Per fortuna a compensare la delusione di una finale persa così malamente e per di più contro i rivali rossoneri c’è l’impegno coi giovanissimi allenati da Carlo Tagnin che è quasi come ritrovare la spensieratezza di quando giocavo entrando furtivamente nell’oratorio su cui vigilava l’occhio mai chiuso di don Narciso.
Merito suo, di Tagnin.
Una sagoma, detto familiarmente, poiché era realmente così, originale, stravagante.
Carlo Tagnin veniva da una scuola d’altri tempi. Era mediano tosto, palla o gambe, l’avversario non doveva passare per nessun motivo. Fatta la gavetta si ricava una carriera di tutto rispetto il cui momento culminante coincide con la vittoria da parte dell’Inter della Coppa dei Campioni, il 27 maggio 1964 al Prater di Vienna contro il Real Madrid, giocando e letteralmente annullando Alfredo Di Stefano.
Nelle foto di rito, quelle da precampionato, se ne ricava un’impressione di granitica volontà.
Da qui non si passa!
Con un vago retrogusto teutonico anche, dovuto al ciuffo che pende appena sulla fronte, al taglio degli occhi, una lama, e a un mezzo sorriso, una contrazione appena accennata dei muscoli mimici facciali.
Pare che il Tagnin sia lì per dire qualcosa che affosserà la tua sicurezza.
Io però l’ho conosciuto in veste di allenatore e ancora adesso, se mi capita di ricordare i momenti passati con lui, non posso frenare un sorriso spontaneo, rammentando l’allegria che infondeva in tutti noi, l’ironia con cui ci educava, elemento fondamentale per avere una resa migliore in campo come nella vita.
Mi bastò poco per conoscerlo e adattarmi al suo irriverente carattere.
Il gioco della settimana enigmistica, in questo senso, fu la nave scuola.
Che Tagnin fosse un appassionato di enigmistica non lo posso affermare.
Sta di fatto che quel gioco gli piaceva particolarmente e ne ebbi prova inconfutabile la prima volta che salii sul pullman coi giovanissimi e lui a dirigere il coro.
Lo ripropongo così come lo ricordo, cercando anche di ricostruire l’ambiente.
Tagnin fa l’appello.
Tutti presenti?
Bon, si parte.
Ma il silenzio pesa, il silenzio non giova a una squadra di calcio, non serve a cementare amicizie e alleanze, indispensabili a fare squadra.
Quindi Tagnin propone il gioco, quello della settimana enigmistica.
È semplice, lo capirebbe anche un pallone.
Lui lancia una definizione, singolarmente o in coro noi dobbiamo dare la risposta.
Chiaro?
Via!
Tagnin:
«Esce dal vulcano».
Noi:
«La lava!».
«Lava sto cazzo!».
Voce singola, è quella di Tagnin.
Il gruppo è percorso da un sentimento di perplessità, l’autista invece, probabilmente già uso a quel gioco, non fa una piega, guida e sogghigna.
Ma il gioco va avanti, mica si ferma lì.
Tagnin spara le sue definizioni e corregge poi a modo suo le risposte che gli giungono. Fin quando l’atmosfera si scioglie del tutto e a un certo punto, nel corso di uno dei tanti spostamenti in pullman, lui lancia una proverbiale definizione.
«Tanto va la gatta al lardo che ci lascia…».
E il pullman, in coro gioioso, senza tener conto delle differenze anatomiche, esplode nella classica risposta che in un certo qual modo suggella l’unità del gruppo.
Ecco com’era Carlo Tagnin, il mediano impietoso capace di oscurare un fuoriclasse come Di Stefano durante una finale di Coppa dei Campioni ma anche di entrare in sintonia, e nel cuore, di giovani ragazzi che si apprestavano chi più chi meno a percorrere la sua stessa strada.
Togliete il divertimento dallo sport e toglierete i ragazzi dallo sport.
Esempio e sorriso vanno di pari passo.