«Mi alzo e te lo faccio» propose lei.

«Ma figurati», si oppose lui, melodioso come un usignolo, «esco un momento, vado qui al caffè dell'Imbarcadero. Tu non disturbarti, riposa.»

Chissà, pensò uscendo, se quel cretino ubriaco del Vitali del cinema era ancora in giro.

In ogni caso, se non l'avesse trovato in questa o in quell'altra osteria a rosolarsi del tutto, sarebbe andato a casa sua. 

Perlamadonna! Cosa aveva voluto fare e dire con quella scenata davanti al portone, alla famiglia?

A casa non l'aveva trovato.

Né lui né la moglie.

Puttana eva! 

Alle dieci si trovò sulla strada del ritorno verso casa.

Nervoso come una biscia, aveva voglia di mordere.

Forse, ragionò, era la sera buona per affrontare sua figlia Renata e cantargliele chiare.

Dirle che si togliesse pure dalla testa il fornaio perché' lui mai e poi mai lo avrebbe accettato.

Ma c'era di mezzo Evangelia.

Non era una donna curiosa, forse non osava esserlo. Ma chiunque si sarebbe chiesto perché lui ce l'avesse così ferocemente con quel ragazzo. Avrebbe chiesto perché.

«Perché?», mormorò.

E che, era forse obbligato a dare spiegazioni?

Chi comandava in casa?

Lui. E si faceva come diceva. Senza discussioni.

Come in giunta, la sera prima.

Chi era il podestà? Chi comandava in paese?

Lui, che cazzo!

Anche Renata avrebbe dovuto chinare la testa.

Che...

     

III

 

«Che cazzo fai!» maledì il messo Sbercele.

Liberatosi della sorella, era partito alla volta dei giardini di Puncia, ma facendo il giro largo: anziché traversare la statale e imboccare il lungolago, aveva oltrepassato il ponte sul Pioverna ed era entrato ai giardini dalla parte di Coltogno, godendo, così, del favore delle tenebre. S'era avvicinato come un ladro all'abitazione del podestà ed era stato di vedetta per una bella mezz'ora, cercando di cogliere eventuali segni di agitazione e, nel contempo, spiando se non gli capitasse di avvistare anche il cognato ubriaco.

Invece, niente.

In casa del podestà non aveva rilevato segni di movimento. Solo un accendersi e spegnersi di luci che l'aveva indotto a pensare che ormai tutti fossero a letto.

Sul lungolago non c'era nessuno.

A un certo punto, sentendo un freddo canaglia salirgli dalla punta dei piedi, aveva mandato a dar via il culo il cognato, segnando comunque sul conto anche quell'uscita notturna, e s'era avviato per ritornare a casa, rasentando il muro del caffè dell'Imbarcadero per stare al riparo dall'ariaccia gelida che soffiava giù dalla Val Muggiasca.

Era stato così che, mentre scantonava l'angolo del caffè, era andato a finire addosso a uno che veniva in contromano.

«Che cazzo fai!» disse.

Il podestà lo guardò, senza far parola.

Diocristo! mormorò il messo Sbercele.

 

 

60

 

 

 

Sabato mattina Gerolamo Vitali era sulla bocca di tutti.

Aveva avuto la sfortuna di essere scovato, e portato a casa, dal pescatore Berto Molagna, che usciva in barca di notte e passava il resto della giornata bordeggiando da un'osteria all'altra.

L'aveva trovato, raccontò, stravaccato contro il monumento a Tommaso Grossi, dal lato verso il lago, il meno illuminato.

L'aveva raccattato e, dopo averlo riconosciuto, l'aveva trascinato a casa in condizioni pietose.

L'Albina gli aveva fatto anche il caffè per ringraziarlo.

Ma aveva chiesto dove l'aveva trovato.

Dove era andato a tirarsi addosso una puzza del genere?

In effetti il Vitali emanava un odore poco rassicurante.

Ma il Berto Molagna aveva allargato le braccia.

Cosa ne sapeva lui?

Poteva dire che, come tutte le sere, quando attraversava la piazza per raggiungere il molo, si fermava contro quel lato del monumento e pisciava?

Era stato così che s'era accorto del Vitali, pisciandogli in testa.

E meno male, sennò sarebbe stato lì tutta la notte, a rischio di morire assiderato.

Ma l'Albina non aveva insistito e lui, bevuto il caffè, era andato via di corsa, i pesci non aspettavano mica i suoi comodi.

 

 

61

 

 

 

Dieci e trenta, l'orario di arrivo del battello.

Domenica mattina Antonino Carré si posizionò per tempo vicino ai cessi di piazza Grossi, in piena vista del molo.

Con comodo, per i curiosi, poteva far finta di esser lì per guardare la montagna che peraltro non offriva alcuno spettacolo: roccia grigia, fredda e spettrale.

Comunque, non c'era in giro quasi nessuno.

Mazzagrossa, si ripeteva da un paio di giorni.

C'era stato un Mazzagrossa nella sua vita.

Capitano di fanteria.

Ingegnere.

Romano.

Fanatico dell'aviazione.

L'aveva conosciuto nell'intervallo tra la prima e la seconda offensiva dell'Isonzo un giorno in cui, assieme a un paio dei suoi uomini, era andato nelle retrovie a far scorta di materiale, filo spinato soprattutto.

Lo ricordava bene, pur avendolo visto una volta sola, per due buone ragioni.

La prima era che, mentre aiutava i due che erano con lui a caricare, s'era ferito col filo spinato: uno sferlo di cinque centimetri sul palmo della mano destra che, anche adesso, ogni tanto guardava.

La seconda era che quel Mazzagrossa comandava il magazzino dove il suo reparto si riforniva e di lui gli era rimasto impresso come, anziché parlare, gridasse. Gridando sacramentava e malediceva la propria sorte: la quale, avendolo reso zoppo per una caduta da cavallo avvenuta anni prima, gli aveva tolto non solo il piacere di cagare mitragliate dall'alto dei cieli sulle zucche dei crucchi, ma anche quello di stare in prima linea a fare un po' di tiro al bersaglio.

«Beati voi» gridava ai soldati e ai graduati che andavano e venivano dal magazzino.

Beati noi un cazzo, aveva commentato, sulla strada del ritorno, uno dei due che il Carré s'era tirato dietro.

«O no?» gli aveva poi chiesto quello.

Il Carré s'era fermato a guardarlo. Da qualche tempo aveva cominciato a cambiare opinione sulla guerra.

«Certo che siamo beati» aveva risposto. «Facciamo vita sana, sempre all'aria aperta. Rispetto a quello che se ne sta sempre chiuso in un magazzino...»

Alle dieci e un quarto lanciò una prima occhiata al lago.

Il battello stava doppiando la lingua di terra della Puncia, ormai era in vista del paese.

In anticipo.

Però!, pensò il segretario: meglio dei treni sempre in orario. 

Il suo profilo, un minuto dopo l'altro, si definiva, biancastro nell'umore smunto dell'acqua.

A quanto viaggiava un battello? si chiese il segretario.

Boh!

Sta di fatto che, alle dieci e ventitré minuti, era lì, davanti all'attracco.

Ma si fermò.

Il segretario Carré avvertì, preciso nell'aria, il rumore dei motori ridotti al minimo.  

Che cazzo faceva il comandante?

Come in risposta, dal battello partì un colpo di sirena.

 

 

62

 

 

 

Il comandante era stato costretto a ordinare motori al minimo mettendo la barca in una sorta di surplace a una trentina di metri dal punto d'attracco: il battellotto di terra non c'era.

Poco dopo il primo, partì un secondo colpo di sirena. Del battellotto nessuna traccia. Però il Carré vide uscire in coperta un passeggero, l'unico che, a quanto pareva, doveva scendere a Bellano. La vista non era più quella di quando scrutava le trincee nemiche, ma quello che aveva appena visto gli sembrò il Mazzagrossa di buona memoria.

Era agitato, notò il segretario. Si sbracciava, gesticolava verso la cabina del comandante. Protestava, probabilmente, per quell'inopinata attesa. Poi, esaurita la protesta, prese a camminare nervosamente su e giù per il ponte di prua, fermandosi brevemente e poi riprendendo.

Non era lui, rifletté allora il Carré. 

Non poteva essere quel Mazzagrossa: troppo agile. Quello del magazzino zoppicava, faceva pena vederlo camminare. Addirittura, ricordava adesso, si aiutava con un bastone di tanto in tanto.

Certo che per assomigliargli... quasi due gocce d'acqua.

Quasi.

Un terzo colpo di sirena lo tolse ai pensieri.

Controllò la situazione.

Il podestà se ne veniva su dal lungolago con passo elastico. Mancavano due minuti alle dieci e trenta. Il battellotto spuntò allora da via privata dell'Achille, anche lui con passo elastico che non si modificò quando, dal battello, partì un quarto colpo di sirena, più breve dei precedenti, allo scopo di mettergli fretta.

Il battellotto non se ne diede per inteso.

«Vadavialcù» disse.

Lui gli orari li rispettava.

«Smettila di arrivare primo», gridò all'indirizzo del comandante, «che son finite le medaglie.»

Poi, flemmatico, afferrò i canapi della passerella e fece cenno al comandante che era pronto a riceverli.

 

 

63

 

 

I

 

Appena arrivato in ufficio lunedì mattina, il segretario Carré aprì di due dita la finestra che dava verso il molo. Non voleva perdere il contatto con un filo di profumo che aveva colto nell'aria poco prima di entrare in municipio dopo tanti giorni passati ad annusare odore di fogna e di stagno.

Il podestà irruppe nel suo ufficio dieci minuti più tardi.

Chiuse con cura la porta e poi anche la finestra.

Solo dopo si avvicinò al tavolo del Carré, vi poggiò entrambi i pugni, si chinò e, con evidente soddisfazione, disse:

«È tutto a posto.»

 

II

 

Tutto a posto.

Il Mazzagrossa l'aveva strabiliato per quanto fosse ben organizzato.

A dire il vero l'aveva strabiliato anche per quanto aveva mangiato. Aveva fatto più che onore alla tavola. Ma questo era un altro discorso. E, a proposito di discorsi, l'ospite aveva dimostrato sin da subito di essere un gran signore: nessun accenno al motivo per il quale era lì sino a che erano rimasti a tavola, banditi gli affari sino a che il pranzo non era finito.

Non che non avessero parlato.

Anzi.

Quasi sempre, quasi solo lui.

Roma, la vita nell'Urbe, il governo e Mussolini, un dono del cielo!

E poi la vita, la sua.

La guerra, le battaglie dell'Isonzo, le medaglie che aveva meritato.

Certo non le aveva portate con sé. Ma quando il podestà Meccia fosse andato a Roma, perché prima o poi ci sarebbe dovuto andare, gliele avrebbe mostrate.

E, con quelle, anche il diploma di fascista della prima ora.

Marcia su Roma!

Ma aveva lasciato perdere, per non annoiare le signore.

Fedele fin da subito lui, comunque. E i risultati si vedevano.

Perché quel progetto per lo sviluppo dell'aviazione anche a scopi turistici e commerciali avrebbe avuto a breve l'alto patrocinio di Sua Eccellenza, a testimonianza del fatto che, dietro, c'era una serissima organizzazione.

Anche Balbo, proprio lui, Italo, sapeva e approvava.

Sarebbe stato un colpo non da poco, per un paese così piccolo. Il nome su tutti i giornali, il suo podestà celebrato per la lungimiranza, il fiuto.

Chi non risica non rosica.

Dopo il liquore, un amaro speciale fatto con le erbe del monte Muggio di cui il Mazzagrossa aveva particolarmente apprezzato il sapore tanto che aveva fatto bis e tris, era venuto il momento degli affari.

E lì era stata una sorpresa via l'altra, una meraviglia di organizzazione e di efficienza.

Perché il Mazzagrossa aveva con sé tutto quanto occorreva per definire e concludere l'affare.

A lui era bastato firmare ed era stato tutto a posto.

Nemmeno il tempo di dire uno due.

 

III

 

E tre, disse Renata.

La zia Rosina le chiese cosa intendesse.

Renata sbuffò.

Era la seconda domenica consecutiva che le toccava rinunciare a passare qualche ora col Vittorio. È vero che continuavano a incontrarsi tutte le mattine dalla zia Rosina. Ma erano diventati incontri via via sempre più brevi, perché il padre del giovanotto aveva minacciato di andarci lui a consegnare il pane alla Rosina se per farlo, a suo figlio, necessitava quasi un'ora, e di conseguenza anche un po' nervosi. Bisognava andarci piano col Vittorio, non dimenticare che era di pelo rosso.

«Comincio a perdere la pazienza» disse.

«Eh, ragazza mia!» fece la zia Rosina. «Ce ne dobbiamo armare, noi donne soprattutto. Quindi mettiti seduta e dimmi cos'è successo.»

Era successo che, come già sapeva, il giorno prima avevano avuto ospiti. Anzi, un ospite solo, ma che aveva contato per tre: bisognava averlo visto mangiare, infatti. Non aveva mai detto di no a niente, di ogni portata aveva sempre fatto il bis. Era un ometto che a guardarlo non gli avresti dato una lira: piccolo, pelato e con un ventre a obice che, quando s'era seduto, s'era afflosciato verso il basso, tanto da coprire... sì, da coprire la borsa, o come altrimenti si dice.

Suo padre però l'aveva trattato come se fosse il Dio in terra e quello non s'era fatto pregare: aveva preso in mano il pallino e aveva rotto l'anima a tutti, tranne, s'intende, al podestà, raccontando, anche con la bocca piena, le sue avventure in guerra, parlando di Roma e citando nomi e cognomi di personaggi che a volte le era capitato di leggere sui giornali.

Quando avevano finito di mangiare, ben oltre le tre del pomeriggio, lui e suo padre erano passati a parlare d'affari, ma erano rimasti lì in sala perché sembrava che l'ospite non volesse più staccarsi dalla bottiglia di amaro del monte Muggio che la mamma aveva messo in tavola. Così era toccato anche a loro sentire le cose che s'erano detti i due uomini. Lei aveva seguito il discorso, sempre con la speranza che la famosa occasione di cui la zia Rosina le aveva parlato spuntasse tra una parola e l'altra e invece aveva appreso che quel porcospino romano aveva promesso al podestà di inviare immediatamente a Bellano un pilota d'aereo.

«Un pilota?» interloquì la zia Rosina.

Sì, proprio un pilota. Ma non le chiedesse perché. Non aveva capito.

Aveva capito però che il pilota in oggetto sarebbe arrivato a Bellano la domenica successiva e così, con quella scusa, suo padre il podestà aveva detto che l'avrebbe ricevuto con tutti gli onori e naturalmente ospitato a pranzo a casa sua.

Il che significava che aveva trovato il modo per fregarla un'altra volta, la terza!, e che a lei cominciava a scappare la pazienza.

Le era venuto un nervoso tale che, quando suo padre era uscito di casa insieme col tritatutto romano per fargli fare due passi in paese e poi riaccompagnarlo al battello, aveva deciso di affrontare la questione a quattrocchi, quella stessa sera.

Aveva dovuto rimandare però. Perché il genitore era rientrato protestando di non stare tanto bene. Quindi aveva preteso una camomilla e s'era infilato a letto. Aveva preso freddo, il cibo gli si era piantato sullo stomaco. Non aveva tenuto conto che quello zoppicava e camminare, con oltretutto quel bel peso da tirarsi dietro, gli costava fatica. Erano rimasti, fermi impalati e al freddo, al molo, ad aspettare il battello. Di Bellano gli aveva solo mostrato il palazzo del municipio, da fuori, e indicato la finestra dell'ufficio del segretario Carré, anche lui romano di origine.

 

IV

 

       Adesso gli portava il suo saluto, disse il podestà. '

Il Carré si irrigidì sulla sedia. "'

«Zoppicava?» chiese.

Certo che zoppicava. Una ferita durante la prima guerra. Un femore o una tibia rotti, non ricordava più bene.

«Non una caduta da cavallo?» sorrise il segretario.

Il podestà lo guardò storto.

Ma cosa stava dicendo?

Non era mica stato in cavalleria. Glielo aveva appena detto. Fanteria, l'Isonzo. Ma dov'era il segretario con la testa?

 

V

 

Dov'era stata la sua testa sino ad allora? si chiese Gerolamo Vitali.

Il sabato l'aveva passato vomitando sailsignore che cosa perché aveva lo stomaco più vuoto delle sue tasche.

La domenica invece l'aveva trascorsa sdraiato a letto, la testa avvolta in una nuvola, addosso una stanchezza, una mollezza che non gli aveva permesso nemmeno di alzarsi per andare al cesso e per pisciare s'era dovuto arrendere a usare una vecchia pentola che l'Albina gli aveva portato allungandogliela con modi bruschi e muta.

Lunedì mattina la testa era sembrata ritornare al suo posto.

Meglio così.

Perché, quando si presentò in cucina, al cospetto di sua moglie, lei non ebbe pietà, non tenne conto né del pallore che ancora gli intristiva il volto né delle borse sotto gli occhi.

«Adesso?» chiese lei.

Voleva dire che sapeva già del licenziamento e della sua notte brava. Aveva avuto due giorni interi per indagare con comodo.

Quindi tanto valeva stare zitti: era sicuro che l'Albina avesse già pronta la risposta alla domanda che lei stessa aveva fatto.

«Adesso», disse infatti la donna, «ti dai una ripulita e poi a mezzogiorno vai a casa di mio fratello. Chiedi scusa e poi consiglio. Bisogna che ti trovi un altro lavoro, e in fretta. E, per finire, sappi che se entri ancora, anche una sola volta, dalla Lena, puoi fare a meno di tornare a casa. Ti fai dare un letto da lei, come l'avocàt. Perché qui, in questa casa, non ci sono serve o dame di carità. E di pazienza, con te, ne ho portata sin troppa.»

 

VI

 

Santa pazienza non c'era sul calendario, aveva appena detto la zia Rosina.

Renata non aveva capito.

«Sai perché?» chiese la vecchina.

Renata stette ancora in silenzio.

«Perché non ha un minuto di requie, non può fare la vita comoda dei santi sul calendario. La chiamano, la invocano in tanti.»

Tutto lì il consiglio? pensò Renata.

Bella roba.

«Lo so cosa pensi» disse la zia. ,

«Ma no...» disse Renata.

«Ma sì.»

«Io...»

Zia Rosina non le permise di andare oltre.

Era certa, chiese, di voler fare del Vittorio Barberi l'uomo della sua vita?

Sì o no?

«Sì» rispose Renata.

Allora, spiegò la zia, non doveva dimenticare, mai!, che suo padre era il podestà. E, se l'avesse preso di punta, non avrebbe esitato a ricorrere a qualunque mezzo pur di vincere.

«Uno così», sottolineò la zia, «può cambiare il destino della tua vita, se vuole. O di quella del tuo Vittorio.»

Era d'accordo?

Se lo era, doveva armarsi di pazienza.

E tenerla informata.

 

 

64

 

 

 

Un pilota, mormorò il segretario Carré che stava ripensando all'immagine del Mazzagrossa saltellante sul ponte del battello.

Il podestà si interruppe.

Ma cos'aveva il segretario che sembrava svanito?

Chi pensava che l'avrebbe guidato un aereo?

«Aereo», proseguì, «che arriverà qui, tramite ferrovia, dall'aeroclub Umberto I di Monza, in comodato d'uso, fra qualche giorno.»

Il pilota l'avrebbe preceduto per supervisionare i luoghi, stabilire dove e come decollare e atterrare. Una volta giunto anche l'aereo avrebbe fatto qualche volo di prova e... 

«Zac!» disse il podestà, il gioco era fatto, pronti a partire coi voli regolari.

«Avrei pensato di sistemarlo al Cavallino» aggiunse.

«Chi?» chiese il segretario.

Paziente:

«Il pilota», rispose il podestà.

Un pilota d'aereo meritava l'ambiente raffinato del Cavallino, famoso su tutto il lago di Como anche per la sua cucina prelibata.

Il Carré esitò prima di rispondere.

«So a cosa state pensando» lo anticipò il Meccia.

Alla spesa che ne sarebbe venuta.

«D'altronde», osservò il podestà, «per quei sette od otto giorni che si fermerà vogliamo farci compatire?»

«Mai» rispose sorridendo il segretario.

«E infine», chiarì il podestà, «non possiamo fare a meno di ospitarlo noi. È nel contratto che abbiamo firmato.»

«Ah sì?»

«Certo, e mi sembra logico: vitto e alloggio durante la fase di collaudo della linea.»

«Bene» fece il Carré. «È tutto qui?»

Il podestà arricciò il naso, tacque.

«Vi sono altre clausole?» insistette il segretario.

«Una sola.»

«Sarebbe?»

«Clausola formale» spiegò il podestà spazzando l'aria con una mano. «Che viene aggiunta in tutti i contratti di questo genere. Così mi ha spiegato il Mazzagrossa.»

Il Carré approvò con la testa.

«Varrebbe a significare?» chiese.

«Vale a dire che il comune si assume anche tutti gli oneri specificati nel contratto stesso ivi compresi quelli relativi ai rischi connessi all'impresa.»

«Ma...»

Il podestà sorrise.

Anche lui era stato sfiorato dal dubbio, il giorno prima.

Ma il Mazzagrossa glielo aveva subito risolto.

Vuol dire, aveva detto, che se per un giorno o due il pilota non può lavorare perché ha il raffreddore o le condizioni meteorologiche non lo permettono, la spesa di mantenimento è a vostro carico. Una sciocchezza.

«Una sciocchezza» disse anche il Meccia.

E, scimmiottando il Mazzagrossa:

«Che rischi volete che ci siano quando si ha a che fare con seri professionisti, protetti, non solo, ma anche incoraggiati da Italo Balbo, e da Lui?» chiese.

Il segretario lo guardò senza rispondere.

 

 

65

 

 

 

Anche la zia Rosina non aveva risposto.

Evangelia era stata costretta a ripetere la domanda, alzando un po' la voce.

«Come vi sentite?»

«Né bene né male» fu la risposta.

«Avete bisogno di qualcosa?» chiese ancora Evangelia e, subito, crollò la testa: era il caso di chiedere?

Non era lì da vedere, quella vecchina crollata di schianto sotto il peso degli anni?

La Rosina biascicò una risposta.

Evangelia fece finta di capire, salutò e uscì, chiaro in testa un bel discorso da fare al marito.

Non perse tempo, a pranzo aggiornò Agostino: la Rosina era in crisi, bisognava fare qualcosa per lei.

Agostino fu lì per rispondere male, ben altro aveva per la testa.

Lo salvò sua figlia.

«Per intanto», propose, «potrei dormire io da lei. Così, se succede qualcosa di notte...»

Agostino sorrise.

«Ottima idea» disse, e guardò soddisfatto sua moglie.

Le ci voleva qualcosa da fare a quella figlia, qualcosa che la distraesse.

Poi sarebbe arrivato anche il suo momento.

 

 

66

 

 

 

Suo fratello il messo era stato gentile.

Aveva accettato le scuse.

Promesso che non avrebbe serbato rancore.

Assicurato che aveva già dimenticato tutto.

Ma per il resto non voleva entrarci.

Al posto di lavoro lui ci teneva: e dopo tanti anni passati a fare la guardia municipale, adesso non voleva mettere a rischio il suo bel posto di messo.

Se lui era andato a pestare, ancorché inconsapevole, i calli del podestà, cazzi suoi.

Il succo dell'incontro riparatore, che Gerolamo Vitali riassunse alla moglie con voce belante e tenendo gli occhi bassi, era lì: c'era di mezzo una piaga, nella quale aveva rigirato il coltello.

«Ma cos'è 'sta piaga?» chiese l'Albina.

«Sacazzo» rispose il marito.

L'Albina ragionò che doveva pensare per due.

La piaga, evidentemente, c'era.

Grossa.

Anzi, bella grossa.

Al punto che al podestà tremavano le braghe e suo fratello - che era suo fratello! - non parlava.

Pur sapendo.

Per paura di perdere il posto di lavoro.

Quindi, rifletté l'Albina. 

Se poteva costare un posto di lavoro, poteva anche valerlo.

«Vieni con me» disse al marito.

«Dove?» chiese lui.

 

 

67

 

 

 

Lui dietro, la testa china, le braccia conserte.

Un seminarista.

Lei, la famosa Albina. Quella che non sapeva né leggere né scrivere.

Davanti.

Le mani che non sapevano dove stare né cosa fare.

«Permèss» chiese.

Due esse lunghe che fischiarono nel silenzio dello studio: il popolo raramente usava l'italiano e ancor meno chiedeva permesso. Se lo faceva era perché aveva bisogno.

«Avanti» disse il podestà.

Ma perché diavolo andavano a quell'ora a rompergli i coglioni?

Partiti gli impiegati, era rimasto apposta da solo nel suo studio, alla luce della lampada da tavolo, riflettendo su come organizzare l'accoglienza del pilota.

Cooptare la banda, il prevosto, il segretario del fascio?

Far stampare qualche manifesto?

E dopo il suo arrivo portarlo in comune, presentarlo alla giunta e poi, dal balcone, a tutti i bellanesi?

Sarebbe arrivato in divisa o in vestiti borghesi?

Accidenti, bisognava saperlo.

Anzi, bisognava avvisarlo di giungere in paese vestito della divisa.

Quale divisa, trattandosi di un pilota civile?

Una divisa purchessia.

Ci voleva, per staccarsi dalla massa circostante! Una bella divisa...

«Permèss.»

La concentrazione era andata a farsi benedire.

Al suo Avanti! uscirono dalla penombra che avvolgeva la maggior parte dello studio. 

Lei davanti, lui dietro.

Due figurine da presepe.

«Forse c'è un equivoco, signor podestà» disse l'Albina.

Suo marito non c'entrava per niente né niente sapeva.

 

 

68

 

 

 

Pure questo, pensò il segretario Carré martedì mattina mentre prendeva nota, senza fare commenti, di ciò che il podestà gli stava dettando.

Cioè di predisporre la bozza di una nuova delibera da sottoporre alla giunta per l'assunzione avventizia di Gerolamo Vitali.

«L'incarico» osservò il segretario.

«Come dite?»

Bisognava specificare l'incarico per il quale andava assunto, spiegò il Carré.

«Ah» fece il podestà, e si zittì immediatamente, per pensare.

«Assistente ai voli» disse poi.

Il Carré non batté ciglio ma la penna con cui prendeva appunti pianse sul foglio una lacrima di inchiostro. 

«Assistente ai voli» confermò il Meccia.

Come poteva, infatti, un pilota fare a meno di un attendente?

E poi, dopo, quando fossero cominciati i voli, chi avrebbe assistito i passeggeri, aiutandoli a salire e scendere? Chi avrebbe scaricato le merci?

«Gerolamo Vitali» fu la conclusione del segretario.

Certo.

Chi meglio di lui che, tra l'altro, aveva recentemente perso il posto di lavoro e si ritrovava in braghe di tela?

Così facendo, tra l'altro, veniva a risolversi la faccenda del bar: sì, perché, entrando nella grande famiglia dei dipendenti comunali, il Vitali del cinema era costretto a mollarlo per incompatibilità e il comune poteva tranquillamente dar corso alla gara d'appalto, nel pieno rispetto di leggi e regolamenti.

Si veniva a creare un nuovo posto di lavoro: ci aveva pensato il segretario?

«Un'opera umanitaria, altamente umanitaria» commentò questi.

E riparatrice, secondo l'Albina. Perché non era possibile che un innocente come suo marito si trovasse preso in mezzo a una faccenda della quale non sapeva assolutamente niente.

«Ma», aveva aggiunto l'Albina, la sera prima, «anche se sapesse qualcosa non direbbe niente. Noi non ci impicciamo negli affari degli altri.»

Ahi!, aveva pensato il podestà.

Sapevano qualcosa o non sapevano niente?

Facevano finta o erano sinceri?

E, infine, che cazzo volevano per stare buoni al posto loro?

Glielo aveva chiesto.

Un posto di lavoro, era stata la risposta.

«E lo stipendio?» chiese il segretario.

Voleva dire, l'impegno di spesa come andava giustificato?

«Con un piccolo storno», rispose il podestà, «dai fondi di riserva.»

Eccolo lì, pensò il segretario, prendendo nota.

 

 

69

 

 

 

Ofelio Mencioni, pilota, giunse a Bellano la domenica 8 marzo 1931, col treno delle dieci e trenta.

La prima cosa che fece, quando ancora lo stridore della frenata era nell'aria e lui era affacciato al finestrino, fu di chiedersi chi avesse viaggiato di così importante sul suo stesso convoglio: lo spettacolo che la stazione di Bellano offriva, infatti, era impressionante.

Il podestà Meccia aveva organizzato le cose alla grande risolvendo i dubbi circa le modalità di accoglienza del pilota - farne un evento o mantenere il suo arrivo sotto segreto? - mercoledì mattina dopo una concitata telefonata col podestà di Dervio.

Il quale, avendo saputo dell'accordo unilaterale stretto dal collega bellanese con la SISTAR, l'aveva chiamato per esprimergli profonda contrarietà e dissenso per quel modo di agire scorretto.

Se quella era l'etica del Meccia, aveva aggiunto il derviese, approfittava dell'occasione per avvisarlo che aveva aderito all'iniziativa del collega bellagino ponendo, quale unica condizione, il veto a che Bellano e i suoi olivicoltori fossero ammessi al consorzio, né adesso né mai.

Il Meccia aveva ascoltato lo sfogo del collega frugandosi una narice col dito: che cazzo gliene fregava degli olivi?

«Buona fortuna» aveva replicato.

Dopodiché s'era immediatamente applicato a programmare l'accoglienza.

Aveva chiesto, e facilmente ottenuto, che quella domenica mattina presso la stazione ferroviaria si radunassero rappresentanze della sezione del PNF, dell'ONB, delle Giovani Italiane, del gruppo Arditi, degli Avanguardisti, del corpo dei Vigili del Fuoco, dell'asilo infantile con le monache, delle scuole elementari col maestro Fiorentino Crispini, delle Dame di Carità della San Vincenzo, del Gruppo Escursionisti Bellanesi, della società sportiva Ardisci e Spera, della Bocciofila Bellanese, delle maestranze del cotonificio Cantoni e della filanda Gavazzi; aveva ordinato al messo comunale di presentarsi in divisa e col gonfalone del comune e in mezzo alla variegata folla si piazzò lui, contornato dalla giunta.

Aveva inoltre fatto disporre bandiere tricolori sulla pensilina della stazione stessa e chiesto che, nel giardinetto, venisse composta con fiori acquistati espressamente a Bellagio, oltre alla data, com'era consuetudine in tutte le stazioni della riva orientale del lago, la scritta «Benvenuto».

Il pilota Mencioni era salito su una delle carrozze di testa del treno.

Quando vide che tutta quella massa, animata da un movimento concorde, si incamminò verso di lui, comprese che non c'era nessun personaggio eccellente sul treno: erano lì per lui.

Impallidì.

Il podestà Meccia notò il pallore, ne fu orgoglioso.

Aveva fatto colpo e a Roma avrebbero certamente saputo.

Il Mencioni strinse mani e fece inchini, impeccabile in una divisa azzurro avio che gli andava forse un po' stretta.

Bell'uomo, osservarono i presenti: altezza media, viso glabro, l'occhio verdazzurro.

Per tutta la durata delle presentazioni tenne la mascella contratta.

Segno di carattere, riflettè il podestà, di volontà che non si piega.

Come Lui.

 

 

70

 

 

 

I

 

La stanza che gli aveva fissato al Cavallino era con vista lago, disse il podestà al Mencioni verso la fine del pranzo, aspettandosi una risposta entusiastica che non venne.

Era pomeriggio inoltrato, ormai annottava.

Il tempo stava cambiando, nuvole e foschia.

Il podestà e il pilota camminarono sveltamente alla volta dell'albergo senza quasi scambiarsi parola.

«A domani!» salutò con enfasi il podestà.

Una volta in camera il Mencioni si guardò in giro per un po', poi volle affacciarsi.

Vedeva un cazzo.

Un paesaggio di ovatta, silenzioso, agonico.

Un ospizio gigante gli pareva quel paese, un enorme cimitero.

Chiuse la finestra, cominciò a spogliarsi.

Era stanco, aveva sonno, quel podestà gli aveva gonfiato i coglioni.

Fu mentre si toglieva la giacca che si accorse che mancava un bottone.

Smadonnò.

Cominciò a cercarlo per terra.

Tutto inutile, non riuscì a trovarlo.

Meglio dormire, dimenticare una domenica così.

 

II

 

«Un'altra domenica così e io scappo di casa» disse Renata.

Beata gioventù!, pensò la zia Rosina.

«E dove andresti?» chiese ridendo.

«Un posto vale l'altro» rispose la ragazza. «Basta che non sia questo!»

«E il tuo Vittorio?» domandò la zia. «Ti seguirebbe?»

Seguirla? Ma se l'idea, quell'idea di scappare via dal paese era venuta proprio a lui. Gliene aveva parlato qualche giorno prima, in gran segreto. In fin dei conti lui aveva in mano un lavoro d'oro e a Milano non avrebbe faticato a trovare un impiego.

Milano, sì. Perché era lì che bisognava andare, sempre secondo il Vittorio. Una bella mattina lui sarebbe uscito dal forno, lei dalla casa della zia Rosina e via!, sarebbero saltati sul primo treno del mattino e chi s'è visto s'è visto.

Certo, i primi tempi sarebbe stata dura...

«Dura?» interloquì la zia Rosina.

Dove sarebbero andati ad abitare?

Con che soldi sarebbero campati?

Era così sicuro il Vittorio che tutti i fornai di Milano lo stavano aspettando a braccia aperte?

E suo padre, il podestà? Secondo lei se ne sarebbe stato con le mani in mano? Avrebbe archiviato la pratica dicendo Renata non c'è più, è scappata di casa, amen?

«Certo non è ancora un piano perfetto, è un abbozzo, lo miglioreremo...» obiettò Renata bloccandosi poi davanti all'espressione scettica della zia Rosina.

Quindi sbuffò dal naso, nervosa.

La si poteva capire.

«Raccontami com'è andata, cos'è successo» le chiese la zia Rosina. Forse, facendola parlare, avrebbe scaricato un po' di agitazione.

Cos'era successo? ribatté Renata. 

Niente. Era quello il punto.

Era stata un'altra domenica morta come le acque del lago. Grigia, noiosa, interminabile.

Com'era possibile trascorrere quasi l'intero pomeriggio seduti a tavola, rimpinzandosi di cibo? Lei di appetito non ne aveva avuto nemmeno un filo.

Ma suo padre!

E anche il pilota!

Al punto che...

Renata sorrise, finalmente.

Rise anche la zia Rosina.

«Cos'è successo?»

La ragazza si infilò una mano nella tasca della gonna, la estrasse e mostrò un oggetto alla zia Rosina.

«Cos'è?»

Era un bottone, spiegò Renata.

Della giacca del pilota.

Gli era saltato via verso la fine del pranzo, senza che lui se ne accorgesse. S'era appoggiato alla sedia e gonfiando la pancia piena aveva teso la giacca strappandolo.

Era stato l'unico momento divertente di quel pomeriggio. Lei se n'era accorta, aveva lasciato cadere il tovagliolo, s'era chinata sotto la tavola e l'aveva raccolto. Non aveva osato restituirlo subito per non mettere in imbarazzo l'ospite, poi se n'era dimenticata e l'aveva ritrovato poco prima, mentre stava andando lì.

«Tua madre è sempre stata un'ottima cuoca» commentò la zia, prendendo il bottone e dandogli un'occhiata.

«Ed è bello, elegante, questo pilota?» chiese poi.

Renata alzò le spalle.

Sì, era un bel giovane, elegante anche, in quella divisa che forse gli andava un po' stretta.

«Ma ha un nome impossibile» dichiarò.

«Ah sì? Sarebbe?» chiese la zia Rosina.

Renata glielo disse, ridendo.

«Come, come?» chiese l'anziana, una nota d'allarme nella voce.

 

 

71

 

 

 

Il bottone, disse Evangelia.

Il podestà girò il viso verso di lei, strinse le palpebre. Restò con la forchetta a mezz'aria.

Era mercoledì sera, la famiglia riunita per la cena. L'unica ad aver voglia di parlare era Evangelia.

«Eh?» fece il podestà.

La moglie gli ritornò uno sguardo stupito.

«Cosa c'è?» chiese Agostino.

Cosa c'è? fece eco Evangelia.

Ma se aveva parlato un quarto d'ora di fila, rivolgendosi a lui!

Gli aveva fatto presente, di nuovo, la situazione critica in cui versava la vecchina.

Anche quel pomeriggio era passata a trovarla e l'aveva colta mentre tentava, inutilmente, di infilare il filo in un ago per attaccarsi un bottone e, così dicendo, le era venuto in mente il bottone.

«Il bottone?»

Il bottone del pilota.

Il bottone del pilota?

Ossignore, pensò Evangelia: allora non l'aveva proprio ascoltata. Le aveva fatto cenno di sì, mentre parlava, tanto per farlo.

«Ma cos'hai», gli chiese, «dove sei con la testa?»

«Qui» rispose lui, sgarbato.

Non le sembrava proprio, pensò Evangelia.

Ma tacque, offesa dal tono del marito.

 

 

72

 

 

 

Qualcosa non quadrava, aveva detto la zia Rosina.

Poi le aveva restituito il bottone.

«Guarda» aveva detto. «Guarda bene.»

Renata l'aveva fissato.

Poi:

«Ma...»

«Calma», l'aveva invitata la Rosina.

Calma. Poteva anche non significare niente.

Oppure.

«Potrebbe essere l'occasione?» aveva chiesto Renata.

«Chissà!»

Per intanto serviva dare un'occhiata alla giacca.

Giacca di sartoria, confezionata su misura, a giudicare da quel bottone. Bastava proporsi per riattaccarlo, niente di più facile.

«Lo farò io» aveva esclamato Renata.

Zia Rosina l'aveva dissuasa.

«Fallo fare a tua madre. Tu fingi di non sapere, di non capire.»

Bastava un'occhiata alla giacca del pilota, all'etichetta: all'indirizzo della sartoria.

«E poi?»

Un passo alla volta, era stato il consiglio della zia Rosina.

Renata aveva ubbidito.

Lunedì mattina, rassettando la sala da pranzo, aveva finto di trovare sul tappeto il bottone. L'aveva consegnato a sua madre. Evangelia s'era immediatamente offerta di riattaccarlo ma lunedì sera non aveva detto niente al marito. Nemmeno martedì ne aveva fatto cenno.

Che se ne fosse dimenticata?

Renata l'aveva detto alla zia, mercoledì mattina, durante il solito appuntamento con Vittorio.

Mercoledì sera, per fortuna, sua madre se n'era ricordata.

Fortuna, s'era chiesta Renata, o merito dell'abile sceneggiata della zia Rosina che faticava a infilare un ago per attaccarsi un bottone?

 

 

73

 

 

 

Il podestà non l'aveva mai fatto in vent'anni di matrimonio, non lo fece neanche adesso: non volle ammettere che sua moglie aveva ragione.

Però ce l'aveva.

Con la testa non era lì.

C'era qualcosa che lo preoccupava. Non era proprio una preoccupazione. Piuttosto qualcosa che non si decideva a saltar fuori, un'ombra che lo seguiva.

Difficile tradurre in parole quella sensazione.

Eppure...

Insomma, lunedì mattina, come da ordine espressamente ricevuto da lui, il Vitali si era presentato alla porta del Cavallino in attesa del pilota Ofelio Mencioni del quale, a partire da quel giorno, era a tutti gli effetti l'attendente.

Non era entrato nel luminoso atrio dell'albergo: il Vitali era uomo d'osteria, gli ambienti chic lo mettevano a disagio.

Alle dieci, dopo due ore di vana attesa, lo stesso Vitali gli era comparso davanti, in municipio, per riferire che il Mencioni non era ancora sceso dalla sua camera.

«E be', sarà stanco» aveva risposto.

La giornata di domenica, il viaggio, le presentazioni.

«Non preoccupatevi, Vitali», aveva aggiunto, «limitatevi ad attenderlo e a coadiuvarlo. E questa sera riferite.»

Il Mencioni s'era mostrato, le mani in tasca e fischiando un vago motivetto, attorno a mezzogiorno. Aveva appena cacciato la testa fuori dall'albergo e constatato che c'era ancora una cappa di nubi sulle montagne e una vaga foschia sul lago.

«Non c'è visibilità» aveva comunicato al Vitali, dopodiché l'aveva congedato.

Martedì stessa storia. Con la differenza che il pilota non aveva nemmeno messo la testa fuori della porta: era sceso a mezzogiorno, salutato il Vitali, consumato il pranzo ed era risalito in camera.

«Approfitterà del maltempo per studiare le carte nautiche, i venti» aveva mormorato il podestà dopo la relazione del Vitali.

Ma quella stessa mattina aveva voluto verificare di persona e, passando per l'entrata di servizio del Cavallino, s'era presentato al padrone e aveva indagato.

«Dorme» gli aveva risposto questi. Impossibile non saperlo.

Russava. In una maniera talmente singolare che aveva fatto ridere tutto il personale dell'albergo.

Già che c'era, il podestà aveva domandato alla cameriera che gli rifaceva il letto se per caso avesse notato, nella camera del pilota, libri, carte geografiche o strumenti strani a uso di chi naviga o vola.

La ragazza non aveva nemmeno aperto bocca bastandole, come risposta, un significativo scuotere di testa.

Quello stesso mercoledì, infine, l'aveva trascorso facendo il gigione con una servotta del Cavallino, standole addosso per gran parte della mattinata e poi, al termine del turno di lavoro, accompagnandola addirittura a casa dopo aver congedato il Vitali dicendogli che per quel giorno non aveva più bisogno di lui.

Ne aveva abbastanza, insomma, per sentirsi leggermente inquieto.

Cos'era, quindi, 'sta storia del bottone?

Cosa c'entrava?

 

 

74

 

 

 

Cosa c'entrava il bottone?, si meravigliò Evangelia.

Glielo ripeteva, disse, a patto che la stesse ad ascoltare.

C'entrava perché lei era dispostissima ad attaccarglielo, sempre che qualcuno le portasse la giacca.

E sempre che fosse della giacca del pilota.

Renata si riscosse.

«L'ho trovato io lunedì», recitò, «sul tappeto sotto il tavolo della sala.»

«Va bene, ammettiamo che sia così» ribatté Evangelia. 

«E' così» insisté Renata. 

E allora, rimbeccò Evangelia, siccome era così, e siccome lei non era scema né smemorata, ricordava benissimo che il giovanotto si chiamava Ofelio.

«O no?» fece.

E allora? interloquì il podestà, infastidito.

E allora, siccome su quel bottone c'erano le iniziali di un nome e di un cognome, la cosa non quadrava.

«C e M» disse Evangelia.

O cristo! pensò il podestà.

«Potrebbe essere che non ci vedi tanto bene» commentò.

In fin dei conti, aggiunse, tra una C e una O, la differenza era minima.

Né scema, né cieca, disse Evangelia.

L'aveva con sé, il famoso bottone, lo teneva in tasca.

Lo esibì.

«Questa è o no una C?» chiese.

Era una C.

 

 

75

 

 

 

I

 

C stava per Claudio.

Claudio Mazzagrossa.

Figlio del responsabile commerciale e ideatore della SISTAR. 

Pilota d'aereo, brevetto civile.

Amico del Mencioni che, spesso, aveva scarrozzato nei cieli sopra Roma, insegnandogli i rudimenti del volo, permettendogli più volte di prendere i comandi e provare l'ebbrezza di pilotare un aereo.

Col destinarlo a Bellano, l'ingegnere padre aveva ritenuto di catturare, come si dice, due piccioni con una fava.

Innanzitutto avviava quel figlio, unico e cresciuto un po' viziato, al mondo del lavoro. In secondo luogo lo allontanava da Roma e da una certa storia nella quale, stando a voci che gli avevano soffiato nell'orecchio, s'era impegolato.

Pareva infatti che il giovanotto stesse per compromettersi, ove non lo avesse già fatto, con la giovane, giovanissima moglie di Evanio Corsetti, chirurgo di fama che tra i tantissimi onori collezionati contava anche quello di aver visitato Sua Eccellenza il Capo del Governo, afflitto da ulcera allo stomaco, oltre che molti altri gerarchi, coi quali era in confidenza.

Fregava niente al Mazzagrossa padre dove il figlio andava a pucciare il biscotto: ma che lo facesse, proprio adesso, con la moglie di uno il cui fratello era sottosegretario al ministero dell'Economia, dalle cui casse sarebbero dovuti uscire i soldi per finanziare un ampio progetto di voli commerciali e turistici, non lo poteva permettere. 

Pure al Mazzagrossa figlio fregava niente dei giri che suo padre aveva nei vari ministeri. La mogliettina del professore l'aveva stregato e, quando la vedeva nei locali dell'aeroclub Francesco Baracca, sembrava che tutto il sangue si concentrasse nelle sue parti intime. Era stato lui a proporle e poi a mettere in atto il battesimo dell'aria, due mesi prima all'incirca. Da quel giorno, una volta alla settimana, l'aveva portata in volo sotto gli occhi del professore pure lui patito di volo ma inabile per via di un certo grado di sordità. A un certo punto alla donna, che faceva Eudemia di nome, era spuntata l'idea di prendere pure lei il brevetto. Ottima idea! Ma, prima della pratica, le aveva fatto notare il Mazzagrossa, bisognava farsi una base di teoria. Studiare, insomma.

Nessun problema, aveva ribattuto la donna. Dispostissima a cominciare, subito, addirittura dalla settimana a venire, sempre che fosse lui, il Mazzagrossa figlio, a farle da insegnante.

Tanto più, aveva aggiunto, che il marito sarebbe stato lontano da casa, a Bari per un congresso.

Il Mazzagrossa aveva contenuto l'emozione.

Era fatta!

Ma, Cazzo!, aveva pensato subito dopo: la settimana seguente, secondo i progetti paterni, avrebbe dovuto trovarsi in un filomena di posto dal nome ridicolo e che ricordava il culo.

 

II

 

Cor cazzo!

Cor cazzo che avrebbe rinunciato a una settimana di lussuria con Eudemia.

Il Mencioni gli era venuto subito in mente.

Con tutti i piaceri che gli aveva fatto, voli gratis compresi, non avrebbe potuto dirgli di no. 

Glielo aveva detto subito.

«Io?» era allibito quello. «Ma sei scemo?»

No bello mio, aveva risposto, sei scemo tu.

Ma io... 

Ma io, l'aveva stoppato, se pe corpa tua me perdo 'na settimana de trombate così ggiuro che te la faccio paga'! 

«Ma?», aveva obiettato Ofelio, fermandosi subito dopo.

Era stato il suo ultimo ma.

Il Mazzagrossa gli aveva spiattellato per bene il piano che s'era fatto nella testa.

«Ma che se credeva?», gli aveva detto.

Che lo mandava così?

«Allo sbarajo?»

Mica s'era rincojonito. Quindi che stesse ad ascoltare attentamente.

Nun se trattava de 'na bbotta e via.

Aveva bisogno invece di una settimana, «'Na bella settimana piena», per inforcare in tutte le posizioni del mondo la mogliettina del professore. E non una settimana qualunque. La prossima. Quella che, secondo le intenzioni di suo padre, avrebbe dovuto passare in un cazzo di paesello a studiare piste acquatiche di ammaraggio e decollo.

Ci mandava lui, Ofelio Mencioni.

Che avrebbe dovuto fingere di essere il pilota eletto.

«Pe finta, no?»

Molte cose sul volo le sapeva. 'A fantasia nun je mancava. Aveva anche pilotato da solo. E infine gli prestava pure la divisa der pilota civile, bella, che gliel'aveva confezionata er mejo sarto de Roma.

Cos'altro gli ci voleva?

Non era capace di infinocchiare quattro buzzurri che probabilmente un aereo non l'avevano mai visto nemmeno dipinto? Che sarebbero stati tutti ai suoi piedi, adoranti?

Poi, passata quella settimana, lui gli avrebbe dato il cambio, li cojoni belli sgonfi.

Sarebbe stata sua cura intortare podestà e menaballe vari. Gli avrebbe raccontato che il Mencioni era una specie di ufficiale di rotta.

«N'omo de fiducia mia.» 

E poi che non gli andassero a scassa troppo er cazzo, perché volare era un affare che riguardava lui e basta.

«O me dici de sì o me dici de sì» aveva concluso il Mazzagrossa.

Che probabilmente, aveva aggiunto, vai su a fare la bella statuina, a mangiare a sbafo e magari capita pure a te de 'ngroppà aggratis.

 

 

76

 

 

 

Se voleva poteva passare verso le cinque del pomeriggio dalla casa del signor Podestà, così gli attaccava il bottone che aveva perduto domenica durante il pranzo.

Gerolamo Vitali comunicò l'invito al pilota Mencioni stando quasi sull'attenti.

Eccolo dov'era finito il bottone, pensò Ofelio. Che però non era scemo come il Vitali.

«Perché proprio alle cinque?» chiese.

Il Vitali non ebbe esitazioni.

Perché, spiegò, prima di quell'ora la signora podestà non c'era e lui avrebbe trovato in casa solo la figlia.

Ben appunto, pensò il Mencioni.

Aveva proprio ragione il suo socio Mazzagrossa quando diceva che quei paesanotti erano dei ciucci e li potevi far su con un dito nel culo.

La figlia del podestà non era male. Forse un po' timida. Domenica, durante il pranzo, non aveva quasi mai parlato.

Ma chi se ne frega, pensò il Mencioni. Non voleva fare conversazione.

Fece due conti. Ormai era giovedì mattina. Prima di sabato l'idrovolante non sarebbe arrivato e domenica, come da promessa, sarebbe comparso anche il Mazzagrossa.

Per uno svelto come lui due giorni bastavano e avanzavano per intortare la signorina podestà.

Alle tre del pomeriggio suonava alla porta di casa Meccia.

 

 

77

 

 

 

Alle sei di sera Gerolamo Vitali gli comunicò che il signor podestà desiderava vederlo.

Cosa c'era? pensò il Mencioni.

Ma tacque.

Possibile che la signorinella fosse corsa a lamentarsi dal paparino?

Per cosa, poi?

In fin dei conti non aveva fatto niente.

Aveva tenuto le mani a posto, lavorando solo con la lingua.

Passeggiando su e giù per il salotto di casa Meccia, mentre lei gli riattaccava il bottone, aveva inventato mirabolanti avventure aeree, cercando di affascinare la ragazza coi resoconti della sua fantasiosa spavalderia.

Aveva descritto acrobazie, numeri d'alta classe: tutte cose che il Mazzagrossa faceva davvero e alle quali lui, spesso, aveva assistito stando a terra.

Le aveva promesso, infine, che se voleva l'avrebbe portata, per prima, a fare un giretto.

Aveva forse già volato? le aveva chiesto.

No.

Le sarebbe piaciuto?

Forse.

Poteva tornare a trovarla?

Un'alzata di spalle.

Era uscito dalla casa del podestà con il sospetto che forse due soli giorni non gli sarebbero bastati per mettere nel sacco la ragazza.

Se voleva fare esercizio sarebbe stato meglio tentare una delle servotte che lavoravano al Cavallino: sentivano un po' di sudore, ma avevano solide chiappe e tette da vendere.

Quindi cosa significava quella convocazione?

 

 

78

 

 

 

Il podestà era in ambasce.

Avvicinandosi il momento, quella sorta di dubbio non l'aveva lasciato in pace un istante.

S'era immaginato l'arrivo di un pilota carico di attrezzi e strumenti, carte e chissà cos'altro. Invece no. Più che dormire, secondo le spiate dell'albergatore, o mangiare e andarsene in giro zufolando, le mani in tasca, con l'aria di chi non sapeva cosa fare per tirar sera, secondo le relazioni del Vitali, il Mencioni non aveva fatto.

Probabilmente bastava tanto così. A un occhio esperto, s'intende: bastava appunto un'occhiata per capire da dove partire e dove atterrare.

Poi c'era stata la faccenda del bottone.

Una cazzata, d'accordo.

Un'idiozia, che però non era riuscito a dimenticare.

Una C, una O.

Non voleva dir niente.

Magari era la giacca di suo padre.

Oppure aveva un primo nome che non gli piaceva: Carlisio, magari, o Checazzo ne sapeva!

L'aereo, aveva pensato il podestà: all'arrivo dell'aereo tutti i dubbi si sarebbero sciolti come neve al sole.

Invece, quando, la mattina di quel giovedì gli era stato comunicato che l'idrovolante, un Cant 10 Ter, uscito qualche anno prima dai cantieri navali triestini, sarebbe arrivato alla stazione ferroviaria sabato mattina, attorno alle dieci, con un trasporto eccezionale su vagone merci, l'ansia gli era aumentata.

Allora aveva fatto convocare il pilota perché voleva essere rassicurato.

Al solo vederlo si sentì meglio.

«Procede tutto bene?» chiese.

Non gli riusciva di entrare direttamente nel contesto dei suoi dubbi. Non gli riusciva nemmeno di tradurli in parole.

«Tutto bene» rispose il Mencioni.

Sicuro.

Stringato.

Come dev'essere un uomo d'azione.

«Sabato l'idrovolante arriverà» disse, orgoglioso.

«Ma sabato sarà impossibile iniziare i voli di prova» lo stoppò subito il Mencioni.

Bisognava, infatti, controllare con accuratezza che l'aereo fosse a posto, che nessuna delle sue parti avesse patito il viaggio.

«Domenica allora.»

«Facciamo lunedì.»

La domenica, troppi, tra barche e battelli, incrociavano sul lago e per provare decolli e ammaraggi sarebbe stato augurabile avere il campo il più possibile libero.

«Lunedì.»

«Senza problemi» rispose Ofelio.

Il podestà tirò un bel respiro di sollievo.

Sorrise.

«Vedo che vi hanno riattaccato il bottone» disse.

Si alzò, fece il giro della scrivania e si piazzò davanti al pilota. Pinzò con due dita un rever della giacca.

«Bella divisa» commentò. «Ottimo sarto.»

 

 

79

 

 

 

«Berardini Augusto e figlio - Sarti in Roma - Largo di santo Spirito».

Sull'etichetta c'era anche il numero di telefono: 3473.

La zia Rosina approvò con un cenno del capo e un indefinibile sorriso che le si allargò su tutto il volto.

«Adesso?» chiese Renata.

Adesso, rispose la Rosina, era suonata l'ora di andare a vedere se suo padre il podestà era riuscito a cacciarsi in qualche guaio.

 

 

80

 

 

 

Sabato mattina, sotto uno splendido cielo azzurro, ulteriore regalo per il trionfo del podestà poiché sino alla sera prima il tempo era stato umido e nebbioso, l'aereo arrivò al cospetto di molto popolo.

Parecchi tra gli spettatori, per tempo, avevano preso posto sul marciapiede della stazione. Morti di fame: ma, per una volta, il podestà pensò che andava bene così.

Il convoglio, speciale, bucò il buio della galleria alle dieci precise.

Tre carri merci.

Sul primo la carlinga.

Sul secondo le ali.

Sul terzo le rimanenti parti meccaniche, eliche e timoni di coda.

Uno scrosciante applauso salutò la frenata che si perdeva nell'aria.

Molti tra i presenti non avevano mai visto un aereo se non in fotografia.

I commenti si sprecarono.

Anche la telefonista Dulù era presente, mischiata alla folla.

Aveva chiuso per una mezz'ora il posto pubblico, mettendo sulla porta un cartello «Torno subito», ed era filata in stazione.

Dell'aereo gliene fregava poco. Anzi, niente.

Le interessava il pilota che non aveva ancora avuto occasione di vedere.

Pilota d'aereo, diceva tra sé. E sospirava.

Quando lo vide, di fianco al podestà, applaudire insieme ai presenti l'arrivo dell'idrovolante, lo trovò subito molto bello.

Un brivido le corse lungo la schiena. 

Bello, pensò, e senza fidanzata.

Sorrise, tra sé, alla sua furbizia.

Come faceva a saperlo?

Semplice: se avesse avuto una fidanzata da qualche parte, una telefonata prima o poi l'avrebbe fatta. E lei se ne sarebbe accorta.

«O no?», si disse, sorridendo.

Invece niente.

Si allontanò, la mezz'ora ormai era scaduta, soddisfatta, già immaginandosi fiancée.

A un pilota d'aereo, ripeté. 

Come fare ad agganciarlo sarebbe stato affar suo. I mezzi non le mancavano, sapeva usarli.

Soggiornava al Cavallino?

Bene, ci sarebbe andata, uno dei prossimi pomeriggi, a prendere un tè. 

Una donna sola, bella ed elegante, seduta al tavolino: un quadro, una scena da film, molto romantica.

Chiunque ci sarebbe cascato.

E semmai fosse stato necessario, due o tre occhiate più lunghe del dovuto...

Le sembrava già fatta.

Invece...

 

 

81

 

 

 

«Calma» disse la zia Rosina.

Ma aveva un bel raccomandarla.

Il Vittorio, dopo la notte passata a infornare michette, aveva una faccia da diavolo, rossi anche gli occhi. Per il disappunto di non aver trovato Renata al solito, striminzito appuntamento della mattina aveva stretto i pugni e i masseteri, corrugando la fronte, assumendo una mimica inquisitoria e un atteggiamento da belva pronta a scagliarsi sulla preda.

Come mai non c'era Renata?

Dov'era?

Cosa stava succedendo...

«Calma» ribadì la zia Rosina.

Qualcosa, in verità, stava succedendo.

Renata non era lì e c'era un'ottima ragione perché non ci fosse.

«Quale?» chiese il Vittorio.

«Lascia perdere i pugni» consigliò zia Rosina.

Vittorio aprì a ventaglio entrambe le mani.

«E cambia tono» aggiunse la donna.

Il giovanotto fece cenno di aver capito.

Bene, concluse la zia Rosina.

Adesso poteva spiegargli cosa stava accadendo.

 

 

82

 

 

 

Per non dare nell'occhio Renata aveva deciso di approfittare dell'arrivo dell'idrovolante.

Era uscita di casa dicendo a sua madre che andava dalla Rosina. Quando s'era trovata davanti il cartello «Torno subito» aveva mormorato tutte le parolacce che conosceva.

Aveva aspettato.

Mezz'ora c'era voluta.

Infine Dulù era tornata.

Renata la fulminò con lo sguardo.

«Dovete telefonare?» chiese Dulù.

Svampita, pensò Renata.

«Se sono qui» rispose seccamente.

Smorfiosa, pensò Dulù.

«Accomodatevi.»

C'era voluta un'altra mezz'ora.

Quando Renata uscì dalla cabina fu la volta di Dulù a fulminarla con un'occhiata.

Di cosa s'impicciava, quella smorfiosetta?

Perché mai s'interessava così tanto al SUO pilota?

Credeva forse che, per il solo fatto di essere la figlia del podestà, tutto le fosse permesso? Anche interferire coi sogni, anzi coi progetti del prossimo?

Renata uscì euforica dal posto telefonico pubblico.

Canticchiava Solo per te Lucia, il motivo musicale del film La canzone dell'amore, l'ultimo che aveva visto alla Casa del Fascio in compagnia di Vittorio. 

Dulù la seguì con lo sguardo, e con le orecchie, fino a che non la vide sparire.

Cantava, eh? Era contenta, soddisfatta di sé?

Gliel'avrebbe fatta vedere lei.

Voleva la guerra?

Guerra sarebbe stata.

 

 

83

 

 

 

Dalla sartoria Berardini Augusto e figlio aveva risposto una donna.

Renata aveva cinguettato nella cornetta: sapeva che non si poteva permettere di fare cilecca.

Aveva detto di aver visto una splendida divisa da pilota d'aereo, impeccabilmente confezionata dai Berardini sarti in Roma. Ne voleva anche lei una così, per farne dono al suo fidanzato, pure lui appassionato di aviazione.

L'uomo addosso a cui l'aveva vista e apprezzata si chiamava Ofelio Mencioni: telefonava per sapere quanto le sarebbe costata e in quanto tempo avrebbero potuto prepararla visto che, fortuna!, le misure corrispondevano.

La donna all'altro capo del filo aveva chiesto di pazientare: doveva chiedere all'Augusto titolare oppure al figlio.

Era passato qualche minuto, poi alla cornetta era arrivata una voce maschile.

Che, sgarbatamente, aveva informato Renata che la sartoria Berardini non annoverava tra i propri clienti nessun Ofelio Mencioni o come diavolo si chiamasse né, loro sarti, avevano tempo da perdere con buontemponi in vena di scherzi telefonici.

E, senza salutare, aveva messo giù.

«Tombola» disse la zia Rosina.

 

 

84

 

 

 

L'idrovolante (l'idro, come già l'aveva battezzato la folla) venne ancorato in prossimità della darsena dei Gavazzi, al riparo da breve e venti.

Dalle finestre del Cavallino lo si poteva vedere con tutto comodo.

Sabato Ofelio saltò il pranzo, dovendo presenziare al trasporto e al montaggio.

Nonostante ciò, a cena, appetito zero.

Nel pomeriggio, prima che si disperdesse la folla dei curiosi, il podestà gli aveva chiesto di far sentire il rumore dei motori.

L'aveva fatto. Fin lì, anche un bambino sarebbe stato capace.

«Che musica!» aveva commentato il Meccia.

Proprio: una marcia funebre.

Dopo, il Mencioni s'era chiuso in camera sua ad aspettare l'ora di cena.

Era rimasto alla finestra, fissando l'idro.

Aspettando che arrivasse una delle servotte ad avvisarlo che giù di sotto, nell'atrio, c'era uno che cercava di lui.

Macché, un cazzo.

Era venuto buio.

L'idro aveva assunto una parvenza inquietante, contorni infernali.

Dondolava al ritmo delle onde, sembrava una tigre acquattata nel buio in attesa di esibirsi in un balzo mortifero.

In sostanza, aspettava che lui passasse a tiro.

Avevano bussato alla porta.

Ofelio era saltato per aria.

Era pronta la cena.

Bellamerda.

Non aveva un cazzo di fame.

Era sceso lo stesso.

Non doveva perdere la calma.

Questione di ore e il Mazzagrossa sarebbe stato lì.

Il padrone del Cavallino gli aveva usato una cortesia particolare: aveva girato il tavolo dove solitamente cenava verso la finestra, in modo di mettergli sotto gli occhi il suo idro.

Grazie.

E vaffanculo.

Ogni cliente che entrava poteva essere il Mazzagrossa.

S'era fatto venire il mal di collo a furia di girarsi.

Niente da fare, quello non era comparso.

«A che ora arriva l'ultimo treno?», aveva chiesto a un certo punto.

«Alle nove e venti», gli aveva risposto una servotta.

Erano ormai le dieci meno dieci.

Vacca troia porca!

Ma non ha mangiato niente!, gli fece notare la cameriera verso la fine della cena.

Lo prende almeno un dessert?

Sì, aveva pensato, nel culo.

 

 

85

 

 

 

La domenica Ofelio si svegliò presto, dopo un sonno agitato e spesso interrotto. Erano le sette, sette e mezza.

Si precipitò alla finestra.

Il tempo era ancora bello, il cielo lindo, il lago un olio.

E, porca puttana!, c'era già gente lì sotto: guardavano l'idro e ogni tanto si giravano e indicavano la sua camera.

La stanza del pilota.

Niente colazione: gli sembrava di non averlo neanche più, uno stomaco.

Sbarbato e stretto nella divisa non sua si presentò alla folla, attorno alle dieci, dovendo sostenere la parte.

L'inquietudine che lo agitava venne subito interpretata come voglia di prendere il volo. Il podestà Meccia, almeno, la intese così.

Tanto che cercò di forzargli la mano. Guardando il lago che sembrava dipinto e il cielo dove non c'era una nuvola che fosse una, gli chiese se non sentisse la tentazione di fare un primo giro di prova.

Il Mencioni sbiancò.

Per fortuna un battello stava doppiando la punta di Dervio, profilandosi all'orizzonte.

Ofelio glielo indicò.

«Fosse stato solo un'ora fa...» disse.

Poi salutò e ritornò in albergo con la scusa che stare in mezzo alla gente lo infastidiva. 

Il podestà lo guardò allontanarsi. Lo ammirò, e invidiò.

Che uomini, aveva pensato, i piloti! 

Gente strana, abituata alle solitudini dell'alto dei cieli.

 

 

86

 

 

 

Durante il pomeriggio non si mosse.

Lo trascorse passeggiando tra il letto e la finestra.

Una folla continua aveva ininterrottamente reso omaggio all'idro che, sornione, perseverava in quel movimento sussultorio dettato dalle onde e pareva gli volesse dire:

«Ci vediamo domani, coglione!»

Domani!

Attorno alle quattro Ofelio si buttò sul letto. Le gambe, per il gran camminare avanti e indietro, avevano cominciato a fargli male.

Calmo, s'era detto.

Doveva stare calmo.

Non poteva mancare molto, ormai, all'arrivo del Mazzagrossa, alla fine di quel tormento.

Steso sul letto, le mani dietro la nuca, gli occhi fissi al soffitto, immaginò la scena dell'arrivo del socio.

Gli insulti che gli avrebbe indirizzato.

Le risate che si sarebbero fatti.

La cena, anche. L'appetito, infatti, gli sarebbe ritornato.

La cena, quindi, abbondante e innaffiata dal vino migliore: tanto pagava l'amministrazione comunale.

Poi una bella dormita e infine via, da quel posto di merda.

Fantasticando lo prese il sonno.

Dormì come un bambino per un paio d'ore, sempre sognando.

Si svegliò, sudato, nel buio della sera che aveva avvolto la stanza, quando gli sembrò di sentir bussare alla porta.

Sospirò, felice.

Corse alla porta, sulla lingua il primo di una lunga serie di insulti.

Aprì.

Buio.

Silenzio.

Nessuno.

Odore di cucina nell'aria.

Gli venne una botta di nausea.

La lingua secca, un senso di stringimento al collo.

Era stato solo un sogno.

Che ore erano?

Le sette? Le otto? Chi se ne frega, pensò.

Si vestì e uscì.

 

 

87

 

 

 

Dulù non lo riconobbe subito.

Era appena rientrata ed era in deshabillé.

Aveva trascorso una buona metà del pomeriggio seduta a un tavolo del Cavallino aspettando che il pilota comparisse.

Aveva bevuto una tazza di tè via l'altra, se n'era andata sul far della sera con la pressante necessità di fare pipì. Alla toilette del Cavallino c'era già andata tre volte, aveva temuto che il padrone, se gli avesse chiesto per la quarta volta la chiave per aprire la porta del cesso, se ne sarebbe uscito in qualche inopportuno commento. 

Lui non si presentò.

«Scusate» disse.

Dulù non l'aveva mai sentito parlare ma l'accento era inconfondibile.

Era lui.

Cosa fare?

Accendere la luce del corridoio, invitarlo a entrare?

Ma così, mezza vestita com'era...

Però era lui, era lì.

Che l'avesse spinto una forza misteriosa, l'amore forse?

Che l'avesse notata il giorno prima tra la folla che applaudiva l'arrivo dell'idro e magari cercata per tutte quelle ore senza sapere che lei l'aveva atteso, sorbendo tutto quel tè? 

Chissà!

L'amour, sognò Dulù.

«Scusate l'orario» ripeté lui, la voce fonda, ammantata di buio. «Ma avrei assoluta necessità di fare una telefonata.» 

 

 

88

 

 

 

Un bel sogno spezzato?, si chiese Dulù.

«È chiuso» disse, improvvisamente dura.

Se credeva che lei fosse lì per dargli l'agio di sfarfallare al telefono con la sua bella alla vigilia dei voli di prova si stava sbagliando.

Ofelio deglutì. Aveva colto il tono metallico.

Ma, diobono!, doveva telefonare a qualunque costo.

«Era per la mia povera mamma» disse, chiudendo la frase con un singhiozzo molto ben simulato.

Colpita, Dulù si rammollì.

«Vostra madre?» chiese.

Il Mencioni annuì, sempre più avvolto nell'ombra.

«È ammalata?» chiese Dulù.

Approfittando del buio, il Mencioni si toccò.

«No» rispose.

«E allora?»

«Vi dirò...» mormorò.

Poi tacque.

«Avanti, dite.»

«Ne ho quasi vergogna» cercò di sorridere il giovanotto. 

«Insomma...»

Era per una questione di scaramanzia, buttò lì il giovanotto.

«Ah sì?» chiese Dulù.

Esattamente: faceva sempre così, da che era pilota, alla vigilia di un volo. Una telefonata alla mamma. E la mamma lo sapeva. Ergo, se non avesse ricevuto la telefonata, si sarebbe preoccupata.

Dulù sorrise, rilassata, una perfetta chiostra di denti nell'ormai fitto buio del corridoio. 

Ma non era scema: qualcuno in passato l'aveva creduto. Ne portava ancora i segni.

«Potevate farlo dall'albergo» osservò. «A quanto ne so il Cavallino è dotato di apparecchio telefonico.»

Era vero, ammise il Mencioni.

Ma l'apparecchio era nel salone, appeso al muro, di lato al bancone. Chiunque avrebbe potuto ascoltare. E, infine, lui aveva una voce un po' grossa.

Insomma, si vergognava.

«Capisco» disse Dulù.

Nessuno, comunque, poteva illudersi di metterla nel sacco.

«Va bene», disse, «datemi il tempo di vestirmi e vi farò fare questa telefonata.»

«Siete un angelo» la ringraziò il Mencioni.

«Dite?» cinguettò Dulù.

«Un'ultima cosa» la fermò ancora il pilota.

La telefonata... il costo, insomma...

«Sì?»

Era da addebitare all'amministrazione comunale.

 

 

89

 

 

 

«Posso esservi utile in qualcosa?» chiese, lunedì mattina, il segretario Carré.

«Bien sûr» rispose Dulù, sorridendo e allungandogli un bigliettino. 

«Qu'est-ce que c'est?» ribattè lui.

Il conto.

Che conto?

Dulù sospirò.

A guardar bene, l'amministrazione di un posto pubblico telefonico era abbastanza simile a quella di un comune.

Il Carré faticava a seguirla.

«Non capisco» disse.

I conti dovevano tornare.

Tante telefonate, tanti scatti, tanti soldi, spiegò Dulù.

E alla sera, ogni sera, a lei piaceva far quadrare il bilancio.

Quindi se l'amministrazione aveva la compiacenza di saldare quel conticino lei se ne sarebbe tornata a lavorare contenta.

Certo, disse il segretario.

Ma perché doveva pagarlo l'amministrazione?

Perché la telefonata era stata effettuata dal pilota d'aereo, tra l'altro in orario non di servizio ma questo poco importava, poiché lei avrebbe fatto in modo di registrarla tra quelle della giornata in corso.

L'importante era saldare il conto.

A quel punto il segretario Carré comprese.

«Vitto, alloggio ed extra» disse.

«Come dite?» chiese Dulù.

«Niente» rispose lui. «Mi servirebbe una pezza giustificativa, però. Sapere dove ha telefonato. Vanno così le cose nella pubblica amministrazione.»

«Non è un problema» sorrise Dulù.

Ingegner Mazzagrossa, comunicò.

Il segretario Carré fece tanto d'occhi.

«Ingegner Mazzagrossa?» chiese. «Ne siete certa?»

Il numero glielo aveva passato lei, spiegò Dulù. Come poteva sbagliare?

Gli aveva detto che doveva parlare con sua madre, faceva sempre così prima di andare in volo.

«C'è qualcosa che non torna però» osservò il segretario.

Se il pilota faceva Mencioni di cognome, come mai telefonava a casa Mazzagrossa per parlare con la madre?

«Fosse solo quello» sibilò Dulù.

Il segretario Carré si alzò e andò a chiudere la porta dell'ufficio. Poi tornò a sedere e invitò Dulù a fare altrettanto.

«Avete ascoltato la conversazione?» chiese.

 

 

90

 

 

 

Le era venuto, per ragioni sue private, il sospetto che il pilota le avesse raccontato una bugia, disse Dulù. 

«Ah sì?» fece il segretario Carré.

«Certo» disse Dulù impedendosi. 

Solo per quella ragione aveva sorvegliato la telefonata: il suo era un servizio pubblico, un poco di vigilanza non guastava.

«È vero», ammise il segretario, temendo che la donna si offendesse, «non ne avevo tenuto conto.»  

«Bene» approvò la donna.

Quindi, solo per le ragioni che aveva testé dichiarato, approntata la comunicazione con questo tal Mazzagrossa, di Roma, aveva ascoltato.

Dulù esitò.

«Avanti» la invitò il segretario.

«Non so se faccio bene» solfeggiò la telefonista.

«Ah no?»

«No» confermò Dulù.

Il segretario sbuffò e si lasciò cadere sulla sedia.

«Très bien» disse. «Alors...» 

Dulù lo guardò stizzita. Aveva compreso il significato di quella repentina ripresa della conversazione in francese.

«Resterà un segreto tra me e voi?» chiese.

Il segretario non rispose.

Va bene, disse Dulù, si fidava della sua discrezione.

«Della quale avete già una prova» aggiunse lui.

«Touché!» fece la telefonista, riprendendo a raccontare.

Aveva risposto una voce di vecchia, la governante. La quale, senza che nessuno glielo avesse chiesto, aveva detto di essere sola in casa perché il signore, l'ingegner Mazzagrossa evidentemente, era in Egitto mentre la signora, la moglie dell'ingegnere con altrettanta evidenza, era fuori casa, impegnata in un torneo di canasta.

        Al segretario scapparono gli occhi al soffitto.

Che sciocchezze erano quelle?

Dulù se ne avvide.

«Il bello viene adesso» disse.

«Ah sì?»

Certo.

Perché il pilota aveva interrotto, anche abbastanza villanamente, la governante, per farle una richiesta precisa.

«Quale?» chiese il Carré.

Dulù aveva gusto per la scena, si sapeva: amava tenere sulla corda spasimanti e ascoltatori. Lasciò scorrere qualche secondo prima di ripartire.

«Non ve la immaginate?»

E come poteva? borbottò il segretario.

«Be', le ha chiesto di passargli il figlio dell'ingegner Mazzagrossa, il signorino Claudio.»

Tutto lì? fece il segretario.

Non ci vedeva niente di sorprendente.

Dulù sorrise.

«Non direte così quando conoscerete la risposta della governante» affermò.

Perché la governante aveva risposto che nemmeno il signorino era in casa.

Anzi, non era nemmeno a Roma.

E dov'era? aveva chiesto il Mencioni con una voce talmente stridula che non sembrava nemmeno più la sua.

In un posto il cui nome le sfuggiva, aveva risposto la governante: ma era comunque sicura che si trovasse in alta Italia, sul lago di Como, per via di certi voli.

«Che cosa?» sbottò il Carré.

Dulù esibì un sorriso di trionfo.

«Visto che avevo ragione?» disse. «Non è stupefacente? Dico, se quello è qui a Bellano perché mai il pilota lo ha cercato a casa sua, a Roma?»

«Eh già» rispose il segretario.

Ma come se parlasse da un altro luogo.

 

 

91

 

 

 

Il podestà era in piazza Boldoni.

Accanto a lui l'assistente ai voli Vitali.

Dietro, una folla già numerosa attendeva l'arrivo del pilota.

«Il grande giorno è arrivato» commentò il Meccia quando Ofelio Mencioni comparve alla porta del Cavallino.

Questi non osò ribattere. Si guardò intorno.

«Che ve ne pare?» chiese il podestà.

Si riferiva alla giornata, ideale.

Tutto - il lago, le piante, il cielo - sembrava immobile, in attesa che lui, con le sue acrobatiche evoluzioni, squarciasse il silenzio e la compostezza del paesaggio.

Ofelio ostentò sicurezza.

«Molto bene» disse e si avviò alla volta dell'idro.

Non aveva dormito un secondo.

Aveva prestato orecchio a tutti i rumori che avevano animato la notte.

Poco dopo la mezzanotte, il miagolare di certi gatti, nella corte interna dell'albergo, gli era sembrato un umano parlare.

«Guaaai, guaaai.»

Lo sapeva, era nei guai.

Il tempo stringeva.

Il lunedì incombeva.

Cosa fare?

Cosa?

Ci aveva pensato tutta la notte. A illuminare le sue riflessioni, un lumicino: la speranza che, all'ultimo minuto, quella testa di cazzo di Claudio Mazzagrossa comparisse.

Ma sapeva di non poterci fare un conto eccessivo, ormai.

Pensare.

Cercare di ricordare tutte le cose che il Mazzagrossa gli aveva insegnato, le manovre che gli aveva lasciato fare.

Lui, da solo su un idrovolante.

Al pensiero sudava. La concentrazione andava a farsi benedire.

Tra i gatti che miagolavano e la preoccupazione per quello che sarebbe potuto capitargli, i ricordi delle lezioni del Mazzagrossa gli sgusciavano tra i pensieri come fossero unti.

Verso l'alba aveva deciso cosa fare. Non aveva alternative. Era l'unico modo per guadagnare un altro giorno.

Modo banale, certamente.

Ma non aveva altra scelta, altra speranza.

Confidando nella buona sorte, era uscito dalla camera e s'era presentato al podestà e agli altri fancazzisti che non avevano niente di meglio da fare che assistere alle sue disgrazie.

 

 

92

 

 

 

Vabbe' che il podestà era coglione e si sarebbe meritato una bella lezione.

Ma se anche solo metà del sospetto che aveva era vero, la faccenda si prospettava grossa.

Grave.

Il segretario Carré decise di agire, subito.

«Anche voi non resistete al fascino del volo?» gli chiese il messo Sbercele vedendolo uscire.

«Esattamente come voi non resistete a quello di ficcare il naso negli affari altrui» fu la risposta.

Sul portone del municipio il segretario si fermò e guardò verso piazza Boldoni.

C'era gente dappertutto. Non solo in piazza ma anche sulla murata del molo, alle finestre delle case, in piazza Grossi, all'attracco del battello e lungo lo stradone che saliva a Vendrogno.

Un mormorio confuso, un borborigmo, animava quella folla.

Nessuno capiva quello che era appena successo.

Il pilota era salito dieci minuti prima sull'idro accompagnato da un applauso.

Aveva dato motore, secondo un'espressione che aveva pronunciato il podestà e che aveva immediatamente fatto il giro dei presenti.

Il rumore aveva zittito gli astanti.

«Deve scaldare un po'» aveva commentato il Meccia.

Gerolamo Vitali, al suo fianco, aveva ripreso l'osservazione e l'aveva fatta circolare.

Dallo scappamento aveva cominciato a uscire un fumo bianco e puzzolente che, stante la mancanza di vento, aveva avvolto tutti coloro che stavano in piedi a guardare sul muro della darsena dei Gavazzi e sulla scalinata che scendeva verso la riva del lago.

Nonostante ciò, nessuno s'era mosso.

Poi il Mencioni aveva cominciato a dar gas.

Il momento si stava avvicinando.

Pochi minuti ancora e, come d'accordo col podestà, l'idro avrebbe puntato il muso verso la sponda di là, per portarsi al largo.

«In linea di volo» aveva spiegato il Meccia.

Invece era successa una cosa.

Dallo scappamento era uscito un rumore secco, come di una castagnola che fosse scoppiata. Poi una nube di fumo, ma nera e tossica. Quelli che erano dalla parte della Gavazzi si erano allontanati, sacramentando.

Il pilota, senza che nessuno lo vedesse, s'era asciugato, il sudore dalla fronte. Aveva chiuso la pompa della benzina appena seduto in cabina e pregato il Signore che il sistema funzionasse: ma, soprattutto, che nessuno se ne accorgesse.

Due scoregge ancora, un paio di sbuffi neri come la notte e poi il motore dell'idro s'era fermato.

Il silenzio era tornato a calare sulla gente, sulla piazza, sul lago.

L'aveva interrotto il podestà.

«Cosa cazzo c'è?» aveva mormorato, e solo il Vitali l'aveva sentito.

Gli occhi della gente erano fissi sul pilota. Che, aperto il finestrino, s'era rivolto al podestà allargando le braccia e scotendo la testa.

«Potrebbe essere un problema al sistema idraulico o all'alimentazione» aveva detto.

Ma sottovoce, come provando la battuta che di lì a poco avrebbe dovuto recitare davanti al Meccia.

Il podestà, infatti, sarebbe stato l'unico a pretendere spiegazioni precise.

Il resto della gente, invece, s'era convinta, vedendo il gesto sconsolato del pilota, che per quel giorno non ci sarebbero stati voli.

Quando il segretario Carré mosse i passi alla volta del podestà, in parecchi si stavano già allontanando.

Qualcuno rideva, alcuni sputavano in terra. Volò qualche parolaccia.

Il pilota nel frattempo aveva guadagnato la terraferma e stava già dando spiegazioni.

«Peccato», commentò alla fine il Vitali, «perché adesso arriva brutto tempo.»

Il podestà diede uno sguardo circolare prima di fissare i suoi occhi imperiosi in quelli dell'assistente ai voli.

Sulle previsioni del tempo però il Vitali sbagliava raramente.

Per tutta risposta fece un cenno del capo in direzione delle prealpi Orobiche, verso l'alto lago: rare nuvolette stavano facendo capolino.

Significava vento in arrivo. E chi non ci credeva doveva solo armarsi di pazienza e aspettare.

 

 

93

 

 

 

C'era evidentemente un errore, pensò il tipografo Baldovino Luzzi.

Un'omissione.

Rilesse con attenzione il testo del manifesto che il comune di Dervio gli aveva commissionato.

«Cittadini!

In occasione della festosa giornata per il battesimo della neonata Associazione degli Olivicoltori Comaschi la cittadinanza tutta è invitata a partecipare onde rendere la giornata indimenticabile.

Unitamente alle comunità di Como, Cernobbio, Limonta, Nobiallo, Acquaseria, Gravedona, Dongo, Bellagio, Nesso, Lecco, Mandello, Lierna, Varenna, Perledo, Dervio, Colico...»

Ecco.

Lì si celava l'errore od omissione che fosse. Bellano non compariva nell'elenco dei comuni che avevano aderito all'associazione degli olivicoltori.

A lui fregava niente. Ma non voleva correre il rischio che, una volta composto e stampato il manifesto, glielo facessero rifare proprio per quella mancanza di cui, per primo, s'era accorto. Con la conseguenza che le spese gli sarebbero rimaste sul gobbo.

Si fosse trattato, tra l'altro, di un manifestino come quelli che annunciavano le varie fiere, poteva chiudere un occhio. Ma quello che aveva tra le mani era un vero e proprio proclama.

Perché il podestà di Dervio, finito l'elenco dei paesi, dava conto alla popolazione dell'eccezionalità dell'avvenimento e invitava tutti i suoi amministrati a partecipare in massa alla giornata che si sarebbe svolta a Bellagio la domenica a venire.

E, all'uopo, onde favorire l'emigrazione dei derviesi verso la perla del lago, metteva a disposizione addirittura un battello sul quale i passeggeri avrebbero potuto viaggiare gratis.

Se si teneva conto, infine, che all'immancabile cerimonia religiosa nel corso della quale il gagliardetto della neonata società avrebbe ricevuto la benedizione, sarebbe stata presente anche Sua Eccellenza il Prefetto, si capiva che l'iniziativa non era cosa da poco. Anzi, il tipografo Luzzi capiva anche di più: un'associazione di quel genere avrebbe avuto ben presto bisogno di tessere, carta da lettera e buste intestate; un bel cliente, insomma, che non sarebbe stato utile deludere sin dall'inizio.

Con la bozza sotto il braccio, uscì dal buio antro dove aveva la bottega, strizzò gli occhi al limpido cielo che gli augurava il buon giorno e si diresse a passo svelto alla volta del municipio.

Il segretario, o il podestà, se c'era, gli avrebbero sicuramente risolto i dubbi.

 

 

94

 

 

 

«È fuori dalle mie competenze!» sbottò il segretario Carré. «Rivolgetevi al podestà!»

Fu tale la violenza del tono che il tipografo Luzzi fece un passo indietro, come se le parole potessero prendere corpo e colpirlo.

«Potete dirmi dov'è?» chiese.

«No. Non lo so. Non sono il suo guardiano!»

«Che modi» borbottò il tipografo rinculando e sottraendosi alla vista del Carré.

Che, immediatamente, si levò dalla sedia e volò a chiudere, sbattendola, la porta del suo ufficio.

Il messo Sbercele, a quel rumore secco, guardò gli altri impiegati.

Che cazzo era successo?

Mezz'ora prima il segretario era uscito dall'ufficio allegro come un bambinello, adesso invece era inverso come un giorno di vento.

«Cretino» mormorò il segretario tornando a sedere.

Ce l'aveva col podestà.

Cretino fin dov'era caldo.

E come tutti i cretini, presuntuoso e arrogante.

Poco prima, in piazza, lui non aveva fatto altro che avvicinarsi e dirgli che aveva bisogno di parlargli. 

«Ah sì?» gli aveva risposto.

Ma con un tono di rabbia trattenuta, le orecchie rosse d'ira, come se lui fosse uno dei tanti rompicoglioni che c'erano lì in quel momento.

S'era zittito.

Ma il podestà l'aveva pungolato.

«Avete perso la lingua?» era sbottato. «Che c'è di così urgente?»

Il Carré s'era sentito spaesato: come quando, al fronte, non gli riusciva bene di capire da che parte arrivassero i colpi.

«Sarebbe a proposito del pilota...» aveva quasi balbettato.

«Ma guarda!» l'aveva interrotto il podestà.

Isterico, che un po' di gente s'era voltata a guardare.

«Mi era venuto qualche dubbio» aveva ribattuto lui.

Insicuro, però: come annaspasse alla ricerca delle parole.

«Bene» aveva chiuso il podestà, alzando la voce giusto per far sentire chi comandava. «Sono felice di apprendere che il lavoro vi lascia così tanto tempo libero da potervi occupare di faccende che esulano dalle vostre competenze.»

Lui s'era sentito impallidire.

Gli eran venuti in mente certi ufficiali superiori.

Facce di merda, soldati da operetta, cicisbei da salotto. Che però, grazie ai gradi, ritenevano di appartenere alla razza degli infallibili.

«Quand'è così, agli ordini» aveva mormorato.

Quindi aveva ripreso la strada dell'ufficio.

 

 

95

 

 

 

Nessun errore.

Bellano, i bellanesi, e lui per primo, in testa, se ne fregavano degli olivi e degli olivicoltori.

Il podestà congedò il tipografo Luzzi con una dichiarazione secca e un vago gesto della mano.

Stampasse pure le trombonate del collega di Dervio.

Però...

Rimasto solo il Meccia si rilassò sulla poltrona e guardò verso l'infinito.

«Però» mormorò.

Gli sarebbe piaciuto dare, all'onorata compagnia degli olivi, l'ennesima lezione di superiorità, lungimiranza, modernità.

Alzò gli occhi al soffitto dell'ufficio, affrescato con greche e angioletti nudi che sfarfallavano ai quattro angoli.

«Piovuto dal cielo...» mormorò ancora.

C'era il modo.

Sussultò, in un singhiozzo di soddisfazione.

Doveva immediatamente telefonare al capo di gabinetto di Sua Eccellenza il Prefetto di Como.

Che colpo sarebbe stato!

 

 

96

 

 

 

Martedì, vento teso.

Le onde a centrolago erano bianche di spuma e che a morire, andavano a schiantarsi con rumore di schiaffi contro le rocce delle rive.

L'idro ballò per tutta la giornata una grottesca danza in cui alzava prima un'ala e poi l'altra: sembrava un orango. 

Volare?

Con quel vento?

Nemmeno a parlarne.

Bisognava che calasse.

Calò, martedì notte.

Ma una coltre di nuvole gravide di cupi colori incappucciò la cinta delle montagne. 

La superficie del lago era una liscia seta di donna. Attendeva che qualcuno la scompigliasse. 

Cominciò a piovere.

Le nubi si abbassarono sino a precludere la vista della sponda opposta.

Volare?

Passi, con la pioggia.

Ma con la nebbia, no.

Venivano a mancare i punti di riferimento.

Piovve tutto mercoledì e giovedì.

Giovedì forte.

Troppo forte, tanto da ostacolare la visibilità.

I fiumi si gonfiarono, segnatamente il Pioverna e il Varrone.

Così che venerdì, quando l'alba sorse su un mattino senza pioggia, la superficie del lago, mossa da un'onda lunga e sinuosa, pullulava di tronchi d'albero portati a valle dalla piena.

Ci mancava di prenderne uno e danneggiare un galleggiante!

Che cazzo!, rifletté il Vitali di fronte all'ennesima obiezione del Mencioni. 

E volò, lui sì, dal podestà Meccia a riferire circa l'ennesimo impedimento che ritardava il volo di prova.

 

 

97

 

 

 

Sua Eccellenza il Prefetto aveva detto sì.

Aveva anzi accettato con entusiasmo la proposta del podestà Meccia di mandare sin lì, a Como, un idrovolante, domenica mattina, che l'avrebbe caricato e portato in quel di Bellagio, realizzando così un arrivo davvero memorabile, per lo stupore di tutti gli olivicoltori riuniti, ivi compreso quello dei podestà di mezzo lago.

«Che cazzo!» sbottò il podestà quando il Vitali ebbe finito di relazionare.

Il Vitali approvò.

«È quello che penso anch'io» disse. «Se per volare bisogna che non piova, non tiri vento, non ci sia onda o nebbia o umidità...» 

Si fermò di botto, rendendosi conto all'improvviso che non era stato interpellato.

«Appunto» masticò il Meccia.

Il Vitali si rinfrancò.

«Quello lì, per me...» disse.

«Sì?» fece il podestà.

Gerolamo Vitali un'idea se l'era fatta.

Per lui quello era un lavativo.

Romano, o no?

E allora!

Era venuto su, mangiare e bere gratis: stava cercando di tirarla alla lunga più che poteva.

Ci voleva una registrata.

Lui, per lui, fosse stato nei panni del podestà, glielo avrebbe detto.

«Che cosa?»

«Ueilà, socio.»

Altolà, i cucù sono nel bosco.

Il Meccia si massaggiò le tempie.

Ci voleva un suo intervento.

D'autorità.

«A che ora cena il signorino?» chiese.

Solitamente alle otto.

Bene. Alle otto!

 

 

98

 

 

 

Alle otto e un quarto c'era un treno per Milano.

Ofelio Mencioni ormai non aveva altra scelta.

Non dormiva, non aveva appetito, aveva la bocca secca, la testa in fiamme, lo stomaco in una morsa.

Da tre giorni non andava nemmeno al cesso.

Il Mazzagrossa?

Una testa di cazzo!

Non aveva nemmeno più la speranza di vederlo comparire.

Né, ormai, gliene fregava niente.

Via, invece.

Andare via, sparire.

Quella stessa sera, alle otto e un quarto.

Il piano era fatto, preciso, puntuale.

Fuga notturna.

Di giorno, infatti, sarebbe stato difficile, quando non impossibile. Troppi curiosi, troppi lo conoscevano. Durante quella settimana, davanti all'idro, aveva stazionato sempre una folla numerosa.

Di sera, invece, col buio. Sarebbe stata un'altra cosa.

Alle sette e trenta Ofelio uscì dal Cavallino. Aveva la scusa pronta.

Fare due passi.

Controllare il tempo.

Stimolare l'appetito.

Non doveva rendere conto a nessuno.

Nessuno gli chiese niente.