Ma è già ora di pagare il conto e andarsene. Poggio sul vassoio d’argento screziato di macchie brune portomi dalla megera pseudobritannica l’American Express di recente restituitami da mio padre dopo tre mesi di punizione per avere acquistato, in preda a un’insana euforia durante una vacanza studio a Boston, in un negozietto di Acorn Street, un modellino di galeone dei primi del Novecento pagandolo una cifra iperbolica vicina allo stipendio bimestrale d’un metalmeccanico: galeone che ora giace sul piano della mia scrivania di ragazzino come un mausoleo del mio feticismo fin de siècle e della mia consumistica incontinenza anni Ottanta.

Finché sul motorino che mi riporta a casa, appesantito da una quindicina di pacchi e pacchetti e forse a causa di tutto quel tè ingerito, o per l’emozione o per il freddo che si è fatto penetrante, ho un improvviso attacco di colite. Sono terrorizzato. Corro il rischio di rovinare uno dei più bei giorni della mia vita defecando sul sellino dello scooter della mia amata. Prego Iddio che lei non si accorga di quelle piccole loffe che non riesco a controllare. Prego Iddio che il miasma di zolfo si dissolva nel gelo di dicembre. Sicché, dopo essere smontato velocemente dal motorino, dopo aver preso l’ascensore, dopo essere entrato in casa, dopo essermi accovacciato sulla tazza per lasciare al vulcano la facoltà di eruttare, rivolgo all’Onnipotente la mia ultima preghiera: Dio, fa’ che Gaia non interpreti quel mio urgente bisogno di lasciarla – quel mio rifiuto di coronare una giornata da innamorati con le canoniche smancerie di congedo – come conseguenza del mio dissesto intestinale, ma, semmai, come ennesima dimostrazione della mia dignità, come suggello del mio sentimentale disimpegno, come testimonianza tangibile del mio carattere eccentrico!

Buon Dio, cos’altro mi resta?

Ma nonostante questo giorno salvato non voglio nascondere che difficilmente, nei cinque anni che la frequentai, mi capitò di desiderare la sua presenza. No, non mi piaceva stare con lei. Vederla era una crudeltà paragonabile a quella di alcune torture che costringono il condannato a una lenta morte per sete obbligandolo a contemplare notte e giorno meravigliose cascate di acqua gelida. L’unico sentimento che la vicinanza di Gaia m’ispirava era il desiderio di scomparire, di andare lontano, di morire e di essere dimenticato definitivamente. Mi atterrivano i suoi commenti su altri ragazzi. Era tremendo quando sottolineava che il signor X aveva occhi fantastici mentre il signor Y la nuca troppo prominente, per non parlare di quella testa di caprone del signor Z. Sembrava possedere un inimitabile talento nel cogliere le ridicolezze fisionomiche e nel trovare in qualsiasi viso un correlativo oggettivo nel mondo animale. L’universo maschile, attraverso il suo sguardo, si riduceva al catalogo di una clinica estetica: un campionario di nasi, di orecchie, di mascelle e di stempiature… La spietatezza naturalista che metteva nel registrare una pur piccola imperfezione nel viso d’un suo compagno veniva come riequilibrata dall’autentico entusiasmo che la traversava quando si trovava al cospetto di qualcosa da lei giudicato ineccepibile. Quindi il mio panico di fronte a quella proliferazione di gaiesche chiose sui connotati dei miei coetanei non dipendeva solo da una banale forma di gelosia, ma da una ragione più perversa: il suo commento denotava un’attenzione nei confronti degli uomini che – benché in apparenza potesse essere liquidata come un semplice interesse scientifico, o tutt’al più artistico – il mio romanticismo puritano m’impediva di attribuirle..D’altra parte essendo anch’io un ragazzo, sebbene privo delle qualità necessarie per piacerle, per una proprietà transitiva era assai probabile che lei avesse sottoposto anche me a un’accurata indagine estetica sin dal nostro incontro sul molo di Positano o addirittura dai tempi del funerale di Bepy. Ecco, che il mio naso, che le mie guance, che il mio colorito, che il mio collo fossero stati oggetto di attenzione e di giudizio da parte di Gaia era per me assolutamente insopportabile. In quei momenti la mia immagine – che esisteva malgrado me, che mi si ribellava contro, che mi prendeva in giro mio malgrado, che non sarebbe mai potuta essere altro che se stessa, sulla quale non mi era consentito esercitare alcun controllo – si sbriciolava dentro di me come un grattacielo demolito. Solo allora constatavo con panico assoluto come la ragione per cui io odiavo la mia immagine dipendeva essenzialmente dalla sua incapacità di esercitare alcun fascino su Gaia. Sentivo il peso terribile dell’inalterabilità e della morte. Avrei potuto fare qualsiasi cosa: guadagnare un sacco di soldi, elaborare un eloquio sofisticato, vestire con eleganza impareggiabile, diventare una star della TV, un grande scrittore o un campione in qualche sport di massa, ma il mio aspetto sarebbe rimasto invariato, anzi, sarebbe peggiorato. Ecco una delle cose che Gaia mi costringeva a scoprire troppo precocemente.

Chissà come tutto questo s’era trasformato nell’idiosincrasia di zoomorfizzare a mia volta la realtà (sono sempre più convinto che la visione del mondo delle ragazze come Gaia, in fondo così inconsapevolmente darwiniana, abbia educato un’intera generazione): immaginavo che la vita di noialtri liceali fosse regolata da ordinamenti non dissimili da quelli che governano le oligarchiche società delle formiche e delle api: mi veniva spontaneo immaginare, per esempio, l’umanità divisa in due grandi categorie: da un lato c’erano i contemplativi, cui era affidata l’organizzazione civile, i quali non avevano particolari attitudini all’incontro con l’altro sesso e che, per questo, non avevano sviluppato l’apparato esteriore di avvenenze e piacevolezze indispensabili per ogni seduzione amorosa. E dall’altro i riproduttivi: coloro cui era assegnata la mansione di perpetuare la specie e che, per questo, erano stati dotati da madre natura di tutte le superficiali grazie di cui i contemplativi difettavano ineluttabilmente. Ecco, la mia impressione era quella di essere un disgraziato ibrido: uno cui la natura s’era divertita a dare un corpo da contemplativo e un’aspirazione struggente alla riproduzione.

Bisognava stare lontani da quella ragazza: ma solo Iddio poteva sapere quanto fosse difficile. Il problema era che la lontananza da lei non mi aiutava quando le ero lontano, così come la vicinanza non mi aiutava quando le ero vicino. Ero atterrito dal pensiero che lei non mi pensasse ma lo ero ancora di più all’idea che lei potesse prendermi in considerazione.

Forse avrei dovuto trattare la faccenda con maggiore calma. Ma per me era una questione che investiva la Giustizia. Così, quando in modo fintamente scherzoso rimproveravo mio padre per non avermi fatto bello come un attore e lui si spazientiva: «Dio mio, Daniel, ma che c’entra? Sei molto più bello di Sartre, di Simenon o di Kissinger, e quei satiracci hanno passato quasi tutta la vita a scopare», mi sarebbe piaciuto spiegargli che il piacere di essere più bello di Sartre, di Simenon, di Kissinger non ripagava in alcun modo lo sconforto di sentirmi così tanto più brutto di Marlon Brando.

D’altronde il dolore per l’indifferenza di Gaia che, per sua stessa essenza, non le si sarebbe mai potuto torcere contro, per uno di quei processi di compensazione tipici di qualsiasi psicologia elementare veniva da me smistato sulle persone che mi amavano: erano loro a dover pagare. Non erano forse i miei genitori che mi avevano fatto a quel modo? Non erano forse i miei genitori che mi avevano per la prima volta messo in contatto con Gaia? Non erano forse loro che non erano riusciti a essere all’altezza degli avi di Gaia? Non era forse demerito di Bepy il mancato acquisto delle tele caravaggesche? Non erano forse loro ad avermi immesso in una società in cui amare un tipo-alla-Gaia era una necessità, ancor prima che un obbligo?

Ebbene, l’avrebbero pagata. Sarebbe stata mia cura, lungo il corso dell’unica adolescenza concessami, avvelenare loro la vita attraverso le mie ubbie, i miei malumori, le mie tristezze, i miei sonni lunghi o troppo brevi, le mie cupe risposte, i miei dannati drammi insensati, i miei scandali senza stile e quella vocazione al suicidio sulla quale – qualora avessero saputo guardare nel fondo di quel pusillanime cronico di loro figlio – avrebbero potuto tranquillamente ironizzare.

Da tempo oramai l’orizzonte di Gaia era completamente occupato dalla sua festa di compleanno.

Lo spirito di quell’evento futuro sembrava aver catturato la sua anima.

È opinione comune che i belli non sappiano godere fino in fondo la vita. Come se il privilegio sviluppasse una specie di pigrizia immaginativa. O come se un’ipervalutazione del proprio aspetto esteriore, a scapito di ogni altra qualità individuale, impedisse allo sguardo la vista delle bellezze segrete del reale. Temo si tratti d’un cliché inventato dai brutti a scopo autoconfortatorio. La mia esperienza, peraltro assai modesta, mi ha fornito l’esempio di individui come Gaia, Dav, Giorgio, Karen, Bepy che, sebbene soddisfattissimi del proprio aspetto esteriore, erano avidi di piaceri intellettuali che si esprimevano nell’inesausta ricerca di oggetti da idolatrare. Insomma, essi, che avrebbero potuto passivamente contentarsi dell’entusiasmo suscitato dai loro corpi negli altri, sembravano scossi da un’energia luminosa che li spingeva a idoleggiare oggetti, situazioni, talvolta addirittura persone.

Sicché, assai prima che lo spettro della sua festa dei diciott’anni si impossessasse di lei, avevo potuto assistere all’avvicendamento – all’interno dell’incerto pantheon di Gaia – di mille fissazioni totalizzanti.

I quattordici anni erano bruciati in interminabili conferenze sull’equitazione, o più precisamente su Costant (naturalmente pronunciato alla francese), il cavallino arabo regalatole da Nanni per il suo compleanno, in groppa al quale la piccola amazzone falcidiava i prati della Farnesina, affrontando ostacoli sempre più spaventosi; poi ci fu il nuoto sincronizzato che la spinse più volte a togliersi i pantaloni e le scarpe in palestra rimanendo in calzoncini bianchi per mimare ai suoi compagni le nuove figure apprese, suscitando il deliquio di orde di segaioli (e l’indignazione di uno solo tra essi); per non parlare di quel primo lavoretto come PR per una discoteca il cui compenso consisteva in un paio di caratteristici occhiali da sole da lei ininterrottamente inforcati per un anno intero e poi improvvisamente mandati al macero nella pressa della sua memoria. Poi fu la volta di Boris Becker, visto giocare agli Internazionali di Roma appena diciassettenne qualche mese prima che vincesse Wimbledon, che fu presto soppiantato da Alberto Tomba con il quale Gaia diceva di aver sciato un Natale intero a Cortina e dal quale – sosteneva con sbarazzina spavalderia – aveva subito esplicite avance. Poi arrivò Christopher Reeve, lo sfortunatissimo attore di Superman. Poi una canzone e il suo interprete: Every time you go away, di quel sublime coiffeur di Paul Young molti anni prima che deviasse sul rock and roll. Finché non giunse al parossismo d’innamorarsi d’un personaggio mitologico: Ettore, figlio di Priamo, marito di Andromaca, la cui storia di tragica dignità aveva appreso da una versione di greco e il cui influsso romanticheggiante s’era come incuneato nel suo cuoricino di teenager.

Ma possibile che non mi sfiorasse la mente, mentre guardavo quella spericolata Eva postmoderna lanciarsi, come un’acrobata, nel cerchio infuocato d’una nuova provvisoria passione, che se nella sua vita fosse arrivato un ragazzo in carne e ossa e lei ci si fosse votata con lo stesso ardore riservato ai suoi idoli di cartapesta i miei peggiori incubi si sarebbero realizzati? Che presto la natura avrebbe trasformato le sue passioni astratte in amori concreti? Possibile che il mio cervello avesse abdicato alla sua istituzionale facoltà di collegare i fatti? Possibile che non m’avesse neppure lambito l’idea che nel nostro gruppo la più probabile incarnazione di quel ragazzo ideale –

colui che più di tutti sembrava compendiare le doti atletiche, fisionomiche, intellettuali di Costant, Boris Becker, Alberto Tomba, Christopher Reeve, Superman, Paul Young, Ettore di Troia e tutti gli altri – fosse semplicemente Dav, il nostro Dav?!

E il vecchio Nanni come reagisce alle estemporanee esaltazioni della nipote?

È naturale che le mortifichi. Scoraggiare il prossimo non è forse il suo maggiore talento? La lista di quel raffinato boia è lunghissima, e non sembra risparmiare neppure gli affetti più cari: suo figlio, la cui morte il mondo gli addebita, il nipote ribelle la cui follia lo esaspera. Senza contare il socio dissipatore e i dipendenti. E se ha graziato la moglie è unicamente perché lei è la sola persona a intimidirlo: è lei ad avergli schiuso porte che altrimenti sarebbero rimaste eternamente serrate.

Eppoi non c’è niente da fare: Nanni, di fronte al perdurante carisma sessuale di quella signora, continua a mostrare la propria fragilità.

Con Gaia le cose dovrebbero andare diversamente. Nessun timore reverenziale. Nessun mondano passe-partout che lei possa lesinare. Nessuna pressione erotica (se non forse in un modo sublimato).

Nanni potrebbe disporre della nipote a suo piacimento, se solo volesse, proprio come ha fatto con tutti gli altri: sì, disporre di lei come un novello impunito Humbert Humbert.

Chi glielo impedisce?

Ma è evidente che non desidera farlo: Gaia è la sua vita. Gaia è per lui quel che Dav è per Karen, quello che Giorgio è per suo padre, quello che mio fratello è per mia madre: stupenda manifestazione di come la vita possa avere senso: perfetto connubio tra potenza e atto. Nanni adora quella ragazzina. È in sua balia. È lei a comandare. Lei deve essere assecondata, blandita perché il gioco ormai le appartiene totalmente.

Quando Gaia aveva nove anni, a Nanni bastava vederla nelle sere d’inverno seduta alla sua scrivania a disegnare pupazzetti per sciogliersi in una sconfinata tenerezza. E più tardi la stessa commozione venata di orgoglio si sarebbe incarnata nella foto, poggiata di sbieco sulla scrivania dell’ufficio, di Gaia vestita da cavallerizza: il cap di velluto da cui sbuffano mielosi capelli di seta, i guanti di daino, gli stivali lustri di pelle nera, il blazer grigio avvitato, i pantaloni bianchi attillati coi rinforzi al ginocchio. Ma soprattutto Nanni ha impresso nella memoria il suo primo incontro con quella signorina: lei non aveva che un paio d’ore di vita: nata con un mese e mezzo di anticipo, pesava un chilo e mezzo. Era lì di fronte agli occhi del nonno, in tutta la sua paonazza gracilità.

Avvolta in una coperta rosa, lasciava intravedere un musetto congestionato, imbronciato ed esterrefatto dietro il vetro dell’incubatrice. Fu amore a prima vista.

E allora si capisce come, dopo la morte di Ricky, Nanni abbia trovato naturale risarcire quella ragazzina per la privazione affettiva che lui sente di averle inflitto. Proprio lui: lo stesso padre inflessibile che severamente impedì al proprio unico figlio di divorziare dalla moglie, ora, con la nipote, scopre il piacere della comprensione e l’euforia del compromesso. Il divieto da lui imposto a Ricky di divorziare – che ha di fatto ucciso suo figlio (il suo debole smidollato tenerissimo figlio)

– era nutrito dalle stesse istanze e dalla stessa buonafede che oggi lo spingono alla magnanimità.

Proprio perché il gesto autodistruttivo di Ricky ha cancellato tutto il resto, squagliando ogni rigorosa convinzione pedagogica. E ora a Nanni non può sfuggire che se non fosse stato per quella bambina, se non fosse stato per la sua esistenza storica e per la sua vitalità vulcanica, tutto sarebbe andato a rotoli.

Lei è la seconda possibilità che Iddio gli concede. Lei è la salvezza della sua famiglia e della sua anima. Per questo Nanni è preda del tremore e dell’entusiasmo un po’ folle di quelle madri che dopo aver perso un figlio ne mettono al mondo un altro e un altro e un altro ancora… Così come è pervaso dal desiderio convulsamente protettivo di quei padri che, avendo visto morire la prima figlia in un incidente stradale, giurano che sulla seconda eserciteranno un controllo asfissiante.

La farà felice proprio dove ha scontentato il figlio. Sì, la farà felice per due, per tre addirittura.

Questa è la nuova causa per cui Nanni vivrà. La sua nuova battaglia. La nuova strategia. Far felice quella ragazzina. Perché i felici non si ammazzano. Perché i felici non pensano. Perché i felici non giudicano. Perché i felici si assoggettano. Perché i felici fanno le cose per bene. Desiderate che i vostri figli facciano quello che volete? E allora date retta a Nanni: non obbligateli: fateli felici! La loro felicità è l’arma ricattatoria più preziosa di cui un giorno disporrete: il vostro autentico asso nella manica. Nanni ha impegnato la prima parte della sua vita a fare soldi, la seconda ad accreditarsi socialmente, adesso nella terza, quella estrema, quella inaugurata da una revolverata inspiegabile, il suo scopo è la gioia della sua topolina. Lui ha un conto in sospeso con lei e con la felicità. Si sente in debito e in credito allo stesso tempo. Sì, lui deve risarcire la sua bambina e attraverso quel risarcimento vuole essere risarcito. Perché anche Nanni ha qualcosa per cui essere risarcito: anche l’uomo di ghiaccio ha i suoi conti da saldare.

Forse l’affetto che Nanni prova per quella ragazzina è troppo compromesso con l’ammirazione e con l’idolatria per non essere dannoso. In fondo Nanni, a dispetto delle apparenze, non è riuscito a modificare il proprio perverso modo di pensare: così come, per un astratto amor di giustizia, stabilì a tavolino quali fossero gli oneri coniugali di Riccardo, ora, per un’idea altrettanto astratta di risarcimento, ha stabilito che la felicità di sua nipote sia collegata alla sua libertà.

Ma è tempo di parlare del cameriere più famoso del Bar del Parnaso (se non altro perché è il solo vero protagonista di questa storia): serafica istituzione, muta coscienza del quartiere e forse anche di più, dall’aspetto gagliardo-altezzoso d’un arabo. Nel fondo del suo sguardo baluginavano scintille d’una superbia mediorientale. Sicché noi ragazzi lo chiamavamo “l’Arabo” sebbene fosse di Cisterna, e questo gli donava qualcosa di esotico che l’inorgogliva. Spesso nei cocktail e nelle cene organizzate (d’estate soprattutto) sulle fiorite terrazze di quella parte di Roma accadeva di incontrare una sorta di reincarnazione notturna dell’Arabo, vestito d’una blusa bianca con bottoni e alamari d’oro e con una pelata traslucida come un samovar. E solo in quelle circostanze, in mezzo a tutte quelle eccentriche arricchite in coralli e chiffon, avevi chiara l’impressione della mistica regalità dell’Arabo!

L’Arabo. Eroico depositario d’ogni romana esclusività, molto più di tanti scialbi esibizionisti di quegli anni. Noialtri in fondo sapevamo essere indulgenti e scanzonati con quelli che venivano da quartieri limitrofi o anche da più lontano: ma l’Arabo era intransigente, feroce. Da bravo snob, se la prendeva troppo a male. Scrutava i clienti seduti ai tavoli, pronti a ordinare, e capiva immediatamente se erano pariolini doc o semplici mistificatori, incauti avventizi in terra straniera.

Se fosse stato per lui avrebbe eretto mura impenetrabili per difendersi da quell’orda di barbari. Per lui quell’elegante pezzetto di Roma Nord era un baluardo della civiltà occidentale, assediato dalla volgarità del mondo. Un tempo non era così, diceva con tristezza. E per mostrarci che aveva scovato un altro imbucato (così li chiamava, come fosse una festa privata, o come se un intero quartiere di Roma si fosse trasformato in un’immensa tenuta il cui controllo gli era stato affidato), pronunciava a voce alta espressioni criptiche che l’intruso non avrebbe mai potuto decodificare, e che per noi erano linguaggio inequivocabile. E se qualche forestiero per ottenere le sue grazie lo chiamava “Arabo”, lui s’irrigidiva, emettendo un lieve sbuffo stizzoso. Evidentemente non tutti erano autorizzati a trattarlo con simile familiarità.

Quando Dav faceva il suo ingresso, indossando quel verde giubbotto da college americano di cui possedevo il gemello in turchese, l’Arabo scattava, liquidava immediatamente il cliente che aveva il torto di occupare il posto di Dav e faceva accomodare il suo pupillo. «Come sta tua madre?»

chiedeva sollecito, per poi alzare gli occhi al cielo in modo platealmente trasognato: «Ehhhh, quella signora è splendida, una principessa. Ricordo quando era lei a portarti qui. Vi guardavano tutti per quanto eravate belli». L’Arabo era un poeta con la voce melliflua e lamentosa dei pederasti bisbetici: capelli a spazzola e ombretto nero sulle palpebre. Nostalgico cantore delle giovani coppie di sposi ventisettenni che il sabato mattina passeggiavano tra le aiole rinsecchite di piazza delle Muse, con carrozzine, giubbotti di renna, scamosciate scarpe color tortora e cuccioli di dalmata al guinzaglio, l’Arabo si lasciava spesso andare a tediose divagazioni sul buon gusto.

David, abituato alle lusinghe dell’Arabo, si schermiva senza imbarazzi e attendeva che gli fosse servito il cappuccino. Mentre l’Arabo lo carezzava con uno sguardo condiscendente, forse perché vedeva in Dav – chissà se a ragione – il Dio incontrastato di quella stirpe di immortali, uno dei pochi a poter ancora difendere l’integrità di quel luogo che a suo dire era ormai un porto di mare.

All’Arabo dispiaceva che i Ruben tanti anni prima avessero deciso di cambiare quartiere, finendo in quella villa lontana che lui, nel suo snobismo, collocava più o meno nella tundra. Ma allo stesso tempo, nel suo modo apotropaico di interpretare simbolicamente ogni evento, aveva visto nel trasloco della famiglia Ruben uno dei segnali evidenti della decadenza della civiltà.

Ma soprattutto l’Arabo si era sdilinquito su quella che lui enfaticamente chiamava la “coppia del secolo”: David e Gaia.

È destino! Un giorno questi ragazzi si troveranno, aveva sentenziato una volta quello svenevole negromante, cagionandomi un dolore che, anche se glielo avessi descritto, non avrebbe saputo comprendere. Il fiuto dell’Arabo per gli “affari di cuore” era infallibile, ma non altrettanto la sua empatia per il dolore. E calcolando che i suoi giudizi, sebbene così umorali, non erano viziati da fattori razziali, ma per lo più da intuizioni estetiche più profonde, lui aveva subito inteso, sin da quando i due erano bambini, ancora prima che si conoscessero, che una Gaia Cittadini aveva le carte in regola per finire nelle braccia d’un David Ruben e viceversa.

Ma la vera passione dell’Arabo – nel cui gorgo infinito sembravano essere confluite tutte le altre –

era un libro. Per essere più precisi, “il libro più bello che fosse mai stato scritto” (anche l’Arabo, come i ragazzi che accudiva, era servo del superlativo): Guerra e pace, di Lev Tolstoj, la cui effigie profeticamente barbuta l’Arabo custodiva, in una copia in miniatura, nel portafoglio, come un santino. Avevo saputo da mio padre (che si vantava d’aver conosciuto l’Arabo molti secoli prima della mia nascita) che la passione per quel libro risaliva alla sua gioventù. Sì, erano più di trent’anni che l’Arabo leggeva Guerra e pace. Era arrivato a studiare il francese da autodidatta la notte per poterlo “apprezzare fino in fondo” (della qual cosa andava orgoglioso: tanto che le poche volte in cui capitava al Parnaso un “ospite d’oltralpe”, era un vero spasso per l’Arabo esibire a voce alta il proprio francese ridicolmente ottocentesco). Alcuni episodi di Guerra e pace li aveva riletti cinquanta, cento volte, più di quanto avrebbe fatto il più scrupoloso specialista: l’arrivo in carrozza del principe Andréj a Lysye Gòry con il passo svelto e quel viso tenebroso e superbo. L’eroico incontro tra Andréj e Napoleone Bonaparte. Il diario intimo di Pierre. La storia delle sue gozzoviglie pietroburghesi. L’Arabo avrebbe potuto citare con disinvoltura ampi stralci tratti da queste scene, senza omettere una virgola, rinnovando ogni volta la commozione che negli anni aveva imparato sempre meglio ad autosuscitare fino a trasformarla in qualcosa di innaturalmente autentico.

Tra tutte queste scene, quella che aveva inciso maggiormente sulla sua vita di sognatore snob era quella del grande ricevimento in onore dell’imperatore Alessandro: l’esordio in società di Natàša, il suo primo ballo con il principe Andréj, e soprattutto la nascita dell’amore tra i due futuri fidanzati:

“Il principe Andréj era uno dei migliori ballerini del suo tempo, Natàša ballava magnificamente. I suoi piedini, nelle scarpette da ballo di raso, facevano l’opera loro rapidamente, leggermente e senza che ella stessa se ne accorgesse, ma il suo viso splendeva di gioia e di entusiasmo…”

declamava stentoreo l’Arabo ogni volta che vedeva avvicinarsi Dav e Gaia. Usava quelle poche frasi come una sorta di benedizione pagana.

Avevo smesso da tempo di consigliare altri libri all’Arabo, avendo rinunciato alla speranza di trasformare quella sua idolatria per un libro in autentico amore per la letteratura. E dire che avevo provato con Stendhal, con Flaubert, con Mann, persino con Proust. Il meglio, insomma. Ma ogni volta, nel restituirmi quei vecchi volumi di famiglia l’Arabo aveva atteggiato il viso a un’espressione un po’ schizzinosa, come se avesse voluto dirmi: “Ti ringrazio del consiglio, mio caro, ma vedi, una volta che hai letto Guerra e pace sei condannato a non leggere altro per tutta la vita!”. E chissà che non avesse ragione?

In ogni modo l’identificazione con Andréj e Natàša, di cui l’Arabo aveva gratificato Dav e Gaia, era semplicemente incongrua. Essi non avevano niente della coppia tolstoiana. Per averne idea basterebbe valutare la clamorosa difformità di statura tra il gigante Dav e il piccolo Andréj, o accostare gli occhi neri di Natàša a quelli di Gaia color brezza marina. E come non tenere conto della ragguardevole differenza di età tra Andréj e Natàša che non trova adeguata corrispondenza in questa coppietta di adolescenti contemporanei? In fondo, a ben pensarci, il paragone dell’Arabo non aveva niente di benaugurante. L’amore tra Andréj e Natàša non era altro che storia d’una passione abortita, non vissuta. Come poteva l’Arabo non ricordare, avendo letto Guerra e pace centinaia di volte, che alla fine, dopo la morte di Andréj, Natàša sposa quell’“orrendo elefante di Pierre” (parole dell’Arabo)? Una volta, spinto dalla mia gelosia per Gaia, osai fare tale obiezione all’Arabo. Ma la sua replica mi parve d’una così stringente intelligenza che ammutolii: «Non me ne parlare» disse col tono di chi sta ricordando un fatto troppo sgradevolmente doloroso. «Sai una cosa? Trovo i due epiloghi di Guerra e pace una vera schifezza. Mi chiedo come il conte» (così lo chiamava – come se anche quel sommo scrittore morto da quasi un secolo fosse uno dei tanti sfaccendati titolati che avevano ogni giorno l’onore di essere serviti dall’Arabo) «abbia -potuto…»

Comunque restava il fatto che porre in relazione la coppia David-Gaia e quella Andréj-Natàša risultava un’autentica stortura interpretativa. Ma, grazie al cielo, l’Arabo se ne infischiava delle congruità comparatistiche. Aveva l’esigenza di leggere quello che si ostinava a considerare il proprio “mondo” – l’universo di cui era soltanto un testimone saltuario e un fedele servitore –

attraverso i diaframmi rosati a lui offerti dal titanico conte Tolstoj.

Ecco in cosa consisteva la follia dell’Arabo: cercare un goccio di epos in un decennio che aveva violentemente abolito ogni mitologia.

Una volta mio padre sorridendo mi aveva chiesto: «L’Arabo li ha già eletti l’Andréj e la Natàša della stagione?». Non senza pena avevo risposto che la coppia dell’anno era quella formata da David e Gaia.

«Beh, sai, non è mica la prima volta l’Arabo sceglie un Andréj gnevrim 9. Sai chi era Andréj ai tempi miei?»

«Chi?»

«Teo. Tuo zio. Pensa. Prima che diventasse matto e andasse a Tel Aviv!…»

Capii improvvisamente perché mio padre iniziava sempre le telefonate intercontinentali con il fratello con la stessa enigmatica formula: “E allora, come sta il nostro Andréj israeliano?”.

«Beh, Nanni sarà contento per sua nipote» aggiunse subito dopo, «in fondo vale più un giudizio dell’Arabo che un cavalierato offerto dalla Presidenza della Repubblica.»

Temo che mio padre avesse ragione.

Un libro può determinare la vita di un uomo in modo imprevedibile. L’Arabo, in fondo, non era altri che un novello Don Chisciotte che aveva scelto di credere più a un libro epico scritto molti anni prima della sua nascita che alla vita di tutti i giorni. La differenza che lo distingueva dal patetico modello spagnolo è che l’Arabo non si era sentito all’altezza di farsi protagonista, e per questo aveva scelto, per sé, il ruolo non meno impegnativo del testimone. Ora, può sembrare un’assurdità che lui ravvisasse una corrispondenza tra la società zarista al principio del Diciannovesimo secolo, fondata sull’onore della guerra e sulla cortesia salottiera, con una piccola banda composta da figli di parvenu ossessionati dal primato economico e da quello estetico: eppure l’intuizione dell’Arabo possedeva una sua freschezza: ciò che teneva assieme quei due mondi così lontani era la struttura oligarchica e violentemente gerarchica da cui entrambi erano regolati.

E forse il genio dell’Arabo consisteva nel fatto che, invece d’indignarsi per tale inane spietatezza, ne fosse diventato, negli anni, l’omerico cantore.

Otto giugno Millenovecentottantanove: cinquantadue ore all’ora X: l’evento si avvicina, con la roboante impazienza d’un temporale estivo: tutto è pronto: il parco dei Cittadini è allestito per accogliere cinquecento ospiti: le bottiglie sono in fresco: i biglietti sono già arrivati a destinazione: la cronaca di Roma del “Messaggero” parla già dell’evento come di un appuntamento imperdibile: i diritti per le foto sono già stati venduti a una rivista di gossip, Nanni ha garantito che i proventi verrano devoluti in beneficenza a un’associazione cattolica che si occupa di malnutriti bimbi peruviani: per non tacere delle amiche di mia madre – le ultraquarantenni giocatrici di canasta del mercoledì pomeriggio – che mi hanno sottoposto, tra una pizzetta calda e un sorsetto di Twinings, a un vero e proprio interrogatorio: «Sai chi glielo ha fatto il vestito?… È vero che solo di tartufi bianchi hanno speso un patrimonio?… Che hanno affittato un aereo per far venire gente dall’Inghilterra?… Che lei scenderà da uno scalone pieno di fiori?…».

È la terza volta consecutiva che Gaia mi dà buca. E dire che, al solito, è stata lei a chiamarmi: voleva incontrarmi. Voleva stare un po’ con il “suo amichetto” per riposare la testa da tutti quegli impegni “spaventosi”. Desiderava solo un po’ di tranquillità per ritemprarsi. Anche se avremmo potuto approfittarne per fare il punto sui preparativi (in realtà aveva disperato bisogno di conferme). Eppoi, non solo non si presenta all’appuntamento ma si guarda bene dall’avvertirmi, mandando, in sua vece, quello sgangherato fratello maggiore del cui destino di malattia ormai mi occupo da troppo tempo con lo spirito d’un indolentissimo missionario.

Ecco perché mentre me ne sto seduto al Parnaso è così doloroso, umiliante, ma nient’affatto sorprendente, vedere Giacomo venirmi incontro da via Eleonora Duse barcollante come una nave che sta per affondare.

«Che ne dici se mi siedo?» mi chiede con voce altissima e sbiascicata. «Gaia non poteva venire.»

Esiste una pur minima parentela tra il delicato putto che vidi sfilare al fianco del nonno e della sorellina al funerale di Bepy e questo ragazzone amorfo che mi si è seduto a fianco senza aspettare il mio consenso? Benché abbia avuto la possibilità di seguire giorno per giorno la sua parabola, stento ancora a credere che si tratti della stessa persona. Dio santo, Giacomo è stato sfigurato dal tempo. Ho assistito stupefatto al compiersi del destino contrario di questi due fratelli. Lui sempre più rinserrato nella sua armatura demenziale, sempre più schiavo della bulimia nevrotica, e lei, invece, ogni giorno più sicura di sé, ogni giorno più in alto nella scala gerarchica. Lui sempre più fumoso e inafferrabile e lei così fascinosamente fumettistica. Ho visto l’artificiosità di lui tramutarsi in autentico dolore e la mirabile spontaneità di lei farsi seduttivo birignao. Ormai l’ereditaria bellezza di Giacomo si intuisce con difficoltà dietro quella montagna di ciccia. Sembra che lui abbia impiegato gli anni della sua adolescenza a strapparsi di dosso la lussuosa immagine scolpita nel suo DNA. Resistono gli occhi azzurri così simili per energia a quelli della sorella e del nonno, e anche alcune teatrali affettazioni di insolenza tipiche dell’aristocrazia romana. In lui la vita ha agito in modo regressivo: era un bambino precoce tanto quanto oggi è un ventenne ritardato, fallimentare frequentatore di istituti scolastici che in un anno ti consentono di recuperarne tre o quattro. Lui non ha ragazze. Lui arrossisce di fronte alle ragazze. È goffo, sempre sopra le righe.

Quando parla alza eccessivamente la voce, così come non riesce a dosare i gesti delle mani, delle braccia, della testa. È come se progressivamente avesse perso potere sul corpo: così ora esso sembra diviso in mille diverse giurisdizioni. Il governo centrale del cervello negli anni, battaglia dopo battaglia, ha perso il controllo sulle province lontane degli arti che hanno iniziato ad agire autonomamente in una pericolosa anarchia rivoluzionaria. È come se il suo organismo fosse stato messo a ferro e fuoco dai barbari. La manifestazione più evidente di queste guerre intestine è offerta dall’epidermide completamente chiazzata da una fastidiosa psoriasi. Eppure non sono ancora riuscito a capire se Giacomo abbia scelto di mandare in avanscoperta quel corpo martoriato dalla nevrosi per una sinistra forma di esibizionismo o se, invece, lo abbia fatto per lanciare un segno di distensione agli altri: Guardate come sono ridotto, non fatemi del male, non me ne faccio già abbastanza da solo? Ed è proprio questo il grande mistero, o la sua strategia: l’oscillazione tra propositi guerreschi e improvvisi vigliacchi appeasement.

Accende sigarette in continuazione. Il giornaliero cocktail di alcol, hashish, tranquillanti e antidepressivi sembra avergli alterato i connotati. Il viso, oltre a essersi esteso, ha acuminato gli spigoli. Il più delle volte tace, ma quando parla (questo è davvero miracoloso) il suo eloquio è limpido, talvolta persino ricercato. In poco meno di cinque anni la sua sfrontatezza violenta si è mutata nel suo opposto: una specie di forbita, verbosa ironia con cui ti tiene a bada: «Oh, grazie comunque, Daniel, sei adorabile!» ti dice, con il tono fatuo d’un personaggio di Jane Austen, dopo aver rifiutato un invito per un caffè o per un hamburger. Chi si esprime in questo modo oggigiorno se non uno squinternato? Sembra voglia prenderti in giro. Anche se Gaia garantisce che quella è solo la facciata. Che tutta quell’esibita affabilità, tutta quella pubblica ritrosia viene riequilibrata dalle sconvolgenti piazzate casalinghe durante le quali l’Idra mostra il volto raccapricciante: armadi presi a pugni, vetri infranti, porte sbattute, bestemmie, minacce di morte, una volta persino un coltellaccio brandito contro il nonno. Tutta colpa dell’alcol. È l’alcol a innescare quella tremenda aggressività. «Ma perché non chiamate qualcuno? Perché non chiamate la polizia?» ho chiesto una volta a Gaia. «Beh, perché… perché… sai, nonno gli vuole troppo bene!» Sia io sia Gaia sappiamo che la ragione per cui Nanni si è imposto di non chiamare la polizia, anche messo di fronte alla furia omicida del nipote, è il decoro. Esattamente: il decoro; il vero Dio di Nanni Cittadini. Lui non esporrà allo scandalo – a costo di farsi ammazzare da quel piccolo bastardo! – la propria famiglia, il proprio stimabilissimo nome, per cui tanto ha lavorato. Sarebbe un sacrificio troppo grande per lui.

Non lascerà dire alla gente: “Avete visto?.Hanno rinchiuso quello psicopatico del nipote di Nanni!

Era ora! Era così pericoloso per gli altri e per sé. Povero Nanni”. Lui non è il tipo che desidera suscitare compassione negli altri. Lui è nato per farsi invidiare, non per essere compatito. Che questo sia chiaro. Da qui l’esagerata impunità di cui gode il folle.

Mi è stato chiesto di impedirgli, quando siamo assieme, di attaccarsi alle sue “birrette” o ai suoi

“grappini” (così li chiama, in questo modo disgustoso). Ma più di tanto non posso fare. Sembra un tipo remissivo, ma in realtà cura la propria perversa viziosità con determinazione. Se vuole bere non puoi farci niente. È evidente come su di lui l’alcol abbia un devastante effetto liberatorio. È

come se dopo un paio di “birrette” e di “grappini” Giacomo scoprisse improvvisamente non tanto l’orrore dell’Universo, quanto piuttosto lo scandalo della propria condizione individuale. In quei momenti di frenesia e disperazione è come se la felicità del prossimo (del tutto presunta) gli facesse così male da spingerlo a schermirsi dietro tutta quella bellicosità.

Il più delle volte Giacomo tace. Si ha l’impressione che la vita – per la maggior parte dei suoi coetanei se non accogliente certo gravida di possibilità infinite – per lui sia un penitenziario. Il contatto con la realtà quotidiana lo paralizza, o, per meglio dire, lo circoscrive in uno spazio angusto. È come se lui sentisse gli occhi del mondo addosso. Come se nell’aria avvertisse l’unanime disprezzo che presto lo schiaccerà. È come se ogni volta che mette il naso fuori da quel nucleo di malattia casalinga il mondo si fermasse al solo scopo di giudicarlo… Se il mondo è una Corte d’Assise lui è l’Imputato Perenne.

Una volta, su richiesta di Gaia (Dani, tu sei l’unico con cui lui sta bene!, non la smetteva di lusingarmi la mia adorabile ricattatrice), lo accompagno a comprare dei dischi. (Giacomo è un collezionista di prime edizioni rare della fine degli anni Sessanta. Ha un talento assoluto nello scovare dischi introvabili dei Led Zeppelin, Deep Purple, eccetera. E forse solo quando ha in mano quelle copertine d’epoca, un po’ grigie e scolorite, il suo viso si accende di emozione e di gioia di vivere.) D’un tratto veniamo accostati da due ragazze appartenenti a quella categoria di biondine tra loro indistinguibili che Roma Nord sforna ininterrottamente da decenni. Mi chiedono un’informazione tra le più banali, che non ho nessuna difficoltà a fornire. Ma quando mi giro mi accorgo che il viso di Giacomo è diventato terreo, che la sua espressione si sta sconvolgendo. «Che c’è? Stai male?» «Non hai visto come mi guardavano?» E io sono a tal punto stupefatto dalla sua reazione che, non solo non riesco a dirgli che le signorine non lo hanno neppure notato, ma che, a ben pensarci,

il loro talento è tutto in quell’attenzione fatalmente auto-rivolta. È per questo, per la sensazione paralizzante d’essere sempre sotto la luce dei riflettori, sotto lo sguardo impudico d’una telecamera, che lui non controlla se stesso? È per questo che non riesce a tenere una bottiglia in mano senza che gli scivoli dalle dita? Tutto, persino le sue mani, agisce contro di lui? È per questo che non controlla le corde vocali al punto di non riuscire a calibrare il tono della voce? Perché ha l’impressione che ogni suo gesto sia seguito dalla irridente impudicizia d’un miliardo di occhi femminili?

Affinché il quadro non appaia lacunoso devo confessare quanto mi costasse frequentare Giacomo.

In fondo non gli volevo bene. Perché – a meno che uno non abbia una spiccata vocazione alla filantropia, il più delle volte compromessa da un maestoso complesso di superiorità – è difficile volere bene a individui così devastati. Ciò nondimeno vedevo la sinistra comunanza che legava i nostri destini. Forse io, rispetto a lui, mi ero semplicemente salvato. Da che cosa? Dalla tentazione di non-vivere-per-non-soffrire che conduce alla rancorosa nostalgia per la vita che usiamo attribuire agli zombie o ai fantasmi. Diciamo che la malattia – pur avendomi lambito fino a pervertire il mio carattere, pur avendomi attizzato lo sguardo conducendolo alle soglie della visionarietà autopersecutoria – non aveva saputo scavare un solco definitivo tra me e l’esistenza, tra me e i miei impegni di bravo ragazzo borghese, tra me e la mia aspirazione a uscire da quel pantano di angosce pregenitali. Come se qualcosa mi avesse protetto. C’è chi banalmente la chiama “ironia”. A me piace pensare a Bepy, a mia madre, a mio fratello, ai loro involontari seminari dedicati alla demistificazione.

Giacomo non era altro che un cavallo di razza dall’inappuntabile pedigree che da un certo giorno della vita in poi aveva scelto di non saltare più gli ostacoli che mille addestratori (nonni, insegnanti, istituzioni scolastiche, suffragette dell’amore adolescenziale) gli avevano messo di fronte. E

nessuno meglio di me conosceva l’effetto di quell’inclinazione al rifiuto e allo scarto. Per questo uscire con Giacomo Cittadini era come andare a spasso per la città con la parte peggiore di me stesso. C’era qualcosa di spaventoso in lui, eppure di così familiare.

Sapevo che Giacomo si era ridotto in quella maniera a causa della sua modesta statura. Chiunque avrebbe stentato a credere che tra la sua altezza di un metro e sessan-tacinque e la distruzione del suo carattere esistesse un rapporto di causa ed effetto. Eppure le cose stavano esattamente così. Per Giacomo la statura era il problema dei problemi, più della morte del padre, più dell’indifferenza della madre, più dello snobismo della nonna, più della faziosità con cui il nonno gli aveva preferito Gaia. A un certo punto, più o meno in quinta elementare, pochi anni prima che lo incontrassi a Positano, Giacomo si era accorto che i suoi amici avevano iniziato a crescere. Sì, quasi da un giorno all’altro li aveva visti svettare come margherite: era rimasto atterrito dalla constatazione di dover improvvisamente scrutare dal basso verso l’alto gli stessi individui che aveva sempre guardato negli occhi. Questo gli aveva fatto ipotizzare la propria diversità. Questo gli aveva infuso da una parte una tremebonda vergogna, dall’altra l’opinione che la vita fosse una palestra di iniquità. Perché tutti crescevano così facilmente? Cosa c’era in lui che non andava? Perché esistevano medicine per quasi ogni malanno o infermità, ma non per la statura? Si sarebbe sottoposto a qualsiasi tortura pur di guadagnare centimetri. Perché per Giacomo i centimetri non erano altro che certificati di dignità umana. Dio, quanto lo urtavano i discorsi di Nanni! «Pensa a Napoleone» gli diceva quello stronzo per consolarlo. «Anche Paul Newman è un bassetto»

rincarava un attimo dopo. Queste frasi, dette – forse – a fin di bene, avevano il potere di enfatizzare ulteriormente l’esiguità della sua statura. Erano l’attestato di bassezza che mancava a Giacomo per decidere di mandare tutto in malora. Perché quella era una cosa dalla quale lui non si sarebbe mai potuto riprendere. Quella cosa non potevi nasconderla. Quella era la prima cosa che la gente guardava, la prima cosa che le donne giudicavano… Così era cominciata: da allora Giacomo aveva preso a fumare, a bere, a intontirsi con i farmaci, a impedirsi di guardarsi allo specchio. Allora aveva deciso di dimenticarsi della propria esistenza. E troppo in fretta si era reso conto che quanto più provava a non pensarsi tanto più si pensava.

Beh, adesso è più facile comprendere quale dolce e formativa esperienza debba essere stata presentarsi quasi ogni pomeriggio della sua adolescenza al Parnaso col solo fine di sentirsi un pigmeo in mezzo ai giganti. Sedersi e vedere quei privilegiati vivere: dover assistere alla loro diuturna lotta per la riproduzione. Ripeto: nessuno lo capiva meglio di me: eravamo fratelli in quella sorta di voyeurismo masochistico: chi se non colui che aveva formulato la paranoica idea che il proprio naso e i propri occhiali messi assieme pesassero più di tutto il corpo, avrebbe potuto meglio intendere i dolori del giovane Cittadini?

E ora?

Ora l’unica salvifica gioia per Giacomo consiste nello sbatterti in faccia la sua abulia. Ecco la nuova strategia adottata per boicottare il Grande Progetto Felicità E Riscatto pro-mosso dalla ditta Cittadini & Altavilla. Non strilla più, non dice più la sua, non si ribella. Persegue una via che lui giudica non violenta, ma che in realtà è d’una aggressività spaventosa: la violenza del silenzio, la violenza del mancato entusiasmo, la violenza della sua vita gettata nel fango. Ecco la sola violenza che i genitori soffrano. Ecco la sua vendetta inebriante. Il nonno, il suo ex severissimo nonno ora sarebbe disposto a dargli tutto, a donargli il cielo pur di vederlo cambiare, ma lui non ne ha bisogno. Lui non è più in vendita, lui è stoicamente incorruttibile, lui ha imparato a sopportare la privazione come un monaco tibetano. E ora la sua violenza, l’infinita capacità offensiva si esprime tutta nel suo talento a rinunciare, a non allinearsi.

«Se vuoi, nonno ti compra la Porsche!» gli ha detto Nanni esasperato dalla sua ennesima bocciatura e dal suo abuso di fumo e di cibo, il giorno del suo diciottesimo compleanno. «Anzi, sai cosa? Ho un appartamento sfitto in centro. Una vera delizia, completamente ristrutturato, tutto legno e soppalchi… Che ne dici se lo andiamo a vedere insieme? Così finalmente ti liberi di questo nonno oppressivo e di questa sorella scocciatrice!»

«Cos’è, Nanni, non sopporti più di avermi tra i piedi? Ti vergogni di me con i tuoi amici?…»

«Ma no, su, sei sempre il solito. Volevo solo dire che… Lo sai che sei il mio piccolino!»

«Non mi chiamare “piccolo”. Mi fa incazzare quando mi chiami “piccolo”!»

«Oh, scusa, era solo un modo di dire affettuoso. Ma se ti dà fastidio, scusami… Ma pensa anche alle mie proposte…»

«Sai, Nanni, dove puoi ficcarteli la tua Porsche e il tuo appartamentino sfitto?» gli ha risposto il nipote.

«Parlo seriamente. Domani stesso. Vado dal concessionario. Anzi andiamo insieme, domani sera…

È così tanto tempo che non facciamo qualcosa assieme.»

«Nel culo, ecco dove te li puoi ficcare!»

«Ma perché fa così? Perché mangia, fuma e beve in continuazione? Nessuno di noi è così. Perché non mi consente di aiutarlo, di comprargli ciò che farebbe felice qualsiasi ragazzo della sua età?»

ha chiesto Nanni al terapeuta che segue Giacomo. Il nonno non si dà pace, ha già vissuto il dramma di sentirsi un padre impotente, e ora rivive un’esperienza analoga con il nipote, che se non può dirsi egualmente tragica è certo più estenuante perché diluita nel tempo.

«Vede, ingegnere» gli ha risposto lo psicanalista, «Giacomo è un ragazzo molto dotato, ma soffre di quella che noi chiamiamo una vocazione alla dipendenza. Lui è schiavo di alcune coazioni. Una volta che ha costruito un’abitudine essa immediatamente si trasforma in vizio. Sì, un vizio inesorabile. Da cose innocue come il cappuccino di ogni mattina, cui non saprebbe rinunciare neppure nel deserto, a cose serie e invasive come l’alcol.»

Quest’uomo ha ragione, si dice Nanni, ma perché ogni volta che vengo qui non fa che descrivermi pedissequamente, con tanta lucidità e con terminologia così precisa e appropriata, quello che io già so, quello che ho provato sulla mia carne? Perché non dà consigli? Perché non vedo miglioramenti?

Perché mio nipote è sempre più triste, più depravato, più infantile, più perduto, più irrecuperabile?

Perché certe volte mi fa schifo stargli vicino? Perché ogni volta che parli con lui non riesci a scorgere neanche un sia pur minimo bagliore? Perché sono così contento quando esce, quando non lo vedo, quando mi dimentico di lui? Dio, se solo fosse come la mia topolina. Se solo avesse un briciolo della sua solarità, della sua gioia di vivere. Certe volte sono talmente esasperato che vorrei che anche lui scomparisse. Pensa, restarmene solo con le mie due principesse: sì, io, Sofia e la nostra topolina. Perché certe volte vorrei che gli uomini della mia famiglia non fossero mai esistiti?

«Ma lei crede che questo suo comportamento, sì, insomma queste sue coazioni possano dipendere da qualcosa in particolare?» insiste Nanni.

«Ha qualche idea in proposito?»

«Mah… Non so, non m’intendo di certe cose… Non la pago anche per avere delle risposte, cazzo?»

«Non mi paga affatto per questo. Anzi, le comunico che la nostra conversazione si chiude qui.»

«Ma no, mi scusi, non volevo dire questo… La prego…»

«Io non sono la sua spia, ingegnere. Intesi?»

«Intesi.»

«Anzi, è chiaro che dovrò informare Giacomo che lei è venuto a parlarmi.»

«E via, le ho chiesto scusa. Non so neanche io quello che dico. Sono così esasperato… Non ha idea cosa sta combinando in questi giorni. Trova sempre una maniera nuova, geniale per avvelenarmi l’esistenza. Per questo la prego, la scongiuro: non gli dica che sono venuto.»

«Questo non è in discussione. Non si dimentichi che è Giacomo il mio paziente, non lei. Che, in qualche misura, nel riceverla ho già violato le regole imposte dalla deontologia. Capirà che non posso pretendere una fiducia assoluta da un paziente cui sto nascondendo una cosa che lo riguarda.

Eppoi – se vuole un consiglio, che forse non dovrei darle – è ora, ingegnere, che lei dimentichi l’inferno che Giacomo le procura e inizi a immaginare l’inferno in cui Giacomo vive.»

«Che vuole dire con questo? Che non me ne frega niente di Giacomo? Che mi è indifferente il suo destino? Che io lo odio? Ma non è così! È l’esatto contrario. Ma non lo capisce che Giacomo mi odia? Non lo capisce che lui ci odia tutti?» si lagna Nanni, e non si è mai sentito così in balia di un altro essere umano. È così atterrito dall’intransigenza di quest’uomo!

«Come le ho già spiegato, non è importante quello che Giacomo pensa di lei. Giacomo non è qui per imparare ad amarla. È qui per capire se stesso e per stare un po’ meglio.»

«Ma insomma, non ha risposto alla mia domanda! Quale origine ha questo stato? Questa violenza?

Sono anni che viene qua. Che si sdraia su questo lettino. Possibile che lei non abbia risposte?»

«Così mi costringe a ripeterle la mia, di domanda: lei ha in mente qualcosa, ingegnere?»

Se non la smette di chiamarmi “ingegnere” gli salto al collo!, si coglie a pensare Nanni.

«Beh, chissà… Mah… Forse quello ch’è successo al padre di Giacomo?…»

«Perché lo chiama “il padre di Giacomo”?»

Nanni tace. Pietrificato.

E ora che fa? Si mette a psicanalizzarmi? Vuole mettermi in imbarazzo? Preferirebbe dicessi “mio figlio”? È questo che vuoi sentirmi dire, Savonarola del cazzo? Ma non posso dire “mio figlio”. È

crudele farmi dire “mio figlio”. Sfido che il mio ragazzo non progredisce se a seguirlo è questo pallone gonfiato, questo malefico guru dei miei coglioni.

Il tuo solo problema, Nanni, è che t’ostini a chiederti ossessivamente se c’entri realmente qualcosa con la morte di… No! Non voglio nominarlo. Ma è proprio questa la domanda che non dovresti rivolgerti e che tuttavia ritorna incessantemente: l’avergli impedito – via, impedito? Mica gli hai puntato una pistola alla tempia (cazzo, che esempio infelice!) – di divorziare da quella donna – per il suo bene, perché il divorzio è indegno d’una famiglia rispettabile, aristocratica e cattolica – è la causa diretta della sua morte? Se tu l’avessi lasciato libero lui starebbe ancora qui, e sarebbe uno dei tanti signori di mezza età, con un passato di scappatelle e un futuro di serenità coniugale? Eppoi quella donna volgare di cui Ricky s’era invaghito sempre in quel modo tutto suo: franco e appassionato… Quella a cui hai offerto dei soldi perché lo lasciasse in pace. In fondo l’hai fatta contenta. Ti sei preoccupato della sua felicità, o quanto meno del suo benessere. E, d’altronde, hai avuto ragione, come sempre: se lei lo avesse amato, come sosteneva, di-sin-te-res-sa-ta-men-te, non avrebbe accettato i tuoi soldi. Eppure il pensiero non ti abbandona: l’interrogativo, in mezzo alla notte, torna a scavare oscuri cunicoli nella tua coscienza, ti serra il respiro: se non ti fossi opposto, se non avessi agito per il suo bene, tuo figlio – quell’unico figlio che non riesci a nominare se non tramite perifrasi patetiche – sarebbe ancora tra noi? Dio, se solo potessimo tornare indietro nel tempo! Se solo fosse possibile comprare all’asta un pezzo di passato per cambiarlo. Se solo Iddio abolisse l’Irrimediabile! Frattanto le domande non smettono di accavallarsi: se il tuo Ricky non si fosse sparato, Giacomo sarebbe uno dei tanti ragazzi felici che frequentano il Parnaso, che fanno l’università, che scopano quelle figliole con la bionda frangetta, che progettano la propria vita, che sbagliano al solo scopo di rialzare la testa? Sì, insomma, quanto c’è di tuo in questo disastro? E

quanto è da attribuire al destino? Possibile che i quindici centimetri che separano questo ragazzo dal-l’agognato metro e ottanta abbiano deciso della nostra vita? È questo che non osi chiedere allo psicanalista, temendo non tanto le sue risposte quanto le sue impudiche domande. Ecco perché non dici “mio figlio”. Temi che il tuo più spaventoso sospetto, quello che non sai affrontare neppure nel profondo della tua coscienza, che scacci rabbiosamente ogni volta che ti si affaccia alla mente, si riveli fondato, reale, verificabile. Ma forse, Nanni, non c’entri niente con la morte di tuo figlio, né con l’infelicità di tuo nipote. È inutile cercare un nesso fra le cose. Forse le cose accadono autonomamente. Eppure come puoi rinunciare al lusso di torturarti col pensiero degli ultimi istanti di Ricky? Come puoi non pensare alla disperazione di quel povero ragazzo, al baratro spalancato di fronte al suo destino? Non sai cosa vuol dire volersi uccidere. Non sai cosa vuol dire precludersi qualsiasi alternativa alla morte. Non lo sai. Non sai che cosa vuol dire cacciarsi in bocca una pistola, sentire le mani che tremano e il battito cardiaco accelerato, la vita infilata in un sacco, il destino affidato alla pressione dell’indice, alla contrazione d’un muscolo, alla semplice ineludibilità d’uno scatto nervoso. Tu non hai mai pensato di ucciderti. Tu appartieni alla generazione bellica.

Chi ha visto la guerra non si suicida. Chi ha sofferto realmente non ha tempo per queste stronzate.

È questo che pensi. È questo che ti hanno insegnato a pensare. È questo che hai provato con tutta la tua energia a instillare nella mente di tuo figlio e dei tuoi nipoti. È questo il tuo fiasco colossale.

Giacomo si è seduto e mi guarda.

La striscia di nuvole all’orizzonte sembra una lunghissima sgommata sull’asfalto. Uno di quei primi pomeriggi di giugno in cui la piazza si riempie di ragazzi con auto e motociclette nuove e si sta lì senza alcun motivo, per il gusto misterioso di non essere altrove. Tutti si conoscono, quasi da sempre. E questo sembra bastare per non avere alcuna voglia di conoscere altro.

È un peccato che voi non siate qui, al mio fianco: che voi non possiate vederli, questi ragazzi: perché essi sono spaventosamente belli: e per di più, stupendamente benvestiti. D’altronde avrete ormai capito che Daniel Sonnino è predisposto all’abuso avverbiale – pratica condannata sin dalla prima lezione in qualsiasi rispettabile scuola di scrittura creativa. Forse è Bepy ad avermi contagiato con il germe dell’avverbio: da lui deriva la consapevolezza che la più screditata tra le forme grammaticali del discorso dia colore alla vita, la caratterizzi, si occupi delle sfumature. E

soprattutto è come se l’avverbio s’incaricasse di preparare la grande entrée dell’aggettivo sul palcoscenico della frase. E allora è utile ripeterlo per un’ultima volta: questi ragazzi sono spaventosamente belli e stupendamente ben vestiti, se non altro per capire come il tavolino rotondo intorno al quale sediamo io e Giacomo debba apparire a uno spettatore imparziale una sorta d’isolotto deserto e disadorno in mezzo a un rigoglioso arcipelago tropicale.

E se oggi possiamo dire con assoluta disinvoltura che Karl Marx nella sua smania di prevedere il futuro ha preso solenni cantonate, siamo obbligati, tuttavia, a riconoscergli una stupefacente comprensione delle cose umane: temo che lui sarebbe d’accordo con noi nel ritenere che la sfrontata avvenenza di questi ragazzi – qua e là deturpata da qualche inessenziale eccezione –, così come il loro buon gusto così misteriosamente compromesso con un’inclinazione alla pacchianeria, dipenda soprattutto da un paio di secoli di buona alimentazione, di ottima istruzione, d’investimento sui propri geni, e da tanti altri inqualificabili fattori e storici privilegi.

Subito l’Arabo si avvicina.

«Che volete?» ci chiede con quella sua aria sempre scocciata, come se gli dessimo noia, come se stessimo interrompendo il suo fatale officio: vegliare sull’integrità della piazza.

Giacomo chiede una grappa.

L’Arabo arriccia il naso (il viso dell’Arabo conosce solo espressioni estreme). Cristo, la grappa a un poppante. L’Arabo non sopporta Giacomo. Non lo può quasi guardare, come non può guardare i bambini down o i para-plegici (si è mai visto un paraplegico in un romanzo di Tolstoj? Ahhh, autrefois…). Lo fanno stare male. L’Arabo non sopporta la parte oscura dell’umana bellezza. La rifugge. Ma con Giacomo è quasi peggio. Ai suoi occhi quel ragazzo pallido e vestito in un modo tanto sciatto è una bestemmia. Lo considera più o meno come un rinnegato. Ma come? Proprio lui, nipote della principessa Altavilla, fratello di cotanta sorella, calzare quegli scarponi anfibi – e quella barba poi, da comunista? Sembra uno scarafaggio. Il mondo si sta ribaltando. L’Arabo, quando guarda quel ragazzo, è il solo a non pensare al suicidio del padre. L’Arabo aborrisce qualsiasi psicologia. Ma via, si dice l’Arabo, la gente muore tutti i giorni, e ciò non autorizza chi resta a indossare magliette inzaccherate o a non curarsi i capelli. Io stesso ho perso il mio povero papà a soli tredici anni e non mi sono mai lasciato andare, non ho mai perso la mia dignità. Questo signorino ha un nome, e quel nome va rispettato. Se non hai rispetto per te stesso, abbi almeno rispetto per il nome che porti. Se non hai rispetto per la tua vita, abbi almeno rispetto per tutte le vite peggiori della tua. (Dio, il moralismo dell’Arabo è esasperante.) Così, dopo aver preso l’ordinazione, l’Arabo si allontana spazientito. Ma ciò che non può sapere è che in fondo Giacomo, con tutta la sua ricercata trascuratezza, non è altro che un precursore. Tra pochissimi anni, quella stessa piazza si empirà di cuccioletti vestiti da scarafaggi, con T-shirt indossate alla rovescia e pantaloni militari sfrontatamente bassi sulla vita. E allora un ragazzo

“decentemente” vestito sembrerà grottesco e insensato tanto quanto oggi Gia-como appare provocatorio. E questa nuova generazione aracnofila non sarà mica il prodotto d’un’altra razza, di altre famiglie o di diversi ceppi antropologici, come tristemente constaterà l’Arabo. No, saranno solo fratelli minori persuasi con la nostra stessa irragionevole determinazione che indossare la T-shirt alla rovescia sia un gesto distintivo che azzera tutto, impallidendo qualsiasi altra moda passata o futura. Quelli che oggi amano una vita confortevole, una vita all’americana, domani odieranno il confort e l’America. Quelli che oggi considerano all’avanguardia un pasto a base di Big Mac domani troveranno quel medesimo pasto penosamente inquinante, simbolicamente pernicioso. Così funzionano le cose in questa piazza. Con buona pace del nostro Arabo disperatamente passatista.

«Di’ un po’, ti dispiace che non sia venuta mia sorella?» mi chiede Giacomo a bassa voce.

Non rispondo. Conosco questa voce biascicata: ha bevuto, ha fumato, è imbottito di tranquillanti, è fuori di sé.

«Allora, ti dispiace o no?»

Taccio.

«Non è educato non rispondere. Su, dimmi: ti dispiace?»

«…»

«Ma certo che ti dispiace! Hai il viso affranto.»

«…»

«Perché non parli? Volevo solo fare due chiacchiere…»

Tace anche lui.

«Dimmi un’altra cosa, allora. Come mai nella tua famiglia siete tutti così servili?»

«…»

«Sì, perché scodinzolate intorno alle persone? Perché le idolatrate? Vi viene naturale strisciare?»

«Dai, smettila. Sai che quando stai in questo stato dici solo sciocchezze!»

«In quale stato?»

«Diciamo che la puzza di alcol ti ha preceduto di un paio di minuti.»

«Ah, a lui gli alcolizzati non piacciono…»

«E tu saresti un alcolizzato? Chi ti credi di essere? Edgar Allan Poe? Tu sei un paraculo…»

«A lui piacciono solo i servi e le pompinare» continua lui alzando il tono della voce e fingendo di non ascoltarmi.

«E va bene, hai ragione. È come dici tu.»

«Non hai ancora risposto, Daniel.»

«A cosa?»

«Mettiamola così, allora. Sei sicuro che questa sia la strategia giusta? È roba tua? O di tuo padre o di tua madre?»

«Quale strategia? Farnetichi. E perché ce l’hai tanto con i miei, oggi? Di solito ti piacciono tanto!»

«Beh, immagino siano loro ad averti insegnato a strisciare. Per questo siete così amici di Nanni, no? Nanni se li sceglie tutti uguali, i suoi amici: carini, cortesi e deferenti. Proprio come voi. Nanni sopporta solo la gente così. Nanni è insofferente alla verità. E ti assicuro che Gaia ha imparato la lezione. La principessina s’è già fatta la sua bella corte. Non trovi? Ma certo, lo sai benissimo: tu sei il ciambellano.»

Le parole di Giacomo, oltre a essere sgradevoli, sono anche prive di fondamento. Per questo, anche se mi mettono di malumore, non me la prendo. Via, sono il primo ad ammettere che l’affezione di mio padre per Nanni sia esagerata. Ma tale ipertrofia affettiva non è piaggeria: bensì lo stucchevole frutto di una personalità incline all’eccesso e all’esuberanza. Tutte le passioni di mio padre sono cocenti, spesso faziose e irragionevoli: quando mangia il sashimi in un ristorante giapponese. O

quando, aprendo l’ultimo numero di “Quattroruote”, gorgheggia felice alla vista del nuovo modello Chrysler. O quando si abbandona a euforiche interiezioni di fronte a un quadro di Jasper Johns o a un racconto di Bret Easton Ellis. Non lo trovate fantastico?, ci chiede con gli occhi che negli anni hanno preso a lampeggiare come quelli di Bepy… Ma che c’entra il servilismo? Anche la devozione per Nanni è uno dei modi di mio padre per dirci che il mondo gli piace incondizionatamente. Mio padre è un innamorato cronico: uomini, donne, libri, griffe, automobili, calciatori, cibi, edifici, tramonti. Tutto, tutto il reale incommensurabile, così com’è o così come crede che sia, per lui è oggetto di culto, occasione di fanatismo.

Ma Giacomo – evidentemente sorpreso dal mio self control –, dopo averlo brandito per qualche minuto, affonda il coltello nella mia carne:

«Vuoi sapere che cosa pensa Nanni di voi?»

«Non ci tengo…»

«Dice che tuo nonno era un ladro, uno sbruffone, che ha avuto la fine che meritava. Dice che tuo padre è un leccapiedi e tua madre una livida frustrata! Dice che se lui stesso, a suo tempo, non vi avesse aiutato ora stareste con le pezze al culo.»

Sì, è così – attraverso queste parole – che l’acuminato coltello di Giacomo si fa strada nelle mie viscere. È orrendo pensare che tali giudizi su Bepy, su mio padre, sulla mia famiglia siano stati pronunciati milioni di volte di fronte a Gaia.

E non so proprio che cosa mi trattiene dall’afferrare Giacomo per la maglietta, sollevarlo dalla sedia con tutta l’adrenalina che ho in corpo e prenderlo a ceffoni finché non mi passa. Temo che in quest’epoca così pacifica si sottovaluti la bellezza intrinseca di certi atti violentemente liberatori.

Non trovate che sarebbe splendido, anziché starsene qui imbambolati a incassare insulti assurdi da questo matto, iniziare a percuoterlo selvaggiamente? Non sarebbe un sollievo, se non per l’intera umanità per la maggior parte delle persone che lo frequentano e che fingono di compatirlo? Chi lo dice che alla follia si debba sempre rispondere con la comprensione? Non è proprio la follia a negare il dialogo, a renderlo impossibile? Perché la follia merita quello che la saviezza non assicura? Dove sta scritto che la tolleranza nei confronti dei malati di mente sia l’ultimo orizzonte della moralità umana? Qualcosa mi dice che se, interrompendo la serie infinita di indulgenze di cui questo ragazzo ha goduto negli ultimi dieci anni, io lo prendessi a calci, se cedessi al basso istinto che mi spinge a tappargli la bocca con un pugno, un sacco di gente me ne sarebbe grata, me ne renderebbe merito. Possibile che questo non conti niente? Che l’eventuale gratitudine di costoro abbia un peso specifico così insignificante? Sono certo, tanto per fare un esempio, che se io picchiassi Giacomo l’Arabo andrebbe in visibilio, così come, al di là delle pubbliche affettazioni di indignazione, dentro di sé lo stesso Nanni proverebbe una primitiva sanissima voluttà. Chi mi dà questa certezza? Nessuno, naturalmente. È una cosa che sento. Qualcuno potrebbe dirmi che malmenare Giacomo non servirebbe a nulla, che lui ormai è un uomo perduto. Che la violenza non è mai la ricetta giusta. Ma chi lo dice che io voglia o debba aiutare Giacomo? Perché pensare solo al suo benessere e non a quello delle persone da lui quotidianamente insultate? Perché non pensare al mio, di benessere? Perché solo il suo è importante? Non ho già sofferto abbastanza? Vi giuro che riempire Giacomo di botte, qui, di fronte a tutti, non solo mi darebbe una gioia estemporanea quasi insostituibile ma risolverebbe in anticipo un mucchio di problemi che tuttora mi affliggono.

Naturalmente non sono che vaniloqui interiori. In realtà resto qui, annichilito, in balia di questo sciagurato che non vede l’ora di farmi a pezzi. Frattanto lui tace, per poi riprendere con un tono lamentoso e insincero:

«Credi che non abbia capito che la sola ragione per cui mi frequenti, la sola ragione per cui sopporti quello che nessuno sopporta, la sola ragione per cui accetti l’umiliazione di essermi amico, la sola ragione per cui te ne stai qui con me vergognandoti come un ladro è farti bello agli occhi di Nanni e di Gaia? Tu vuoi entrare nella loro vita, mica nella mia. Vuoi essere gradito a loro, mica a me. Non negarlo! Lo sai cosa sono per te? Una chiave per accedere nel palazzo reale. Sono il tuo numero fortunato. Per questo sei così gentile. E mi porti a mangiare la pizzetta, e mi porti a comprare i dischi, e al cinemino, e mi racconti i romanzi… Non è così? Sai, Daniel, tu sei il peggiore di tutti.

Tu sei il finto buono che sta per esplodere. Insomma, vo-levo solo dirti che non serve. È inutile che tu ti prenda cura di me. Basterebbe che tu sentissi cosa dice Nanni dei Sonnino per capire che con Gaia non hai alcuna speranza. Che ne avrebbe di più il più stronzo dei tuoi compagni. Forse anche un nano da circo. È strano che uno come te» conclude, «uno che ha avuto tanto come te, stia dietro a quella sfigata di mia sorella…»

Ancora una pausa. Un goccio di grappa.

«Eppoi, Dani, io al tuo posto, con la madre che hai, con il padre che hai, col fratello che hai…»

Non mi guardava, continuando a enumerare quasi in trance i componenti della mia famiglia, nei confronti dei quali, a dispetto delle parole sferzanti rivolte loro pochi attimi prima, sembrava provare un’invidiosa venerazione. Una caratteristica della sua dialettica era il cambio repentino di prospettiva. Ogni urgente asserzione veniva quasi immediatamente ribaltata. Ma questo non sembrava un espediente per sconcertare l’interlocutore, bensì una peculiare forma d’insofferenza, una vocazione all’ambiguità. Era come se quello scontro esasperante che segretamente avviene nella nostra testa tra una ragione e il suo contrario, tra verità e malafede, tra autenticità e convenienza, in Giacomo, invece, s’estrinsecasse sul campo di battaglia dei suoi fratti discorsi.

Ma questa è robaccia precotta!, mi colsi allora a pensare, come per spezzare l’assedio della sua arrembante requisitoria: l’eterna recita dei figli di papà (o di nonno) che dicono d’invidiarti. Sono lì nobilmente protesi e insoddisfatti, pronti a darti il contentino. Felici di riconoscere la meraviglia d’un’umile esistenza. Ti guardano e sembrano dirti: “Tu, con la tua vita mediocre e senza prospettive, sei l’incarnazione del privilegio. Sei tu, la cui vita non è stata caricata di aspettative, a conoscere il valore autentico della felicità familiare”. Sì, l’eterna recita che conosco sin troppo bene, se non altro per averla interpretata io stesso almeno una dozzina di volte. Se è questo che mi devi dire, Giacomo mio, sei sulla strada sbagliata. Non c’è niente di sconvolgente, niente di pirotecnico in quello che mi stai dicendo. C’è solo un po’ di narcisismo mescolato a una buona dose di autocommiserazione. Un piatto indigeribile che io stesso ho servito ad amici meno abbienti.

«Ma lo sai che vuol dire avere una madre inesistente, che manda cartoline da luoghi imprecisati? o una nonna ossessionata dal bon ton?…» mi chiede a un tratto con quei sorrisi sforzati di chi trattiene la commozione.

Giacomo adora ridurre la propria esistenza a queste istantanee: definizioni che possiedono una potenza evocativa perfino divertente, ma che tuttavia testimoniano una deleteria inclinazione al melodramma.

«… E soprattutto il piatto forte: quel pazzo squinternato di Nanni. Ecco cosa abbiamo noi. A te Nanni sembra normale, a tutti sembra normale e ponderato. Mi rendo conto che così possa apparire agli altri. È abile nel dissimulare. È un artista della dissimulazione. Ma credimi, basta viverci insieme giorno per giorno per rendersi conto che è lui il vero matto della compagnia. Mica io. È lui.

Vuole sempre dare l’idea di stare al di qua delle cose. E solo quando lo conosci come io lo conosco ti rendi conto che il pazzo è lui. E che quello stare al di qua è solo una patetica bugia. Una trovata pubblicitaria. Che la sua vera inconfessabile vocazione è quella di stare al di là delle cose… Ma lo sai che il suo solo problema» riprende Giacomo dopo aver terminato la seconda grappa e averne ordinata un’altra al sempre più intrattabile Arabo «è di non essere nato aristocratico? Ti sembra un problema accettabile, degno di nota? È proprio così. Altrimenti perché alimenterebbe così tanti equivoci sulla sua nascita? E perché spendere tanti quattrini per quelle ridicole ricerche araldiche?

Ma lo sai che il suo cognome “Cittadini” lo esaspera? Non lo sopporta. È così borghese. Cittadini puzza di giacobino. Dio, che orrore. Lui meritava un nome tipo Odescalchi o Farnese o Pallavicini o Barberini o Boncompagni Ludovisi… È questo che pensa. Si tortura. Tutto, ma non Cittadini. È

questa la sua vanità, Dani. Lui si sente defraudato di un titolo che gli spetta. Per questo quando è con i suoi amichetti si fa chiamare col cognome di nonna. Se solo sapessi come gongola quando qualcuno lo presenta: “Ecco a voi il principe Altavilla!”. Non capisce la ridicolezza di quella presentazione. Mica se ne rende conto. Non capisce che quelli lo disprezzano, che quelli vivono per l’araldica, per il “Libro d’oro”, e certo non si fanno infinocchiare da un parvenu. Loro li fiutano, i parvenu. Loro si circondano di parvenu. Loro sono nati e cresciuti con la missione di snidare i parvenu che frequentano. Ecco perché papà ha sposato mamma sotto la benedetta pressione del vecchio. Il vecchio è un fuoriclasse nell’arte di premere e in quella di benedire. Sai, non è una bella cosa essere manipolati dal classismo di un maniaco. È incredibile che ci abbia educato come se appartenessimo alla famiglia reale. Devi vedere che spettacoli organizzava quando eravamo piccoli.

Quando diceva: “Su, Giacomo, stai composto, questo modo di comportarsi è indegno d’un Cittadini”… T’assicuro, testuale. E lo diceva con la stessa gravità con cui uno potrebbe dire:

“Questo modo di comportarsi non è degno d’un Windsor”. Tu c’eri all’ultima caccia alla volpe?

Quella faraonica? Dai, su, c’era pure Bepy! Sembrava di essere ai tempi della regina Vittoria. Tutti vestiti con le giubbe rosse e tutti, dio santo tutti, con la tuba… Quanti cazzo di cani c’erano…»

Ancora un sorso.

«… Organizza ’sti ricevimenti incredibili per invitare quella gente. Chiunque abbia un titolo è precettato. E tutti in fila, gli scrocconi. Altroché. Questa pletora di snob è pronta a godersi la vita a spese di Nanni. Quella volta, durante la caccia alla volpe (ma possibile che non te la ricordi?), mi sono acquattato sotto a un tavolo per ascoltare i commenti di quella gente. Uno dice: “Hai mai visto in tutta la tua vita una simile cafonata?…”. E ridono, sì, ridono di lui. Devi vedere come ridono…

Insomma, ho trovato giusto informarlo che ridevano di lui. E lui mi ha schiaffeggiato. Non mi ha parlato per settimane. Credo che sia da allora che mi odia. Ma non mi sembrava una cosa così terribile che qualcuno ridesse di lui. Non è bello far ridere la gente? Io lo so che faccio ridere e ne sono felice, Dani, ti giuro. Siamo una famiglia di comici, ma io sembro il solo ad averlo capito, cazzo. Non hai idea quel comico involontario di Nanni quante risate ha fatto fare alla gente con quella statua!»

«Quale statua?»

«Ma come? Non sai niente neppure della statua?»

«No.»

«La statua che sta all’ingresso di casa, l’avrai vista centomila volte.»

«Eh, e allora?»

«Nanni non ti ha mai parlato della statua?»

«No.»

«Basterebbe questo per dire che non conti un cazzo ai suoi occhi… Dai, la sua adorata statua. Un mezzobusto del Diciottesimo secolo acquistato a un’asta. Un giorno lo porta a casa e ci dice che quello è un suo antenato. Sì, non è più preciso. Non offre dettagli. Non ci dice il nome, né altro.

Dice solo che quello è il suo antenato. Il suo antenato ritrovato. Che non ha dubbi. Che, vedendo quella statua, ha sentito una voce.»

«Una voce?»

«Precisamente: la voce del sangue. Così dice. La voce del sangue. “Ma possibile che non lo vedete?” ci chiede, e gli trema la voce. “Ha la mia stessa espressione, stessi capelli! Guarda, Gaia, ha il tuo naso!”»

Giacomo mi racconta che col tempo Nanni ha costruito un’identità per quella anonima statua. Le ha dato un nome, un titolo, inventandole una vita, fatta di aneddoti, dolori, gioie, successi, lutti. E si è innamorato a tal punto di quell’avo inventato che ha finito col credere alla sua esistenza storica. Sì, la sua commozione di fronte a quella statua è autentica. Guai a ricordargli il giorno in cui l’ha portata a casa quando non aveva altro se non la certezza che fosse il ritratto d’un nobile consanguineo. Guai a metterlo davanti alla sua patetica mistificazione. Se lo facessi, come Giacomo mille volte ha fatto, lui s’imbestialirebbe in un modo da far tremare i muri di casa.

«È con questo tizio che, da quando mamma è andata via, ho dovuto vivere. È questo pazzo visionario che si è occupato della mia educazione. Nonna era come non esistesse. Lei era sostanzialmente assente. Per lei era importante che ci comportassimo bene. L’unica cosa che mi ha insegnato mia nonna è che il baciamano si fa solo nei luoghi chiusi e mai alle ragazze che abbiano meno di diciassette anni. E pensa, ho scoperto pochi giorni fa che anche questa è una cazzata, che

’sta gente è talmente smidollata da non essere in grado di dettare regole inalterabili. Quello che voglio dire è che mi hanno lasciato in balia di questo duo improbabile, da avanspettacolo. Ci hanno mollato a Nanni e Fifi. Ti rendi conto? Nanni e Fifi. Sembrano una coppia di Schnauzer nani! Ed è Gaia la chiusura del cerchio» conclude Giacomo in piena esaltazione shakespeariana, «lei è l’ultimo atto di questa follia. Lei è la degna compare di Nanni. Cosa credi che sia successo tra lei e Dav? Perché si sono lasciati? Credi davvero alla storia dell’incompatibilità?… È tutto così formale in lei. Il mondo crolla, la gente muore, s’ammazza, e lei continua a essere formale come una damina dell’Ottocento. Dav l’ha lasciata. È un tipo sincero. Sai, mi piace molto. Dav l’ha capita subito. Ha fatto quello che doveva fare con lei. Eppoi l’ha mollata. Dopo tutto quel casino, l’ha mollata.»

Improvvisamente sento la gola aggredita da un ricordo.

Una delle prime occasioni in cui sono stato chiamato a indossare un abito da sera, e indotto a derubare mio padre d’un marroncino cappotto di covercoat con i baveri di velluto verde smeraldo, per essere all’altezza della festa che i signori Arcieri avevano allestito per il sedicesimo compleanno della loro unica figlia Diamante in un locale che allora scontava una lieve decadenza chiamato Jackie O’, in omaggio a Jacqueline Kennedy suppongo. Avevo implorato mia madre di lasciarmi prendere anche un cappellone a larghe falde, ma lei quella volta era stata irremovibile:

«Ma su, già così sembri un gangster nano. Piccolo mio, anche il grottesco ha un limite!».

Un taxi mi aveva lasciato all’imbocco di via Boncompagni, tra le folte luminarie dell’Excelsior e la goffa struttura che tuttora ospita l’ambasciata americana. Sebbene orfano del mio cappello da gangster, mi ero incamminato in un tripudio di speranze che sembravano alimentate dalla scorpacciata di dettagli metropolitani con cui, strada facendo, avevo ingolfato lo spirito: le luci dei negozi chiusi, le auto in sosta, i misteriosi arcipelaghi formati dalle cacche dei cani in terra e dalle foglie dei platani in cielo… Tutto questo sembrava aver decuplicato le mie già alte aspettative.

Temo di dover confessare una debolezza fatale per la mondanità: le due ore che antecedono una festa, completamente dedicate alla cura di sé – quando le nebbie della doccia sembrano confondersi con quelle non meno dense dell’immaginazione creatrice – sono fra le cose migliori che la vita sa offrire. È naturale, quindi, che la delusione, suscitata dall’anodino svolgersi della festa, più che da valutazioni obiettive, derivi dal ponderoso campionario delle promesse mancate.

Naturalmente anche la festa di Diamante Arcieri non seppe costituirsi come eccezione: e la realtà ebbe, per l’ennesima volta, ragione della fantasia.

Sicché, con il senso di nausea che dona la vacuità emotiva, percorrevo a un’ora non troppo indecente la caverna che conduceva all’uscita del locale, dove avrei trovato ad attendermi un taxi nel quale deglutire finalmente il veleno di quell’innocuo avvilimento. Fu allora che udii distintamente un sospiro. Un sospiro che aveva allo stesso tempo qualcosa di mistico e qualcosa di pornografico. Mi girai verso quel sospiro. Buio pesto. Fu grazie al servile e un po’ ironico gesto del buttafuori nero – per l’occasione vestito come un paggio del Diciassettesimo secolo – che schiudeva la porta al mio passaggio, che un fascio di luce gialla poté incunearsi a illuminare due corpi avvinghiati. La posa plastica di quei corpi faceva pensare a certe movimentate sculture barocche. Ma in realtà il retaggio più barocco di quella scena era quello delle labbra semichiuse della ragazza: labbra in estasi: labbra che hanno appena emesso un sospiro mortale. E per quanto mi sarebbe piaciuto credere che quel sospiro mistico fosse stato originato dalla visione di Dio, era evidente come esso fosse generato dalla sapiente mano del ragazzo che per qualche minuto aveva armeggiato sotto la gonna di lei.

In questo modo teatrale, succinto e secentesco avevo scoperto quello che tutti sapevano da tempo: che Gaia e Dav stavano insieme. Fino a quel momento la mia tranquillità era stata salvaguardata dal sonnambulismo da cui all’epoca ero pietosamente assistito. Tutti sapevano di Gaia e Dav da almeno un anno e mezzo e lo sapevano a tal punto che l’incontro dei singoli nomi di quei ragazzi si era trasformato in sigla: Gaia & Dav. Vengono stasera Gaia e Dav?… Ma li hai visti ieri sera Gaia e Dav?… Che dite, li aspettiamo Gaia e Dav?, quante volte negli ultimi tempi avevo sentito pronunciare consimili espressioni! Forse avrei dovuto prendermela con il mio cervello più che con le mie orecchie. Sapevo di aver udito migliaia di volte pronunciare in mia presenza quella sigla, Gaia & Dav, così come sapevo di non essermi mai voluto interrogare sul suo significato.

Gaia & Dav: non era un enigma, in fondo. Era un dato di fatto incontrovertibile che avevo semplicemente ignorato. Sì, io non avevo mai sospettato. Non certo perché qualche creatura misericordiosa mi avesse tenuto all’oscuro come si fa con i cornuti istituzionali, ma solo perché di solito nessuno ha interesse a intrattenerti con le cose evidenti. Avevo fuggito l’evidenza e perseguito la menzogna con una tale ottusa determinazione che solo ora capivo quante realtà avessi dovuto trasfigurare per difendermi dalle insopportabili verità racchiuse in quella sigla commerciale: Gaia & Dav.

Certo è che quel taxi, che avrebbe dovuto ospitare un’amarezza in fondo niente affatto sgradevole, si era trasformato improvvisamente in un autentico inferno. Oggi so che la sofferenza amorosa consiste nel restringimento progressivo dell’intero mondo in un solo punto. È come se un punto divorasse con un rapido boccone l’universo intero. Era esattamente quello che mi stava accadendo.

Non basta dire che l’emissione di fiato che aveva determinato il sospiro di Gaia mi aveva cambiato la vita. È più esatto dire che quel sospiro era diventato la mia vita, si era sostituito e sovrapposto a essa.

L’ironia volle che Gaia e Dav, per le ragioni che Giacomo si accinge a illustrarmi, si lasciarono pochi giorni dopo la festa di Diamante Arcieri e che io cominciai a soffrire come un cane per quel rapporto ormai compromesso, dopo aver felicemente vissuto – durante i favolosi anni di Gaia & Dav – in preda a una cecità autoprotettiva. Ma ero così intriso di quel sospiro, ero così traumatizzato da tutte le implicazioni cui esso sembrava alludere che avevo scelto di non occuparmi d’altro per i prossimi decenni: decifrare quel sospiro con passione masochista era il mio scopo esistenziale.

Per questo, sebbene Giacomo mi abbia appena posto due interrogativi ineccepibili (Perché credi che si siano lasciati? Credi davvero alla storia dell’incompatibilità?), non ho nessuna difficoltà a confessare a me stesso di non essermeli mai posti. Almeno non in questi termini.

Che m’importa di sapere perché si sono lasciati, se non ho ancora imparato a sopportare l’idea che siano stati assieme?

Così avrei potuto rispondergli.

Anche se in realtà la fine di quella relazione tra liceali nascondeva altre spine che non potevano certo sfuggire al mio intelletto sempre in cerca d’una sferza con cui autofustigarsi. Dai pochi ragguagli raccolti in giro e dall’osservazione dello stato d’animo dei contendenti, avevo compreso non solo che Dav l’aveva lasciata, ma che, con l’indolenza che lo distingueva, il signorino non si era sentito in dovere di fornirle spiegazioni adeguate.

D’altra parte la cosa peggiore che possa accadere a chi è abituato a essere inseguito, agognato, oggetto principe del Desiderio Collettivo, è di vedere, anche per una sola volta, i ruoli invertiti.

Sicché Gaia s’era trovata a dover inseguire l’idolo incarnato della sua vita. E non avendo fatto, negli anni, esperienza di inseguitrice, non avendo all’attivo alcuna ora di allenamento in questa difficile martirizzante disciplina, aveva clamorosamente sbagliato le mosse. Non aveva avuto discrezione. Si era lanciata alla riconquista di Dav con troppa foga. Non aveva saputo dissimulare la disperazione. Si era resa ridicola. Lo aveva sommerso di lettere, di bigliettini, di richieste, perfino di regali costosi e di umilianti preghiere telefoniche. «Ti prego, amore, non attaccare, ancora due minuti! Ti scongiuro…» «Ho da fare, dai…» Era così bello che lui le permettesse ancora di chiamarlo “amore”… «Almeno dimmi cosa è successo!… Avrò il diritto di sapere perché mi hai lasciata. Non dirmi per quella scena di nonno. Quella non c’entra niente, vero?» «Che senso ha parlarne?» «Ti prego, dimmi che quella cosa non c’entra. Che io non c’entro. Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto. Farò tutto quello che mi chiederai, ma ti prego… Sono giorni che nonno non mi rivolge la parola e a causa tua!» «Su, piccola, ne abbiamo parlato almeno cento volte. Non c’è altro da dire. Se non hai capito mi dispiace.» Ed era un miracolo che lui avesse ancora la magnanimità di chiamarla “piccola”! «David, tesoro mio, amore mio…» «Dai, non piangere!» «Piccolo mio?»

«Eh?» «Un altro minuto. Non attaccare. Ti prego. Un altro minuto… Anche zitti, senza parlare.»

L’effetto ottenuto da questa strategia suicida era stato quello di trasformare l’indifferenza di Dav in pietà, poi la pietà in stizza, infine la stizza in disprezzo. Il problema era che Gaia lo amava. E, per ragioni da lei ritenute inoppugnabili, sentiva di aver colto la singolarità di Dav più di chiunque altro: lei apparteneva a pieno titolo al club dei Grandi Plagiati Da David Ruben: e purtroppo essendosi attaccata a quell’unicità non sapeva come rinunciarvi. Tutto il resto le doveva apparire insignificante. Non c’è nell’universo un altro David Ruben, sussurrava a se stessa con l’enfasi delle debuttanti. E, in effetti, esisteva un altro ragazzo che l’avrebbe persuasa ad alzarsi la domenica mattina alle cinque in punto – lei che amava così tanto dormire – per andare a pescare trote? No, non esisteva. Ma il solo fatto che esistesse un’altra ragazza (non più meritevole di lei) che presto l’avrebbe soppiantata (o che l’aveva già fatto), un’altra ragazza intontita costretta a bere un latte macchiato bollente all’alba per seguire il suo eroico pescatore in fantastiche avventure tra boschi, torrenti e laghetti, la faceva impazzire di gelosia.

E forse bisogna concederle più di un’attenuante: tenendo conto, anzitutto, del modo perentorio con cui Dav si era disfatto di lei. Senza fornire spiegazioni, senza preoccuparsi di ascoltare le proteste e le suppliche di Gaia, mostrando una severità perfino crudele, sintomo d’una stupefacente incapacità di empatia, lasciando la poveretta in uno stato di sconforto tale da farle mettere in discussione – per la prima volta nel corso della sua breve esistenza – se stessa. Che roba! C’era forse qualcosa in lei –

in Gaia Cittadini, la più vezzeggiata tra le ragazze della sua generazione – che non andava? La sua voce aveva un suono sgradevole? La sua compagnia era noiosa? Il suo alito fastidioso? Forse questo? Perché da un certo momento in poi lui non aveva voluto più baciarla? Esisteva al mondo qualcosa di più incredibilmente eccitante che baciare quelle labbra, le labbra di Dav? Sì, forse qualcosa esisteva.

Eppoi, come non valutare la natura d’una personalità spumeggiante e convessa come quella di Dav Ruben? Dio santo, parliamo di uno di quegli individui-mondo – alla Bepy per intendersi – che hanno il dono di trasformare tutto quello che toccano in oggetto di culto. Dav corrompeva la tua esistenza attraverso la sua. Rendeva indispensabili cose che non ti avevano mai interessato.

Risvegliava in te quel desiderio di varietà edonistiche che la vita comune tende a conculcare, anche se ti chiami Gaia Cittadini, anche se sei nipote d’una principessa e d’un Rastignac di successo! Dav era un ricettacolo di vizi, di abitudini, di stravaganze, di gusti, di ristoranti, di località, di espressioni verbali, di sport, di film, di retroscena e di tante altre cose ancora che ponevano chiunque entrasse in contatto con lui nella condizione d’un poveraccio che per la prima volta, grazie a un viaggio premio, sperimenti gli agi pompeiani di un albergo di lusso nel sordido ventre di Man-hat-tan. Come puoi una volta che hai provato la delizia di essere servito in camera da uno stuolo di camerieri, dopo esserti assuefatto a massaggi orientali, alla varietà di ristoranti etnici, ai coiffeur di alto bordo, tornare a vivere nella tua putrida periferia?

Dav ti viziava in modo fatale.

E Gaia, la mia Gaia, era disperata. Era certa, anche se non lo avrebbe confessato a nessuno, che questo fosse un dolore più intrusivo di quello per la morte del padre. Un dolore che non dava requie. Che non evolveva. Che stava sempre lì al punto di partenza, tanto da non potergli immaginare un’alternativa. Un dolore che aveva la singolare virtù di ritornare proprio quando aveva finto di essere sparito per sempre. Era esterrefatta che l’amore per un individuo vivo fosse più cocente di quello per uno morto, sangue del suo sangue, il mio papino… E a proposito di questo, c’era un nuovo pensiero che occupava la sua mente – uno di quei tarli che tendiamo a rimuovere ma che in alcuni momenti della vita reclamano il loro diritto a torturarci. Come sottovalutare il fatto che i due uomini della sua vita, quelli che più di tutti aveva saputo amare, in un modo o nell’altro, avessero scelto di abbandonarla? E va bene, suo padre non si era sparato a causa sua. Su questo Nanni era stato chiarissimo. Gaia ricordava ancora quando un Nanni sfigurato dal dolore e dal massacrante tentativo di dissimularlo li aveva convocati – lei e Giacomo – nel suo studio, per dire che loro – lei e Giacomo – non c’entravano niente con quella tragedia, che lui sapeva con certezza che loro – lei e Giacomo – non avevano alcuna responsabilità, nessuna colpa. Che Ricky voleva loro – a lei e a Giacomo – un “bene dell’anima”, che se non fosse stato costretto dalle circostanze non li avrebbe mai abbandonati. Che se c’era un colpevole quello era… Qui Nanni si era interrotto tra i singhiozzi. Sì, Gaia non aveva dimenticato nemmeno la propria imperturbabilità di fronte a quei discorsi insensati, né quella di suo fratello, così come non aveva dimenticato la piagnucolosa angoscia in cui Nanni sembrava squagliarsi. Eppure, nonostante tutte queste considerazioni, un fatto restava: lei, in appena sedici anni, era stata già abbandonata due volte, e proprio dagli uomini della sua vita. E questo la faceva riflettere, alimentando anche quella forma di autocompatimento che in talune circostanze può rivelarsi persino gradevole.

Non si capacitava che Dav le fosse entrato dentro così misteriosamente. Si sentiva quasi in colpa per questo. Così scoprì che la vista d’ogni luogo della città da lei frequentato con Dav in quell’anno e mezzo di relazione (vie, negozi, bar, ristoranti, cinema…) equivaleva a un colpo alla nuca che la costringeva ad abbassare gli occhi. D’un tratto Gaia trovò la propria città ostile come non era mai stata: per non parlare della scritta “Olgiata” che le accadeva d’incrociare le rare volte che percorreva il Raccordo Anulare sull’auto con autista di Nanni. Quella scritta bruciava come una scudisciata sulla schiena. Gaia stava scoprendo quello che prima o poi a tutti tocca scoprire: quanto in fondo siamo vulnerabili di fronte all’amore: quanto sia facile rimanere invischiati in qualcosa di così inestricabile e come sia disperatamente arduo uscirne indenni. Era sorpresa da come persino il proprio corpo fosse un motivo di evocazione.

Per esempio, Dav aveva sempre amato la bocca di Gaia, non ne aveva fatto mai mistero, anzi, era un tipo così meravigliosamente esplicito: non si era mai stancato di ripeterglielo: “Tesoro, che labbra incredibili!” (possibile che ora lui di punto in bianco avesse smesso di desiderarle? Come era possibile smettere di desiderare qualcosa di così altamente desiderabile? Perché l’aveva lasciata? E

perché non si era curato di spiegarle perché la stava lasciando? Possibile che fosse così crudele?

Così pazzo? Possibile che non provasse alcun affetto per lei?). Insomma, accadeva sempre più spesso che lei, guardandosi allo specchio per mettere il lucidalabbra, fosse trafitta dalla vista della propria stessa bocca: perché se quella bocca non veniva amata da Dav, se non veniva da lui usata a suo piacimento (e Dio solo sa in quanti modi scabrosi lui l’avesse usata), non aveva più alcun senso. Le sue labbra, senza Dav, non meritavano più di occupare un posto d’onore su quel viso da parata!

E dire che nei primi giorni, dopo la loro separazione, Gaia aveva provato a eludere qualsiasi oggetto, qualsiasi situazione, qualsiasi luogo che potesse ricordarle Dav. Ci s’era messa d’impegno, con quel puntiglio che metteva sempre nelle passioni. Ma ben presto aveva dovuto abbandonare il suo proposito, constatandone l’intrinseca fallacia: era impossibile esercitare alcun controllo sulle mille evocazioni che la realtà generava quotidianamente. Era inutile provare a fuggire quei castighi imprevedibili perché essi incombevano su di lei come briganti in un bosco medievale. Quindi il solo modo per non incorrere nei terribili momenti in cui un ricordo improvviso le faceva vacillare le ginocchia sarebbe stato quello di smettere di vivere: togliersi la vita. Ma ciò era impensabile per lei, e anche vagamente ridicolo.

I sensi di Gaia non erano mai stati così accesi come in quel momento. Si sentiva molestata dai rumori troppo forti e dagli odori troppo intensi. Il fatto misterioso è che da quando Dav non era più con lei tutto sembrava offenderla personalmente: un clacson che strombazzava in mezzo alla via o l’odore di fritto proveniente dalla porta semichiusa di un ristorante cinese. Questo era l’inferno.

Persino in casa, persino in famiglia era diventata insofferente. Non sopportava, per esempio, il modo in cui Nanni mangiava le zuppe e le minestre di cui era ghiottissimo. Non che il nonno facesse rumore, ma alla fine di ogni cucchiaiata a Gaia sembrava di percepire un lieve fischio in lontananza che la faceva rabbrividire. Che certo non andava attribuito alla maleducazione, ma più probabilmente a quella protesi dentaria nuova di zecca che aveva riportato la bocca di Nanni ai fasti della giovinezza. Erano mesi che Nanni sfoggiava quella dentiera, mesi che provava a non farla fischiare. Possibile che lei se ne fosse accorta soltanto ora? E con un così allarmante disgusto?

Da quando Gaia era in quello stato, da quando era un’innamorata infelice e inspiegabilmente abbandonata, non sognava altro che rinchiudersi in una camera iperbarica e interrompere qualsiasi contatto con il mondo civile e soprattutto con quello incivile.

Allo stesso tempo, però, aveva dolorosa nostalgia per alcuni odori forti (di alcuni dei quali è indecente dar conto). Come dimenticare il profumo di Dav? Quello sì ch’era davvero indimenticabile. Quando saliva dietro alla moto di lui – la Honda NS bianca rossa e blu che allora era di moda possedere –, quando lo stringeva da dietro sentendo tra le dita i promontori delle costole di quel gigante normanno, era indispensabile per lei infilare il naso nell’incavo aperto tra il collo e la spalla di Dav. Mettere impudicamente il naso nel colletto della camicia per sentire quell’odore inconfondibile di uva acerba e di detersivo era diventato un’abitudine che la faceva quasi svenire. Ebbene, ora bastava il ricordo, il ricordo di quel maledetto odore di Dav – un odore irriproducibile perfino in laboratorio, un odore che non sarebbe mai appartenuto ad altri, un odore che presumibilmente non gli sarebbe sopravvissuto, quell’odore destinato ad altre biondine non meno avvenenti di lei, quell’odore che le era stato dato e ora le veniva tolto, che probabilmente non avrebbe mai più percepito da così vicino, quell’odore d’un’epoca irripetibile – a farla esplodere in una serie di singhiozzi e convulsioni notturne.

(Qualche minuto fa, per riposare i polpastrelli e il cervello dal tour de force cui li ho costretti nelle ultime ore di volo, ho afferrato nella tasca di fronte al mio posto il “Time”. Sfogliandolo distrattamente ho soffermato lo sguardo su un pezzo piuttosto interessante: un’équipe di studiosi inglesi sostiene di aver dimostrato che l’amore è anzitutto un’esperienza legata all’olfatto. Mi è scappato un sorriso. Non so se questa scoperta sia l’ennesimo tributo versato dall’iperrazionalismo anglosassone all’ottusità universale, ma per quel poco che conta posso testimoniare che quasi venti anni fa conoscevo una ragazza che avrebbe potuto sottoscrivere tale ipotesi scientifica. Per Gaia l’odore di Dav non era uno dei tanti attributi del suo amore per lui. No, nell’odore di Dav era semplicemente racchiuso tutto il suo amore.)

Gaia non era solo sospiri e nostalgie. Il suo organismo secerneva anche rabbia e legittimo desiderio di vendetta. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Il ricordo di come Dav l’aveva abbordata, solo due anni prima, la faceva impazzire, e così il ricordo di come allora lui, pur piacendole, le fosse tutto sommato indifferente, la empiva di nostalgia. Dio, se solo l’avesse rifiutato. Se solo avesse potuto rigiocare alcune mosse sulla scacchiera della loro relazione! Se solo gli avesse opposto uno dei rifiuti memorabili che lei – Gaia Cittadini – aveva imparato così presto a contrapporre ai corteggiatori… C’era stato un tempo in cui lui era così premuroso e lei così sicura di sé. Si malediva per non averlo trattato male allora. Per essersi lasciata abbindolare in quel modo. Naturalmente tutta questa rabbia, per tramutarsi in disprezzo, necessitava di qualche appiglio. E lei aveva un bisogno fisiologico di disprezzarlo. Se non altro perché la via del disprezzo le appariva quella giusta per ridimensionare l’idolo che sembrava essersi impossessato della sua mente (certi giorni aveva l’impressione di pen-sare costantemente a lui per tutte le quattordici ore che dividevano un sonno dall’altro, e talvolta, al risveglio, era certa che lui si fosse intrufolato nei suoi sogni per sconvolgerli). Sì, la strada dell’emancipazione passava per quella del disprezzo. E per riuscire in una simile disperata impresa lei doveva attingere a tutto lo snobismo di Nanni e di Sofia, appellarsi al senso della distinzione che entrambi le avevano instillato. L’unica arma a disposizione di quella ragazzina era la discriminazione sociale e religiosa.

Quello sporco ebreo! Quel borghesuccio arricchito con quel padre ripugnante, quella madre ripulita e quella casa pretenziosa!…

Sì, pensieri di Nanni ripensati dalla mente di sua nipote, per uno scopo nobile: l’igiene mentale e la riconquista d’una parvenza di tranquillità. Eppure era talmente evidente la malafede di tali invettive che subito i difetti da lei tendenziosamente attribuiti a Dav si trasformavano nella sua stessa mente in autentiche qualità. Perché Dav – il suo Dav – non avrebbe potuto vivere in un’altra casa. Perché Dav – il Dav che lei amava così disperatamente – non avrebbe potuto avere altri genitori. E cosa avrebbe potuto essere David Ruben se non ebreo? Ebreo. Ebreo. Ebreo. Possibile che quella parola, che per lei non aveva mai rappresentato niente, ora definisse perfettamente il suo destino? Possibile che ormai le bastasse imbattersi in una giornalista televisiva che parlava con costernazione della guerra israelo-palestinese per cadere nel più sfiancante deliquio? Possibile che sognasse di convertirsi?

E infine la più annosa delle questioni in quella scuola, e nel resto dell’universo: il giudizio degli altri. Chissà perché Gaia, che non si era mai vergognata di nulla, ora aveva preso a considerare il proprio stato come un’onta incancellabile. Come se essere stata lasciata, e continuare ad amare senza essere amata, rappresentasse per lei una caduta di stile o addirittura una colpa gravissima. Per questo non faceva altro che fingere buon umore: uno sforzo che doveva costarle un grandissimo sacrificio e che, d’altra parte, non veniva ripagato da risultati accettabili: perché bastava nulla –

un’allusione sfuggita a qualcuno su David, sull’Olgiata, sugli ebrei, sulla pesca, sui film americani e su tante altre imprevedibili cose – per far emergere, in tutta la sua lividezza, il turbamento su quel viso solitamente imperturbabile. Come se lei avesse perso potere su se stessa, come se il suo proverbiale autocontrollo fosse venuto meno. Ma non era solo questo il problema. Coi giorni, mentre la notizia che David l’aveva lasciata (per un’altra?) si diffondeva, Gaia aveva avuto sempre più la sensazione paranoica che gli altri congiurassero contro di lei. Anche a fin di bene. Ma ciò non la consolava. Era perfino patetico.

Un giorno, per esempio, aveva dimenticato in classe le scarpe da ginnastica per la lezione di educazione fisica. (Da qualche tempo era così svagata!) L’insegnante le aveva permesso di andarle a prendere. Sicché Gaia, dopo averle -indossate, era tornata in palestra di corsa. Ma aprendo la porta con una certa ansimante energia, aveva avuto l’impressione che le sue amiche spaventate avessero interrotto bruscamente la conversazione. Stavano parlando di lei? O della nuova ragazza di David? Evidentemente loro sapevano chi era, quella troia! Un tempo era lei a sapere tutto di Dav, a custodire i suoi segreti, ora era la sola ragazza a non avere diritto a sapere alcunché. E dire che avrebbe voluto fare un mucchio di domande… ma sapeva che anche la più pietosa risposta l’avrebbe addolorata per giorni. Ormai aveva capito come funzionava: meglio quella nebbia di nozioni vaghe e di raccapriccianti ipotesi con cui conviveva da qualche settimana che le poche notizie certe di cui era venuta a conoscenza per caso e che non l’avevano lasciata dormire per diverse notti consecutive. No, non avrebbe chiesto niente. Si sarebbe morsa la lingua pur di non chiedere niente a quelle streghe. Ma pochi minuti dopo le sue orecchie non avevano potuto fare a meno di percepire alcuni lacerti di conversazione tra le sue compagne. Così aveva capito tutto. Il giorno dopo ci sarebbe stata una grande festa in casa Ruben. Una delle tante, certo. Ma per Gaia la più importante perché era la prima cui lei non avrebbe potuto partecipare. Ecco ciò che volevano nasconderle!

Non essere invitata a quella festa le sembrava una così ingiusta mostruosità… E pensare che David più di una volta l’aveva fatta sentire la padrona di casa. Ricordava quando aveva aiutato la signora Ruben e la filippina ad apparecchiare con tovagliette all’americana di stoffa verde il tavolo vicino alla piscina per una cenetta improvvisata di salumi formaggi e verdure grigliate. Erano i primi giorni di giugno. A quell’ora l’aria aveva un colore così suggestivo e un odore così buono! Esisteva ancora tutto questo, da qualche parte? Ricordava i sorrisi d’intesa che aveva scambiato con la signora, i sorrisi tra una nuora e una suocera che si adorano. Sicché nel ricordare quei sorrisi, Gaia trovò una maniera tutta nuova per seviziarsi. Bastava ripensare quella scena con una piccola variante: rappresentarsi quella scena senza eludere alcun dettaglio, eppoi inserire una modifica: era sufficiente cambiare la ragazza e il sogno rosato diventava incubo. Sì, adesso non era più lei che aiutava la signora Ruben, adesso non era più lei a percepire quel profumo buono di rincospermo e di cloro, adesso non era più lei a sentirsi una nuora felice. Quei maledetti Ruben avevano cambiato la prima attrice, avevano dato il ruolo di protagonista a un’altra compiacente puttanella!

Tutti potevano entrare in quella casa. Possibile che solo lei – la predestinata – non potesse più farlo? Forse questo è il rischio che corrono le predilette del Sultano: il rischio di venire emarginate improvvisamente. Tutto questo non aveva senso. Gaia non aveva mai odiato gli altri come in quel momento.

Così talvolta – poteva capitare repentinamente senza alcun preavviso significativo – Gaia prendeva coscienza che Dav era perduto, che Dav era di un’altra, che Dav non sarebbe mai più stato suo.

Questa raffica di constatazioni le spaccava in due il respiro come se si trovasse di fronte a una cosa allo stesso tempo ingiusta e implacabile. Erano quelli i momenti in cui avrebbe voluto vedere la sua rivale. Avrebbe voluto sapere tutto di lei, con una curiosità morbosa. Come si chiamava? Dove viveva? Cosa aveva fatto fino a quel momento? Era cosciente di aver causato tanta sofferenza a un altro individuo? Dio, che meraviglia se fosse morta! Che miracolo se la rivale senza nome fosse rimasta vittima d’un incidente stradale… Allora lei, Gaia, sarebbe certo rientrata in scena. Lo avrebbe consolato, avrebbe dato sfogo a tutta la sua pietà e a tutta la sua comprensione e lui non avrebbe potuto resisterle. Era così bello pensare alla morte di quella anonima troia! Se solo non fosse mai nata! Se solo lui non l’avesse mai incontrata! Per il momento Gaia non poteva fare a meno di trasfigurarla: immaginandola alta come una modella, algida come una svedese, ricca come Onassis e disinibita come una…

Così Gaia sognava di essere una mosca. Sognava di volare nella stanza della sua antagonista (anche se era patetico ritenerla tale: non c’era alcuna contesa in fondo, la guerra era già stata perduta!), sognava di vederla vivere senza essere vista, di intrufolarsi nella sua stanza. In fondo doveva essere una creatura davvero eccezionale per aver soppiantato lei, Gaia Cittadini, la ragazza più desiderabile tra tutte le desiderabili! Pensate, Gaia in certi momenti sentiva addirittura di amare la sua rivale, anche se in un modo sinistro. Era chiaro: se il suo Dav l’amava, come poteva lei non amarla? In fondo Dav aveva insegnato a Gaia a ritenere necessarie cose che non avrebbe mai creduto possibile amare. Il pensiero della nemica senza volto faceva più male del pensiero di David. E Gaia ne era semplicemente atterrita.

E temo che Gaia meriti il nostro rispetto: in fondo sta imparando la lezione più dura: sta imparando che nessuno è insostituibile. Neppure lei – Gaia Cittadini –, neppure lei che si è sempre sentita una cosa così preziosa, neppure lei, che ha sempre creduto di essere al di sopra di qualsiasi altra donna, è insostituibile. Così Gaia arriva a capire che non bisogna credere agli uomini che ti dicono “Come te nessuno mai”. Non bisogna credergli quando ti dicono che non ti lasceranno. Non che non lo pensino. Forse in qualche momento lo pensano realmente. Ma poi? Poi, da un istante all’altro, smettono di pensarlo: anche la più stabile delle situazioni può capovolgersi. Non c’è da farsene un cruccio. Bisogna accettarlo, come si accetta la morte d’un padre e la follia di un fratello. Certe cose bruciano sia perché sono insensate sia perché non le puoi modificare.

Dav non c’è più. È altrove. Ora è un’altra persona. Un’altra cosa. Tutto qui. Basta solo provare a ricominciare. Il futuro: beh, quello almeno non smette mai di esistere! Eh sì, questo la faceva davvero piangere.

Naturalmente, tra i mille componenti di quell’universo ostile che Gaia, per pura comodità espressiva, chiamava “gli altri”, c’ero anche io.

D’altra parte avrei impiegato un po’ di tempo a capire la ragione sinistra per cui Gaia tutt’a un tratto aveva preso a frequentarmi con tale sospetta costanza: evidentemente, al di là di tutte le sue precauzioni, voleva stare vicina a qualcuno che potesse vantare un’assiduità con Dav, anche a costo di soffrire moltissimo. E in quella sua dedizione c’era qualcosa che non stento a definire eroico. Ed era palese che puntava tutto sulla mia amicizia con Dav (quel virile sodalizio che preferiva pudicamente sorvolare su ogni dettaglio delle nostre rispettive vite intime, al punto che lui non si era sentito in dovere d’informarmi della sua storia con Gaia e io non gli avevo mai detto che Gaia era tutta la mia vita). Lei mi considerava alla stregua di quella felpa grigia che Dav aveva dimenticato una volta a casa sua e che lei non aveva voluto restituirgli: a un certo punto, esasperata, per non soffrire ulteriormente, aveva dovuto nasconderla. O alla stregua di quell’anello d’oro con brillante, per l’occasione forgiato dall’Atelier Ruben con la benedizione d’una Karen raggiante, che Dav le aveva regalato una sera (Dio, possibile che quella sera fosse davvero esistita?). Ma, rispetto a questi oggetti inanimati che servivano ad anestetizzare il suo dolore o ad approfondirlo, io per lo meno avevo il pregio di essere vivo e gentile e di poterle elargire notizie di prima mano su Dav.

In fondo perché avrei dovuto lamentarmi? Era accaduto più di quanto avessi mai osato desiderare.

Non avevo forse mille volte sognato l’infelicità di Gaia? Non per cattiveria. O almeno non credo.

Che cosa potevo farci se – come avevo a più riprese constatato – la felicità di quella ragazzina sembrava perfettamente armonizzarsi con la mia disperazione? Come potevo non vedere che tra le sue gioie e i miei dolori sembrava essersi instaurato nel tempo un rapporto di causa ed effetto?

Quindi se la sua gioia mi faceva tanto male, se essa risultava addirittura intollerabile, era ragionevole ritenere che nel caso lei si fosse ammalata, o avesse avuto un grande smacco, o avesse sofferto un lutto gravissimo il mio umore sarebbe improvvisamente levitato.

Quanto mi ero sbagliato! Non mi piaceva vederla triste.

E non per un accesso improvviso di filantropia, che all’epoca ero troppo disperato per potermi concedere, né per un’affezione a lei, che, d’altra parte, non sarei mai riuscito a provare. Come potevo sentire pietà per lei? In fondo la pietà è un lusso che ci concediamo solo nei confronti di individui da noi boriosamente considerati inferiori. Eppoi, c’è da dire che le pene d’amore – benché ognuno di noi le abbia provate, sperimentando quanto esse siano estenuanti per il nostro organismo e per la nostra psiche – difficilmente ispirano pietà: il massimo che riusciamo ad accordare a un amico in crisi sentimentale è un po’ di ben dissimulata disapprovazione: come se stesse perdendo tempo con una sciocchezza di nessun conto. «Con tutti i bambini che muoiono di fame… con tutte le guerre che insanguinano il mondo… ti avveleni la vita per quella…» Sì, non c’è niente di più incomunicabile d’una pena amorosa.

Più che altro era come se Gaia – attraverso quello sfoggio di mestizie e di malumori – stesse violando un contratto commerciale che le imponeva di essere sempre al massimo della curva emotiva. Il fatto che si prendesse simili libertà rispetto all’idea che io mi ero costruito proditoriamente di lei, sin dalla prima volta in cui l’avevo vista al funerale di Bepy – idea rinsaldatasi alla vista della solare marinaretta che sbarcava saettante dal motoscafo Riva –, metteva a dura prova la mia stessa fede nel mio amore. Era come se il mio amore si nutrisse di aspettative.

Non a caso esso era divampato inarrestabile proprio nei giorni in cui avevo frequentato la fastosa villa di Positano dedicata proprio a Gaia. E da allora il mio amore non aveva fatto altro che pretendere da quel fasto incoraggianti conferme. E Gaia, almeno fino a quel momento, non mi aveva mai tradito. Mi aveva illuso che al mondo esistesse un genere di individui a cui le cose andavano sempre bene. Individui le cui vite non venivano mai avvelenate da frustrazioni improvvise. Ma d’un tratto eccomi di fronte a questa nuova improbabile lagnosa Gaia. No, non mi faceva pena, ma un po’ di senso. Io, che avevo accettato con tanta stoica euforia il suo presunto disprezzo nei miei confronti, non mi sentivo pronto a disprezzarla a mia volta. Del mio disprezzo per lei non sapevo davvero che fare.

Inoltre il solo fatto che lei fosse stata rifiutata da David – che pur essendo incommensurabilmente superiore a me restava pur sempre un essere umano – la poneva ai miei occhi in una prospettiva diversa. Questa vicenda stava a significare che lei non era il massimo cui un uomo potesse aspirare? Esisteva sul pianeta qualcuno che, avendo goduto per qualche tempo delle sue grazie, aveva finito con l’annoiarsi e con il disfarsene? Se questo da un punto di vista razionale mi era completamente intelligibile, da un punto di vista sentimentale risultava folle. Eppure le cose stavano così. Ad aumentare il mio disagio c’era il fatto che chi aveva provato quella impensabile noia non era un essere astratto di cui avrei potuto trasfigurare le inclinazioni fin quasi a divinizzarlo, bensì Dav, il mio amico Dav, individuo splendido, come non mi stancavo di constatare, ma troppo reale per essere da me autenticamente idolatrato. Cazzo, non ero mica Giorgio Sevi. Sapevo chi era Dav. Conoscevo i suoi limiti più di quanto lui conoscesse i miei. E il fatto che lui si concedesse il lusso di rifiutare sdegnosamente la ragazza che io amavo da matti mi poneva in una posizione, nella crudele catena alimentare, di netta inferiorità. Sì, ero il pesce piccolo che veniva quotidianamente divorato da Gaia a sua volta fatta a pezzi da Dav.

E forse fu proprio per riequilibrare quella che mi sembrava un’iniquità darwiniana, per rendere circolare quel percorso che mi vedeva come l’ultimo anello in un ciclo di morte, che mi risolsi a togliere il saluto a Dav..Lo feci da un giorno all’altro, con un contegno che parve a tutti (ma soprattutto a lui) come l’estrema alzata d’ingegno di quel pazzo furioso di Daniel Sonnino, ma che invece, a ben pensarci, era il frutto d’una gelida razionalità e del desiderio tormentoso di ripristinare una parvenza di giustizia terrena.

Avreste dovuto vedere Dav! Non credeva ai suoi occhi. Mi inseguiva, chiedendomi spiegazione: che mi aveva fatto? Mi aveva offeso in qualche modo? Se era così si scusava! Bastava che io parlassi. Dicessi una parola, cazzo. Una sola parola. E io zitto, imperturbabile come certe eroiche novizie che, dopo aver fatto voto di non emettere alcun suono dalla bocca per il resto della loro vita, dimenticano le verdeggianti seduzioni del linguaggio. Non che mi aspettassi che lui soffrisse come io avevo sofferto per Gaia o come Gaia aveva sofferto per lui. Sapevo che non è poi così difficile rinunciare a un amico. Ma mi trastullavo all’idea che non avergli fornito spiegazioni lo avrebbe tenuto per qualche tempo in agitazione.

Sarebbero trascorsi anni prima che io tornassi a parlare con Dav. Ma questa è un’altra storia.

Certo è che, a pochi giorni dalla festa di Gaia, lei sembrava essersi completamente sbarazzata dall’ombra del solo ragazzo che l’avesse rifiutata. Al punto che i due si erano riavvicinati. Si sentivano spesso al telefono come capita agli amici (così finiscono le storie d’amore in paradiso?).

Io ero tornato a essere per Gaia il miglior amico meno interessante che lei avesse mai avuto e, inoltre, avevo perso Dav. Non saprei dire, d’altronde, se alla resa dei conti qualcuno di noi avesse guadagnato; per quel che mi riguarda sono convinto – lo ero già allora, in fondo – non solo di aver perso tanto tempo che avrei potuto spendere in mille altri modi assai più gratificanti, ma che, nonostante tutto, non avrei saputo comportarmi altrimenti.

Un fatto, tuttavia, era certo, comprovato dall’esperienza: la sofferenza di Gaia mi insultava personalmente non meno della sua felicità.

Ma insomma, ragazzo mio, che cosa vuoi da questa benedetta fanciulla? Proviamo a ricapitolare: non sopporti che sia felice. Non sopporti che sia infelice. Non sopporti che si mostri indifferente.

Ma, d’altra parte, non sopporti la sua amicizia. Non vuoi stare con lei. E, tuttavia, non accetti che lei non voglia stare con te. Non vuoi scoparla. Ma se fosse per te non permetteresti ad alcun altro di farlo… Insomma, si può sapere cosa diavolo vuoi?

Non è poi così difficile rispondere: vorrei che non fosse mai esistita. Vorrei non averla mai conosciuta. Ma ormai, avendola io già incontrata, non mi resta altro che desiderare ardentemente la sua morte!

«Una roba da film!» strilla Giacomo al colmo dell’euforia. Faccio un gesto con la mano per spronarlo ad abbassare la voce. E allora, sempre in un modo esagerato, comincia a sussurrare.

«… Saranno passati due anni e mezzo» dice «o poco più.»

Quindi quel che Giacomo ha definito “una roba da film” è accaduto nei giorni successivi alla festa di Diamante Arcieri, i giorni passati alla storia del mio martoriato organismo come i “tempi del sospiro mistico e pornografico”.

«E Nanni non lo ha dimenticato» puntualizza subito Giacomo. «Ti dico, è tornato a parlare con Gaia relativamente da poco tempo… Figurati che anche il suo festone stava per saltare… Lui non voleva assolutamente che Dav venisse. E tutto per quella storia splendida!»

«Ma insomma, di che cazzo di storia parli?» gli dico a questo punto spazientito.

«… Il giovedì i filippini escono. E anche Nanni di solito non c’è. Accompagna nonna al bridge, poi vanno al cinema. Così ogni giovedì Gaia fa venire David a casa. I due fingono di studiare. Ma poi se la spassano… Cazzo, sento i gemiti dalla mia stanza. Che maratone. Ci danno dentro…

… Un giovedì Nanni si sente male e rientra prima, mentre i due piccioncini sono in piena immersione. Contano sulla precisione di Nanni. Nanni è un tipo abitudinario. Fa sempre le stesse cose. Tu sai che se il giovedì esce, prima di mezzanotte non ritorna. Sai che appena arrivato va subito a trovare la sua principessina per darle il bacio della buonanotte con in mano una bella tazza di latte con il miele e si fa raccontare la giornata e tutte quelle altre stronzate che lo entusiasmano…

Ma stavolta torna a casa prima. Niente cinema: ci manda nonna da sola con le amiche. Lui ha un po’ di emicrania. Ma non può sapere che a casa ad attenderlo c’è uno spettacolo cento volte più eccitante. Lo spettacolo apparecchiato dalla sua verginella preferita. La sua ingenua quindicenne.

Un bel fuori programma: perché stavolta non la trova con indosso il pigiama con i disegni delle giraffe che lui le ha regalato. Non la trova a studiare sul letto con le gambe incrociate e la matita in bocca. È una scena splendida, Daniel. Una cosa da sbellicarsi…

… Nanni spalanca la porta e vede la sua principessina completamente nuda, inginocchiata, e stavolta in bocca non ha la matita, ma il cazzo di Dav. E sai qual è la cosa veramente splendida?

Non puoi neppure immaginarlo. È che non sono soli. Su quel letto non ci sono solo David e Gaia, ma anche un altro ragazzo. Lo hanno invitato per guardare. Ma lui non si è limitato a guardare. È

questa la cosa splendida. Anche lui si è spogliato, anche lui ha voluto la sua bella razione di…

Capisci, Dani, che scena? Non è incredibilmente meravigliosa? Non è roba da film? Gaia, di fronte allo sguardo sconvolto di Nanni, viene insignita del prestigioso titolo di Miss Ammucchiata Dell’Anno. E dovresti vederlo, Nanni. Ci manca poco che gli venga un infarto. Strilla. È fuori di sé.

Anzi no, piange: «Cosa fate? Cosa cazzo state facendo alla mia topolina?…». Afferra David ancora tutto nudo e ancora col coso dritto. Ma l’altro ragazzo no, Nanni non lo ha mai visto prima e non riesce a toccarlo. Dav non reagisce. E neppure l’altro. Sono tutti impietriti. E Nanni li caccia continuando a piangere: «Fuori di qui ebrei di merda!…». Adesso anche Gaia piange: «No, nonno, scusami, non hai capito…». Allora esco dalla mia stanza – per curiosità, non li ho mai visti piangere insieme, e dire che sono due sentimentali e piangono spesso, ma insieme non li ho mai visti –, per questo esco e quello stronzo di Nanni mi urla contro: “Su Giacomo, torna dentro…” “Ma che succede?” gli chiedo… “Non lo vedi che cosa succede, brutto mentecatto? Dentro, subito, non farmi incazzare…” E intanto vedo quei due poveri Cristi mezzi nudi in camicia e con le mutande in mano scendere le scale e sgattaiolare dalla porta d’ingresso… Capito come mi ha chiamato, ’sto stronzo?

Mentecatto.»

È quella che Giacomo ha definito con una certa ap-prossimazione “una scena splendida, una scena da film”, a innescare il disastro. In un solo istante nella mia mente prende forma – chissà, forse sotto l’influenza di quell’ingenuo dell’Arabo – l’immagine della mia tolstoiana Natàša, la mia natalizia compagna di shopping, la mia aspirazione vitale, trasformata in una felina attrice porno, una succhiacazzi da competizione, una – secondo il professionale parere di suo fratello – così impratichita nell’arte di procurare piacere da non potervi più rinunciare, una troietta così insaziabile da desiderare due uomini alla volta.

Cosa facevo? Cosa ero mentre questa storia si consumava? Quante volte negli anni scorsi nel mio cantuccio casalingo, immerso in qualche romantica lettura ottocentesca, io ero stato ingenuamente sereno, mentre a pochi isolati da casa mia i due individui più amati e invidiati della mia adolescenza se la spassavano con uno sconosciuto? E quale effetto produceva ora su di me tutto questo? Indignazione. Dolore, sicuramente.

Ma soprattutto sovrumana invidia. Un’invidia che vorrei definire trascendentale.

E la cosa davvero folle è che io ho mandato quella lettera, quella stramaledetta lettera piena di insulti e di minacce di morte, ho proclamato quell’insensata fatwa che mi ha letteralmente rovinato la vita procurandomi l’ostra-cismo delle persone con cui avrei desiderato passare il -resto dell’esistenza, quella lettera che mi ha reso un reietto, che ha fatto sì che un intero quartiere togliesse il saluto a mia madre e a mio padre, solo basandomi sui racconti farneticanti d’uno squilibrato, che aveva mille motivi per nuocermi e un milione almeno per mandare a puttane la festa preparata con tanta perizia dalla sua odiatissima -sorella.

Tutto il resto è consequenziale. Escalation inevitabile. Mentre indosso lo smoking, fedelmente assistito da mio padre che m’infila la pochette bianca nel taschino e i gemelli cifrati nelle asole della camicia, come mille volte io ho fatto con lui, penso a Nanni. Per una volta penso a lui come a un alleato nella sconfitta. Penso a come il suo endemico antisemitismo abbia ormai appigli ineccepibili. Penso alle due donne della sua vita, alle due principesse, accomunate da un aspetto esteriore tanto pudico e castigato e da un’insaziabile voglia di sesso… Penso ai due ebrei cui le ha dovute temporaneamente cedere. Penso a Bepy e a David che se la spassano alle spalle di Nanni e alle mie. Penso all’idea che il cattolico, pseudoaristocratico, ultrapuritano Nanni Cittadini in Altavilla deve essersi fatto degli ebrei. Nient’altro che satiri. Satiri a cazzo dritto. Satiri senza scrupoli. Senza un minimo di rispetto per ciò che è alto e intoccabile. Satiri sempre pronti ad attentare alla bellezza. Satiri iconoclasti. Ecco cosa sono gli ebrei. E credo che a questo binomio ebraico (Bepy e David) il povero Nanni dovrà ben presto, prima di quanto immagini, aggiungere il terzo moschettiere dell’impudicizia. Sto parlando di me, naturalmente. Perché proprio mentre stringo il fiocco dello smoking, mentre a mio padre s’illuminano gli occhi e mia madre fa scattare il flash per immortalare la bellezza di suo figlio minore (una bella foto tuttora poggiata sul ripiano della libreria del mio funebre appartamento romano), penso non tanto a quanto sia folle andare alla festa di una ragazza alla quale hai consegnato da un paio di giorni una lettera per la quale potresti incorrere in una denuncia alla magistratura, e neppure a un ulteriore piano vendicativo – che so?

mandare a monte la festa, comportarmi in modo indecoroso, schiaffeggiare Nanni, o commettere il peraltro già minacciato omicidio della neodiciottenne sotto lo sguardo atterrito dei suoi invitati… –

ma semmai al desiderio ardente di entrare nella stanza di Gaia. Vedere i luoghi sacri che hanno ospitato il meraviglioso sacrilegio. Diciamo che tale missione può fornire un contributo essenziale all’archeologia del mio dolore e nuovi spunti per le mie sofferenze future.

Perché è questa la mia nuova ossessione. La folle lettera è stata scritta e consegnata. Non ho avuto risposte, è logico immaginare che Gaia ne sia rimasta sconvolta e spaventata. Frattanto le ho comperato, preda della medesima esaltazione, e dilapidando tutti i piccoli risparmi di adolescente destinati a ben altro, un anello da Bulgari. E subito dopo ho pensato che avevo il dovere e il diritto di vedere quella stanza. Che sarei andato a quella festa, che avrei sfruttato l’ultima occasione possibile per entrare indisturbato in quella casa, col rischio di sfidare lo stupore di Gaia e l’indignazione dei suoi nonni o di essere allontanato da un buttafuori. Andare a quella festa e a tutti i costi entrare in quella stanza, la stanza al piano di sopra che in questi anni di amicizia con Gaia –

in preda alle solite tediose idiosincrasie – non ho mai voluto vedere. Qualcosa m’impone quest’estremo pellegrinaggio!

La luce è ovunque. La luce è visibile da lontano. A centinaia di metri di distanza la casa ocra di via Aldrovandi scintilla come un incandescente disco volante che sta per levarsi in cielo. Una congestione metallica di grigie auto di lusso ha bloccato il traffico. Mai vista tanta energia polarizzata: o forse solo la notturna di certe partite di calcio, alcuni set cinematografici, taluni studi televisivi. Lampade al neon, proiettori, fiaccole, trionfo futurista. Due riflettori all’angolo del cancello hanno trasformato una bougainville in un gigantesco polpo dai tentacoli color fucsia stritolanti un pino fosforescente. Sopra la tettoia del cancello principale un glicine scende spumeggiante come champagne che tracima da una bottiglia appena stappata. Eppoi tutti quei ragazzi, i ragazzi migliori che tu possa trovare a Roma nell’estate dell’Ottantanove. I ragazzi con storie alle spalle che inneggiano a confort e benessere. I ragazzi con mille prospettive. I ragazzi che faranno i notai o dilapideranno patrimoni. I ragazzi che non temono il futuro. Che non temono di finire male. Che non temono malattie. I ragazzi che non hanno paura. Che non invecchiano. Tra questi ragazzi ci sei anche tu che di paure ne hai a iosa. Paura di morire in questo istante preciso.

Paura di non riuscire a sbarazzarti di questa perpetua immedicabile verginità. Paura di non liberarti da tutto questo. Di fissartici ineluttabilmente. Paura di non rivedere mai più David e Gaia e tutti gli altri. Paura di quello che avverrà stasera. Sì, tra loro, tra la crema dei ragazzi dell’Ottantanove c’è anche questo intruso impaurito, questo impostore senza vocazione per l’impostura, così cupamente determinato a entrare nella stanza della donna che ha minacciato di morte da non essere sfiorato dal dubbio che la sola cosa sbagliata sia essere qui. La sua determinazione è così assoluta che gliela potresti leggere negli occhi, se solo avesse il coraggio di alzarli.

Non manca nessuno. Perché qualcuno sarebbe dovuto mancare? Accalcati intorno al buffet principale degli antipasti, tutti lì a spintonarsi per raggiungere l’ultima bruschetta al tartufo o la tartina con la mousse di salmone… Eleganti amorfi effeminati soporiferi come in un film in costume. Tutti lì in pompa, tutti all’apice della propria umana avventura.

In posa, ragazzi! Coraggio! Per l’ultima foto di famiglia prima che inizi la discesa. Ora che avete ancora la pelle dorata, il ventre piatto e l’alito fresco, ora che potete correre per cento chilometri senza stancarvi, ora che avete il sudore più profumato dell’universo, meraviglioso balsamo da imbottigliare, questa resina di freschezza giovanile. In posa ragazzi! Coraggio! Per l’ultima foto di famiglia.

A David lo smoking non dona. È una cosa che ho sempre pensato con soddisfazione. Ha il viso troppo bello per non sembrare un confetto o un attore di soap. Il suo corpo sembra fatto apposta per gli abiti casual: le braccia lunghe, il metro e novanta d’altezza, la tornitura dei muscoli: tutto questo dentro uno smoking appare quasi sgraziato. Persino i grandi piedi, calzati da scarpe nere oblunghe e filiformi, fanno di lui un pinguino. Oggi sono più elegante di Dav, mi colgo a pensare, travolto da un flusso crosciante di euforia mondana. Mi compiaccio nel constatare che alcuni miei consigli forniti alla festeggiata nei mesi scorsi sono stati accolti e che soprattutto nulla sia stato modificato, sebbene nel frattempo il consigliori sia caduto in disgrazia. Che magnanimità, ragazza mia! O che indifferenza! E mi viene quasi naturale, nel concepire il piano che al più presto mi porterà nella stanza della festeggiata, avventarmi sulle bottiglie di vino rosso lasciate incustodite sui tavoli rotondi. In fondo quell’etichetta l’ho scelta io improvvisandomi sommelier per far colpo sulla mia gaietta. Ho l’impulso di afferrare anche uno dei coltelli a sega disseminati sui tavoli. Vedo la mia mano tagliare la giugulare di Gaia, vedo porporati fiumi di sangue scenderle sul collo… E intanto bevo senza controllo, con violenza. Tracanno a più non posso, finché in me non si fa strada il sospetto galvanizzante di essere diventato invisibile. Io vi vedo, ma voi non potete vedermi. Ho la vista annebbiata. Ho la vista d’un microrganismo che vede ma non viene veduto. È il miracolo suscitato da questa benzina che ho in corpo. Il miracolo della mia invisibilità. Nessuno si cura di me. Nessuno si è mai curato di me. Ecco il punto. Cazzo, neppure la festeggiata, cui soltanto tre giorni fa ho confessato il mio ardente desiderio di accoltellarla, persino lei non mi ha visto. Non è che ha finto di non vedermi. (Come avrebbe potuto dissimulare? Via, non si può essere così cinici!) È evidente che non mi ha visto.

E grazie al prodigio di tale invisibilità, grazie al vino rosso mandato giù a stomaco vuoto, grazie all’etilica mistura che scorre torrentizia nelle mie vene, grazie al fatto che l’attenzione dei presenti è stata improvvisamente catalizzata dalla pedana nera allestita al centro del giardino ove Nanni Cittadini e la sua diciottenne nipote con il vestito pallido dai riflessi rosati, alla mezzanotte in punto, hanno iniziato a ballare il solito stramaledetto valzer di Strauss, mentre la truppa di camerieri distribuisce le flûte di champagne e mentre le luci si spengono e un cafonissimo cono luminoso insegue i due ballerini nel loro goffo piroettare… grazie a tutto questo simultaneo trambusto, trovo finalmente il coraggio e l’opportunità di entrare in casa.

Così il salotto di Nanni, il suo borioso salottone stile Impero, mille volte fotografato da riviste patinate, scintilla per l’ultima volta sotto lo sguardo di quest’ospite indesiderato. Temo che l’estemporaneo incontro con la statua del suo presunto avo sia destinato a rimanere se non il più avvincente certo il più cordiale interscambio da me avviato nel corso di quest’epoca di attriti diplomatici e di parossismi emotivi. Forse qualcuno potrebbe dire che sia il contrasto con l’indifferenza dei ragazzi in abito da sera e con la melassa della musica diffusa nel parco a rendere amabile il sorriso sfuggito al mezzobusto. Forse qualcuno potrebbe aggiungere che è l’inattesa espansività della statua a spingermi a restituirle la gentilezza con un inchino. Uno spettatore disattento potrebbe liquidare il mio gesto come l’insana riverenza di un ubriaco verso un oggetto inanimato: in realtà il mio ossequio è l’omaggio alla sola creatura cortese incontrata in una soirée in cui perfino il tepore estivo sembra uno dei tanti effetti speciali allestiti da questa milionaria produzione cinematografica.

E chissà perché sono lieto – e lo dico senza ironia – nel constatare l’effettiva somiglianza tra Nanni e il calco del suo antenato. A essere maligno potrei attribuirla alla vocazione di Nanni al plagio e all’involontaria parodia già molte volte da lui manifestata.

È così? È questa attitudine – la smania di conformare i propri gusti a quelli dei propri miti – che ha spinto il vecchio Nanni ad adottare l’acconciatura da paggio del suo supposto progenitore? È per questo che a un tratto mi pare d’intravedere un’affinità tra l’ironica compassatezza di Nanni e il sorriso che la statua si ostina a rivolgermi? Ma poi è davvero così strano che Nanni, sedotto dall’insolente avvenenza alla Marlon Brando di questo busto settecentesco, abbia cercato di farla rivivere, almeno nei vezzi più evidenti, trecento anni dopo, nientemeno che sul suo stesso viso?

Sono riflessioni che riesco a coltivare con una lucidità divertita, ancor prima che luciferina. Mi sento quasi a mio agio. Soltanto quando mi accorgo che la linea del naso alla Brigitte Bardot della statua sembra replicare la sbarazzina nettezza di quello della mia Gaia sento il cuore così appesantito da dover distogliere lo sguardo.

Nel frattempo, ai lati dello scalone di marmo color panna che conduce ai piani superiori, come a demarcare simbolicamente la linea di partenza della mia via crucis, le due copie di Caravaggio sono lì ad attendermi. C’è una Madonna discinta che sembra rivolgermi un sorriso pieno di scherno.

Trovo questi quadri così insultanti e sguaiati. Sono pura ostentazione, come i rubinetti d’oro nel panfilo d’un emiro, come un cappello da cowboy in platino nello studio d’un petroliere texano. E

chissà perché, ma mi dà un gran conforto sentire nella tasca destra della giacca il peso del coltello a sega.

Il suono attutito del valzer con leggiadria mi conduce ai piani superiori, quelli che non ho mai visitato.

Immediatamente capisci che in quella camera c’è tutto quello che hai sempre cercato, mescolato con tutto quello che hai sempre voluto dimenticare. Come un album di ricordi e una palestra di ossessioni. Non sei mai stato in quella stanza. La trovi più piccola e assai più disordinata di quanto non avessi

immaginato. È come se Gaia avesse voluto spezzare la solennità del museo in cui l’hanno costretta a vivere con un po’ di sana e asettica modernità. Sussulti vedendo la tua lettera – la tua spaventosa lettera – aperta sulla scrivania, stropicciata e incustodita. Allora questa lettera, di cui presto tutti parleranno, esiste davvero? Quante volte l’avrà riletta? È bastata una soltanto? O si è accontentata delle prime cinque righe alla fine delle quali la festa degli insulti aveva già raggiunto il culmine di follia e d’intollerabilità? Ti viene in mente che il tormento maggiore, vergando quel capolavoro di indecenza, è stato per te il timore che lei non leggesse fino in fondo. Solo questo t’interessava: che non interrompesse la lettura. Eri come uno scrittore esordiente, affamato non tanto di consensi quanto di opportunità. Sì, volevi goderti la tua opportunità fino in fondo, consapevole che sarebbe stata l’ultima concessati da Gaia, dalla sua famiglia e da tutto il suo burroso mondo altolocato. Per questo prendi quella lettera, per accertarti che l’ultima pagina sia rovinata come le precedenti. E

provi al solo contatto un senso di estraneità, come se non potessi essere tu l’autore di quella sconcezza. Hai netta l’impressione che quella sia una porta spalancata sulla follia. Provi una vertigine. Come di fronte a un abisso.

Sì, questa stanza è molto più piccola, molto più modesta di quanto avessi immaginato. E sebbene a una prima occhiata distratta ti possa sembrare un luogo colmo di cose diverse, una camera esuberante, in realtà essa dice poco della sua abitatrice. Forse – malignamente pensi (non ti resta altro che la malignità!) – perché sul suo conto c’è poco da sapere. È ingombra di tutti quei cimeli che chiunque si aspetterebbe di trovare nella camera d’una diciottenne scema e di buona famiglia nel Millenovecentottantanove: peluche, penne colorate, fermagli, un divanetto a strisce bianche e verdi, un novero imprecisato di foto dagli sfondi esotici o dolomitici, un mucchio di libri di scuola, vestiti buttati ovunque, sgargianti carte da regalo appallottolate, scarpe da ginnastica, candeline rosse, persino un mezzo bicchiere di latte il cui bordo è ancora opalescente per l’impronta di quelle labbra magnifiche.

Esiste un teatro migliore per un’ammucchiata? Nanni è entrato da quella porta e ha visto sua nipote completamente nuda e anche David completamente nudo e anche l’altro completamente nudo… Sei l’emozionato esordiente commissario sul luogo del delitto. Allora, vediamo un po’: secondo le parole di Giacomo, per mesi i due si sono incontrati qua dentro. Ti manca il respiro. Vorresti piangere. Ma non viene. Sei stupefatto dalle tue difficoltà respiratorie: è come se una infuocata vampa avesse aggredito gli organi vitali, ma di lacrime neanche l’ombra.

Così ti ritrovi in bagno. La vasca dove Gaia ama immergersi. Il gabinetto dove piscia. Il bidet dove si sciacqua. Il cestino dove getta gli assorbenti. La cesta ove accatasta la biancheria sporca. Perché, sin qui, non ti è venuto in mente che questo luogo potesse esistere? Perché hai avuto così poca fantasia? Perché, alle soglie del Ventunesimo Secolo, hai creduto in quella favola dolciastra? Come hai armonizzato il calvario erotico fatto di feticismi, di seghe in classe, di mille cimeli rubati con l’idea che Gaia non fosse una donna? Che roba è questa? Che rapporto c’è tra queste puttanate da frustrato seminarista e la storia della tua famiglia, così laica, così ebraica, così disincantata, così libertina? Questa è stata la tua vera follia, Dani. Il tuo anacronismo è la tua follia. Il ripudio di Bepy è la follia. Il puritanesimo fuori tempo massimo è la follia. Altro che la lettera minatoria. La lettera è solo una sbiadita emanazione della follia.

Ma il delirio ebbe fine lì, in quel bagno, alla vista delle calze e delle mutande, evidentemente da Gaia abbandonate prima di vestirsi con il suo abito bianco da debuttante, che in un attimo spazzarono via dalla mia mente qualsiasi pensiero superfluo.

Forse se solo Gaia fosse stata un po’ più ordinata, se non avesse lasciato lì quella roba sensualmente afflosciata a ridosso della vasca da bagno, alla mercé del primo pervertito di turno, le cose si sarebbero svolte diversamente. Ma quelle calze e quegli slip diedero un’estemporanea stura alla mia esaltazione.

Afferrai le mutandine con religiosa cautela. Erano velate al punto giusto da un’ombratura d’un colore ineffabile. In fondo non erano altro che le mutandine d’una diciottenne qualunque. Qualsiasi giapponese avrebbe pagato migliaia di yen per annoverarle nella propria collezione. Guardarle e portarle al naso fu una sola cosa. E quell’afrore d’ammoniaca mi riportò indietro di anni: la notte brava londinese in cui mio fratello, sconvolto, mi aveva fatto odorare le sue dita anchilosate, pochi giorni prima che la mia vita cambiasse. Era quello stesso odore a chiudere una stagione durata cinque anni. Quello stesso odore che creava una sorta di sotterranea continuità: un lungo ponte che sembrava slanciarsi verso la mia pubertà. Come diceva quel sopravvalutato geniaccio di Henry Miller? La fica è internazionale! Niente di più vero. Hanno tutte – a una diversa gradazione – lo stesso identico odore che cancella ogni metafora e proibisce la metafisica.

Finché fui bruciato alle spalle:

«Cosa stai facendo, schifoso?»

Riconobbi la voce di Nanni. Poi mi sentii afferrare e scaraventare fuori da quella stanza. Dovevo aver raggiunto quel grado di ubriachezza in cui il corpo scompare. Era come se Nanni avesse preso in mano un sacco e lo stesse per buttare giù dalle scale:

«Fuori di qui… Fuori di qui… Schifoso… Avete rotto i coglioni… Tutti con mia nipote… Fuori…

Oddio, i miei quadri! Chi li ha toccati? … E il naso della statua? Sei stato tu, maledetto psicopatico?

Sei stato tu?… Io ti denuncio, ti denuncio… Avrei dovuto farlo già con tuo nonno… Ora lo faccio con te… Ti faccio rinchiudere!»

Nessuna diplomazia in Nanni. Solo un bel po’ d’esasperazione: legittima, sacrosanta, trentennale esasperazione. E in effetti il consuntivo dell’ultimo trentennio di Nanni – a dispetto delle apparenze

– non era tra i più rosei: una moglie mignotta, un figlio suicida, un nipote psicotico, una nipote pornostar… E ora le sue belle copie di Caravaggio accoltellate da chissà chi e la sua adorata statua mutilata del nasino alla Brigitte Bardot. E per questo mi stava scacciando da casa sua, urlando come un ossesso, di fronte allo sbigottimento dei suoi quattrocentonovantanove ospiti. Stava facendo quello che sua nipote non avrebbe voluto, e quello che lei non aveva fatto: spostare l’attenzione su qualcosa di diverso dalla sua festa e dalla sua autocelebrazione. Ecco perché Gaia aveva finto di non vedermi. Pur di non dare scandalo, pur di salvaguardare l’onore della sua festa, pur di non rinunciare a quella tanto agognata felicità, aveva corso il rischio di farsi ammazzare da quel sedicente psicopatico di Daniel Sonnino. Ma, povera Gaia, non aveva valutato che il pericolo poteva arrivare dall’individuo più insospettabile: da quel magnifico generosissimo benefattore che, al colmo dell’esasperazione, indignato dall’ennesima violazione dell’intimità di sua nipote, non aveva avuto la freddezza di calcolare il rischio cui stava esponendo l’intera festa. A questo punto era certo che essa si sarebbe impressa nella memoria collettiva d’un intero quartiere (d’un’intera città? Via, non esageriamo!) a causa di quella scena e non per tutto il resto: addio cura dei dettagli!

Addio a tutte le altre raffinatezze per cui Gaia s’era prodigata affinché la festa – la sua festa – non fosse mai dimenticata! Giacomo aveva vinto: il guastafeste aveva trionfato: io non ero che lo strumento di cui si era servito per i suoi loschi piani.

Ora tutti avrebbero ricordato la festa dei diciott’anni di Gaia Cittadini solo come il lussuoso sfondo per una scena esilarante: l’intellettualino della classe, con la faccia da Danny Kaye, con le sue arie romantiche, le sue seghe pubbliche, con i suoi vezzi, con le sue manie di rompere amicizie senza ragione, con l’incapacità di controllarsi, con la sua inclinazione paranoica alla trasfigurazione e allo stravolgimento del reale, presentatosi alla festa di quella ragazzina da lui stesso poche ore prima minacciata di morte, a metà festa, completamente sbronzo, viene cacciato dal nonno della festeggiata che lo accusa pubblicamente di essersi introdotto nella stanza della nipote per odorarle mutandine e collant. Ecco la scena che tutti ricorderanno. Ecco la scena di cui tutti parleranno per molto tempo, che tutti racconteranno a tutti, con grandissimo diletto d’ognuno.

Ma perché, Nanni, te la prendi con me? Ti annuncio che stavolta non riuscirai a farmi sentire in colpa. Non sono che l’oscuro strumento della Storia: se Bepy è l’anarchico regicida che fa esplodere il conflitto io sono la bomba che mette fine alle ostilità. In fondo, se ci pensi, la lotta tra i Sonnino e i Cittadini ha beffardamente coinciso con la Guerra Fredda. Sarà per questo che – nel pieno dello stramaledetto Millenovecentottantanove – ci sentiamo entrambi confusi e inutili come divelti calcinacci del Muro di Berlino? Per una volta siamo alleati. Siamo noi i fregati. Via, Nanni, mica è colpa mia se Bepy si scopava tua moglie. Così come non è colpa tua se Bepy non ha voluto comprare i Caravaggio e se mio padre ti idolatra e mia madre ti detesta. Mica è colpa mia se tuo figlio si è suicidato in quel modo e se Bepy lo aveva predetto. Né se tuo nipote è uno psicopatico etilista affetto da pauperismo cronico. Né se la tua topolina già a quindici anni elargiva certi paradisiaci servizietti a Dav & company. E certo, lo ammetto, non è colpa tua se io sono un feticista segaiolo pieno di iniziativa. No, Nanni, noi non c’entriamo niente. I Sonnino non c’entrano. I Cittadini non c’entrano. Gli ebrei non c’entrano. I cattolici non c’entrano. Bepy è morto e tu stai decisamente invecchiando. È andata così, sarebbe potuta andare in un altro modo. Sono il primo ad ammetterlo. Ma è andata precisamente così.

Che dire di tutto questo, allora?

Non credo sia sopportabile chiudere la propria adolescenza con questa scena. Eppure è proprio con questa scena che la mia adolescenza si chiude. È questa la scena – non con tutte le mille altre scene toccate ai miei amici mediocremente felici o onestamente infelici – con cui devo fare i conti. Ma possibile che solo adesso, riascoltando nel cervello gli improperi di Nanni, io capisca improvvisamente il mio errore? Il grande errore di quegli anni. L’aver voluto competere con persone con cui non potevo competere. L’aver creduto ingenuamente che gli uomini fossero uguali.

Il non avere dato retta a quel moralista classico di nonno Alfio quando mi diceva che gli uomini sono tutti diversi. E che la loro diversità è il frutto amaro di ogni sofferenza e d’ogni gioia strabocchevole. Che la gioia è diretta emanazione dell’altrui sofferenza. Che lo squilibrio di condizioni è la nostra voluttà. Che arrivare primi implica che qualcuno sia arrivato secondo e terzo e quarto o non sia neppure arrivato. Che la nostra felicità non può esistere se non a scapito di quella di tutti gli altri. Solo ora capisco che non c’è niente d’interessante in me, ma, semmai, solo nella fuorviante conformazione della mia mitomania.

Diciamo pure che in quel momento (e per “momento” intendo il lungo periodo che seguì la surreale esperienza in casa Cittadini) non ero abbastanza lucido per essere totalmente disperato, né abbastanza disperato per capire che quel dolore non serviva a niente. Forse avrei dovuto trovare conforto nel sapere che tutti – tutti, tutti, tutti, nessuno escluso – sarebbero invecchiati male. Che il tempo avrebbe fatto giustizia: sì, il tempo, il famigerato nemico dei poeti, in quel momento era il mio solo alleato, la mia sola speranza di serenità: il tanto bistrattato tempo si sarebbe incaricato di vendicarmi: martirizzando i corpi di quei ramati, aristocratici, floridi diciottenni così solerti nell’ostentare la propria solidarietà per la festeggiata vilipesa e minacciata di morte, e nell’affettare un’altrettanto gelida riprovazione per quello squilibrato, potenziale omicida nonché trituratore di opere d’arte e cimeli di famiglia di Daniel Sonnino. Dio santo, sarebbe stato davvero un sollievo essere capaci d’una così perversa saggezza: che divertimento lasciarsi inebriare da scenari così inesorabilmente ed ecumenicamente apocalittici! Ma ancora una volta, ahimè, devo denunciare la mia incapacità di essere utile a me stesso nei momenti fondamentali dell’esistenza. Eh sì, perché invece di fantasticare sulle future vene varicose di Diamante Arcieri o sulla decrepitezza di Dav o sul colpo apoplettico che avrebbe (chissà?) ammazzato Nanni e tutta la sua stirpe, mi lasciavo affogare nel mare di sentimentalismi in cui annaspano gli impotenti o i cardiopatici. Era più forte di me: era davvero spassoso torturarsi con l’idea melodrammatica che da tutto questo non mi sarei riavuto. Che questo avrebbe condizionato la mia vita in un modo fatale. Che per me non c’erano altre opportunità. Che la mia, di opportunità, l’avevo vissuta (sì, me l’ero mangiata ma dovevo scordarmi di digerirla). E bla, bla, bla… dietro alla voix du cœur: piagnucolosa grancassa tardoadolescenziale!

Ma, mettendo in un angolo queste trite sdolcinatezze che disonorano chi allora le concepì e chi oggi ha il co-raggio di trascriverle, non voglio tacere dell’interrogativo che d’un tratto ha preso a lacerarmi il fegato: qualcuno sa spiegarmi perché, mentre questo aereo sta per atterrare, dopo che improvvisamente la luce dell’alba si è insinuata attraverso gli oblò mescolandosi all’odore delle brioche che stanno per servirci, dopo aver scritto per una notte intera martirizzando i polpastrelli, mentre gli insulti di Nanni si dissolvono in questo angusto ambiente pressurizzato e io continuo a fuggire dopo tanto tempo gli sguardi degli invitati alla festa fra cui avrei voluto così impetuosamente confondermi; qualcuno sa spiegarmi perché, alimentando l’impressione che gli ultimi anni non siano mai esistiti o abbiano poco o nulla contato, mentre mi preparo a rivedere mio padre e mia madre che certamente saranno venuti a prendere il figliol prodigo per dissuaderlo dall’idea di andare al funerale di Nanni, a poche ore dal momento in cui rivedrò dopo quasi un quindicennio Gaia, per constatare la sua metamorfosi da debuttante vestita di bianco-rosa a giovane donna in lutto; qualcuno sa spiegarmi perché, in questo grave istante, piuttosto che appuntare la mia commossa attenzione al periodo della mia vita così pieno di cose irrimediabilmente perdute – il sorriso a denti larghi di Bepy, il ballo con mia madre sulle note di Scandalo al sole, la barba biondissima di mio padre quarantenne, le sfibranti notti israeliane al fianco di quell’indomito vitalista di Teo, il tacchino dei Ruben, la Madonna pontormesca d’improvviso apparsa sulla banchina di Positano, l’ottimistico clamore della fine del Ventesimo Secolo, il mio Secolo –, piuttosto che lasciarmi occupare da tutto questo, io pensi con malinconia alla splendida occasione gettata al vento in quella sera maledetta di accaparrarmi i collant e le mutandine di Gaia che avrebbero ornato il santuario di depravazione da me faticosamente eretto nel corso d’una vita?

Sono davvero troppi gli amici e i mentori che dovrei ringraziare per aver reso possibile la pubblicazione di questo romanzo. Ed è solo per questo che mi astengo dal nominarli, riservandomi il privilegio di esprimere loro privatamente la mia riconoscenza. Tuttavia non posso fare a meno di rivolgere la mia pubblica gratitudine al mio maestro, Enrico Guaraldo, che mi ha insegnato a leggere e a scrivere, e a Giulia Ichino, che ha seguito la redazione di questo libro con accuratezza e passione contagiose.

FINE.

Note.

1 Ciò che è conforme alla kasherut, cioè alla norma biblica e rabbinica sulla purità dei cibi permessi, sul modo di cucinarli e servirli. 2 Espressione di dileggio del gergo giudaico-romanesco con cui vengono definiti i non ebrei alludendo alla loro mancata circoncisione. 3 Maschio primogenito in ebraico. 4 Preghiera per i defunti. 5 In ebraico precetto positivo, opera di bene. 6

Pazzoide in giudaico-romanesco. 7 Membro della corrente mistico-integralista (hassidismo) nata in Polonia nel XVIII secolo. 8 Candelabro a nove bracci, le cui fiammelle vengono accese progressivamente durante i giorni della festa di Hanukkà. 9 Modo giudaico-romanesco per riferirsi agli ebrei.