non mi pareva il caso» rispose, asciutto.

Conosceva bene i conti del comune di Bellano: allo stato c'erano già impegni di spesa per la costruzione di un campo sportivo, per lo stradone che avrebbe collegato Bellano a Vendrogno e alla Val Muggiasca, il rifacimento quasi completo della rete pubblica di illuminazione e i debiti relativi a prestiti contratti precedentemente con le banche: non gli era parso il caso di andarsi a impegolare in una nuova iniziativa.

Conosceva bene, inoltre, anche il carattere del podestà, incline a esaltarsi, dalla scrivania, per imprese che invece suo padre avrebbe intrapreso senza indugi. Quella faccenda dei voli verso la Svizzera era una cosa che avrebbe potuto stregarlo, a tutto detrimento della finanza pubblica. Inoltre, da ultimo, a lui, buon vecchio fantaccino, aerei e aviatori stavano sui coglioni.

Perciò aveva cassato di sua iniziativa sia le lettere della SISTAR, nascondendole in un cassetto della scrivania, sia quelle del podestà Vestreni.

«Così» gridò ancora il Meccia «vogliamo farci fottere da quei mortinpiedi di Dervio!»

Il segretario scrollò le spalle.

«Che se lo accollino tutto loro quel debito» disse.

«Vi pare un debito?»

«Lo è, di fatto» fece, caustico, il Carré.

«Pare a voi così» disse il podestà.

«Pare così anche ai conti che ho per le mani.»

«Caro segretario», sbottò il podestà, «bisogna guardare al futuro. Investire su di esso. E questo lo è!»

«Che cosa?»

«Un investimento.»

Un mezzo sorriso morì sotto la barbetta del Carré.

«Per investire ci vogliono soldi liberi» osservò. «E noi non ne abbiamo.»

Ci fu una risata, sprezzante, del Meccia.

Anche al messo Sbercele scappò una risatina: gli piaceva come il segretario teneva testa al podestà.

«Davvero?» disse in tono insinuante il podestà.

Poi tacque.

Il Carré s'era aspettato una replica istantanea che, invece, non venne.

Brutto, pessimo segno.

Voleva dire che il Meccia un'idea in testa ce l'aveva e la stava elaborando per poi spararla. E non poteva che essere un'idea pericolosa per le finanze comunali.

Ma quale limone si poteva ancora strizzare? fu il pensiero del segretario.

«Davvero» disse, nel tentativo di frenare l'entusiasmo del Meccia e preparandosi a elencare tutti i debiti e gli impegni di spesa che l'amministrazione aveva già contratto.

«Vedete segretario» cominciò a spiegarsi il podestà «per amministrare ci vuole fantasia, inventiva. Non basta far quadrare bilanci. Chi non risica, si dice, non rosica.»

«E be'?» fece il Carré.

Secondo lui, avrebbe voluto dire, gli eroi veri erano quelli che la medaglia se l'andavano a ritirare con le proprie gambe invece di mandarci la moglie e il figlio perché loro erano già sotto terra: ma avrebbe capito il podestà la sottile filosofia che il concetto voleva sottintendere?

A parte il fatto, molto più pratico, che per quell'anno ci sarebbe stato ben poco da far quadrare nel bilancio del comune di Bellano, non capiva comunque quale fosse l'asso che il podestà sembrava nascondere nella manica.

In ogni caso, poiché non voleva passare tutta la mattina ad ascoltare i vaniloqui del Meccia, decise di farla breve.

«E dove li trovereste voi podestà i soldi necessari?»

Il Meccia levò l'indice verso il soffitto.

«Nei fondi di riserva» rispose.

Al segretario mancò il fiato.

Nei fondi di riserva!

Era una pazzia.

I fondi di riserva erano una garanzia per affrontare senza timori le decine di inconvenienti che capitavano quasi settimanalmente: ricoveri di ammalati indigenti, pagamenti di impiegati avventizi, spese straordinarie per la manutenzione di strade, acquedotto, illuminazione, contributi speciali e via di questo passo.

Senza contare che poteva sempre accadere qualche disastro naturale, frane, allagamenti, che avrebbe richiesto l'intervento dell'amministrazione.

Ammontavano, allo stato, alla somma di lire 15.000: 5.000 erano già spese in previsione; decurtarli di 4.500 più, a breve, altre 2.500 lire, voleva dire esporsi agli eventi con le braghe calate e di spalle. 

Era necessario farlo presente al podestà che probabilmente non avrebbe inteso.

Il Carré tuttavia non si allarmò. Fidava su di una certezza. La comunicò al Meccia.

«La Giunta Provinciale Amministrativa non darà parere favorevole.»

«Lasciate a me il pensiero della Giunta Provinciale» lo rimbeccò quello con voce che si fece immediatamente stridula. «Voi piuttosto pensate a stilare una bozza del compromesso con questa SISTAR.»

Il segretario si accarezzò il pizzetto.

«Non sono stato abbastanza chiaro?»

Lo era stato, comandava lui.

«Con Dervio» chiese il Carré «che accordo facciamo?»

Il messo udì un colpo di tosse strozzato: al podestà era andata di traverso la saliva.

«Dervio?» gridò. «Cosa c'entra Dervio?»

«Il consorzio...»

«Macché consorzio e consorzio! Segretario, occupatevi di ciò che vi compete e lasciate a me la Giunta Provinciale e quelli di Dervio!

L'accordo si farà tra il comune di Bellano e la società proponente. Nessun altro ci starà in mezzo. Noi non dividiamo niente con nessuno. Men che meno con quelli di Dervio. E già che siamo in argomento», continuò il Meccia in un crescendo di stizza che gli faceva sempre più stridula la voce, «vi avviso di non farvi sfuggire parola con alcuno circa le cose che ci siamo detti e di non permettervi più per l'avvenire di prendere decisioni in vece mia. Il podestà sono io, ricordatevelo!»

Non c'era più niente da aggiungere, fu il pensiero del messo che, onde evitare di essere colto in flagrante spionaggio, abbandonò la posizione e fece ritorno nel locale degli uffici.

Gli impiegati ne attendevano la comparsa. Sollevarono verso di lui visi curiosi.

Lo Sbercele, per tutta risposta, riprese con la mano a tagliare l'aria a fette ancora più larghe.

Raccontò cos'era successo, poi, quando udì i passi pesanti del segretario che rientrava in trincea, si accomodò al proprio tavolo.

Fessi, pensò, rivolto ai colleghi.

Si accontentavano di sapere quello che lui voleva sapessero. Ma che era, si poteva ben dire, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, tracimare la rabbia del podestà, sfogata, per l'occasione, sulla testa di fante dell'imperturbabile segretario.

C'erano altri motivi, invece.

Ben altri.

Lui li sapeva.

Ma non era fesso, i segreti bisognava saperli mantenere.

L'aveva raccomandato anche a suo cognato tempo prima, quando era passato da casa per dargli i soliti biglietti omaggio per il cinema.

 

 

38

 

 

 

Al solito orario, verso le dieci, lunedì mattina la zia Rosina si alzò e si guardò allo specchio.

La pelle del viso, ancora liscia, lo sguardo limpido.

I capelli bianchi, ma ben tenuti: bastavano due colpi di spazzola e tornavano a posto.

Sorrise: pure una dentatura quasi perfetta.

Così, pensò, non andava bene. Non dimostrava assolutamente gli ottantadue anni che aveva.

Cominciò col togliersi gli orecchini, regalo di un antico fidanzato che aveva avuto e al quale s'era sottratta per tempo: a lui, come agli altri.

Ci voleva cipria, riflettè poi. Per coprire quelle gote rosee dove solo qualche ragnatela di capillari cercava di interrompere l'uniformità del colorito.

Poi i capelli.

Le spiaceva rovinare la pettinatura.

Era proprio necessario sacrificarla?

No, si rispose.

Bastava che utilizzasse un foulard. Non certo uno di quelli colorati, vivaci e di seta che lei amava. Ce ne voleva uno di colore nero, dozzinale. Uno di quelli che si potevano immaginare sul capo della Befana e che appunto in Befane trasformavano le donne che li usavano.

Tornò a guardarsi.

Non era male.

Gli occhi, però, lo sguardo, potevano tradire la mascherata.

Doveva, nei limiti del possibile, tenere le palpebre un po' abbassate, per dare l'impressione che avesse sonno o fosse rimbambita.

E, a quel proposito, non sarebbe stato male se avesse finto di essere un po' sorda e, di conseguenza, avesse parlato gridando un po'.

Via anche la camicetta chiara, la collana di corallo, il golfino di lana pregiata.

Al loro posto un informe maglione grigio, un grembiale che usava solo durante le grandi pulizie, un cappotto marrone con tre enormi bottoni e che puzzava di naftalina lontano un miglio.

Infine afferrò un bastone e mimò davanti allo specchio l'andatura incerta che ci si poteva attendere in una persona della sua età.

Fu soddisfatta.

L'immagine che lo specchio le rimandò era proprio quella di una vecchina mezza cieca, appassita, svanita e traballante.

L'immagine di una persona che non ce la faceva più a badare a sé stessa.

Che, a mala pena, riusciva a star dietro alle cose di casa.

Alla quale, quindi, non si poteva negare il favore di portare la spesa a domicilio: per, cristianamente, risparmiarle almeno quella fatica.

Il Barberi padre, poco dopo, non se lo fece chiedere due volte, cadde subito nella trappola.

«Non preoccupatevi signora Rosina» la tranquillizzò; «ci penserà il Vittorio a portarvi il pane tutte le mattine.»

Poi, guardandola uscire dal forno, formulò tra sé la previsione che la signora Rosina non ne aveva per molto.

 

 

39

 

 

 

Sebastiano Sbercele aveva preso una sberla all'età di dieci anni.

Secca come un missoltino.

Sulla coppa. »

Sberle così suo padre non gliene aveva mai date.

Era stato il prevosto.

Il 13 marzo 1902, nella sacrestia della prepositurale, dopo la drammatica riunione che era seguita all'altrettanto drammatico esito del matrimonio tra Agostino Meccia e Gerbera Neri.

Dopo la sberla il prevosto di allora aveva levato l'indice sotto il suo naso.

Gli aveva chiesto se per caso fosse rimasto lì, nascosto da qualche parte, ad ascoltare.

«Tu non hai visto e sentito niente» gli aveva intimato. «Capito?»

Tutto questo, la sberla, l'indice sotto il naso, il tono cattivo del sacerdote, perché?

Perché, quando la gente che aveva affollato la sacrestia se n'era andata, il piccolo Sebastiano aveva chiesto:

«Come mai quella signora ha detto no?»

Allora era arrivata la sberla.

Cos'aveva mai detto?

All'epoca era al suo cinquantesimo, forse sessantesimo matrimonio in qualità di chierichetto.

Chierichetto anziano, quasi un piccolo maestro di cerimonia. Istruttore dei neofiti.

Le mance migliori se le beccava lui.

Quel giorno s'era beccato una sberla.

E che sberla!

Poi, beffa oltre il danno, nel tempo a seguire, piano piano, il prevosto aveva cominciato ad allontanarlo dalla parrocchia.

Prima l'aveva chiamato un matrimonio su due.

Poi uno su tre, uno su quattro.

Infine, più niente.

Perché?

Al prevosto non aveva osato chiederlo. Aveva temuto un'altra sberla come quella ricevuta tempo prima.

Perché?

L'aveva chiesto in casa.

Una nuova sberla, diversa, un manrovescio in piena faccia, l'aveva raggiunto.

Era lo stile di suo padre.

«Lo sai tu» era suonata la risposta.

Sapeva un tubo lui.

Perché?

L'aveva chiesto ancora a sua madre, assente il padre.

«Lo sa Gesù.»

Ma che risposta era?

Perché nessuno gli dava una spiegazione?

Aveva intuito, allora, che la sberla del prevosto, quella di suo padre, la risposta oscura di sua madre erano in qualche modo legate a quella donna, al «no» che aveva pronunciato all'altare.

Le altre, tutte quelle che lui aveva visto, avevano sempre detto «sì».

Quella, invece...

S'era svegliato, per anni, tutte le mattine, con quella domanda fissa in testa. Perché?

Anche quando gli altri avevano dimenticato tutta la vicenda, quando gli anni erano passati.

Lui non s'era dimenticato.

Come fare a dimenticare?

Il perché gli si era conficcato nel cervello. L'aveva spinto, come un martello che picchia un chiodo, la formidabile sberla del prevosto di allora.

Perché?

Si era risposto, pian piano, da solo.

Adesso, grazie alla sua perseveranza, grazie alla sberla del prevosto di allora, poteva dire di saperne più degli altri.

Vedeva chiaro nella rabbia del podestà.

Certo, coi colleghi d'ufficio meglio tacere.

Erano ruffiani, lingue velenose.

Un altro perché, adesso, lo tormentava. Cos'era successo tra suo cognato e il podestà?

Non avrebbe impiegato lo stesso tempo a scoprirlo.

Bastava chiedere.

 

 

40

 

 

 

Se era in forma, Gerolamo Vitali, dopo la giornata di lavoro all'officina meccanica Ghilardi, prima di tornare a casa per la cena, riusciva a bere anche dieci, dodici tazze di vino, all'osteria della Lena.

Misura d'invenzione della Lena, quella della tazza corrispondeva a un quarto abbondante di vino. Lei lo serviva in luridi cocci di argilla anziché nei bei boccali di ceramica ornati di motivi floreali e di scritte inneggianti al lago di Como, a Bellano, al crotto di Biosio o a quello della Meneghina Porta, e senza bicchieri: l'avventore beveva direttamente da lì.

Il messo Sbercele non frequentava l'osteria della Lena.

Il suo status di dipendente dell'amministrazione comunale glielo impediva. Glielo impediva anche la consapevolezza che, dopo le sei di sera, dalla Lena, così come dal Prisco o dal Pierino, si sarebbe trovato tra gente mezza brilla che, senza ricorrere a giri di parole, gli avrebbe spiegato cosa pensava degli impiegati comunali: gente che non faceva un cazzo tutto il giorno e si fregava lo stipendio pagato grazie alle loro tasse.

Tuttavia, se voleva incontrare suo cognato, lì doveva andare.

E quella sera lo voleva vedere, per un ben preciso motivo: sapere cosa diavolo fosse andato a fare dal podestà e cosa demonio fosse successo, visto che era uscito dallo studio gobbo come se avesse preso un sacco di legnate mentre il Meccia l'aveva seguito, allucinato come se gli fosse improvvisamente apparsa la Madonna di Lezzeno. 

Gerolamo c'era, eccome.

Erano quasi le sette, e aveva già raggiunto la ragguardevole quota di otto tazze. Ma bevute da solo, appoggiato al bancone, lo sguardo al bancale di legno sul quale la Lena, che era alta sì e no un metro e quaranta, zampettava come una cutrettola.

Tazza dopo tazza, il Vitali s'era andato chiarendo le idee.

Già aveva capito di aver fatto una cazzata, di aver pestato un callo al podestà.

Ma gli sarebbe piaciuto sapere come, in che maniera.

E poi, no, non gli sarebbe piaciuto capire: era entrato in un terreno minato e non ci teneva a restarci.

Però gli avrebbe fatto piacere che il podestà sapesse che lui, se l'aveva offeso o altro, l'aveva fatto involontariamente.

Senza sapere e, soprattutto, senza intenzione.

Ma come fare?

Alla nona tazza, la fantasia gli si era scatenata.

Ormai l'angoscia che si portava dentro da quell'incontro era annegata nel vino.

Allora, sotto gli occhietti curiosi della Lena, un sorrisetto ebete era comparso sul viso del Vitali: stava immaginando che, come per un miracolo di quelli che a volte capitano nella vita dei poveri cristi, il podestà entrasse all'osteria della Lena.

Lui, rinfrancato dal vino e dall'ambiente, gli sarebbe andato incontro, l'avrebbe salutato come si deve e poi gli avrebbe spiegato tutto. Il podestà avrebbe capito e gli avrebbe detto di non preoccuparsi.

Era bravo il podestà, pensò il Vitali. E ordinò la decima tazza, pronto a ritornare alla consolante fantasia.

Ma in quella sentì alle sue spalle il rumore della porta che si apriva.

Restò col boccale a mezz'aria, le labbra, ancora golose di vino, sporte in avanti.

Che fosse vero? pensò.

Che il miracolo si stesse realizzando?

Diede una gollata, prima di girarsi a guardare.

Vide il messo Sbercele che si stava dirigendo verso di lui.

Mezzo miracolo, pensò Gerolamo.

Non era il podestà, d'accordo, ma in fin dei conti suo cognato era nel giro del comune.

A contarla a lui, la faccenda, poteva anche darsi che avrebbe fatto da tramite col podestà.

Il messo giunse al banco. Comandò un bianchino che la Lena gli servì con degnazione: non amava quelle misure da fighetta.

S'era fatto il piano di avvicinarsi cautamente al motivo della sua visita dalla Lena, non voleva che il cognato sospettasse la sua curiosità.

Non ebbe bisogno di cautele.

Il Vitali gli raccontò tutto, senza bisogno che lui chiedesse, dalla a alla zeta.

Alla fine tacque.

La Lena gli aveva già messo sotto il naso l'undicesima tazza.

Il messo comunale sospirò.

Glielo aveva detto, detto e ripetuto di stare alla larga da quella storia.

«Allora sei cretino» disse.

 

 

41

 

 

 

O che faccia!, pensò, martedì mattina, la zia Rosina, vedendo il Vittorio Barberi.

La faccia di chi era tribolato per pene d'amore e che, dal mezzogiorno della domenica, non mangiava più niente e non dormiva nemmeno: pallore, occhiaie, sguardo lustro, occhi che non riuscivano a fermarsi su niente.

«Non stai bene Vittorio?» chiese la Rosina.

S'era alzata da poco.

Aveva appena fatto in tempo a darsi due tocchi per apparire quello che voleva sembrare: una vecchia in balìa della decadenza.

«Eh?» insisté. «Non stai bene?» 

Il Vittorio conosceva la buona educazione, non si sarebbe mai permesso di rispondere male a una donna anziana. Però, se in quei giorni nessuno gli rompeva le balle, sarebbe stato meglio.

«Sto benissimo» rispose.

«Ma guarda che fac...» fece per dire la zia Rosina.

«Dove ve lo metto il pane?» la interruppe lui.

E lasciatemi in pace, avrebbe voluto aggiungere.

«L'hai bevuto il caffè?» chiese la vecchina.

O cristo, mormorò tra sé il giovanotto.

Suo padre l'aveva avvisato che la signora Rosina era diventata parecchio sorda. Forse non aveva sentito. Bisognava gridare.

«Ve lo lascio qui sul tavolo?» gridò.

La zia Rosina si strinse sulle spalle uno scialle che la copriva sino ai fianchi.

«Accomodati», continuò lei per tutta risposta, «che te lo preparo subito.»

Al Vittorio cascarono le braccia.

Aveva voglia di star solo, pensare ai cazzi suoi, riflettere.

Invece gli toccava, non fosse bastato tutto quello che aveva per la testa, di dare retta a quella mezza rimbambita che gli stava davanti.

D'altronde, se non avesse accettato di bersi quel maledetto caffè, chissà quanto tempo gli avrebbe fatto perdere ancora.

«Va bene» disse, incurante del tono di voce. «Beviamoci questo caffè. E che poi sia finita!»

La zia Rosina sorrise.

«Come?» disse, fingendo di non aver capito.

«Niente» rispose il Vittorio che, se quell'incontro fosse capitato in un altro momento, avrebbe anche trovato motivo di divertimento.

«Ma bravo» fece la Rosina «che mi hai portato anche il pane.»

Al giovanotto scappò un mezzo sorriso, non riuscì a trattenerlo: aveva ragione suo padre, non era solo sorda ma anche un po' rimbambita.

Una così, pensò il Barberi, facile farla su, un gioco da ragazzi.

Se lui non fosse stato quel bravo ragazzo che era, ma un delinquentello...

Capace che si dimenticava anche di chiudere la porta di notte.

Meno male che aveva appeso un campanellino che faceva un po' di rumore.

Certo però che, sorda com'era...

Come avrebbe fatto a sentire quel tintinnio, tin tin tin tin...

Ecco, adesso, per esempio, che qualcuno stava entrando...

Tin tin, tin tin...

E lei, neanche una piega.

Il Vittorio si riscosse dai pensieri.

Qualcuno stava entrando in casa.

«Zia Rosina» suonò una voce «sono io.»

Non era una voce.

Era la sua voce. " 

 

 

42

 

 

 

Il segretario Carré aveva tentato di mettergli quella pulce nell'orecchio.

Ma al podestà Meccia della Giunta Provinciale Amministrativa fregava niente.

A cosa servivano, infatti, i fondi di riserva, se non a finanziare imprese straordinarie?

E quella, non era straordinaria?

Nemmeno a suo padre sarebbe venuta in mente. E, per dirla tutta, se ci fosse stato, non se la sarebbe lasciata scappare.

Roba, aveva pensato il podestà, da passare per davvero alla storia, altro che olio e olivi!

Con uno sghignazzo alla faccia del Ghislanzoni, il podestà Meccia aveva preso sonno verso la mezzanotte di lunedì notte.

Martedì mattina si svegliò bello fresco. Piombò in municipio alle undici spaccate.

La prima cosa che fece fu visionare il testo della delibera da sottoporre alla giunta, convocata con procedura d'urgenza per quella stessa sera, riguardante il prelievo dai fondi di riserva per finanziare l'impresa aviatoria; il documento era opera del segretario, che l'aveva steso controvoglia, scotendo il testone: ma gli ordini non si discutevano, si eseguivano e basta, lo sapeva bene.

Soddisfatto, chiamò lui stesso il Carré, pregandolo di andare nel suo studio: era tempo di passare senza indugi alla seconda parte del suo piano d'azione: bisognava mettersi in contatto con Roma. 

«Lettera semplice, raccomandata, fonogramma o telegramma?» chiese il Carré che, in quella faccenda, aveva deciso di assumere un atteggiamento neutrale in netto contrasto col suo animo interventista.

Il podestà fece un sorrisetto.

«Niente di tutto ciò» disse.

«E allora?» interrogò il segretario.

Il Meccia mostrò al Carré la mano destra: mignolo e pollice estesi, le altre tre dita chiuse sul palmo.

«Te-le-fo-ni-ca-men-te! » sillabò.

Il Carré fece un passo indietro: sarebbe stata la prima volta che, da quelle stanze, partiva una telefonata per così lontano.

 

 

43

 

 

 

«Era ora» disse la zia Rosina vedendo entrare Renata.

Effettivamente aveva temuto a un certo punto che la sua sceneggiata fosse sin troppo convincente e che il Vittorio, prendendola per quello che non era, si scocciasse e se ne andasse, pensando di essere lì a perdere tempo.

A Renata aveva dato lei appuntamento per quella mattina, verso le undici, in casa sua: ma senza spiegarle il perché.  

Al Barberi padre aveva consigliato lo stesso orario per la consegna del pane. 

«Sapete», aveva pigolato, «col freddo che fa preferisco stare a letto sino a tardi.»

Così, aveva aggiunto, risparmiava sulla legna per riscaldare.

E il Barberi aveva avuto un motivo in più per compatirla.

Adesso che il giochetto era riuscito, la Rosina poteva gettare la maschera.

«Vi conoscete?» scherzò, rivolta ai due.

Il Vittorio era il più stupito.

L'apparizione della Renata.

Il cambio di tono della Rosina.

Cosa diavolo...

La Renata aveva capito tutto invece.

«Spiegatevi adesso» disse la vecchietta. «Poi parleremo.»

 

 

44

 

 

I

 

L'enfasi di Addolorata Degrandi era ben nota a quei bellanesi che per telefonare erano costretti a frequentare il posto pubblico della Società dei telefoni.

Faceva parte della sua natura di donna. Quasi mai le era stata d'aiuto nella vita, tuttavia non poteva fare a meno di aggiungerla, come una spezia, a tutto ciò che faceva.

A Bellano era giunta poco più di un anno prima, proveniente da Lomazzo, suo paese d'origine, con l'incarico di dirigente, diceva lei, del posto telefonico pubblico: in realtà era un'impiegata, centralinista.

Il suo, più che un arrivo, era stato un avvenimento.

Infatti, l'accelerato delle 16 e 15, sul quale la donna viaggiava, aveva accumulato, restando fermo alla stazione di Bellano, un ritardo di oltre dieci minuti: tutto il tempo impiegato per scaricare i bagagli che la donna aveva al seguito.

Capostazione, manovali e personale viaggiante s'erano prodigati per aiutarla: finite le operazioni di scarico, quando il treno era finalmente ripartito, l'Addolorata, dal marciapiede, circondata dai suoi bagagli, aveva salutato controllori e macchinista lanciando baci; quelli, in risposta, affacciati ai finestrini, le avevano tributato un applauso.

Era stato a quel punto che il capostazione, tal Trombin, s'era incuriosito circa l'identità della passeggera. Avvicinandosi alla donna con la scusa di offrirle un aiuto per il trasporto del bagaglio, aveva sbirciato le etichette di un paio di bauli e aveva letto: Dulù.

Si era messo subito in sospetto. E si era confermato nell'idea di aver visto giusto quando, a una precisa domanda, la donna aveva risposto che avrebbe alloggiato all'albergo Tommaso Grossi.

Un'attrice: ecco chi era appena sbarcata a Bellano.

E non poteva essere altrimenti, considerato il personale, alto e slanciato, il viso affilato e lo sguardo penetrante di due occhi neri, quei gesti ampi, il vezzo di parlare gesticolando, come se le mani fossero foglie sempre sul punto di staccarsi dal ramo.

L'aveva detto ai suoi, lì in stazione, e la voce era corsa.

All'albergo Tommaso Grossi l'avevano saputo quasi in tempo reale. E, a partire dal padrone, ragionier Dionisotto, sino all'ultima delle serve, si era scatenata una silenziosa gara per raccogliere informazioni sulla nuova arrivata e sul perché fosse lì, quali film aveva girato, quali altri attori sarebbero giunti.

Addolorata aveva percepito la silenziosa ma attenta curiosità che aveva sollevato.

L'aveva attribuita al fascino che emanava dalla sua persona e al fatto che probabilmente era capitata in un paese di gente sensibile al bello e al buono.

Era stata lontana invece dall'immaginare che si trattava di un grossolano equivoco generato dal suo stesso stile di vita cui la fantasia del capostazione aveva dato una generosa mano.

Si era tutto risolto nel giro di una settimana, quando l'appartamentino che la Società dei telefoni le aveva messo a disposizione era stato pronto a riceverla: Addolorata, in pompa magna, aveva lasciato le stanze dell'hotel Grossi, sotto gli sguardi delusi del personale servente, per rivelare il motivo che l'aveva portata a Bellano: fare la centralinista del neonato posto telefonico pubblico.

 

II

 

Dulù s'era insediata ai comandi del centralino con una dichiarazione che l'aveva resa famosa: aveva detto che, con le sue mani, metteva il paese in contatto col mondo..

Effettivamente era uno spettacolo vederla giostrare con cavi e spinotti, utilizzando con lievità quelle mani che sembrava parlassero.

A molti giovanotti la fantasia s'era accesa.

Ti immagini averle addosso, sentirsele correre su e giù?

Dulù aveva sniffato intorno a sé quell'aria carica di desiderio.

E ogni mattina era una goccia di profumo in più.

Ne guadagnava la fantasia, onusta di particolari, che le sue manine evocavano.

Alcuni se le sognavano.

Ma il primo che aveva tentato di dare corpo al sogno ne aveva avuta un'indelebile cicatrice.

Era toccato al maestro Evelino Mirabile. A Bellano era giunto un paio di anni prima per sostituire, ad anno scolastico già avviato, l'anziana maestra Letizia Spazzati che una bella mattina non si era presentata in aula per la semplice ragione che era morta durante la notte, nel sonno e nel suo letto.

In quanto a enfasi il Mirabile non aveva niente da invidiare a Dulù e aveva trovato l'occasione di spenderla entrando a far parte della Filodrammatica bellanese, divenendone, nel giro di pochi mesi, l'animatore.

Il maestro telefonava di tanto in tanto alla famiglia di origine, che stava in Abruzzo, per dare notizie di sé: non troppo spesso, in verità, per non spendere inutilmente soldi e ripetere sempre le stesse cose. Preferibilmente scriveva.

Ma, con l'arrivo di Addolorata al centralino, aveva radicalmente modificato le sue abitudini e capitò che vi si recasse anche due volte a settimana, sconcertando i familiari che non capivano più cosa stesse accadendo.

Anche lui subiva il fascino di Dulù e, guardando le mani della ragazza, sentiva il sangue montargli alla testa e non solo lì. 

Rispetto ad altri corteggiatori più o meno dichiarati, il Mirabile, prima di partire all'attacco, aveva studiato per bene la sua preda: se n'era fatto una sorta di ritratto psicologico, per colpirla nel suo punto debole e farla crollare all'istante.

Un pomeriggio, sul tardi, approfittando del fatto che al posto telefonico c'erano soltanto loro due, aveva aperto le ostilità.

«Un'attrice!» era esploso, dopo essere uscito dalla cabina.

Dulù l'aveva guardato coi suoi grandi occhi neri, calmissima: niente e nessuno riuscivano a sconcertarla.

Un'attrice, aveva ripetuto il maestro, spiegandole che da tempo la osservava. Ma, si badi bene, non con la volgare, golosa attenzione di coloro che frequentavano il posto telefonico.

«No», aveva detto il Mirabile, scotendo la testa e trovando un tono dolente.

Più in alto, più oltre erano andati i suoi occhi.

«All'anima!»

All'anima che si nascondeva sotto una scorza di apparenze.

E proprio sotto quella scorza, lui aveva visto in Addolorata l'anima dell'attrice. Che sarebbe stato peccato non rivelare, non portare alla superficie.

«Perché orbarne il mondo?» s'era chiesto il maestro Mirabile.

Perché negare al popolo il pieno godimento di un dono del cielo, di un'eterea bellezza che eguagliava, anzi, superava quella di una Dolores del Rio?

A quel punto la centralinista s'era arresa incondizionatamente.

Senza saperlo, il maestro Mirabile aveva toccato un tasto sensibile: era proprio quello della somiglianza con la famosa attrice, cui Addolorata si forzava da tempo di assimilarsi. Che, addirittura, il destino aveva voluto chiamare quasi con lo stesso nome e che lei aveva adattato per esigenze, le piaceva pensare, di scena.

Adesso, finalmente, qualcuno se n'era accorto.

«Ma come?» aveva chiesto.

Niente di più facile, aveva risposto il maestro.

 

III

 

Il maestro Mirabile era l'attor giovane nella Filodrammatica bellanese. A lui competeva la scelta dei testi, la selezione degli attori, l'assegnazione delle parti.

In quel periodo stava appunto riflettendo su cosa mettere in scena di lì a un paio di mesi. La sua attenzione s'era appuntata su di una commediola leggera, intitolata La regina degli specchi, opera ignota di un certo Domezio Gitanti. 

La regina, come già il titolo lasciava intuire, vi aveva una parte centrale ed era, adesso solo lo capiva, la parte giusta per Dulù.

Si trattava solo di battere sul tempo la concorrenza di un altro paio di ragazze con pretese artistiche: non certo brave come lei ma forti di essere già avanti con lo studio della parte.

Come si poteva fare? aveva chiesto Dulù.

Il Mirabile aveva finto di considerare il problema.

Aveva guardato il soffitto, rughe erano comparse sulla sua fronte.

Poi aveva dato una manata sul banco interposto tra la saletta per il pubblico e la scrivania dell'impiegata.

«Bisogna fare meglio delle altre» aveva dichiarato.

Bastavano sette o otto sere. Nell'arco di quel tempo lui era certo che sarebbe riuscito a spiegarle tutti i segreti della parte. E Dulù, al momento dell'assegnazione dei ruoli, avrebbe stracciato la concorrenza guadagnandosi il ruolo della regina.

Naturalmente, nessuno avrebbe dovuto sapere o vedere.

Così, per mantenere il segreto, non si potevano certo tenere queste ripetizioni presso la Casa del Fascio.

Meglio un posticino tranquillo, dove occhio umano non sarebbe riuscito a entrare.

«Dove, allora?» aveva chiesto Addolorata.

Il Mirabile aveva allargato le braccia.

«A voi la scelta», aveva detto, «casa mia, casa vostra. Anche qui, dopo il lavoro. L'arte, quando è tale, sta bene dappertutto.»

Dulù aveva soppesato la proposta.

«Va bene», aveva detto, «sopra, da me.»

E s'erano accordati per fare le cose per bene. Così, una sera sì e una no, il maestro Mirabile sarebbe entrato al posto pubblico quando si avvicinava l'orario di chiusura dopodiché, riparato in una cabina, avrebbe atteso che Addolorata spegnesse le luci e chiudesse, per scappar fuori dal nascondiglio e salire in casa di lei.

Tutto era andato alla perfezione.

Le ripetizioni duravano sino a tarda ora: sia perché Dulù aveva fin da subito preso gusto alla cosa, dimostrando di avere realmente un'anima artistica; ma anche perché il Mirabile, dalla prima lezione, era entrato in un turbine erotico che lo sfiancava. Per insegnare alla ragazza come si stava in scena, infatti, il maestro la correggeva in continuazione e per far ciò si era visto costretto a toccarla: toccamenti innocenti, le mani, le spalle, qualche volta i fianchi, il viso e la testa. Dulù lasciava fare, per nulla turbata dalle mani del maestro che a volte indugiavano più del necessario. Il maestro invece si caricava e spesso, poi, a casa, non gli riusciva di prender sonno.

Così, a un certo punto, gli era sembrato che fosse giunto il momento di rompere definitivamente gli indugi.

L'occasione c'era. Poiché, per quella settima od ottava lezione, i due avrebbero dovuto provare una scena particolarmente forte: si trattava di una sorta di monologo, da recitarsi quasi al buio, nel corso del quale la regina, rimasta vedova, ragionava tra sé sulla scelta da fare: se continuare nella vita di prima, simboleggiata dallo specchio, e rimaritarsi, oppure prendere in mano le redini del regno, simboleggiate da uno scettro.

Addolorata, per quella scena, s'era preparata a dovere: poiché, appunto, trattavasi di scena notturna, la regina insonne, rosa dai dubbi, s'era acconciata come se si fosse appena levata dal letto e aveva indossato una vestaglia.

Nell'enfasi della recitazione, a un certo punto, le era scesa una spallina, una mezza tetta aveva fatto capolino.

Era stato allora che il maestro Mirabile aveva cominciato a bollire.

Si era al punto in cui la regina, dopo aver brandito verso il pubblico lo specchio, avrebbe dovuto fare altrettanto con lo scettro. Dulù, però, se l'era dimenticato.

S'era fermata.

«Prenderò un mestolo, farà lo stesso» aveva detto.

Il maestro Mirabile le aveva detto di non muoversi.

«Aspetta» aveva suggerito, la voce strozzata in gola.

Ormai non era più in sé.

Le si era avvicinato e, sibilando, aveva detto:

«Prendi questo, di scettro.»

E aveva guidato la mano dell'attrice.

Addolorata, sulle prime, non aveva capito.

S'era trovata in mano quell'affare turgido e umido e l'aveva tenuto al caldo per qualche istante, illudendo così il Mirabile che, d'un subito, l'aveva arpionata per le chiappe.

Solo allora Dulù s'era riscossa. E con la mano, stringendo forte, aveva piegato l'affare verso il basso, schiantando di dolore il maestro.

 

IV

 

«Frangar sed non flectar» aveva commentato poco dopo il professor Canzani presso la saletta di medicazione dell'ospedale Umberto I trovandosi davanti, quand'era passata da poco la mezzanotte, il viso scavato dal dolore del maestro Mirabile che aveva preteso di essere visitato senza la presenza della suorina di servizio.

«Mi spezzo ma non mi piego.»

Ma al professore sarebbe piaciuto sapere come il maestro fosse riuscito a procurarsi una lesione di tal fatta.

Il maestro aveva sorvolato.

Piuttosto, aveva voluto sapere in quanto tempo sarebbe guarito, e come.

«Per il tempo ci vorranno trenta, quaranta giorni» aveva risposto il professore.

Circa il come, non c'era altro mezzo che una sorta di bendaggio semirigido che avrebbe ridato forma all'affare, lasciando poi a madre natura il compito di fare il suo corso, e sperando in bene.

Perché? aveva chiesto il Mirabile.

Perché, era stata la spiegazione del professore, così come ogni frattura o rottura, la riparazione avrebbe lasciato un callo che avrebbe interrotto la continuità primitiva dell'organo interessato.

«Ovvio che» aveva sottolineato «un conto è avere un callo in un femore, un altro è averlo lì!»

Da quella nottata era sicuramente uscito peggio il maestro Mirabile. Che, due mesi più tardi, acclarata la guarigione, avvenuta per seconda, terza o addirittura quarta intenzione, come aveva stabilito il professor Canzani un po' scherzando e un po' no, il che significava che l'affare gli sarebbe rimasto così com'era, gibboso e pressoché inservibile, aveva chiesto il trasferimento per malattia e di lui s'erano perse le tracce.

Dulù invece era rimasta.

Aveva accentuato, semmai, la sua enfasi, inclinandola all'esplorazione della sua anima, della sua intimità. E non solo la sua, anche quella degli altri, visto che, cosa che non aveva mai fatto, aveva cominciato ad ascoltare le telefonate altrui.

 

 

45

 

 

 

C'era voluta un'ora buona per prendere la linea con Roma.

Anche per consegnare il pane alla signora Rosina c'era voluta un'oraccia.

Il Barberi padre, vedendo ritornare finalmente il figlio, fu lì per dire qualcosa.

Invece le parole gli morirono in bocca.

La madonna!

Aveva visto il figlio uscire un'ora prima strascicando i piedi, gobbo come un vecchio.

E adesso?

Adesso era tornato indietro tutto sorridente, viscolo come un merlo.

Proprio, pensò il fornaio.

Un merlo innamorato.

 

 

46

 

 

 

Certo, c'era voluta più di un'ora per prendere la linea con Roma.

Ma lei cosa poteva fare?

Per quanto belle, suggestive, intriganti, le sue manine erano pur sempre solo due e quando il traffico era intenso, i signori utenti dovevano mettersi in fila e aspettare.

D'altronde, ragionava Dulù, era sempre così.

Mattine intere a non fare niente. Poi, tutto a un tratto, scoppiava il traffico. Tutti che volevano telefonare, tutti che avevano fretta.

La richiesta del segretario Carré di mettere il municipio in contatto con Roma era arrivata subito dopo quella di un'intercomunale della filiale bellanese della Banca del Piccolo Credito Milanese con la direzione centrale.

Gli è che il direttore della filiale bellanese era nuovo, non molto esperto, timido e balbuziente. Era la prima volta che, da Bellano, osava disturbare i suoi superiori e l'aveva fatto perché, a suo giudizio, aveva per le mani una faccenda scottante.

Balbettando, e chiedendo scusa ogniqualvolta incespicava in una parola, il direttore era riuscito a chiarire il perché gli necessitava un parere superiore, e un'ora se n'era andata.

Dulù, pur se aveva seguito attentamente la conversazione, non aveva capito granché, la materia bancaria le era ignota.

Aveva intuito che un certo Ghirardi, titolare di un officina, aveva in giro parecchie cambiali che stavano scadendo, o erano appena scadute, questo Dulù non l'aveva compreso bene. In ogni caso, doveva aver chiesto alla banca un'ulteriore dilazione ma il direttore bellanese, che probabilmente aveva già concesso proroghe, non se l'era sentita di decidere da solo.

Da Milano gli avevano detto no.

Basta proroghe.

Basta, avevano detto, dar spago a certe sanguisughe. Che clienti come quello se li pigliassero altre banche.

Ma, così facendo, aveva obiettato zoppicando su ogni parola il direttore bellanese, c'era il caso che si mettesse il Ghirardi sull'orlo del fallimento!

«Non ce ne frega niente» era stata la risposta della direzione.

Et voilà, un'ora era andata.

Lei cos'avrebbe potuto farci?

 

 

47

 

 

 

A mezzogiorno Roma era in linea.

Il podestà Meccia aveva ordinato che la telefonata gli venisse passata nello studio dove, senza testimoni, era restato chiuso per quasi tre quarti d'ora.

Ne uscì, raggiante, quando mancavano venti minuti all'una, per infilarsi nell'ufficio del segretario e ribadire l'appuntamento serale con la giunta.

Il segretario non ebbe nemmeno il tempo di replicare un'ultima obiezione: il Meccia aveva il pepe al culo.

Si rilassò, allora, sulla poltroncina.

Cretino! mormorò a mezza voce.

Faceva sempre così, il podestà, quando aveva qualcosa a cui teneva particolarmente: convocava la giunta al buio, senza specificare il motivo.

Quei quattro pecoroni poi, colti alla sprovvista, si lasciavano incantare dalla facondia del loro capo: generalmente capivano un cazzo di quello che lui diceva ma alla fine firmavano e addio fichi.

Pazienza, quando si trattava di impegni di poca spesa.

Ma in quel caso, al Carré sembrava che l'amministrazione corresse il rischio di infilarsi in un bel guaio dal quale si poteva uscire con le ossa rotte.

I componenti della giunta dovevano essere informati, prima, di quello che sarebbero andati ad approvare.

Così magari qualcuno avrebbe cercato di far ragionare anche il Meccia.

Era l'una.

Il segretario decise che avrebbe saltato il pranzo.

Gli avrebbe fatto bene.

E avrebbe fatto anche due passi.

Cosa diavolo s'era detto il podestà con quelli di Roma?

Due passi, a stomaco vuoto, e l'avrebbe saputo.

 

 

48

 

 

I

 

Il segretario Carré era sposato, senza prole.

Colpa sua, della moglie Ausonia, chi lo sapeva?

Entrambi avevano accettato la realtà. Da anni non se lo chiedevano più.

Facevano ormai una vita paciosa.

Buona cucina, solidi pomeriggi festivi trascorsi in casa a degustare gelati d'estate, torte artigianali d'inverno. Poche frequentazioni, sempre quelle. Rare uscite, solo per le occasioni.

Così era cresciuta la pancia al Carré. E, in verità, anche alla signora, che poteva vantare un ragguardevole girovita.

Guardandosi allo specchio, Antonino pensava spesso agli anni ormai lontani della guerra: a quando coste e sterno sporgevano sotto la pelle e gli toccava, un mese dopo l'altro, aggiungere nuovi buchi alla cintura per evitare che gli cascassero i pantaloni.

Ecco, si chiedeva: dov'erano finite la forma e l'energia di quei tempi?

Boh, si rispondeva.

Probabilmente le aveva consumate tutte allora.

Adesso, la tranquilla, beata monotonia delle giornate gli scaldava il cuore: non avrebbe cambiato la sua vita attuale con quella di nessun altro, non si augurava niente di diverso. Ci avrebbe fatto, pensava, retaggio della vita militare, la firma.

Così, gli aveva dato molto fastidio la mezza scuffia che, all'incirca un anno e mezzo prima, s'era preso per un'impiegata del comune di Lecco.

 

II

 

Era accaduto in occasione dell'annuale raduno dei segretari dei paesi del lago presso il municipio lecchese un paio di settimane prima di Natale. Occasione mondana: si facevano e si ricevevano gli auguri di buone feste da parte del segretario capo.

La donna se ne stava sulla soglia del salone dei ricevimenti del palazzo comunale, accogliendo i segretari e invitandoli a prendere posto.

Il Carré era stato uno dei pochi che, giungendo, aveva salutato con un mezzo inchino, declinando le proprie generalità, da vero ufficiale gentiluomo.

Lei, in risposta, aveva sorriso poi s'era presentata.

«Geneviève» aveva detto.

Olàlà! aveva reagito il Carré.

E subito dopo le aveva porto, in perfetto francese, i propri auguri per un felice Natale e un 1929 ricco di gioie.

Geneviève, a sua volta stupita, aveva ringraziato, anche lei in francese.

Come mai? s'erano chiesti entrambi.

Come mai tutti e due conoscevano così bene la lingua dei cugini d'oltralpe?

Sarebbe stato difficile spiegarsi lì, mentre dietro la larga schiena del Carré s'era andata formando una discreta fila di segretari mugugnanti. Antonino aveva lasciato strada ai colleghi scalpitanti e, quando l'ultimo era infine entrato, e il segretario lecchese si stava preparando ad avviare il discorsetto, aveva rivolto la domanda alla donna.

Entrambi erano filati sul fondo del locale, dove avevano potuto spiegarsi senza disturbare l'assemblea.

 

III

 

Era semplice, aveva raccontato la donna: aveva una madre di origine francese che, in casa, aveva sempre usato la lingua patria, così che lei era cresciuta parlando tanto l'italiano quanto il francese.

Ma lui?

Anche lui aveva una madre o un padre transalpini?

Ma no, aveva borbottato, sorridendo, il Carré. Suo padre era siciliano, sua madre ciociara. Lui era nato e cresciuto a Roma. Ma proprio a Roma aveva imparato a parlar francese.

Era stato nel 1914, anno che era cominciato con forti venti di guerra in Europa e dai quali l'Italia non sapeva se lasciarsi rinfrescare o meno. Erano stati, i primi mesi di quell'anno, momenti in cui il governo italiano s'era tenuto in piedi dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte: un giorno sembrava che l'Italia dovesse scendere in campo a fianco della Triplice Alleanza e un altro con i governi dell'Intesa.

Il Carré era allora universitario e fanatico interventista. Frequentava anche circoli dove l'argomento della guerra era all'ordine del giorno e dove si dava per certa la notizia che, nonostante la dichiarazione di neutralità fatta dal governo italiano in quell'estate, i vertici militari stavano preparando due distinte manovre: una contro la Francia e un'altra contro gli austriaci. Secondo quelle informazioni, l'attacco più probabile sarebbe avvenuto contro i francesi, l'Italia avrebbe confermato la fedeltà agli alleati attuali della Triplice. Così Antonino, al pari di altri suoi compagni, s'era dato allo studio forsennato del francese col quale, si diceva, avrebbero fatto segnare un punto di merito al momento dell'arruolamento e che li avrebbe garantiti dal finire in trincea, destinandoli invece a incarichi di responsabilità.  

Era finita invece che l'Italia s'era poi ritirata ufficialmente dalla Triplice Alleanza per scendere in campo contro i vecchi alleati. Lo studio del francese s'era rivelato inutile, ma Antonino Carré non aveva voluto dimenticarlo: l'aveva tenuto vivo leggendo i classici d'oltralpe in madrelingua e parlandolo ogniqualvolta gli si era presentata l'occasione.

Come quel pomeriggio a Lecco.

Che, però, aveva lasciato nel segretario qualcosa di più che il ricordo di una bella conversazione in francese. Gli era rimasto dentro una sorta di languore, una specie di prurito che aveva avvertito alla bocca dello stomaco: lo stesso che gli veniva quando, a casa, percepiva nell'aria il profumo dello stracotto o quello del cotechino, che si calmava quando aveva lo stomaco pieno, così come quello s'era calmato quando, pochi giorni dopo, approfittando dell'invito di Geneviève a chiamarla pure se gli fosse venuta voglia di un'altra bella conversazione in francese, era rimasto al telefono, quello del municipio, per quasi un'ora. 

Pure la donna aveva chiamato. Nel giro di un mesetto, senza che i due si fossero accordati, erano corse tra di loro tre, quattro telefonate settimanali, al termine delle quali il Carré s'era sempre trovato sfiancato, come se avesse faticato. Aveva capito infatti che era ormai matura l'ora di osare, ma aveva rimandato: gettarsi, anima e corpo, in quell'avventura avrebbe voluto dire sovvertire il confortante tran tran della sua vita: gli dispiaceva e diventava nervoso.

 

IV

 

La storia non aveva avuto sbocchi. Si era esaurita, pian piano e telefonicamente, grazie alle incertezze del Carré.

Morta per etisia, aveva pensato lui, che, dopo, per giorni e giorni s'era interrogato se nella vita fosse meglio patire rimpianti o rimorsi.

Però quell'avventura un risultato l'aveva prodotto.

All'incirca un mese dopo il fatale incontro con Geneviève, il Carré aveva notato, nella truppa dei suoi impiegati, un'insolita allegria.

Ridacchiavano tra di loro. A volte ridevano francamente. Non che in municipio fosse proibito ridere. Anzi, il segretario sapeva bene che tra i soldati, quando il morale era alto, la resa era migliore.

Soltanto, gli sarebbe piaciuto conoscere il motivo di tanta allegria, ridere anche lui assieme a loro, come un buon comandante.

Così una mattina aveva rotto gli indugi.

S'era presentato, uscendo all'improvviso dal suo ufficio, nel bel mezzo di una risata.

«Fate ridere anche me» aveva detto.

La risata s'era spenta, gli impiegati s'erano guardati, sbalorditi.

Il segretario però non aveva usato un tono da incazzato, né ne aveva la mimica.

Quindi il messo Sbercele gli aveva spiegato.

Dulù, aveva detto.

Ridevano di Dulù.

«Ah sì?», aveva chiesto il Carré.

E cos'aveva fatto di così divertente?

Niente, era stata la risposta.

Per fare, non aveva fatto proprio niente.

Era proprio lei che faceva ridere.

E da quando in qua? aveva chiesto il segretario.

Forse al signor segretario non era ancora capitato di vederla, aveva detto il messo.

Allora doveva sapere che, da un po' di tempo a quella parte, un mesetto, più o meno, a Dulù era venuta la fantasia di parlar francese.

Francese? l'aveva interrotto il Carré, le antenne già dritte.

Sì, proprio francese.

E bisognava vederla quando trattava col pubblico, come si atteggiava, come stringeva la bocca a culo di gallina, come sbatteva le palpebre e si sistemava il tirabaci.

Ma, soprattutto, bisognava sentirla.

Perché ogni tre parole di italiano ci infilava espressioni in francese.

Bien sur, certainement, mon chéri, aussi moi e via di questo passo. 

Cercava anche di arrotare la erre.

Un vero spettacolo, aveva commentato il messo.

«Chissà cosa le è passato per la testa» aveva poi detto.

Forse aveva finalmente trovato un moroso, naturalmente francese.

Macché moroso!, avrebbe voluto dire il segretario.

Che tacque, però.

«Da un mese, eh?» aveva chiesto.

Un mese, più o meno.

Due ore dopo, approfittando della pausa per il pranzo, s'era presentato a casa di Dulù con una scusa.

Che la donna fosse veramente una grande attrice o un'oca giuliva, al Carré non interessava.

Gli era bastato notare che, parlando con lui, Dulù s'era ben guardata dall'usare espressioni in francese.

Certo del fatto suo, aveva sparato un colpo di artiglieria pesante.

«Lo sapete, signorina, che è proibito ascoltare le telefonate altrui? Sapete che potrei farvi perdere il posto?»

Dulù non s'era scomposta.

«Osereste farlo?» gli aveva chiesto. 

Ostia, no! aveva risposto lui.

«Ma state in campana» l'aveva avvisata.

 

V

 

Adesso, come allora, il segretario Carré si presentò nell'appartamento della centralinista.

«Bonjour» disse entrando.

Dulù contrasse il viso in un sorriso da micetta.

«Qu'est-ce que voulez vous?» chiese.

 

 

49

 

 

 

Sazio, come se avesse mangiato chissà che.

Ritornando verso il municipio, il segretario aveva la sensazione che tutte le cose che Dulù gli aveva raccontato non fossero riuscite a trovare posto nella sua testa e che quindi si fossero accomodate nello stomaco, riempiendolo.

Perché Dulù, alla domanda su cosa si fossero detti il podestà e quelli di Roma, era partita dalla spiegazione del motivo che aveva ritardato di un'ora il collegamento: così, adesso, era perfettamente informato delle traversie che stavano per far passare giorni bui al Ghirardi, faccenda della quale non gli fregava più di tanto, mentre aveva ascoltato golosamente il resoconto dell'altra telefonata.

E adesso, sapeva.

Sapeva, cioè, che:

a) il podestà aveva parlato direttamente col responsabile del progetto, tal dottor Furini, dicendogli di essere fermamente deciso ad aderire alla proposta della SISTAR.

b) sempre il Meccia aveva escluso categoricamente che ci potesse essere un qualche interesse da parte del comune di Dervio nel prendere parte all'iniziativa. Al che il Furini gli aveva fatto presente che il preventivo spedito a ciascuna amministrazione era stato redatto in previsione del concorso di tutte e tre le municipalità per la realizzazione della linea aerea: in soldoni, significava che se nemmeno Dervio aveva intenzione di aderire, l'impegno di spesa, per la sola adesione, saliva da 4.500 a 9.500 lire. 

c) il podestà aveva avuto un solo attimo di esitazione questo Dulù lo ricordava bene - dopodiché aveva testualmente affermato che «non si trattava di una questione di soldi ma di esclusiva per il paese». Quell'altro gli aveva risposto che se voleva l'esclusiva l'avrebbe avuta. Anzi, aveva aggiunto che, trovandosi proprio in quei giorni l'ingegner Lauro Mazzagrossa, responsabile tecnico del progetto, in quel di Como, per sveltire l'iter burocratico della pratica sarebbe stata buona cosa che il podestà lo incontrasse. 

Poteva, per esempio, andare a Como?

Il Meccia, in risposta, aveva proposto un incontro a Bellano, con tanto di invito a pranzo, per la domenica a venire e il Furini aveva accettato per conto del Mazzagrossa.

Da quel pranzo chissà cos'altro sarebbe venuto fuori, pensò il Carré.

Quel somaro del podestà si stava imbarcando in un'avventura pericolosa.

Fortunatamente, c'era lui.

E quella sera, durante la giunta, al momento di esprimere il proprio parere, non si sarebbe fatto pregare: le avrebbe cantate chiare, al podestà e a quegli altri mammalucchi pantofolai che di bilanci non capivano niente.

 

 

50

 

 

 

«Frega un cazzo!» commentò il Ghirardi alla notizia che la banca non gli avrebbe concesso altre proroghe.

«Chiudo!» aggiunse. «Dichiaro fallimento!»

Un fallimento, infatti, tirava l'altro.

E, quello in arrivo, sarebbe stato il terzo nella vita del Ghirardi.

Il quale aveva ormai capito come fosse molto più semplice rinascere dalle ceneri di un fallimento piuttosto che, per salvare la faccia, pietire comprensione dai creditori mangiando pane e cipolle.

«Proprio un cazzo!» ribadì. «Basta officina. E buonanotte ai suonatori!»

Tra i quali c'era il Gerolamo Vitali.

 

 

51

 

 

 

Povera zia Rosina, buttò lì Renata.

E già, rispose sua madre Evangelia. Ma così, tanto per dire qualcosa: anche lei spesso diceva Povera zia Rosina: così sola, così vecchia, chissà la nostalgia che doveva patire eccetera eccetera.

Adesso, però, era lei sulle spine.

Per pranzo aveva fatto polenta oncia, cibo che voleva la massima puntualità.

E Agostino continuava a non comparire.

Lo sapeva, glielo aveva ben detto: anche se non ce n'era bisogno.

Lui per primo pretendeva un rigoroso rispetto degli orari: a pranzo e cena voleva la famiglia, cascasse il mondo, seduta a tavola.

Invece, adesso, minuto dopo minuto, la polenta si raffreddava, il formaggio si rapprendeva. Diventava un pastone colloso buono per le galline.

Una schifezza, insomma.

Le pareva già di sentirlo.

Una schifezza, avrebbe sentenziato suo marito.

E non ci sarebbe stato verso di ragionare. Di fargli capire che la colpa era tutta sua, del suo ritardo di oltre un'ora.

Perché, avrebbe detto, lui era il podestà e gli toccava risolvere mille problemi ogni giorno.

E non poteva dire al segretario, a quelli della giunta, ai morti di fame che facevano la fila fuori dal suo studio, non poteva dire:

«Scusate, adesso non ho tempo, devo andare sennò mi si fredda la polenta!»

Evangelia aveva la scenata già sotto gli occhi.

«Povera me» disse quindi, altro che la zia Rosina.

Che era sola, d'accordo. Ma lei adesso avrebbe fatto volentieri cambio, perché a essere soli a volte c'era proprio da guadagnare.

«Quando c'è la salute» ribatté Renata. 

Non, però, quando si è malati, oltre che anziani.

Come la zia Rosina.

Evangelia ebbe un sussulto.

Malata? chiese.

Come?

Ma se...

Malata, confermò Renata.

Bastava andare a vedere.

Anzi, bisognava andare a vedere.

 

 

52

 

 

 

Vecchia purtroppo lo sono, aveva detto la zia Rosina: malata ancora no.

«Ma nessuno mi vieta di fingere di esserlo» aveva subito aggiunto.

La scusa perché i due avessero un posto per vedersi tutti i giorni, parlarsi, raccontarsi come andavano le cose era bella e pronta.

Certo non era come andare al cinema, col buio...

Per intanto poteva, doveva bastare.

«Per intanto.»

Sul resto la zia Rosina aveva le idee chiare.

Guai prendere di petto il podestà. Bisognava invece aspettare la famosa occasione grazie alla quale l'avrebbero obbligato ad abbassare la cresta.

«Chi ci dice che lo farà?» aveva chiesto il Vittorio.

La zia Rosina aveva avuto un sorriso felino.

«Io» aveva risposto. «Perché è un uomo che tiene al rispetto, alle forme. All'onorabilità.»

«Proprio per questo non vuole che frequenti un fornaio» aveva obiettato Renata.

Benedetta ragazza, aveva pensato la zia Rosina, se potessi raccontarti il perché!

«Dagli l'occasione di apprezzarlo» aveva ribattuto la vecchina «vedrai che non la perderà quella occasione.»

«Ma come?»

Era presto per dirlo, aveva detto la zia Rosina.

Ma, prima o poi, anche quella domanda avrebbe trovato risposta.

 

 

53

 

 

 

«Mi dispiace per il ritardo» disse il podestà entrando in casa.

«Fa' niente» rispose immediatamente Evangelia, incredula.

Serio, Agostino si sedette a capotavola. Ma non afferrò coltello e forchetta, né chiese cosa ci fosse da mangiare, come faceva di solito.

«Ho in ballo qualcosa di grosso» disse, con aria di mistero.

Ma non disse cosa.

Apposta.

Aveva pensato che, sino a quando la faccenda non fosse stata ufficializzata con firme e tutto il resto, sarebbe stato meglio tacere: non correre il rischio che la voce giungesse alle orecchie del podestà di Dervio. Le donne, soprattutto, anche quelle di casa sua, era meglio tenerle all'oscuro.

«Domenica», annunciò, «avremo ospiti.»

Gente di riguardo, aggiunse.

Significava che Evangelia avrebbe dovuto allestire un pranzo come se fosse Natale.

E che, per la seconda domenica consecutiva, Renata avrebbe dovuto restare in famiglia.

La ragazza non fece una piega, le parole della zia Rosina ben chiare nella testa.

Evangelia non chiese chi fossero gli ospiti, e quanti- le bastava aver scampato una scenata.

Il podestà si ritirò a riflettere, seduto in poltrona: lo aspettava, quella sera, una giunta difficile.

Nessuno aveva appetito.

La polenta restò intatta.

 

 

54

 

 

 

Un crollo.

La zia Rosina aveva avuto un crollo spaventoso, verticale e repentino del quale Evangelia stentava a rendersi conto.

Se non avesse visto coi suoi occhi non ci avrebbe creduto.

Ma l'aveva vista, quello stesso pomeriggio. E nonostante ciò, faticava ancora a farsene una ragione.

  Nel giro di una settimana, dieci giorni al massimo, infatti, l'arzilla vecchietta di prima non c'era più, sparita.

Al suo posto s'era trovata davanti una tremolante controfigura della Rosina che lei conosceva.

Era andata a trovarla quello stesso pomeriggio, verso le quattro. E, tanto per cominciare, l'aveva colta mentre stava per mettersi a cena.

Alle quattro del pomeriggio? aveva osservato lei.

Quella, semmai, era l'ora della merenda!

La vecchietta dapprima l'aveva guardata. Poi aveva preso una cucchiaiata della mestissima minestrina che si era preparata. Quindi, sbrodolando, le aveva spiegato che faceva così per andarsene a letto presto.

Alle cinque?

Già, così riusciva anche a risparmiare sul carbone e sulla legna.

Ma come mai, aveva insistito Evangelia.

Non aveva magari qualche disturbo, qualche dolore?

Aveva sentito il dottore?

No, aveva risposto la zia Rosina.

Nessun disturbo o dolore. Inutile chiamare il dottore.

La sua malattia aveva un nome.

«Vecchiaia!» aveva detto.

E non c'erano farmaci o dottori che la potessero guarire.

Evangelia, commossa, aveva tirato su col naso. Solo allora aveva percepito l'odore che regnava in cucina: medicinale, appena ingentilito da un vago profumo che proveniva da due foglie di salvia che navigavano nella minestra. Era l'odore che c'era all'ospizio e la zia Rosina aveva proprio l'aspetto di una delle donne che vi erano ricoverate.

Aveva chiesto, allora, se poteva fare qualcosa per lei.

Sì, aveva risposto subito la vecchina.

«Portami via vent'anni» aveva chiarito, ma senza un'ombra di sorriso.

Evangelia era ritornata a casa in pieno subbuglio morale. Era evidente che la Rosina non era più in grado di badare a sé stessa.

Come diavolo fosse potuto accadere, non riusciva a immaginarlo: certo gli anni erano tanti e le erano caduti addosso tutti insieme, all'improvviso. Era diventata una specie di bambina e come tale bisognava trattarla.

Lei non sarebbe stata in grado di portarle via vent'anni, come aveva detto, cercando di scherzare, la Rosina: ma poteva fare dell'altro.

Far sì che, perlomeno, non avesse a patire il freddo o la fame. Anche, magari, cominciare a pensare a un posto all'ospizio.

Doveva parlarne con suo marito il podestà.

Per questo, contrariamente alle sue abitudini, lo attese, a letto, ma sveglia.

 

 

55

 

 

 

Se il segretario Carré aveva fatto piani per ostacolarlo in giunta, era stato servito a dovere.

Lui, pensò il podestà mentre ritornava a casa, e i suoi bilanci del cazzo.

Passeggiava lentamente.

Si godeva la vittoria e la sana stanchezza che cominciava a percepire dopo una giornata carica di tensione.

Era notte, nessun rumore nell'aria. Il cielo, limpido, tempestato di stelle. Il podestà, guardandolo, lo vide come lo sfondo ideale della sua impresa.

«Dritto alla meta» mormorò.

E in culo al segretario.

Chi, tra i due, comandava?

Lui.

E aveva, o no?, la facoltà di chiedere o meno il parere del segretario, assumendosi in toto la responsabilità di una delibera?

Certo.

Quindi non aveva chiesto il parere a nessuno, il Carré era stato invitato a fare il suo mestiere, cioè il segretario.

Si fermò, diede un'occhiata al lago, buio, scuro. Levò ancora gli occhi al cielo e riuscì, così, a trovare un respiro più ampio.

La giunta? pensò.

Rise.

Quattro babbioni, li aveva infarinati per bene.

Incantati addirittura.

Non s'erano nemmeno accorti che il Carré, pur se non interpellato, aveva cercato di rompere i coglioni facendo facce e scuotendo il testone. Li aveva lessati lentamente e portati a cottura proprio nel momento in cui aveva sparato quella cifra, 9.500 lire, che aveva fatto impallidire il segretario visto che asciugava i fondi di riserva.

E loro?

Niente.

Neanche be'! avevano detto. 

Sulla soglia di casa diede un'ultima occhiata al cielo. Chiuse gli occhi e cercò di immaginare il rumore di un aereo che traversava lo spazio sopra di lui.

Forse, in futuro, avrebbe potuto finanziare anche voli notturni.

Una volta entrato in casa vide, da sotto la porta della camera da letto, una striscia di luce.

Sua moglie era sveglia? si chiese.

Perché?

Che volesse...?

Ma no.

Probabilmente lo aspettava per chiedergli notizie circa Renata.

Che diamine!

Una cosa per volta.

Per intanto, anche la domenica in arrivo, Renata era sistemata. Poi ci avrebbe pensato per bene.

Entrò in camera da letto sbadigliando, apposta, per dare a vedere che aveva sonno.

Evangelia non tenne conto dell'avviso.

Cominciò subito a parlare del crollo della zia Rosina.

Pure quella! pensò il podestà entrando nel letto e sdraiandosi su di un fianco.

Si addormentò quasi subito ma Evangelia se ne accorse solo quando aveva finito la sua relazione.

 

 

56

 

 

 

Perché? si chiese Gerolamo Vitali.

Il Ghirardi aveva appena finito di fare il discorsetto, a lui e agli altri due dipendenti dell'officina meccanica.

Non aveva usato giri di parole, era andato giù piatto.

«Tempo un mese, qui si chiude tutto» aveva detto.

«E», aveva aggiunto, «ho bello e pronto qualcosa fuori busta per chi non mi rompe le balle.»

Il che voleva dire che se anziché obbligarlo a licenziarli l'avessero fatto di loro iniziativa gli facevano un piacere.

Il Vitali s'era guardato con gli altri e poi aveva detto sì: tanto, alla fine, la sostanza non cambiava.

Poi s'era chiesto perché.

Perché suo cognato gli aveva dato del cretino?

Due sere prima, all'osteria.

Lui, d'accordo, aveva bevuto. Ma dieci tazze del vino della Lena non erano sufficienti a ubriacarlo tanto da perdere la memoria.

Ricordava bene tutto.

Soprattutto ricordava che, dopo aver raccontato per filo e per segno la visita in municipio nello studio del sindaco, suo cognato il messo gli aveva detto:

«Allora sei cretino.»

E poi basta.

Perché?

Bisognava chiederlo a lui.

Doveva farlo, quanto prima.

Anzi, subito, visto che ormai era senza lavoro, e quindi bisognoso.

 

 

57

 

 

 

Il messo Sbercele, in quanto tale, la metteva giù dura.

Da quando aveva cominciato a respirare l'aria degli uffici s'era dato un tono: basta osterie, solo amicizie selezionate.

Pure, proprio perché la sua funzione di messo lo mandava spesso in giro, non poteva evitare incontri e domande: se non riusciva a evitare gli uni e le altre, rispondeva con degnazione, quasi che fosse depositario di tutti i segreti dell'amministrazione e, per vanità, lasciava intendere, a volte, che forse, se lui si fosse interessato, se avesse speso una parolina...

Niente di più falso: il parere del messo non contava un cazzo, né, mai, qualcuno glielo aveva domandato. Ma, circa il fatto di essere informato, la musica era un'altra perché ficcava il naso dappertutto, fuori e dentro il comune.

Per affrontarlo ci voleva un po' di coraggio, pensò Gerolamo Vitali.

Anzi, di coraggio, quel giorno, gliene serviva ancora di più poiché, dopo il cognato, avrebbe dovuto presentarsi in casa da sua moglie, consegnare quella grassa busta paga che aveva però il difetto di essere l'ultima, e chissà per quanto tempo.

Il carburante spacciato dalla Lena nella sua osteria cominciò a funzionare. Verso le sei della sera il Vitali si sentiva un leone e, trangugiata un'ultima tazza, partì in missione.

Era appena incerto sulle gambe ma in testa aveva una grande chiarezza di idee.

Purtroppo, non appena entrato in casa di suo cognato, mise il piede su di una pattina che scivolò sul pavimento lucido di cera.

Finì gambe all'aria, sotto gli occhi del messo, di sua moglie e del figlio che, per primo, diede il via a un coro di risate.

«Allora?» gli chiese suo cognato.

Dopodiché, assieme alla moglie, l'aiutò a rimettersi in piedi.

Lui ci aveva provato a tirarsi su da solo, ma quella cera del cazzo glielo aveva impedito.

Una volta in piedi si appoggiò al muro del corridoio. Anche perché nessuno l'aveva invitato ad accomodarsi in cucina.

Impiegò un po' a rimettere assieme le idee. Intanto suo cognato aveva fatto segno a moglie e figlio di allontanarsi: da certi esempi, aveva detto a mezza voce, c'era ben poco da imparare.

«Allora?» ripeté poi. 

Il Vitali fece un profondo respiro e inondò il corridoio del suo fiato vinoso.

Poi attaccò.

Partì dal cinema.

Passò per il licenziamento della mattina.

Arrivò al motivo che l'aveva spinto lì.

Non poteva suo cognato il messo metterci una buona parola?

Con chi?

Col podestà.

Per cosa?

Ma per trovargli un altro posto di lavoro, no?

Anche lui aveva una famiglia!

«Tanto per cominciare uno che ha una famiglia da mantenere non va in giro a regalare soldi alla Lena!» ribatté il cognato. 

Gerolamo abbassò gli occhi.

Era stato per il dispiacere, borbottò.

«Mi sa che te ne capita uno al giorno di questi dispiaceri» chiosò il messo.

Va bene, rispose il Vitali, non lo faccio più.

E a me cosa me ne frega, osservò il cognato.

D'accordo, ma il podestà...

Il podestà cosa?

Poteva metterci una buona parola? Insomma, lo vedeva tutti i giorni, conosceva la situazione, bastava poco...

Il messo si impettì.

Primis, disse, il pollice levato in aria, il podestà non era mica nato per rimediare alle cazzate dei suoi amministrati.

Secundis, il pollice sempre in aria, lui non era il tipo che andava a chiedere favori a nessuno, non voleva passare da leccaculo.

Terzis, e improvvisamente abbassò pollice e voce, se lui non avesse fatto...

Il Vitali non riuscì a capire quello che suo cognato intendeva.

Come? chiese.

«Se non me l'avessi fatto incazzare...» si spiegò il messo.

Io?

No, io! ribatté il cognato. 

Ma non si ricordava più, quella mattina, in comune, nel suo studio...

Sì.

Si ricordava.

Ma lui cosa aveva fatto? Niente.

«Ah no?» sbottò il messo.

Chiamava niente far incazzare come una bestia il podestà?

Al Vitali cominciarono a bruciare gli occhi. Nel corridoio c'era un caldo infernale che veniva da una stufa a carbone: il vino che aveva bevuto stava cominciando a bollire.

Si sarà anche incazzato, ribatté, ma lui non aveva colpe, non sapeva perché. Poteva giurarlo. 

«Tu lo sai che io non so niente. Diglielo tu» piagnucolò il Vitali.

Tei lì, pensò il messo Sbercele.

Si sputtanava col podestà per lui, un cretino, un ubriacone.

I segreti, certi segreti, lui li sapeva mantenere, riflettè il messo che, a quel punto, decise che s'era fatta l'ora di liberarsi del cognato.

Gli mise una mano sulla spalla.

«Guarda», fece, «ti posso dire che hai toccato un tasto dolente. E ti avevo avvisato di stare alla larga da quella faccenda.»

«Ma io...»

L'altra mano del messo atterrò sull'altra spalla. Dopodiché cominciò a spingerlo verso l'uscita.

«Hai messo il coltello nella piaga» ribadì il messo.

Intanto erano arrivati alla porta.

Ma cosa voleva dire? chiese ancora il Vitali.

Niente, rispose il cognato.

«Adesso vai a casa e ti fai una bella dormita. Poi magari ne parliamo in un altro momento.»

E, pam!, la porta si chiuse.

Il Vitali si trovò nel freddo della contrada ed ebbe un brivido.

Che cazzo di ragionamento era quello di suo cognato?

Il coltello nella piaga, il tasto dolente!

Ostia, che pisciata che gli scappava. La fece lì, di lato alla porta di suo cognato il messo.

Vadavialcù, mormorò.

E gli scappò quasi da ridere.

Quasi.

Perché, subito, gli venne il pensiero che adesso gli toccava andare a casa e presentarsi all'Albina.

Gli serviva altro coraggio, l'osteria della Lena era lì a due passi. La raggiunse, sbandando da un muro all'altro della contrada.

 

 

58

 

 

 

«Cos'è?» chiese Evangelia.

Le rispose dapprima il profilo viperino di suo marito.

Il podestà detestava essere interrotto mentre parlava e sua moglie l'aveva appena fatto mentre lui stava ricapitolando il menù per il pranzo di domenica: salame nostrano, cotechino, mortadella, funghi sottolio, cipolline e cetrioli sottaceto come antipasto, sformato di patate coi tartufi di Perledo...

«Cosa?» chiese Agostino sibilando.

«Un rumore» spiegò lei.

Sulla tavola calò un silenzio di chiesa.

«Non sento alcun rumore» sillabò Agostino.

In quelle cose Evangelia era cocciuta.

«Possibile?» disse.

E poi, rivolta a Renata:

«Tu non hai sentito niente?»

No, nemmeno Renata aveva sentito.

Eppure...

«...sformato di patate coi tartufi di Perledo, lavarelli al burro e salvia...»

«Ecco!» scattò Evangelia.

Agostino lasciò cadere il cucchiaio nel piatto.

«Ecco cosa?»

Stavolta però anche Renata aveva sentito qualcosa.

«Sì» disse «viene da fuori.»

Ascoltarono tutti.

C'era qualcuno che piangeva?

Anche il podestà dovette ammettere che sua moglie aIreva ragione.

«Sembra uno che piange» osservò Evangelia.

«Sembra un gatto in matogna» corresse Renata.

Capitava, ogni tanto, che gatti si radunassero fuori della porta di casa del podestà e inscenassero lì i loro corteggiamenti.

«Va bene» riprese il podestà «in ogni caso...»

Ma un nuovo rumore, un colpo sordo, lo interruppe ancora. 

«È qualcuno che bussa» disse Evangelia.

«Sembra più qualcuno che prende a pugni la porta» obiettò Renata.

Con colpi non forti, ma scanditi con regolarità. E, in sottofondo, quella lagna di gatto in amore.

«Insomma», rise Renata, «c'è un gattone innamorato che bussa alla nostra porta. Cosa facciamo?»

Adesso i colpi s'erano arrestati, ma la lagna aveva ripreso vigore.

«Sarà meglio che vada a dare un'occhiata» decise il podestà, e si alzò.

Gerolamo Vitali non era più in sé.

Al punto che, poco prima, la Lena s'era rifiutata di servirgli l'ennesima tazza di vino e, così come aveva fatto suo cognato il messo, mani sulle spalle, l'aveva guidato fuori dall'osteria.

Ormai era preda di un unico pensiero: chiedere scusa al podestà. 

E sulle ali del vino, sbandando, cadendo e piangendo, aveva finalmente raggiunto l'abitazione di Agostino Meccia.

«Cosa c'è?» chiese bruscamente il podestà affacciandosi alla porta.

Non riconobbe subito, in quel sacco sformato e dondolante che gli stava davanti, il Vitali.

Né il Vitali riconobbe il podestà: e, pensando di aver sbagliato portone, con quanto fiato aveva in gola cominciò a gridare.

Voleva il podestà, doveva chiedere scusa, non l'aveva fatto apposta, non sapeva niente, il coltello nella piaga e il tasto dolente...

Evangelia e Renata, richiamate da quei versi, furono alle spalle di Agostino.

«Basta» gridò allora il podestà.

Il Vitali si bloccò.

Sgranò l'occhio.

Comprese, infine, di essere di fronte a lui.

«Non è colpa mia» disse. «Io non so niente.»

Dopodiché, eseguito un inchino che per poco non gli fece perdere l'equilibrio, principiò ad allontanarsi.

I tre rimasero sulla soglia, guardandolo.

Evangelia non avrebbe mai osato chiedere.

Lo fece Renata.

«Ma cosa voleva dire?»

Agostino si girò a guardarla.

«Vaneggiamenti di un ubriaco» rispose.

Ma aveva una voce di gelatina, notò Renata, e aveva ormai perso l'appetito.

 

 

59

 

 

 

I

 

L'emergenza scattò poco dopo le nove della sera, quando l'Albina si stancò di aspettare.

Non era per niente preoccupata: inversa, piuttosto, come un calzino.

Uscì di casa mettendosi sulle spalle solo uno scialletto. L'osteria della Lena era a due passi ed era certa che l'avrebbe trovato lì, dove ogni tanto suo marito si dimenticava di tutto e di tutti.

La Lena, però, stava chiudendo.

«E mio marito?» chiese l'Albina.

Se non era lì, dove diavolo era finito?

C'era stato, spiegò la Lena: due volte. E la seconda...

«La seconda?» chiese l'Albina.

Be', la seconda, fece capire la Lena, non era tanto per la quale. Al punto che lei, pur se contro il suo interesse, gli aveva consigliato di andare a casa.

Ma a casa non era arrivato.

La Lena allargò le braccia. Ormai anche le altre osterie erano chiuse.

«Dove può essere andato allora?» bofonchiò l'Albina.

«Che non sia stato male?» buttò lì la Lena.

Perché, spiegò, per essere pieno lo era davvero, e tanto.

Forse valeva la pena di chiedere all'ospedale oppure da interpellare i carabinieri.

L'Albina rinculò: lei, che non sapeva né leggere né scrivere, andare all'ospedale o addirittura dai carabinieri?

Ringraziò per il consiglio e riprese la strada dirigendosi verso la casa di suo fratello il messo: lui, che conosceva tutto e tutti, le avrebbe dato il suggerimento giusto.

«Dormivi?» disse dopo aver aspettato per quasi cinque minuti davanti alla porta di casa.

Il messo indossava una papalina e una lunga veste da notte. Ai piedi calzettoni di lana.

«Macché» disse, ironico, e invitò la sorella a entrare perché nel corridoio si stava infilando uno spiffero di aria gelida.

La ascoltò, e allibì.

«Era ubriaco già quando è venuto qui» disse poi.

Figurarsi come s'era conciato se, dopo, anziché andare a casa, era ritornato all'osteria.

«Ma si può sapere cosa gli è successo?» chiese l'Albina.

Il messo non rispose. Stava cercando di immaginare le mosse del cognato. Se la Lena l'aveva spinto fuori dall'osteria verso le otto, quello aveva avuto tutto il tempo di combinare chissà che disastri: compreso quello, Dio non l'avesse voluto!, di andare a rompere i coglioni al podestà, a raccontargli chissà cosa, a mettere di mezzo anche lui magari!

«Ma porca puttana!» gridò.

«Cosa c'è?» chiese l'Albina.

Il messo le puntò l'indice contro.

«Te», disse, «va' a casa che te lo cerco io. Ma ti giuro che se mi ha messo in qualche casino gliela faccio passare una volta per tutte la sete!»

L'Albina non capiva un accidente.

«Ma...»

«Marsh!» ordinò il fratello. «Filare!»

 

II

 

Il podestà aveva perso l'appetito e non aveva finito la cena.  

Ma poco dopo le nove si fece venire una insopprimibile voglia di caffè.

Evangelia era andata a letto da una mezz'ora.

Glielo disse.