La finale di quella coppa si gioca a Roma nel maggio 1980. Si affrontano la Roma e il Torino, i tempi regolamentari finiranno zero a zero, ai rigori la spunteranno i giallorossi.
Ma, se ne ricordo le fasi finali non è grazie alla memoria, né all’aiuto del mio fratellone, piuttosto alla tecnologia che non ha nebbie di sconforto su quel maggio a differenza del sottoscritto.
Lipsia, 1980, ne ho già parlato.
L’aereo che mi riporta a casa, la sua velocità che non è mai abbastanza, i miei pensieri che sfiorano la speranza di una vita altrove affinché tutto non resti solo la polvere che ci lasciamo alle spalle.
Poi, una volta atterrato, il solido dolore di mia madre.
Intuisco che a quello per la scomparsa di suo marito se ne è aggiunto, sparendo solo nel momento in cui mi vede, un altro: teme che non faccia in tempo a vederlo un’ultima volta, ancorché composto in quell’ultima forma immobile. E guardandolo mi piace pensare due cose. La prima è che mio padre se ne sia andato da un’altra parte e, la seconda, che, ovunque sia, possa tranquillamente continuare a seguire la mia carriera con la sua solita abitudine di starsene in macchina, magari dormicchiando proprio come sta facendo mentre lo guardo per sopportare meglio il viaggio che lo attende, intollerante, lui come me, ai cambiamenti radicali, alle vacanze esotiche, a tutto ciò che avrebbe potuto turbare quello che per lui era stato fondamentale nella vita, cioè famiglia e lavoro.
Forse in quel preciso momento mi rendo conto di quanto di lui ci sia in me.
Guardando mio padre per l’ultima volta comprendo l’importanza dei simboli che restano immutati nel tempo, e intuisco che lui per me è stato un modello che, come dicevamo, non significa fare “copia e incolla” della vita di un altro, ma avere il coraggio di tradurre i valori di una persona speciale in qualcosa di utile per la nostra vita, che sia guidando le macchine di un autonoleggio oppure sfrecciando sulle fasce di un campo da calcio fa poca differenza.