Era indispensabile interessarsi pervicacemente al presente. Ecco la ricetta giusta. Mica come i padri dei miei compagni, mica il tipo da canzonetta dei miei tempi. Il suo approccio musicologico era l’inevitabile emanazione e la folgorante epitome del suo feeling con l’universo: curioso, talvolta addirittura coraggioso, se non proprio sperimentale, certamente onnivoro e quindi totalmente immune da qualsiasi snobismo préalable. Mescolava novità a evergreen con disinvoltura: da Thelonious Monk ai Supertramp, in un’acrobazia estetica che era parte del suo amore insaziabile per il mondo. Amore rapace per la sua epoca. Amore ingordo per l’Occidente e per il Ventesimo Secolo, epurati di tutte le spaventose lordure e trasfigurati dal magnifico sogno progressista che proprio in quegli anni – gli anni della sua maturità – aveva ripreso a veleggiare.
Solo allora ti viene in mente che forse è venuto a prenderti senza tua madre per mostrarti la sua Carrera nuova. Solo allora ti rendi conto di non esserti affatto sdilinquito in complimenti, di non aver coperto d’entusiastiche interiezioni quei sedili avvolgenti profumati di pelle, il poetico ruggito del motore che entusiasmerebbe qualsiasi tuo compagno di classe. Ci sarà rimasto male? È odioso ferirlo. È strano, talvolta hai un piacere bieco nel torturare tua madre. Ma con lui è diverso. Farlo soffrire ti fa salire un groppo in gola. Lui non è nato per soffrire. Lui no davvero. Sei mortificato per non aver espresso tutta la tua meraviglia per quella vettura. Quasi disperato per non essere riuscito ad abbandonarti. (Cosa c’è di peggio che l’incontro tra due ritrosie?) Pagheresti per avere una maggiore intimità con lui. Ma non è colpa tua. Lo conosci appena. È stato via per così tanto tempo. Così tanti anni distante. Per quasi dieci anni l’avrai visto al massimo un paio di giorni al mese. Naturale ti faccia l’effetto d’un estraneo. O per meglio dire, d’un ospite speciale e sottilmente sgradito.
L’ospite d’onore. Quello per cui ogni volta mia madre mobilitava la sua superba macchina igienico-organizzativa. Affinché il marito, una volta a casa, non avesse a pre-occuparsi di niente. Si sentisse un pascià. Mi raccomando, Dani, non dare noia a papà… Mi raccomando, ragazzi, stasera torna papà… Mi raccomando, Johanna, stasera c’è mio marito a cena… Così le raccomandazioni sembravano dispiegarsi sulle nostre teste, eppoi insinuarsi nelle nostre coscienze come se esse fossero state programmate ad accogliere l’idea – subdolamente instillata da mia madre – che Luca Sonnino meritasse allo stesso tempo il rispetto che si deve al sovrano e la pietà che c’ispirano i martiri.
Non posso scordare che quando lui tornava percepivo, sebbene fossi così piccolo, le vibrazioni erotiche della sua giovane moglie, sì, di questa donna che per ragioni in-dipendenti dalla sua volontà si era ritrovata un marito globetrotter, una giovane donna – così nevroticamente ossessionata dalla sobrietà sentimentale – costretta a trascorrere gli anni migliori del suo matrimonio lontana dal marito. Così come non posso scordare l’ineffabile dispiacere – e la disperazione con cui cercava di nasconderlo – che calava sul viso di lei quando lui ripartiva. Un dispiacere drasticamente dissimulato da pudicizia e da ironia (ecco le coordinate sentimentali sin dagli esordi della loro relazione di compagni di scuola). Le nostre sere all’aeroporto, con lui elegantissimo nel suo cappotto a doppiopetto di Daks (lo stesso che Churchill aveva indosso a Jalta!, si vantava) puzzavano di scena patetica. Almeno così io le vivevo. Questo è l’importante: come io le vivevo.
Dai miei ricordi, dal sordido mugolio della mia psiche, tornano alla memoria certi fotogrammi in bianco e nero. Emigranti disperati con i loro fagotti in partenza per l’America. Ebrei orientali stanchi di pogrom e di salse cipollose. Smilzi braccianti calabresi in cerca di fortuna che -lasciano moglie e figli, scaraventati in un misterioso avvenire di umiliazioni e fame. Salire su rugginose imbarcazioni di terza classe è il destino più allettante che riesca a immaginare. Non avere idea di cosa ti riservi l’avvenire è la tua condizione perpetua. Ma qui le cose sono diverse. Mio padre parte in aereo, scende in grandi sofisticati alberghi, conduce vita comoda, appassionato di gastronomia e vini francesi, non manca mai alle mostre della londinese Royal Academy o alle retrospettive del MOMA a New York, di cui è anche socio. Probabilmente ci sarà anche qualche avvenente collaboratrice ad accompagnarlo, ad accudirlo là dove un uomo vuole essere accudito.
Se vederlo lì nel suo cappotto color senape, pronto a salire sull’ennesimo aereo, non mi procura emozioni particolari, trovo assolutamente indigeribile il gorgo angoscioso in cui mia madre si dibatte subito dopo la partenza di lui. Torniamo a casa e lei finge tranquillità, in realtà è preda d’una morsa di terrore all’ipotesi improbabile che l’aereo precipiti o il tassì che conduce mio padre nel suo albergo di Francoforte sbandi sul ghiaccio per schiantarsi sul guardrail. La fantasia di quella soave creatura è stipata d’immagini raccapriccianti di sangue e lamiere. Il suo diaframma è gonfio del pesante respiro che emana l’Imponderabile. Il suo cuore è colmo degli estremi istanti di suo marito morente. E finché non arriva la telefonata libera-tutti, finché lui non la informa, con l’asetticità che lo distingue, di essere in albergo, d’essersi fatto una doccia e d’essersi messo sotto le coperte, lei non riesce a stare ferma. Il tempo rallenta, i minuti pesano. E tutto sembra sciogliersi negli squilli miracolosi che tagliano le notturne rarefazioni d’un elegante appartamento romano. Lei aspetta prima di rispondere per non dare l’idea, né a noi, né a lui, né a se stessa, di essere in apprensione e poi, una volta risposto, pronuncia quelle parole che nella mia mente funzionano come il completarsi d’una liturgia: «Sei arrivato? Già sotto le coperte? Quale? Quel vecchio film di Frank Capra? Splendido! Dormi però, ci sentiamo domani… Vuoi che ti chiami per la sveglia domani mattina?… Ma no, lo sai che mi fa piacere… Allora dormi bene, tesoro…». A quel punto il mondo cambia, trasformandosi da squallido ostello in lussuoso albergo di montagna. La signora è euforica, addirittura ciarliera. La signora non è abbastanza nevrotica per pensare che il suo adorato e lontano sposo potrebbe incorrere nel più grottesco degli incidenti, come quello di mettere un piede in fallo uscendo dalla vasca e sbattere fatalmente la testa, o morire nel sonno per un’arteria incrostata. La signora è giovane. La signora si contenta. La signora è strafelice di dormire in un letto vuoto ebbra del pensiero che migliaia di chilometri distante il fulcro palpitante delle sue ambasce sia sano e salvo affondato in un materasso straniero. Un po’ le fa pena, adesso. Ma è un pensiero poco più che fugace che in ogni modo fa parte di quell’indecifrabile ventaglio emozionale che la tiene avvinta all’idea misteriosa di quello strano uomo. Un’idea ora miracolosamente epurata dal sinistro soffio dell’Imponderabile.
Un’idea – bisogna pur dirlo – incapace di rinnovarsi quando lui fa le sue saltuarie apparizioni romane, col suo fardello di vizi, d’indifferenze, di vacuità salottiere, di truci egoismi coniugali, d’acquisti sempre più inutilmente sofisticati. A quel punto il loro rapporto si sposta dalle siderali altezze d’un Empireo sognato e desiderato alla frustrante tolstoiana consuetudine matrimoniale.
Eppoi tutto ancora ricomincia come in una giostra infinita: perché non è facile, non è affatto facile andare a letto la sera sapendo che tuo marito o tuo padre sta salendo sull’ennesimo aereo che lo porterà dall’Indonesia al Messico. È una scena che tu – in procinto di andare a letto – non riesci quasi a immaginare: non senza quel patema cosmico che tende a coprire le distanze astrali tra te e il tuo congiunto. Perché è vero, tu te ne stai a letto, sotto il piumone, e fuori fa freddo, piove o che so io: e non è facile per uno che sta a letto da ore, per uno che si sente protetto e avviluppato da una specie di languida coltre di buio e di silenzio, immaginare il proprio marito o il proprio padre –
questo commesso viaggiatore intergalattico – sospeso a novemila metri d’altezza su una distesa magnifica e terribile come l’oceano Indiano, a mille chilometri orari, insidiato da una temperatura esterna di -50° e da un’aria così rarefatta da essere irrespirabile. È un pensiero che gela il sangue.
Un pensiero che favorisce l’insonnia. Un pensiero che non può essere placato neppure dal sonnifero della Statistica (quanti aerei non cadono quotidianamente nel mondo? Quanti taxi non vanno fuori strada quotidianamente del mondo? Quante persone non tornano a casa mai più quotidianamente nel mondo?…). L’unica cosa possibile è immaginare tuo marito o tuo padre nelle sue abitudini di viaggiatore, nelle sue regole ferree un po’ geniali un po’ folli un po’ sceme come quella che gli proibisce tassativamente d’indossare scarpe senza lacci perché in aereo i piedi si gonfiano. Ecco come tuo marito o come tuo padre si stacca dal minaccioso cielo ove l’hai confinato. Ecco come lui torna sulla terra tra i vivi. Domani lo rivedrai. Domani potrai andare a prenderlo all’aeroporto.
Dormi, ragazzo. Dormi, dolce signora. Dormite. Non esiste alcuna ragione per stare svegli. Gli aerei atterrano quasi sempre.
E forse tutto sarebbe stato diverso se lei avesse inteso che a lui andava bene così.
In fondo basta capire che lui è uno degli uomini della nostra epoca che non solo non ha casa, intesa come fissa dimora, ma non sembra averne necessità. Detto così può apparire enfatico, ma la sua casa è il mondo: se non tutto, uno spicchio ragguardevole. Più a suo agio nei labirinti asettici dei duty free, nei meticolosi reticoli dei ristoranti giapponesi, nei fasti impersonali degli Hilton, persino nelle afose sarabande delle sale d’attesa che non a casa propria. Forse perché un uomo di quella mole extralarge non sa che farsene del calore domestico: ha bisogno di spazi larghi, di affollate hall. Dio mio, quel principe delle superfici abitava i suoi anni con straboccante entusiasmo. Ecco qua la versione altolocata dell’ebreo errante, la trasposizione chic del milleriano viaggiatore.
Nessuno più di lui avrebbe saputo comprendere la sublime poesia di un McDonald’s di un’oscura area di servizio della Germania Occidentale alla mezzanotte d’un qualsiasi giorno di dicembre.
Nessuno più di lui si sarebbe potuto commuovere di fronte a una quattordicenne ucraina che, protetta da un paio di jeans scoloriti e da una pidocchiosa giacca a vento, aspetta l’autobus soffiando sulle proprie mani per il freddo. Lui amava certe scene moderne. Ne intuiva l’intrinseca elegia.
E la cosa singolare è che aveva un’autoironica coscienza di queste sue disposizioni. Per esempio, quando qualcuno gli chiedeva se era stanco, o se era ancora stonato a causa del fuso orario, lui rispondeva di aver avuto la meglio, dopo molti anni di viaggio, sul jet-lag. Diceva che per lui non esisteva, il jet-lag. Che si trattava d’una ridicola suggestione. Chi possiede il mondo in tasca sa che in fondo esso non smette mai di essere illuminato. E alla fine aggiungeva, con un pizzico di divertita vanagloria: «Diciamo che mi sento come Carlo V: sul mio regno non tramonta mai il sole». Tale autodefinizione mi sembra descrivere perfettamente il personaggio che mio padre aveva saputo costruirsi quasi in opposizione alle intemperanze della natura: sì, c’è tutto mio padre qua dentro: da un lato la burbanza nel vantare vittorie improbabili, dall’altro la professione costante di razionalismo.
Era ogni giorno più schiavo delle sue abitudini, viziato dalla solitudine, completamente asservito a folli cerimoniali che chi non l’avesse conosciuto avrebbe detto apotropaici. Tutt’uno con la valigia e con il nécessaire. Non ho mai incontrato un uomo che fosse identificabile con i propri accessori come mio padre: il profumo della sua pelle – quel misto di virilità, Players senza filtro e agra colonia al bergamotto – dicevano della sua personalità e della sua vocazione più di qualsiasi esaustivo discorso. Luca Sonnino viveva i suoi abiti visceralmente: le camicie di Brooks a quadretti
– alla Moravia! – indossate sotto il blazer, le cravatte regimental annodate alla Windsor, i fazzoletti bianchi, le scarpe inglesi di cuoio naturale, gli avvitati soprabiti di covercoat dai baveri di velluto, i cappelli a larghe falde erano solo le concrete propaggini della sua anima, custodi d’una scelta morale, o a dir meglio, d’una visione del mondo.
C’è chi dice che la prima vera grande storia d’amore d’un essere umano non sia il turbamento adolescenziale per una compagna di classe, tanto meno quell’elettiva corrispondenza fra ventenni che di solito nel momento più drammatico sfocia nel matrimonio borghese, ma semmai la prima indimenticabile avventura extraconiugale. È lì, nel tradimento di giovane sposo o di giovane sposa, che uno sente correre l’adrenalina e il cuore esplodere. È lì che come il dottor Zivago ti senti talmente perso, così -dolorosamente esaltato, così invischiato in qualcosa di soprannaturale e di tragicamente ingiusto, da volerlo confessare al tuo consorte, non per urtarlo, ma per condividere la tua felicità illecita e la tua inevitabile colpa con la persona che più consideri amica. Non so dire se questo momento meraviglioso sia arrivato nella vita di mio padre e quale effetto abbia prodotto sul suo organismo sovreccitato. Immagino di sì, se non altro a considerare l’anomalia logistica del suo matrimonio e l’esperienza che nel frattempo mi sono fatto – seppur indirettamente – dei comuni rapporti coniugali. È naturale: accade a qualsiasi uomo che non sia sconvolto da paralizzanti ritrosie religioso-moralistiche, figurarsi a un individuo come lui, agiato inquilino della parte comoda di questo mondo. Eppure, a dispetto di tutti gli altri uomini della sua famiglia, a dispetto di Bepy soprattutto, a dispetto di tutta la stirpe da Bepy rappresentata, Luca era di assoluta discrezione. Nella difficoltà che a tutt’oggi provo nell’accettare che mio padre fosse un uomo e mia madre una donna e che io fossi il prodotto della loro umanità, non posso esimermi dal notare che la riservatezza di mio padre aveva qualcosa di elegantemente sopraffino. La sua vita intima era un mistero fitto quasi quanto la sua interiorità. L’opera di desertificazione sentimentale che i suoi genitori avevano operato su di lui, affinché dimenticasse (o quanto meno non drammatizzasse) il suo singolarissimo aspetto, aveva sortito l’effetto collaterale di renderlo superbamente enigmatico.
Sì, era un enigma purgato della viscosità degli enigmi. Come ho già detto: per Bepy il piacere dell’adulterio era tutto nella possibilità di ostentarlo. Per mio padre – ammesso che lo abbia praticato con l’assiduità del suo dissoluto genitore – fu probabilmente qualcosa di molto più profondo (passioni cocenti e inconfessabili) o altrimenti di molto più superficiale: scosse ormonali, appetiti erotici placati con qualche occasionale compagna viaggiatrice. Forse perché lui, che a prima vista poteva sembrare inscalfibile, lui, che amava sfoggiare un cinismo da cui era totalmente immune e che quando gli si torceva contro lo faceva soffrire tremendamente, non aveva perdonato al padre e alla madre l’esibizione delle loro rispettive conquiste. O forse solo perché la sua peculiare idea di stile – solo talvolta debordante in veniali grossolanità assolutamente in accordo con la sua stazza-Orson Welles – non contemplava la possibilità di essere così sfacciato nelle cose erotiche. O forse, molto più semplicemente, come tutte le persone fisicamente eccentriche aveva sviluppato una timidezza che lo obbligava a dissimulare qualsiasi trasporto sentimentale, dal più canonico al più illecito. Il solito problema Sonnino: nevrotica pudicizia confusa per euforica leggerezza. Fatto sta che un animo così tenero avrebbe meritato un altro corpo. Un corpicino alla Kafka, ossuto e problematico. E invece la natura l’aveva fatto a quel modo, e lui s’era dovuto inventare un altro se stesso, un se stesso che fosse in accordo col proprio fisico, un se stesso gagliardo. Era questo il suo segreto? Questo il segreto incomprensibile che si manifestava nella continua alternanza tra timidezza e competitività, arroganza e suscettibilità? Questo l’inconfessabile mistero di Luca Sonnino? E forse allora il suo corpo era cresciuto così tanto proprio per meglio custodire quel segreto, nel modo in cui nel Medio Evo venivano edificate enormi fortezze per proteggere una reliquia?
Comunque, e so di non sbagliare, il segreto del matrimonio dei miei – dall’esterno così anomalo e insensato – era tutto nella capacità di esserci della moglie e di non esserci del marito. A lei bastava vederlo uscire dall’area bagagli dell’aeroporto di Fiumicino, con un cappotto da gangster e un cappello a larghe falde, per provare un intrattenibile sentimento di irritazione. Così come a lui bastava incocciare nell’espressione improvvisamente rabbuiata di lei per capire che ora, dopo essersi sobbarcato quel lungo viaggio sfibrante, gli toccava montare sulle montagne russe di quella moglie ciclotimica.
«Non andiamo a casa?» gli chiesi, mentre imboccava la direzione sbagliata.
«No, a Positano.»
«Positano?»
«A casa di Nanni.»
«Perché?»
«Che vuol dire “perché”? Mettiamola così: perché sono tuo padre, perché sono alto un metro e novanta, perché guadagno molto più di te, perché la tua sopravvivenza è strettamente legata al mio portafoglio. Credo di avere le carte in regola per decidere sia per me sia per te. Soddisfatto?»
«Non mi avete detto niente…»
«La prossima volta faremo un comunicato stampa.»
«Non intendevo questo, ma…»
«Uff, Dani, sono in vacanza, vorrei divertirmi e riposarmi. Nanni ci ha invitato. Mi è sembrato giusto accettare.»
«E mamma?» trovai finalmente il coraggio di chiedere. Forse è morta e non sa come dirmelo.
«Ci raggiunge domani mattina.»
«Ma» gemetti «non ho niente con me… Il costume. Né i bermuda. I teli da mare. Sono stanco. Ho la valigia piena di roba sporca…»
«Che palle! Mamma t’ha fatto una valigia con la roba pulita e da mare. Quello che non hai lo compriamo oggi pomeriggio. Dopo tutto» riprese un attimo dopo con un sorriso faceto «un signore come te non gira con le valigie. Un signore come te si rifà il guardaroba in ogni nuova località.»
Pausa prolungata.
«Insomma? Non mi racconti niente?»
«Cosa?»
«Tutto.»
Di solito era Lorenzo a incaricarsi di queste dettagliate relazioni di viaggio. Era affidato a lui il compito di esagerare, di storcere, d’inventare. Il mio ruolo era secondario. Facevo da testimone silenzioso. Da attore non protagonista. Il mio compito era assentire, negare, talvolta sospirare, nei casi estremi arrivavo persino a emettere monosillabi. Ma stavolta toccava a me. Lorenzo era rimasto a Londra, per un corso intensivo di altre tre settimane. In realtà era voluto rimanere a causa d’una ragazza. Non saprei dire se fosse stato più insolito o più angosciante vedere mio fratello invaghito. Non è sempre terribile scoprire un individuo sicuro di sé imbrigliato nelle svenevoli maglie amorose? Non trovate insopportabile la vista d’un altezzoso sdilinquito e domato? Ebbene, quell’adorabile dispensatore di scetticismo – naturale riequilibrio ai languori del fratellino – alle viste della ragazza efebica e occhialuta, una sorta di elegia della più fresca e primaverile romanità, era schiantato irreversibilmente.
Lorenzo somigliava a mio padre molto più di me. E non è solo questione di corporatura. E neppure di carisma da leader. Non conta che tutti lo ascoltassero sentendosene influenzati, quasi plagiati.
Non parlo del connubio di agnosticismo e corrosiva sensualità. La sua anomalia – ciò che lo rendeva così profondamente affine al padre e così sfacciatamente diverso da ogni altro individuo –
era il sentimento, la purezza del sentimento, lo scandalo dei sentimenti: il dolente accordo tra la generosità e il disperato tentativo di dissimularla attraverso quella verbosa ostentazione di cinismo.
Nel nostro piccolo nucleo familiare coesistevano due persone buone che sembravano cattive con altre due cattive che sembravano buone. Era la nettezza che s’intuiva in Lorenzo a disturbare molte persone, ma a esercitare sulle medesime un fascino morboso. Quel modo truce e onesto, solo apparentemente spietato, di giudicare gli altri.
Via, non aveva che diciassette anni, e sembrava già dominare l’arte di farsi ascoltare. Lui che un giorno avrebbe messo il suo ardore intellettuale al servizio della causa liberale, attraverso la professione di giornalista indipendente, con quel libro shock su Raymond Aron (chissà perché i Sonnino scrivono solo libri scioccanti?), allora era marxista. Il solo marxista nel nostro liceo. E tutti lo temevano per questo. Lui non aveva la mia debolezza. Lui non voleva essere come tutti gli altri.
Lui amava essere quello che era. Lui non era un conformista come il fratello minore. Lui non era la sbavante dama di compagnia del bello e della bella di turno. Lui aveva costruito una sua personalità indipendente. Lui sembrava sfidarli, i bastardelli della nostra scuola, quelli che lo chiamavano
“zecca comunista”, solo perché una volta all’ora di religione aveva difeso la-sacra-inviolabilità-
della-democrazia. Mio padre si riconosceva in lui. «Alla sua età» diceva «ero esattamente come Lorenzo, con la sola differenza che non avrei mai indossato quei terribili giubbotti a doppiopetto da eroe risorgimentale.»
«Vuoi sapere perché Lorenzo è rimasto a Londra?» gli chiesi.
«È un inizio.»
«Ha una ragazza» dissi trionfalmente, sicuro dell’impatto che quella frase avrebbe avuto su mio padre.
«Davvero?»
«Sì…»
«Beh, insomma?»
«Cosa?»
«I particolari!»
Così racconto a Luca Sonnino esattamente quel che Luca Sonnino si aspetta gli venga raccontato, dando in pasto all’orca assassina il suo cibo preferito, blandendo i suoi timpani con le ciarle più dolci che essi sappiano recepire. Gli dico che il suo primogenito nel nostro gruppo era quello che sapeva meglio l’inglese, al punto che avevano istituito un corso apposta per lui. Gli dico che nel minitorneo delle nazioni organizzato dalla nostra scuola, l’ultima sfida di calcio tra Italia e Francia è stata decisa da una rovesciata di Lorenzo che è stata enfaticamente paragonata a quella di Pelé in Fuga per la vittoria (perché i suoi successi mi commuovono più dei miei?). Gli dico che Syria, la ragazza di Lorenzo, è in assoluto la più bella e ambita. Gli dico che Lorenzo ha avuto una discussione serrata, dalla quale naturalmente è uscito vincente, con un altro ragazzo, un biondino di proverbiale sfrontatezza, nonché maldestramente invidioso di Lorenzo, ma non di me, che ha sostenuto che gli ebrei sono tutti tirchi e si aiutano tra loro. Gli dico che quando Lorenzo parla tutti l’ascoltano, come non potessero fare altrimenti.
Cosa sto facendo?
Semplice: risarcisco mio padre. Mi attengo alle viscide indicazioni materne. Trasfiguro i successi britannici di mio fratello per farmi perdonare il mancato entusiasmo dimostrato alla vista della sua Carrera, per non essere riuscito ad abbracciarlo, per non averlo quasi riconosciuto. Gli do quello di cui ha bisogno. Gli servo il suo cocktail preferito: sicurezza, successo, sensazione che tutto abbia un senso e che quel senso gli sia vagamente benigno. Che i suoi figli ce la faranno, come lui, più di lui. Ecco perché, mentre parlo, sento il suo profondo respiro (il respiro virile e affannato di Winston Churchill). Ecco perché preme ancora di più il piede sull’acceleratore. Deve sfogare in qualche modo tutta l’euforia superflua che talvolta è più insopportabile e lancinante del dolore.
Sto mentendo, allora?
Certo che sto mentendo. Chiunque abbia una pur minima pratica della vita sa che per fare felice il prossimo non c’è ricetta migliore della menzogna. E chiunque avesse visto mio padre in quel preciso istante inspirare con tanto vigore, come se anche nell’aria cercasse di afferrare qualcosa d’inafferrabile, se solo qualcuno avesse potuto sentire il tono con cui continuava a ripetere: «Dici davvero? È proprio così che sono andate le cose?…», mi avrebbe dato ragione.
Luca Sonnino era la creatura più simile a un orso bianco che avessi mai visto: regale, feroce, tenerissimo. Oltre a tangibili elementi quali le spalle larghe, l’impaccio e l’albinismo, contribuivano alla somiglianza l’appetito pantagruelico, il celeste sguardo che mescolava dolcezza rabbia e impazienza, il disagio d’ogni movimento sulla terra capovolto dall’agilità esibita in acqua.
Ecco, era come se quel corpo niveo avesse una predisposizione anfibia. Come se fosse venuto al mondo per dominare gli elementi terracquei. Quando camminava aveva la spavalderia arruffona di Gérard Depardieu, ma l’estate al mare o in piscina si tuffava come un’orca e nuotava velocissimo, sollevando le masse d’acqua d’un’elica di motoscafo. Le lenti spesse degli occhiali facevano sembrare i suoi occhi palle da biliardo. La barba bianco-bionda toccava quasi il petto sporgente, mentre il naso aveva l’ebraica spudoratezza che faceva pensare agli ashkenaziti sterminati quarant’anni prima dai nazisti o a certi dandy ebrei che infestavano i salotti viennesi ai tempi della Felix Austria.
Venuto al mondo quasi completamente cieco, grazie a un’operazione subita dopo la guerra aveva rimediato quelle due o tre diottrie appena sufficienti per leggere con immani difficoltà un vocabolario, per prendere la patente di guida e per guadagnare molti soldi col commercio del cotone. Sebbene la natura si fosse divertita a sfavorirlo tanto in certe cose (la vista, la goffaggine, i capelli fosforescenti), essa lo aveva subdolamente risarcito, dandogli quell’aspetto imperiale che incuteva misteriosamente rispetto. La sua carnagione era talmente caratteristica e la sua figura talmente imponente che da figlio sapevi che nella piazza più affollata del mondo tuo padre l’avresti riconosciuto tra migliaia di altri anonimi individui. Tutto si poteva dire del suo aspetto, salvo che passasse inosservato. Bepy aveva profuso ogni impegno per trasformare l’eccentricità del figlio, che sembrava fatta apposta per generare complessi d’inferiorità, in una sorta di alterigia. Ciò che Bepy, per deformazione culturale, non avrebbe mai tollerato, è che il suo primogenito sviluppasse uno spirito autocommiserativo o addirittura perdente. Gli aveva insegnato a nuotare a Capri negli anni Cinquanta gettandolo dalla barca in mare dove non si tocca. Gli aveva insegnato a fare la doccia fredda. A mangiare le interiora o la testa del pesce. A non farsi scrupoli con le donne. A cacciare il cervo. A non vergognarsi di essere il più chic. Il risultato ottenuto da Bepy non era stata certo la creazione d’un suo gigantesco clone. Il figlio aveva mediato l’istrionismo vitalista del padre in una sorta di aggressiva competitività, in una maniera che somigliava molto, specularmente, al rifiuto assoluto che l’altro figlio, Teo, aveva opposto al suo metodo educativo. Luca, il suo bechor, il prediletto, era uno destinato ad avere sempre un’idea netta sul mondo, uno che avrebbe sempre voluto esprimerla, quell’idea, che avrebbe desiderato esporsi, uno che i professori avrebbero considerato un talento di lucidità e che le donne avrebbero detestato per la sua rissosa voglia di parlare.
Ma dopotutto, valutando le premesse, si poteva considerare l’impegno di Bepy e Ada Sonnino in favore del loro adorato Luca, quello scherzo di natura, quel vichingo uscito da chissà dove, come un assoluto capolavoro pedagogico. Essi erano riusciti a trasformarlo in un individuo allo stesso tempo normale e straordinario, civile e inurbano, dimesso e barbarico, a sottrarlo definitivamente all’handicap della sua difformità fino a renderlo quel tenero arrogante che era.
Ma nonostante lo sforzo prodigato per essere come tutti gli altri, nonostante la lotta per farsi accettare, affinché il colore dei capelli perdesse per gli altri di significato, nonostante la normalità conquistata a caro prezzo nel corso d’un’adolescenza intera, mio padre, alle soglie del matrimonio, non era riuscito a sottrarsi all’unanime perplessità del mondo. E l’aver scelto per sé una ragazza piccolina, per giunta d’un’altra religione e d’un altro ambiente, aveva reso le cose ancor più complesse.
Fu un affaire, il matrimonio dei miei. È bene chiarirlo. Altrimenti tutto il resto non può essere inteso. Fu ardua e in fondo perigliosa la strada che li condusse all’altare. Nessuno lo voleva, quel matrimonio, nessuno lo aveva cercato e avallato. Perché da che mondo è mondo nessun ebreo gradisce che suo figlio sposi una cattolica e nessun cattolico ambisce ad avere un genero ebreo.
Alla fine però tutti se n’erano fatti una ragione. Le due controparti, seppur senza alcuna serenità, quasi con rancorosa accettazione dell’inevitabile, si erano arrese. State sbagliando, avevano detto tutti. Questa storia non promette niente di buono, avevano tenuto a sottolineare. Ma infine s’erano arresi. I Sonnino avevano capitolato rapidamente. Più per un’intrinseca incapacità di tollerare la lotta intestina che per una sentita temperanza.
Mentre dall’altra parte, dalla parte dei Bonanno, infuriava la tempesta. Il coro lagnoso di madri, padri, nonni, parenti e amici lontani si mobilitava per esecrare la scelta della reproba. C’è da dire che per loro era più difficile. È sempre più difficile per la maggioranza accettare la minoranza. Chi sono gli ebrei? Loro non ne hanno mai conosciuti. È la prima volta che vi entrano in contatto.
Gente disgraziata, che ha sofferto. Gente ricca e maliziosa. Gente avara e scaltra. Gente che ha il naso fatto in un certo modo. Gente per lo più stempiata. Gente furba che ti frega. Ecco chi sono: strozzini e pezzivendoli, banchieri e gioiellieri. Se la sono cercata. Che senso ha rimanere ebrei in un mondo di cattolici? Che senso ha non mangiare certi cibi prelibati? Che senso ha essere tanto snob e vittimisti? Eppoi questo dove lo ha pescato? Con i capelli di quel colore strano? Un albino affetto da gigantismo. Ma siamo sicuri al cento per cento che costui possa mettere al mondo figli sani? Come può la nostra cara ragazza aver fatto una scelta tanto stravagante?
Ma su, non poteva essere altrimenti. È proprio l’abnormità di lui ad averla avvinta. Lei è sempre stata così, sempre dalla parte dei perdenti, dei diseredati, eppure sempre così megalomane e nascostamente hollywoodiana. Da bambina voleva farsi suora. Però non riusciva a staccarsi dalle sue gigantografie di Cary Grant. Uno zio le aveva portato dagli Stati Uniti un cimelio da lei religiosamente serbato: il manifestino originale di The Philadelphia Story risalente al Millenovecentoquaranta, pochi anni prima della sua nascita, sul quale campeggiavano i giovanissimi volti d’uno strepitoso Grant e d’una svagata Hepburn. Ascetismo e lusso trovavano insperato accordo nel cuore di quella liceale svanita. Quando era piccola, durante la quaresima, il giorno delle missioni, era sempre lei a portare le cose più preziose ai poveri. Si sarebbe spogliata di tutto per far felici i bisognosi. Chissà perché poi? I maligni dicono per orgoglio. I ben disposti puntano decisamente sul senso precoce di oblatività. I cinici sostengono che le due istanze convivano mirabilmente. Quale altro sprone se non la carità mista alla grandeur può averla indotta a innamorarsi di quel goffo Gulliver di zucchero? Cosa vuole da lui se non il privilegio di proteggerlo, se non la fierezza di ostentarlo? Lui non c’incanta. Quale abisso si nasconde dietro ad abiti sartoriali? Di quale mondo artificioso è il prodotto questo damerino? Perché sfida continuamente la misura e il ridicolo, inforcando d’estate panama immacolati, d’inverno borsalini di feltro? Perché è sempre così impostato nel parlare? Perché è ossessionato dall’ostentazione?
Perché ha un bisogno irrinunciabile di essere provocatorio e iperbolico? Ma avete visto come assaggia il vino, come lo annusa, come lo fa roteare nel bicchiere? Dio, è così vanesio! La risposta è semplice. Come può sfuggirci? Questo povero ragazzo è semplicemente fratto e disperato. Per questo si è attaccato a lei. Perché lei, la nostra ragazza, a dispetto delle apparenze, è una creatura forte. È lei la figura dominante. Lei sarà l’energia propulsiva in questo matrimonio disastroso e splendido. Sarà lei che lo terrà a galla se ne varrà la pena, così come sarà lei a farlo inabissare se le circostanze lo imporranno.
Così al primo invito in casa Sonnino, nell’attico di largo Argentina che domina un formidabile spicchio di Roma, i futuri consuoceri, diversi per storia e concezioni, si trovano gli uni di fronte agli altri, pronti a darsi battaglia. Gustiamola, questa disfida. Studiamola, questa partita a scacchi.
Tracanniamola fino all’ultimo sorso. Partendo da un assunto fondamentale: nessuno uscirà vincente. Tutti perderanno. Perché tutti avranno forte la sensazione della sconfitta.
La rozzezza di Alfio Bonanno, il padre di mia madre, ha qualcosa di solenne e perturbante. Un uomo tarchiato, il cui sguardo opacamente azzurro esprime l’ottusa alterigia del parvenu che odia i fronzoli. La bazza massiccia fa il verso a Benito Mussolini ma l’oblungo taglio degli occhi è inequivocabilmente quello di Mao. Un uomo che parla poco e lentamente. Le sue finalità e la sua visione del mondo aderiscono all’aspetto incolore da self-made man. Pratico, franco, diffidente, cattolico senza misticismo ma con devozione, puritano, sessuofobo, farisaico e profondamente spaventato dal mondo. Fa effetto vedere Bepy e Alfio, individui così vicendevolmente avulsi, stringersi la mano, atteggiare un sorriso e tentare un’intesa nella fluorescente cornice di questa profumata abitazione. La vita li ha uniti senza che loro abbiano mosso un dito. Hanno fatto entrambi il necessario per dissuadere Romeo e Giulietta. Ma di fronte alla loro ostinazione, non hanno potuto che accondiscendere. Quella piccola, snervante battaglia è stata combattuta mentre i rampolli frequentavano il liceo, e poi l’università. Ora sono grandi, non li si può più fermare. Non resta che limitare i danni.
La terrazza dei Sonnino è un quadrato perfetto i cui lati sono frastagliati dagli sbuffi bianco-rossi di gerani e margherite, è un intrico di muretti d’un colore giallo deserto. Tutt’intorno la cornice d’una Roma by night: il fascino ocra-scrostato dei tetti. Quel retroprofumo di gatti e di prima estate. Non si può dire che tutto questo non faccia effetto sui signori Bonanno. Si guardano attorno spauriti e diffidenti, chiedendosi quanto sia “vero” tutto questo. “Vero” nel loro peculiare gergo vuol dire
“solido”, poggiato su “concrete basi economiche”. Per i Bonanno la solvibilità è un valore etico.
Per i Bonanno vivere al di sopra delle proprie possibilità, “fare il passo più lungo della gamba”, pagare gli interessi per un fido bancario, esibire non possedute ricchezze non è solo vezzo e debolezza caratteriale, ma perversione morale, e se non proprio un crimine, certo l’infallibile criterio per giudicare il prossimo. Anni dopo, quando l’inesorabile sciagura economica s’abbatterà sui Sonnino, i Bonanno l’accoglieranno con l’animo oscillante tra il dispiacere per la figlia maggiore incorsa in un simile dramma e il sinistro orgoglio di aver per l’ennesima volta constatato come la mancanza di oculatezza e la vanitosa smania di ostentazione conducano alla rovina. Ai loro occhi, i Sonnino (e la sorte che li stava per sfavorire) sarebbero divenuti la vivente dimostrazione di quanto essi – i Bonanno, con la loro parsimonia e con tutta la retorica della parsimonia – avessero avuto ragione sin dal principio: la prova ennesima di come quella prima subdola sfida non fosse stata che la versione mondana dell’eterno conflitto tra il Bene e il Male, incarnato ancora una volta in un’innocua consuetudine borghese.
Molti dicono che il problema tra queste due famiglie a confronto sia la religione. Che tra esse possa esserci, se non una disputa dottrinaria, un’incompatibilità antropologica. Lasciatemi dire che questa è una clamorosa balla. Una generica frottola quieta-coscienze. Le difformità e i dissensi tra queste due coppie sono talmente radicati e irriducibili che verrebbe paradossalmente da dire che il solo punto di contatto tra loro, oltre alla comune appartenenza al genere umano, sia costituito dall’origine giudaico-cristiana: una disattenta condivisione dello spirito dei Comandamenti. Sì, insomma, il fatto di essere ebrei e cattolici li unisce molto più di tutto il resto: molto più dell’aver vissuto per tanti anni nella stessa città o dell’aver condiviso le stesse esperienze storiche, per esempio.
È l’estate del Sessantasette. Quella in cui il mondo ha preso a camminare vorticosamente. Sono trascorse poche settimane dalla conclusione della Guerra dei sei giorni. L’atmosfera in casa Sonnino, sebbene tutti siano troppo snob per aderire completamente agli umori della comunità ebraica, è ancora elettrica. Le mensole ingombre di quotidiani con titoli cubitali. Suvvia, è stato emozionante per chi ha vissuto certi tempi, per chi ha visto i propri decenni cuginetti deportati, per chi si è dovuto nascondere, per chi ha sopportato la violazione del proprio domicilio e lo scorticamento della propria anima, per chi ha tremato per il suono sordo degli stivali tedeschi e il clamore ferrigno dei loro ordini mortuari di quel fatale Sedici Ottobre, vedere un esercito ebraico così formidabilmente equipaggiato annichilire lo stranumeroso nemico arabo sotto la guida di quel Messia ebraico del generale Yitzhak Rabin. Lo abbiamo già detto, in fondo: i Sonnino non sono tipi da commuoversi su Israele, non sono tipi da finanziarlo, non sono quel genere d’ebrei per cui Israele innanzitutto. Israele non è altro che una delle concrete propaggini della Memoria Ebraica da loro guardate con diffidenza. No, i Sonnino sono dell’altro tipo: orgogliosamente affezionati al loro ufficio di sobri dispensatori di spirito critico e obbiettività. Chiediamo molto a Israele. Giustizia e democrazia. Tolleranza e laicismo. Proprio dagli israeliani, in guerra permanente, pretendiamo un comportamento esemplare, da padri pellegrini, da ultima frontiera: inflessibilmente duri ma severamente giusti. Ma stavolta no, è stato impossibile trattenere l’emozione: ci siamo commossi, abbiamo sofferto, perso il sonno, tifato, temuto realmente che Israele potesse smettere di esistere, scomparisse dalla faccia della terra, un nuovo genocidio ebraico e l’ennesimo sogno tramutato in tragedia. Abbiamo subito avuto l’impressione che stavolta le cose sarebbero andate diversamente.
Abbiamo compreso che lo stoicismo con cui i genitori attesero di essere massacrati ha insegnato ai figli l’inderogabile necessità di combattere. Non potete capire l’orgoglio che riempie il cuore di Bepy. Incredibile che in una manciata di ore la piccola aviazione israeliana (cazzo, anche gli ebrei hanno un’aviazione!) abbia annientato i reattori russi, messi a disposizione degli egiziani e dei giordani, assicurandosi una supremazia aerea assoluta. E come quegli eserciti composti per lo più da masse analfabete e demotivate abbiano ceduto di fronte a un piccolo esercito compatto e così straripante di moti-vazioni.
Questo ha lasciato nell’animo di Bepy e dei suoi fa-miliari una sinistra euforia. È strano continuare a occuparsi di cose insignificanti quali mandare avanti l’ingrosso, ricevere rappresentanti, organizzare feste in maschera, scoparsi modiste minorenni, mentre in una parte di mondo nient’affatto lontana si consuma una vittoria così schiacciante dell’armata ebraica. Per vari giorni tutti in famiglia hanno continuato a comperare cinque quotidiani, delusi dalla progressiva perdita d’interesse dei giornali italiani per quell’evento straordinario, addolorati dalla faziosità filoaraba della maggior parte dei commentatori. Come se un giornalismo impeccabile fosse tenuto a decantare ogni giorno l’inusitata potenza dell’esercito israeliano. Sono diverse notti che Bepy dorme poco. Si alza, ascolta la radio, guarda la televisione. È scostante e irritabile. Soffre di quella sindrome periferica – quella sensazione di decentramento rispetto ai fatti della Storia – che ben presto porterà suo figlio Teo a emigrare laddove la Storia ancora esiste e la Cronaca non ha che un peso esornativo.
Ecco perché quando Alfio Bonanno gli chiede: «Eh, insomma tutto bene, dottor Sonnino?» e Bepy atteggia un’espressione del viso che indulge a una certa inquietudine al punto che l’altro torna a chiedere: «Qualcosa non va?», Bepy, domandandosi se lo stia prendendo in giro, ammicca: «Beh, insomma sa, con quello che è successo!».
«Cosa è successo?»
«Beh, in Israele…»
«Ah sì, credo di aver letto qualche cosa…»
Proprio così dice Alfio, lasciando Bepy di stucco. Ah sì, credo di aver letto qualche cosa… Con questa frase, dall’apparenza anodina, Alfio confessa non solo la sua assoluta estraneità alla causa ebraica, non solo la sua maleducazione, non solo il suo metafisico egoismo, ma la totale mancanza di attenzione alle vicende internazionali, all’attualità, alla Storia. Confessa la sua visione modesta.
Il suo desolante perimetro mentale. E quest’indifferenza, questo distacco non può che contrariare i Sonnino.
Su, Bepy, non è il caso di crucciarsi. Questo è Alfio, imparerai a conoscerlo. È l’essere umano dagli orizzonti più circoscritti che tu – nato e vissuto nel tuo teatro giudaico – incontrerai nel corso della tua esistenza. Alfio è un provinciale che ha fatto fortuna attraverso un’ostinata determinazione, attraverso il mito continuamente celebrato del risparmio e dell’investimento sicuro. Niente libri.
Niente cinema. Niente analisi. Niente seghe. Niente eleganza. Niente cucina sofisticata. Nessuna contrap-posizione ideologica. Nessuna commozione. Nessuno sport. Nessuna squadra da tifare.
Nessun sogno irrealizzabile. Nessun adulterio. Nessuno slancio che superi qualche ordinario cerimoniale religioso appreso nell’infanzia e mai dimenticato. Nessun grillo per la testa. Un uomo che è dalla parte della sofferenza, perché ha sofferto. Un affarista senza talento per gli affari ma che adora il martirio. Uno che deve tutto a se stesso e al sacrificio inflitto ai suoi familiari. Uno che adora fare prediche apocalittiche. Uno che ha costruito la propria fortuna sugli altrui consumi, ma che non è disposto a consumare a sua volta. Un imprevedibile dissidente del capitalismo keynesiano. Un profeta della civiltà del fil di ferro. Uno che non vuole mettere i propri danari in circolo, preferendo lasciarli dove sono. Uno che ha imparato diligentemente, e anche con una buona dose di umiltà, che bi-sogna acquistare le camicie da Caleffi, le cravatte da Battistoni, i maglioni e le scarpe da Cenci, che i vestiti sarebbe meglio commissionarli a un vecchio sarto fidato e non troppo esoso, ma che detesta endemicamente qualsiasi sorta di smargiassa ostentazione pecuniaria. Uno che non ama viaggiare. Perché la cosa migliore che gli sia mai capitato di vedere, il suo centro gravitazionale, quello da cui in fondo non sa e non vuole distanziarsi, è il paesino vicino a Macerata che gli ha dato i natali. Quel paesino dove oggi viene trattato come un re. Un figlio che ce l’ha fatta e che per dimostrarlo ha comperato l’intera ala d’un palazzo, quello del municipio. E
ora tutti lo rispettano. Tutti si inchinano. Il resto per lui non esiste. Via, Bepy, non prendertela.
Alfio non ha niente contro la tua Guerra dei sei giorni. Semmai ce l’ha un po’ con gli ebrei. Non in modo peculiare però. Il suo pregiudizio ha qualcosa di democraticamente ecumenico. La sua discriminazione (per meglio dire: diffidenza) coinvolge tutti coloro che non condividono la sua origine, la sua generazione, la sua visione del mondo – e quindi circa cinque miliardi e passa di persone. Non è forse un suo diritto di marchigiano diffidare degli abruzzesi, dei siciliani, dei toscani, degli ebrei, dei francesi, dei negri, degli alpini? Nessun odio. L’odio è una perdita di tempo e il tempo è… No, non dirlo!… Alfio è maniaco dei cliché: ammira la testarda precisione dei tedeschi, così come deplora la sciatta negligenza dei partenopei. Cosa diavolo può importargli allora della tua disfida mediorientale, se lui ha traversato la Seconda guerra mondiale, quella che avrebbe dovuto riguardarlo, con terrore misto a tanta infinita inconsapevolezza? Cosa diavolo vuoi che gliene importi della tua guerrucola se a tutt’oggi il suo vanto è quello di non aver preso partito, in un momento in cui la scelta era, se non proprio una stringente necessità, dimostrazione di carattere? L’importante per lui è non dare nell’occhio. L’importante è rispettare i superiori.
Blandirli. Non essere mai irrispettosi. Essere mostruosamente efficienti. Pensare al lavoro anche nei momenti di relax. Parlare di lavoro anche al funerale del suo migliore amico. Non solo per opportunismo, ma perché la vita per lui sembra esaurirsi nel solerte adempimento all’ordine prestabilito. Un ordine sociale che non va violato. Inutile parlarne. Per lui non c’è niente di più odioso dei chiacchieroni. Qualsiasi aspirante artista è un chiacchierone. Qualsiasi goffo immaginifico è un chiacchierone. Tutti quelli che si smarriscono, o semplicemente tutti coloro che vogliono esprimersi ai suoi occhi sono chiacchieroni. La gente va giudicata per quello che ha saputo costruire, non per quel che dice. E per lui le costruzioni devono essere solide e concrete.
Terreni da rendere edificabili. Appartamenti da vendere e affittare. Ecco un Fedele Integralista Del Dio Mattone, caro il mio Bepy. La prima cosa che Alfio si è chiesto quando è entrato in casa tua è anzitutto se essa ti appartenga o se tu sia un misero inquilino (lui è pieno d’inquilini e li considera nient’altro che pidocchi e sanguisughe), poi si è chiesto quanto potesse valere e infine se fossero poi indispensabili rifiniture così raffinate e usurabili e un arredo così sontuoso. Ha capito dal modo affettato con cui lo hai accolto che in te si annida il germe del chiacchierone. Ed è contento di averti identificato. Lui si considera uno snida-chiacchieroni. Non devi aspettarti niente da lui, se non quel che è capace di dare: qualche assennato consiglio che spieghi la sua vita esemplare, il suo esemplare destino, la sua esemplare ascesa. Detesta gli uomini con la barba, perché gli sanno di sovversivo. Non può vedere maglioni rossi perché sanno di comunista. La sua sessuofobia non ha nulla del disgusto decadente per la vischiosa intimità femminile: è questione di decoro e opportunità. In fondo, al di là delle apparenze, lui non ha nulla dell’integralista, semmai è un puritano moderato. Tutto può esser fatto purché il mondo non ne venga a conoscenza. L’adulterio in via del tutto teorica non è da rigettare. Purché nessuno ti scopra (il che è difficilissimo garantire preventivamente). Purché non ti svii dalla missione irrinunciabile del risparmio economico e dell’accumulazione (il che, a suo insindacabile parere, è impossibile). Col tempo la forma si è così indurita e cristallizzata da essere diventata sostanza. Per questo lui ha finito col credere di essere quello che non era, come te, caro Bepy, che vuoi dare a intendere agli altri di essere quello che non sei. Guai a chiamarlo quando sta in bagno. Prova pure a farlo, lui non risponderà. Ciò non significa che lui non abbia esigenze fisiologiche. Più semplicemente nessuno deve saperlo. Ecco tutto.
Nessuno deve sapere che Alfio Bonanno nel mezzo della giornata sente l’urgenza di defecare.
Quindi, Bepy, non contrariarti. Hai davanti un osso duro. È difficile incontrare nel tuo milieu un uomo così tosto e inattaccabile, così patologicamente insensibile alla lusinga della mondanità e al tuo ascendente. È assolutamente inutile sfoderare il tuo sorriso, adulare sua moglie («Signora Bonanno, le hanno mai detto che ha delle mani incantevoli?»), inutile (addirittura dannoso) sfoggiare un gessato così inappuntabile. È inutile che gli mostri, come stai facendo ora, la tua collezione di quadri moderni, il tuo Burri, il tuo Mafai, il tuo prezioso Modigliani, perché l’unica domanda che ti sentirai rivolgere – come infatti avviene – è se tu non abbia paura di tenere in casa pezzi tanto preziosi, se non temi i furti. E in tal modo, per quanto ti possa apparire meschino, Alfio non fa che mostrarti la sua parte più vera, quella più umana. Il suo luogo sensibile. Parlo della paura. È un uomo che ha paura. Lui così alto, imponente, dall’apparenza indistruttibile, è uno che se la fa sotto. È una fortezza dai muri crepati che attraverso la paura insinuata negli altri prova a esorcizzare la propria.
Cosa teme?
Tutto: non solo la morte, la malattia, l’infermità, fare la cosa sbagliata, ma anche semplicemente scantonare, incorrere nelle ire d’un Potente, vedere tutto quel che ha costruito in frantumi. Lui ama disseminarla, la paura. Lui è un predicatore dell’Apocalisse imminente.
E allora non illuderti: nulla di quello che sei, nulla di quello che hai cercato di essere in tutta la tua vita, funziona con lui. È fieramente imperturbabile di fronte alle tue stregonerie, ai tuoi incantesimi seduttori. E nessuno ti capisce meglio di me. Proprio perché tu ora stai fallendo là dove io fallirò milioni di volte: nella difficile operazione di sedurlo. Lui non è seducibile. Non da gente come noi.
Quello che tu stai vivendo in questa serata infernale io lo vivrò per tutta la vita, tutte le volte che entrerò in contatto con lui.
Perché Alfio vedeva in me, forse per la mia somiglianza con mio padre, forse per i tratti ebraici che portavo scolpiti sul mio volto, il figlio della colpa. L’incarnazione stessa dello sbaglio di mia madre. Era lì seduto nella sua grande poltrona a fiori, posta al centro dell’immenso salotto della sua immensa casa sul colle Aventino, da cui sembrava dominare il mondo intero: e d’un tratto mi guardava e diceva a mia madre: «Daniel è furbo, stai attenta, è furbo, già ti sei fatta infinocchiare una volta… Hai visto che naso?… Ha un nasone!… Lo stesso naso di suo padre e di suo nonno…». E
non la smetteva di ridere di questa sua constatazione fisionomica che gli sembrava così ineccepibilmente rivelatrice. La biologia era tutto per Alfio Bonanno, anche se lui non lo sapeva! E
a nulla valeva l’indignazione di mia madre. A nulla valeva la mia stessa indignazione, né il clamore mediatico della correttezza politica. Lui continuava imperterrito a schernire il mio naso, nel suo modo ondeggiante tra il serio e il faceto. Vedi, Bepy, credo di essere il primo ebreo nella storia dell’umanità ad aver subito discriminazioni dal proprio stesso nonno. Il primo ebreo della Storia con un nonno antisemita. Per tutti gli ebrei c’è sempre stata la famiglia, almeno quella, l’estrema risorsa, l’ultimo luogo di fuga, e invece in casa mia l’antisemitismo si era insidiato con la stessa forte determinazione con cui vi era conficcato lo spirito ebraico. A quale scabrosa schizofrenia, caro Bepy, mi state preparando in questa serataccia del Sessantasette? Se solo tu sapessi come andrà a finire, stasera di fronte al tuo futuro consuocero ti comporteresti in modo assai diverso, assai più duro, affinché il fattaccio non avvenga. Tu forse potresti prodigarti perché non venga unito ciò che non può, ciò che non deve.
«Almeno li ha assicurati?» chiede Alfio, alludendo ancora ai quadri.
«Certo che li ho assicurati» risponde Bepy piccato.
Finché vengono interrotti dalla domestica: signori, la cena è servita.
In tavola troneggia un classico culinario di casa Sonnino. Per la verità si tratta d’un vero e proprio reperto archeologico esumato per l’occasione. Sia per la difficoltà e i tempi lunghi d’esecuzione, sia per la sovrabbondanza calorica in contrasto con i divieti dietetici di Bepy, sono almeno dieci anni che il Pasticcio Dolce Di Nonna Rachele è stato bandito dalle abitudini conviviali dei Sonnino. Ma questa volta Bepy ha preteso che la cuoca si attenesse a un rigido programma filologico. Nessuna aggiunta, nessun aggiustamento. E allora ecco il dorato timballo di pasta frolla – che al proprio interno custodisce un gustoso tesoro di ziti, polpettine e ragù di funghi – mostrare il classico profilo cilindrico a quella fiera coppia di padroni di casa e a quei due convitati diffidenti. Bepy guarda l’indimenticato pasticcio di sua nonna con un orgoglio quasi comico. Ma ad Alfio basta che il palato – viziato dalla gustosa consuetudine a carbonare e a lombate – venga carezzato da un ardente boccone di timballo per liquidare l’operazione come una schifezza pretenziosa, intrugliata e agrodolce. «Proprio come quella gente!» si sfogherà ore dopo con la moglie. «Gente pretenziosa, intrugliata e agrodolce.» Tuttavia Alfio, fedele ai proclami pauperisti, pulisce il piatto, infastidito dalle ciarliere sciocchezzuole delle signore. Nessuno evidentemente osa affrontare gli argomenti per cui hanno deciso d’incontrarsi. Bepy è stranamente intimidito. D’altronde solo la mattina è stato catechizzato dal figlio: «Mi raccomando papà, sii tollerante, cedi sul possibile e non parlare di religione».
«Ma che gente è?» gli ha chiesto Bepy incuriosito.
«Diversa da noi. Sono chiusi, opachi. Ma adorano Fiamma».
«Ma perché tu e Fiamma non venite?»
«Non lo so, me lo ha chiesto lei. Ha detto che erano i suoi a volerlo. A pretenderlo. Credo che lui debba parlarti di qualcosa.»
«Ma lui che tipo è?»
«Un tipo tutto d’un pezzo. Un po’ trombone. Ma è essenziale che lui sia d’accordo.»
«Almeno sai di che vogliono discutere?»
«No. L’importante è che tu sia tollerante.»
È il ricordo delle parole del figlio ad aver spinto Bepy a procrastinare il momento della verità ben oltre il dessert. Ma a questo punto, mentre Ada serve i caffè in salotto, Bepy rompe gli indugi.
L’esordio è indimenticabile, un incrocio tra Indovina chi viene a cena? e I promessi sposi. Bepy attacca con una dichiarazione che potrebbe offendere chiunque ma che, invece, galvanizza gli astanti:
«Insomma, a costo di apparire scortese, non posso nascondervi le mie perplessità…»
Così Bepy, in modo deciso e teatrale, anche se non è poi tanto in disaccordo con la scelta del figlio.
Lui e Ada hanno già metabolizzato lo shock del matrimonio con quella ragazza (anche se il mio bisnonno in modo bizzarro l’ha soprannominata “la Cananea”. «Anche oggi c’imporrai la compagnia della Cananea?» non fa che chiedere a quel suo strano nipote tanto più canuto di lui).
Però Bepy non resiste alla tentazione di blandire i suoi interlocutori: gli piace aderire alle inquietudini del suo futuro consuocero. Vuole essere completamente dalla sua parte. E come può quel gentiluomo di Alfio deludere le aspettative d’un così imprevedibilmente solerte piaggiatore?
«Sono contento che anche lei la pensi così» risponde secco. «Non osavo dirglielo, ma visto che lei va sull’argomento…»
«Ecco, guardi, non è una questione di razzismo o altre scemenze… né forse di compatibilità…» si sbriga a spiegare Bepy, «anzi, aggiungerò che ho conosciuto Fiamma e mi sembra una ragazza incantevole, così piccolina, così timida, insomma un vero amore: il mio Luca è pazzo di lei…
Tuttavia, insomma, credo che siano molti gli ostacoli a questa unione, alcuni, direi, quasi insormontabili… Sia io che mia moglie crediamo – e lo abbiamo detto a Luca – che un matrimonio misto possa produrre disastri, per esempio, nei figli, ammesso che vogliano averne… Un problema di identità…»
Qualsiasi spettatore diverso dall’ineffabile Bepy di questa sera noterebbe il viso di Alfio assumere un’espressione infastidita e severa subito dopo aver sentito le parole “il mio Luca è pazzo di lei”.
Basterebbe questa frase inopinatamente sfuggita a Bepy, per capire ciò che realmente rende incompatibili queste due famiglie e l’unione fra esse perniciosa.
“Il mio Luca è pazzo di lei” è un’espressione che rivela la personalità di chi la pronuncia: bisogna essere teatralmente impudichi, bisogna avere un’idea dell’amore piatta e codificata, pur senza escludere il primato dei sentimenti, bisogna conoscere almeno una manciata di romanzi d’appendice e aver visto altrettanti film americani, bisogna aver tradito la propria moglie almeno una dozzina di volte, bisogna aver frequentato un certo ambiente squisitamente immoralista di canottieri romani, bisogna avere -poca attenzione per il valore delle parole, bisogna aver superato qualsiasi gesuitico impaccio, bisogna infischiarsene della suscettibilità del prossimo o essere sprovvisti di empatia, bisogna essere stravaganti quanto basta, per dire ai morigerati Bonanno, in riferimento alla loro tenera virginea figliola e al suo sciagurato amore per quell’ebreo: “Il mio Luca è pazzo di lei”…
«Sono contento che la pensiamo allo stesso modo» ripete Alfio, assentendo. «Guardi, le dico che non ho nulla contro di voi, anzi sono sinceramente dispiaciuto per quello che vi è capitato… però avremmo preferito anche noi che Fiamma sposasse un ragazzo italiano!»
«Italiano? In che senso?»
«Italiano italiano, in quale altro senso?»
«Perché, Luca non sarebbe italiano?»
«Beh, insomma, ha capito cosa intendevo… D’altronde mi ha detto mia figlia che Luca non ha fatto il militare… e neanche lei, se mi permette… e sa, per me la leva è una tappa essenziale.
Un’esperienza determinante nella vita di un uomo… Altamente formativa.»
«È vero, né io né mio figlio abbiamo fatto il militare. Ma per motivi affatto diversi da quelli che lei evidentemente immagina. E non certo perché non siamo italiani… Anche se potrà stupirla, noi siamo italiani tanto quanto lei!»
«E allora…?»
«A me lo hanno impedito le leggi razziali. Ma credo di aver servito il mio Paese. Io sono stato partigiano… Per quanto riguarda Luca, beh, insomma lui è stato fatto rivedibile per via della sua vista. Nulla a che fare con la sua nazionalità.»
Bepy ha pronunciato queste parole con crescente irritazione. Sta bluffando, naturalmente. Gli piace rivendicare il suo resistente impegno azionista, sebbene, in senso stretto, abbia limitato la sua attività sovversiva a un’impaurita clandestinità montanara.
«Ma guardi, non volevo mica offenderla… Anzi, mi fa piacere che lei abbia alluso ai problemi, come dire, fisici di suo figlio… Diciamo che questa è una cosa che ci sta a cuore. Insomma, quello che vorrei dirle è che noi vorremmo avere garanzie…»
«In che senso?»
«Beh, insomma, ci piacerebbe che Luca, a scopo precauzionale, si sottoponesse ad alcuni esami.
Pensavamo a un andrologo o a un genetista o qualcosa del genere. Vorremmo avere la garanzia che lui possa procreare, e che lo possa fare con il minor rischio possibile… Insomma, per noi è assolutamente inconcepibile un matrimonio senza figli!»
«Senta, mi sembra che qui si stia esagerando. Luca è assolutamente normale. Da tutti i punti di vista.»
«Ma perché si scalda?… Credo di avere il diritto di sapere a chi sto dando mia figlia… Di tutelarla…»
«Sì, nella stessa identica maniera in cui noi abbiamo il diritto di sapere a chi diamo il nostro Luca, ma non per questo le ho chiesto di mostrarmi la fedina penale di sua figlia. E in ogni caso trovo grottesco e antiquato che lei mi parli come se certe cose dipendessero da me. Mio figlio è maggiorenne e responsabile, e lo è anche sua figlia. Quindi non vedo come le nostre opinioni possano in qualche modo influenzarli in maniera determinante… Mi sconcerta che lei mi chieda così, a cuor leggero, senza alcun tatto, di sottoporre mio figlio a test clinici, come se Luca fosse uno scherzo di natura…»
«Ma no, guardi, la discussione ha preso una piega spiacevole. So bene che a questo punto i giochi sono fatti. Che i nostri ragazzi si sposeranno. Me ne sono fatto una ragione e credo anche lei. Ma sono un padre apprensivo. Ho diritto di essere un padre apprensivo. Solo per questo ho chiesto delle assicurazioni.»
«Si può sapere cosa vuole, oltre a voler sottoporre mio figlio a una simile umiliazione?»
«Beh, se devo essere diretto, vorrei che il matrimonio si tenesse in chiesa. D’altronde Fiamma mi ha detto che Luca non è religioso. Mentre lei è molto devota. Mi sono già informato. Il nostro parroco sarebbe disposto a sposarli, anche se Luca, s’intende, deve impegnarsi a battezzare i suoi figli…»
«Questo mi sembra davvero troppo. Scusi, almeno dia loro il diritto di scegliere.»
«A chi?»
«Ai nipoti.»
«E perché? I miei genitori scelsero per me. E i suoi scelsero per lei, evidentemente. Perché dovremmo comportarci in modo diverso? E per sposarsi in chiesa è essenziale che lui prometta di battezzare i figli.»
«Capisco, ma non è essenziale sposarsi in chiesa. Parla del matrimonio in chiesa come fosse un piacere che ci state elargendo.»
«Beh, in un certo senso è un piacere che il parroco ci fa…»
«Un piacere che fa a lei, non certo a me, a mia moglie, né a Luca…»
«Ma insomma, credevo…»
«Che cosa credeva? Che l’avremmo ringraziata perché il suo generosissimo parroco ci ha concesso l’onore di sposare nostro figlio? Crede che ai nonni di Luca possa far piacere?»
«Beh, credevo sareste stati contenti di questa possibilità…»
«Quale possibilità?»
«Il matrimonio in chiesa.»
«Guardi, Alfio, per quanto la cosa a lei possa apparire straordinaria e sconvolgente, se a noi non facesse piacere essere ebrei non saremmo ebrei. Non c’è mica un’ineluttabilità che ci lega all’ebraismo. Se ci fosse interessato diventare cristiani avremmo scelto di credere in Gesù Cristo duemila anni fa.»
Fine primo round!
Con questa dichiarazione di orgoglio ebraico si chiude la prima conversazione. E tutto il resto, tutto quello che segue, appare, a questo punto, irrimediabile.
«Si vede ch’eri stanco! Avrai dormito due ore» mi disse mio padre. Eravamo al casello di Napoli.
Stava per schiudersi ai nostri sguardi l’orizzonte di alluminio e di cemento armato, l’estesa landa vesuviana deturpata da abusi secolari, inevitabile purgatorio prima del paradiso della costiera amalfitana. Che presto, molto presto, forse alla prossima curva, sarebbe apparsa, nei suoi scorci strabilianti. Ero teso. Sapevo che lì non ci sarebbe stata mia madre, che mio fratello – l’adorabile riparo delle mie timidezze – era lontano. Ma entrai in una vera agitazione quando papà mi disse:
«Domani, o forse dopodomani, dovrebbe arrivare da Capri la nipote di Nanni. Mi sa che il prossimo anno te la ritrovi in classe… Mi ha detto Nanni che è insofferente alle scuole femminili.»
«Quindi c’è solo Nanni» constatai con un filo di voce.
«Credo ci sia Giacomo, il fratello di Gaia… Lo hai mai visto?»
«Non credo» mentii. Il ricordo del funerale di Bepy era ancora vivo in me grazie alla presenza di quei due angeli. Avevo dimenticato quasi tutto di quel disastroso funerale, ma quei due ragazzini non ero riuscito a dimenticarli.
«Un ragazzo strano, difficile, temo addirittura caratteriale… Ha reagito malissimo alla morte del padre. Che cazzo! Per Nanni è stata una botta tremenda. Insomma, perdere un figlio di quarantadue anni, in quel modo poi.»
E allora facciamo che questo viaggio continui fino alla fine del mondo, fino alla punta estrema del Sud Africa pur di non gestire una situazione che sembra insidiosa da ogni punto di vista. Non provo alcuna simpatia per Nanni. Lui è uno di quei sessantenni damerini dell’entourage di Bepy, che parlano con affettazione: un tipo che indossa gilè beige e scamosciate scarpe color miele, rigorosamente commissionate a Vogel. Uno con capelli candidi dagli argentei riflessi e signorili rughe sugli zigomi. Insomma, quel tipo di uomo che mi mette in un disagio increscioso, che mi si rivolge come se fossi adulto, simulando intimità che non dovrebbe consentirsi. Dover entrare da ospite – peggio: da intruso – in quella casa magnifica che ho visto solo di lontano, dover intrattenere quei due ragazzi che, chissà perché?, immagino molto più esperti, molto più spigliati di quanto io riuscirò a essere nel corso d’un’intera esistenza, acuisce il mio rancore contro i miei genitori. Ma non potevamo -andare in albergo? Ma non siamo sempre andati in albergo? Giacomo, dopo gli accenni di mio padre, lo imma-gino come un vanesio che mi disprezzerà a prima vista: romantico esteta del cupio dissolvi come tanti ne ho co-nosciuti. Ma sono soprattutto gli occhi della piccola a tormentarmi. Dove troverò il coraggio per incrociarli? Come potrò sostenere lo sguardo di quella deliziosa bambina che ha assistito al composito assortimento di gaffe da noi collezionate al funerale di Bepy? Che sa tutto di mio nonno e della mia famiglia? Che ha avuto modo di constatare la nostra penosa inferiorità? Come potrà un essere così poco rispettabile come il sottoscritto guadagnare la fiducia d’una ragazzina con cui è impossibile mentire? Fin qui la menzogna mi ha protetto. Ma ora? Come farò ora, senza le mie adorate bugie? Mi vedrò piombare in classe questa fanciulla, che, in un istante, distruggerà tutto quello per cui ho faticosamente lavorato, vedrò crollare di fronte ai miei poveri occhi l’incerta torre delle mie infinite mistificazioni.
Di lei, di Gaia, mi colpisce in modo misterioso la provenienza caprese. Che fa a Capri? Con chi sta? Inoltre trovo a dir poco allarmante che desideri tanto passare da una scuola femminile a una mista. Intraprendenza? Voglia di divertirsi o di conoscere il mondo? Di scaturire spumeggiante dall’alveo infiocchettato d’un istituto femminile per altoborghesi e versarsi nel mondo dei maschiacci straripanti testosterone? Tutto questo mi sembra terribilmente in contrasto con l’immagine luttuosa che conservo di lei. Mio padre l’ha chiamata “insofferenza”. E sebbene io abbia una pratica modesta e di seconda mano dell’infinito universo femminile così fascinosamente inconcepibile, come posso non constatare – se non altro tenendo conto delle mie ultime disavventure – che l’“insofferenza” è il difetto precipuo delle ragazzine? Ciò che rende la loro umana avventura molesta e imperscrutabile?
Ma soprattutto, che senso aveva quel viaggio? Dopo tutto ero appena rientrato. Avevo così tante cose a cui pensare. Così tante cose da tenere dentro da sentirmi esplodere. Ero un ragazzino debordante di novità emotive. Ecco il destino di quella lunga estate dell’Ottantaquattro: debordare di novità emotive. Mamma, papà, a cosa serve tutta questa nuova adrenalina in circolo? È tempo di decantare, piuttosto: starmene per conto mio, a decantare. Chiudermi in casa per due settimane almeno per decantare tutto quello che è accaduto. Ero ancora pieno dell’esperienza vissuta la notte prima, quella brevissima notte insonne nell’albergo londinese… Quella notte in cui ognuno ha cercato di esprimere quello che aveva dentro: espandersi oltre il limite consentito: sparare, come si suol dire, le ultime cartucce, prima che il lungo inverno fatto di divieti superegoici allungasse le sue mani minacciose sulla nostra vita.
Incombeva su di me ancora l’istante in cui, durante i bagordi con i quali avevamo devastato un alberghetto nel quartiere arabo di Londra, mio fratello era rientrato in camera alle due e mezzo del mattino, ansioso di rifarsi la valigia. Completamente sudato, i capelli in disordine e un vago sorriso inebetito che si sforzava di dissimulare ma che ogni tanto gli si scioglieva sul volto come avesse perso il controllo sui muscoli e sui nervi facciali, un lezzo di birra scadente che sembrava provenire dalla sua bocca e dai suoi vestiti e tanta concitazione. Sapevo, perché la cosa andava avanti da settimane, che flirtava con Syria, quella chiusa dagli occhi nocciola.
«Hai scopato?» gli avevo chiesto, fingendo che la cosa fosse normale e non mi provocasse alcun moto di stupefazione.
«No… o almeno, non credo.»
«Che vuol dire “non credo”?»
«Che se quello non era scopare ci siamo andati parecchio vicino.»
«Hai paccato, allora?» (Chissà perché gli adolescenti, nemici della vaghezza, sono così ossessionati dalla smania di catalogare qualsiasi cosa li riguardi, e soprattutto ciò che concerne il sesso.)
«Di più!»
«Cioè?…»
«Non so, Dani. Sono stravolto, e neanche mi è piaciuto troppo. All’inizio sì, poi però…»
E a quel punto aveva allungato la mano invitandomi a odorargli l’indice e il medio. Solo allora mi ero accorto che le sue dita erano tese, probabilmente sin da quando era entrato in stanza, come se fossero anchilosate o addirittura paralizzate. Intuendo qualcosa avevo avvicinato il naso a quelle dita con circospezione per ritrarmene istantaneamente disgustato.
«È quello che penso che sia?» gli avevo chiesto.
«Sì.»
«Le hai fatto un ditalino?»
Di nuovo un’ostentazione di proprietà terminologica: per questo mi era uscito quel “ditalino” che nel resto della vita sarei stato riluttante a utilizzare ancora in analoghe circostanze? D’altronde ero sconcertato, se non addirittura sconvolto, da quell’afrore che ricordava l’ammoniaca o gli attracchi al porticciolo di Ponza. Mi sembrava l’inizio di una nuova epoca. Una porta era stata sfondata. Il muro invalicabile era stato scalato. E tutto in una volta, con un’unica intensa inspirazione, il mio organismo era stato invaso da quel miasma che non l’avrebbe più abbandonato.
Questo un primo ricordo cui riflettere, cui abbandonarsi: qualcosa per cui ansimare convulsamente.
Ma non solo: tante piccole schegge emotive avevano dato alla mia vita di ragazzino una prospettiva più ampia. Solo poche sere prima in una discoteca per ragazzi in quel paesetto della Cornovaglia dai tramonti gelidi avevo ballato – proprio io avevo ballato: mi vedete a ballare? – con una ragazza più grande, una tedesca che ricordava vagamente Eva Braun, talmente alta che la mia testa era affondata nel suo teutonico e freschissimo décolleté. Eppoi l’aver visto mio fratello alla conquista di quella preda difficile, quella Syria, che aveva l’aria così elfica da far pensare a certe angeliche crocerossine della gioventù -hitleriana. Sì, in una stessa sera i due fratelli Sonnino, appena pubescenti, marchiati dalla loro genealogia di oculati pezzivendoli ebrei, sottoposti sin dalla nascita a una serrata propaganda antinazista (tanto che la loro correttissima madre si era rifiutata a più riprese di comprare i soldatini te-deschi, costringendoli a storiche perversioni come quella di schierare le armate americane contro quelle inglesi), se l’erano spassata rispettivamente con la sosia di Eva Braun e con una transfuga della gioventù -hitleriana. Ecco, tutto questo mi aveva fatto sognare un’alternativa, mi aveva fatto cogliere il significato di molte cose. Avevo bisogno di giorni per riprendermi. Avevo bisogno di perdermi nella nostalgia. Era questa la ricetta per tornare a vivere nella normalità. Era sempre stata questa. Non avevo bisogno di Positano, di Nanni Cittadini e di tutta la sua famiglia. Non avevo bisogno di rilanci emozionali, di perniciose code nevrotiche.
Avevo già tutto quello che potevo desiderare.
Parlo della miscela confusa ed esplosiva di pulsione erotica, amore per il nuovo, smania di riconoscimento sociale e affettivo e azione senza precisa finalità, che in uno strano meccanismo si trasforma in languore: palpito lungo una vita intera: La Più Grande Mistificazione Del Mondo, quella in cui tutti i quattordicenni incorrono: l’impressione che non esista altro di più urgente e di più essenziale di quel languore: quel ventre indolenzito, quell’inappetenza, torturante smania di dissimulare (nessuno deve sapere!), serafica vocazione all’Incorporeo… Di questo sto parlando.
Nient’altro che di questo: quella perdita di sé. Quello smarrimento del mondo che talvolta conduce il più grazioso e introverso degli adolescenti all’omicidio passionale solo perché non gli è stato insegnato ad accettare il rifiuto ingiusto e terribile oppostogli da una coetanea. No, non parlo di amore. Non quello vero. Parlo dell’atmosfera che lo favorisce: il liquido amniotico da cui presto o tardi sorgerà.
Disorientato e nostalgico. Consapevole di trovarti nel posto sbagliato. L’unica cosa di cui hai bisogno è chiuderti in una stanza. Chiuderti là dentro. Accendere la musica ad alto volume. Ancora meglio se metti su i Grandi Successi della tua epoca, quelli che hanno scandito le tue ore di libertà e di emancipazione. Quel cocktail britannico di Rod Stewart, Police, Phil Collins, Dire Straits, Eric Clapton: le isole che compongono il variegato arcipelago della tua immaginazione: il tuo pantheon generazionale… E trasvolare lontano. In Cornovaglia, e poi a Londra. Rimbalzare dalla Cornovaglia a Londra. E viceversa. Soffermarti a lungo su alcuni individui o anche su semplici espressioni facciali. Esumare il ricordo di quella strepitosa rovesciata che è valsa a tuo fratello l’applauso d’una platea di ragazze internazionali e che ti ha riempito il cuore di orgoglio. O il seno della tua Eva Braun. Fai rivivere quelle emozioni. Cullale dentro. Lascia che si dilatino al punto da prenderti tutto. Ecco quello che dovresti fare. Quel che senti di dover fare. Sei pronto? Sei pronto ad accogliere tutto? Sei spalancato, e amorfo? Pronto alla tempesta? Pronto al fragoroso terremoto?…
E mentre all’orizzonte si delineano i sinuosi tornanti della costiera, lussuosi manti di solaria e bougainville che tappezzano le pareti rocciose, mentre il fastoso presepe positanese appare improvvisamente alla tua sinistra, e sulla destra, grigio in tutto quell’azzurro, il profilo oblungo dell’isola di Nureyev promette mondanità o solitudine, ripeti a te stesso che qualcosa sta cambiando: irreparabilmente.
5 Un’euforizzante favola caravaggesca.
È così difficile fare quattrini? Esiste la ricetta per accumularne così tanti da averne la nausea? Qual è la strada che conduce un grossista di tessuti oculato e benestante a una ricchezza tale da essere al servizio di più generazioni?
Non si tratta delle farneticazioni d’un giovane broker di Wall Street interpretato da un novello Michael J. Fox nello scolorito revival di qualche pellicola anni Ottanta. Sono, semmai, le ossessive curiosità d’un tredicenne stregato dai fumetti dalla letteratura e dall’ipercompetitiva epoca in cui è capitato, che tende a collocare il proprio futuro di uomo nell’inebriante contesto d’un’America tutta cinematografica, e che, invece di destinare le proprie risorse fantastiche a sogni di gloria canonici, si fissa sui soldi, su tutto quello che significano e su tutto quello che possono comprare.
La storia dei soldi di Nanni Cittadini mi sembrava la cosa più avventurosa e sconvolgente che fosse mai accaduta a un individuo da me conosciuto. Temo di dover aggiungere che essa mi coinvolgeva morbosamente, in modo addirittura sinistro, proprio perché mi sembrava la contro-storia della mia famiglia: l’altra metà del cielo. Rappresentava l’alternativa dialettica al destino inglorioso di Bepy e di tutti noi. E il pregio di quella storia era tutto nella sua fumettistica inverosimiglianza: quei ragazzi che da un giorno all’altro si trovano depositari d’insperate fortune. No, a Nanni non era morta alcuna zia miliardaria, tanto meno aveva fatto la corsa all’oro nel Clondike. La sua storia era avvincente, ma aveva il pregio di non scantonare nel fantastico, sempre rientrando negli ambiti dell’inesauribile macchina narrativa che è il capitalismo novecentesco. Una di quelle storie capaci di trasformare un moccioso patito di computer nell’uomo più ricco del pianeta, o un giovane ebreo russo scampato allo stalinismo nel più importante produttore ci-nematografico di Hollywood. Una storia in fondo non troppo eroica, pur nella sua incredibilità, che colmava i miei sogni fino al più sofferto delirio. Raccontavo e riraccontavo a me stesso la storia dell’ascesa sociale di Nanni Cittadini con il -visionario entusiasmo con cui un mio coetaneo avrebbe naturalmente identificato la propria esistenza con quella d’un supereroe dei fumetti che corre a salvare la sua innamoratina dai capelli dorati. Ecco il mio segreto trastullo di tredicenne. Ma anche il mio calvario.
Tutto, per Nanni, era iniziato dall’ennesima sfida con Bepy: entrambi convinti di essere straordinari connaisseur di cose artistiche, avevano nutrito sin dagli anni della giovinezza un’agguerrita competizione attraverso un collezionismo dilettantesco e onnivoro. Mobili, quadri, sculture riempivano sia la grande casa di Nanni (tanto da conferirle un’aria frigida da sfigato museo di provincia), sia la luminosa dimora di Bepy, assai più culturalmente organica nelle scelte.
Un giorno, grazie a una conoscenza della moglie Sofia, principessa napoletana, Nanni mette le mani su due oscuri quadri fin lì attribuiti a un allievo di Luca Giordano. Li sottopone al suo ex socio (ormai lui e Bepy hanno già diviso da qualche tempo i loro destini), che quasi gli ride in faccia. Sono anni che fanno affari insieme, anni che comprano pezzi d’arte ad aste pubbliche e private. Ma Bepy non condivide quello che definisce lo “spirito da rigattiere” di Nanni, quel gusto dell’accumulazione senza qualità. Lui punta al pezzo pregiato. Eppoi ormai si è specializzato in quadri moderni. Insomma, alla fine Nanni acquista quelle due croste da solo perché Bepy non ha voluto metterci un soldo.
Nessun errore, tra i mille che d’ora in poi Bepy commetterà, fino alla rovina, avrà l’entità e il sapore beffardo di questo mancato acquisto.
E lo si capisce allorché Nanni, insospettito da una data dietro la tela non corrispondente al periodo in cui i due quadri devono essere stati eseguiti, li fa valutare, sottoponendoli a un esame radiologico dettagliato che dà risposte sorprendenti: dietro a quella monotona patina di vernice dormono da secoli stupendi contrasti cromatici attribuibili a una sola inconfondibile mano. È emozionante restaurarli: e addirittura sconvolgente vedere pian piano emergere dalle tenebre dell’oblio due meraviglie barocche. Se a Nanni basta l’impareggiabile luce dissotterrata dai restauratori per sentire l’esigenza di contattare il venerabile sir Denis Mahon, a questi basta trovarsi di fronte a quell’esplosione di energia violenta per emettere il suo entusiasmante responso: Michelangelo Merisi meglio noto come il Caravaggio, non c’è alcun dubbio! La successiva expertise di sir Denis Mahon fornisce dati più precisi: i dipinti sono databili approssimativamente tra il Milleseicentootto e il Milleseicentodieci, mister Cittadini, probabilmente eseguiti dal Merisi durante la sua ultima fuga, di ritorno dall’isola di Malta, prima di salpare per Civitavecchia, a pochi giorni dalla sua prematura morte. Il più grande e impegnativo è un’altra versione della Decapitazione di Oloferne, nella quale appare un autoritratto dell’artista: figura bieca e barbuta sullo sfondo, il cui ghigno truce sembra tagliato in due da un abbacinante bagliore. L’altro è un’Annunciazione piena di ripensamenti con una Madonna dall’aspetto torvo d’una Anna Magnani ante litteram e l’arcangelo simile a uno sgherro pasoliniano.
Così Nanni fa chiudere quei due vincenti biglietti della lotteria sotto forma di tele seicentesche nel caveau d’una banca e su di esse – sul loro valore e sul loro prestigio – -costruisce (come quel personaggio di Mark Twain posses-sore d’una banconota da un milione di sterline) la sua for-tuna.
Sì, grazie ai due dormienti Caravaggio – le cui copie d’autore ornano i due lati più visibili del salotto della sua nuova dimora – Nanni può finalmente intraprendere la professione sempre sognata. Così si getta sulle opere -d’arte, diventando in pochi anni il padreterno del mercato offshore di compravendite artistiche. Gestisce i propri affari attraverso conti disseminati in esotici paradisi fiscali, come l’Isola Margherita, le Cayman Islands, contemplando la leggiadra e miracolosa lievitazione del proprio patrimonio con uno stupore infantile. Tutto il resto –
dall’acquisto del casino sulla discesa di via Aldrovandi alla collezione di fuoriserie – non è che il logico effetto di quell’arricchimento repentino e inarrestabile. Arricchimento che – pur non inducendolo a disfarsi dell’ingrosso che in fondo gli ha garantito, sin lì, benessere e agiatezza, oltre alla possibilità di acquistare quelle due pitture fortunate – gli fa radicalmente mutare la sua opinione di sé e, in parte, il suo tenore di vita. Diciamo che non si sbarazza dell’ingrosso con lo spirito apotropaico d’uno Zio Paperone che conserva il primo dollaro guadagnato.
E il paragone non è affatto incongruo, né sacrilego: se non vi fidate chiedetelo a mio padre, che rievocava la saga di Nanni Cittadini con la verve e gli occhi scintillanti di chi narra un fumettone dallo strepitoso happyending. Amava mostrare i ritagli di giornali dell’epoca che magnificavano la fortuna di quell’improvvisato collezionista. Quel suo entusiasmo mi sembrava tanto più folle considerando che l’estemporanea buona sorte di Nanni aveva coinciso con il fallimento non meno estemporaneo di Bepy e che se solo quest’ultimo avesse accettato di partecipare all’affare dell’amico la sua intera esistenza (e la nostra!) sarebbe stata completamente diversa. Ma mi sembrava ancora più incredibile che il destino di molte persone potesse essere stato deciso da un po’ di vernice dispiegata con un pennello su una tela da un assassino straccione morto in circostanze misteriose quattrocento anni prima.
Ogni Natale mio padre comperava due bottiglie di whisky al malto torbatissimo – il solito Lagavulin invecchiato sedici anni, niente di che in fondo – da regalare a Nanni.
Era come la visita annuale a un santuario della Madonna: abitudine a metà tra la scaramanzia e il debito per grazia ricevuta. A quel tempo Nanni Cittadini era già per mio padre un mito incarnato.
Non so come il meccanismo dell’idolatria si fosse innescato in un uomo che amava or-gogliosamente professare il proprio laicismo illuminista. Bastava sentirlo parlare di Nanni per capire che quel compendio di aneddoti – troppo di sovente evocati con euforiche intonazioni –
equivalesse a un amore illimitato. Come se Luca Sonnino avesse reagito – non tanto alla morte di Bepy quanto agli ultimi infamanti anni della sua vita – piuttosto che con un legittimo scetticismo suffragato dall’esperienza e dalla delusione con la costituzione di un nuovo idolo inalterabile. Sì, proprio perché Bepy era stato per lui quel che pochi padri sanno essere per i figli – un modello ineguagliabile – ora sentiva il desiderio di trovarsene un altro.
Quando i miei si erano incontrati, mio padre era ancora completamente assorto nel sortilegio della filiale dedizione. Al punto che dopo il matrimonio l’incantesimo si era riversato sulle loro consuetudini coniugali. Nulla di quello che la giovane sposa facesse era in grado di rispondere a quel sacro modello di vita che Bepy aveva saputo fin lì tacitamente impersonare agli occhi del figlio. Ecco perché persino le prime avvisaglie del disastro finanziario di Bepy erano state accolte dal suo primogenito con indulgenza e ottimismo. Un passo falso. Solo un passo falso, in una vita esemplare. Ci voleva ben altro per decostruire quel sacrario di libertà e spregiudicatezza… Serviva tutto il resto, tutto quello che seguì il disastro – il pianto di Bepy, le sue bugie, la sua lagnosa e ricattatoria richiesta d’aiuto, l’incapacità di accettare la sopravvenuta indigenza, i piccoli inganni patetici, le truffe di basso cabotaggio, la fuga e il ritorno senza dignità – per disilludere il figlio in un modo drastico e definitivo. Solo allora, appena trentasettenne, con quella grande storia d’amore e delusione alle spalle, mio padre aveva sentito l’esigenza irresistibile d’inventarsi un altro eroe: meno pirotecnico forse, ma certo più stabile e promettente. Solo allora la smania di sostituire un’utopia con un’altra aveva preso forma nella figura snella e dinoccolata di Nanni Cittadini.
Ogni anno, dopo aver acquistato quelle due bottiglie, ci recavamo al consueto rendez-vous col vecchio Cittadini come due elegantissimi questuanti.
L’ingrosso di Nanni era un succedersi di tavolacci ingombri di rotoli e stoffa, ogni sbuffo d’aria proveniente dalla porta d’ingresso sollevava nubi di pulviscolo. Era un luogo squallido, da romanzo russo (ho conosciuto diversi miliardari nella vita, e una cosa l’ho appresa: hanno un’inclinazione alla pudicizia e alla sobrietà, non per stile, come danno a intendere, ma per suprema alterigia. Come a dire: Sono troppo ricco per avere la preoccupazione d’ostentare il mio denaro!). Le pareti minacciate da bigie isole d’umidità, poltrone sfondate, sedie mal foderate, un alberello di Natale stinto-grigiastro. I commessi indossavano lunghe palandrane marroni e avevano l’aria sfatta di chi è scontento della paga e del lavoro massacrante.
Ma ecco Nanni emergere da una nebbia di cobalto e concedersi temporaneamente a noi: anche i capelli dai riflessi turchini e gli occhi, persino l’epidermide, se ben si guarda, fanno pensare al cielo: il tutto condito dal cardigan d’un mélange azzurrato che preme un po’ troppo sullo stomaco sporgente. Mistica visione. L’arcangelo Gabriele in corpore vivi:
«Mi dispiace avervi fatto aspettare… Oh, ma ecco il mio globetrotter e il suo piccolo scudiero!»
A Nanni piaceva alludere al nomadismo di mio padre. Era una cosa che lo divertiva. O forse un modo per ricordarci che quel lavoro, esteso e incrementato dagli anni e dall’indubbio talento di mio padre fino a garantirci una nuova, insperata agiatezza, era stata una sua idea, che senza il suo apporto logistico ed economico non si sarebbe mai potuta realizzare. Ci teneva a sottolineare che era stato lui, Nanni Cittadini, stimando le capacità e la cultura di mio padre, la sua attitudine al cosmopolitismo, a promuoverlo presso quei clienti di Manchester e quella signora di Pechino. Era stato lui ad aver trasformato il viziato figlio d’un ex grossista con l’acqua alla gola in uno dei più rispettati manager del settore.
A Nanni, inoltre, piaceva servirsi di espressioni teatrali e fintamente simpatiche. Doveva trovare irresistibile il contrasto tra la mestizia di quell’ambiente e un modo parodisticamente forbito di parlare.
A Nanni piaceva tributarci onori che non meritavamo così come gli sarebbe spiaciuto tributarceli se solo ce li fossimo meritati.
Nanni mostrava un affetto per mio padre così esibito che la gente arrivava a commuoversi.
Ciononostante il vecchio Cittadini, coi pullover di cachemire a collo alto, l’affettazione d’austerità, la collezione di fuoriserie celebrata da una grande foto sulla parete, mi sta sulle palle. E il fatto curioso è che i motivi della mia precoce ostilità coincidono con le opposte ragioni paterne. Luca Sonnino è ben contento che un uomo ci sovrasti: più ricco, felice, raffinato di noi. Anzi è lusingato che un individuo simile ci si conceda con affettuoso trasporto. Non gli fa orrore entrare in quell’ingrosso che un tempo gli apparteneva. Non è diventato pazzo all’idea che se solo quello sfigato di Bepy avesse versato il suo piccolo obolo per l’acquisto di quelle due tele tutto sarebbe stato diverso. Non gli fa quasi effetto il pensiero – così ossessionante per me – che non c’è niente di più terribile che lambire la fortuna, sfiorarla con le dita in un modo vertiginoso, per vedersela svaporare di fronte agli occhi. So di sbagliare: dovrei essere grato a Nanni. Non è forse lui la Grigia Eminenza del nostro riscatto? Ma a otto anni – così come a nove e a dieci e via di seguito… – si avrà pure diritto all’ingratitudine. Non posso impedirmi di detestarlo con la cordialità cui mi vincolano la condizione di figlio d’un beneficato e la buona educazione. Così come non so liberarmi dall’impressione – certo incongrua – che a Nanni basti premere un tasto rosso, come a Goldfinger nel famoso film con Sean Connery, per distruggere la mia famiglia. Non solo odio l’aria paternalista di Nanni, ma non sopporto che mio padre non sappia condividere la mia acredine.
Dentro una voce sussurra che Nanni ci ha aiutato – ma lo ha fatto realmente? – solo per concedersi una simile, offensiva condiscendenza. Nessuno dà niente per niente. Esattamente quello che mio padre non comprende. Perché, papà, ti fai trattare così da quest’insopportabile arrogante? Possibile che tu non veda ciò che a me sembra così palese?
La verità, follemente elusa da mio padre, è che Nanni non ha mai smesso di odiare Bepy. E che quell’odio è sopravvissuto perfino all’indecorosa morte del rivale.
La storia è nota a tutti: Bepy è ancora un entusiasta, aitante balilla, quando incontra per la prima volta Giovanni, un delicato biondino. Tra loro non c’è gran simpatia. Non almeno quella che ci s’aspetterebbe valutando il prosieguo della loro amicizia. I contrasti caratteriali, gli stessi che in seguito decideranno della loro sorte in modo così crudele, si manifestano nell’irritazione prodotta in Nanni dalle spacconerie del futuro socio. E Bepy, d’altronde, è troppo preso dalle sue cose per dare importanza a quel ragazzino silenzioso e in disparte. E tuttavia è come se entrambi intravvedessero nell’amico l’altra metà del cielo.
Così dopo la guerra aprono il primo ingrosso di tessuti, la Solemex, il più grande, il più celebre.
Noti nell’ambiente come “Ugo e Raimondo” per la somiglianza con Tognazzi e Vianello. Stessa miscela dirompente. Da una parte Nanni, spilungone mieloso e magrolino, tutto colli inamidati e humour britannico (quello che non fa ridere i britannici da un paio di secoli); dall’altra Bepy: bassetto, virile, galante, erotomane, abbronzatissimo, d’appetiti pantagruelici.
Ne fanno di quattrini, in quegli anni. Coppia diabolica. Oliata macchina commerciale. Bepy è un compratore talentuoso e un venditore irresistibile, sembra il gagliardo interprete di certi film sul boom economico. Nanni, con la sua laurea in Ingegneria, è un contabile di solerzia e rigore esemplari. Ormai la Solemex è considerata a buon diritto l’ingrosso più importante dell’Italia centrale.
Alla fine degli anni Sessanta, Nanni capisce che qualcosa non funziona più. Intuisce che il periodo eroico-pionieristico dei due giovani soci è finito. Sente odore di recessione. E poi teme il delirio d’onnipotenza del socio: Bepy ha perso il senso della realtà, come avesse dimenticato che il fine d’un esercizio commerciale è fare soldi, non impartire lezioni di bravura o di stile. Inoltre Bepy, per finanziare i lussi sfrenati della sua famiglia (feste, automobili, servitù, villeggiature, abiti e gioielli) attinge alla cassa senza ritegno. Compra, compra, senza verificare la propria solvibilità, incurante della propria situazione bancaria, come avesse un fido illimitato. Nanni è impaurito e irritato. Lui, al contrario di Bepy, ha il culto dell’accumulazione: negli anni ha capitalizzato in modo eccellente, investendo e diversificando le proprie attività: edilizia, buoni del tesoro, collezioni d’arte, prestiti di danaro: soldi veri, mica cartapesta. Oculatezza e speculazione: ecco i Santi Protettori che assistono quell’avveduto gagà. Così inizia a elaborare l’idea d’una divisione, con un insinuante retropensiero: Bepy non gli serve più. Anzi lo danneggia, è sempre più chiacchierato. Nanni è scaltro: non avrà il sublime talento del socio, il naso infallibile nel comprare e nel vendere, ma ormai ha imparato, attinto, sa muoversi. Bepy inopinatamente si mostra tutt’altro che riluttante, ben venga il divorzio.
Anche lui negli ultimi anni ha patito la codardia del socio, è esasperato dalle sue prediche apocalittiche. Una zavorra: ecco cosa pensa Bepy di Nanni. Una zavorra al suo tentativo di spiccare il volo, per il miracolo definitivo: una ricchezza piena e inestinguibile, come quella di certi industriali del Nord che ormai lo trattano da pari a pari, fino a invitarlo tutte le estati nei loro rigogliosi declinanti boschetti di Stresa e Bellagio, nei quali Ada Sonnino si presenta come una corvina statua scolpita da Capucci.
Poi, un giorno, tutto precipita, grazie a un incidente che non ha alcuna attinenza con l’ingrosso.
Quel giorno Bepy chiede a Nanni un aiuto: dovrebbe telefonare a Ada, dirle che stasera il marito farà tardi in ufficio con lui, devono lavorare: spesso i due soci si sostengono in queste cose, ognuno chiamando la moglie dell’altro. Bepy però stavolta è stato evasivo. Alle domande del socio ha risposto d’aver trovato una donna splendida, un osso duro, ma nessun dettaglio. Abitualmente è più generoso di particolari, proprio perché in lui il divertimento adulterino non è mai disgiunto dalla teatralità baldanzosa nell’esprimerlo, e nel trasformarlo in pubblica vanteria.
Nanni se ne scorda quasi, finché, rincasando, è sorpreso dall’anomala assenza della moglie. La sorpresa si trasforma in ansia, e l’ansia in sospetto terribile: che quella donna splendida, l’osso duro cui Bepy ha accennato, possa essere sua moglie Sofia. Perché stupirsi? Sarebbe tipico di Bepy.
Adora queste bravate. Sì, tipico. Quante volte ha commesso simili soverchierie, per poi riderne in compagnia? In cosa consiste il godimento? Semplice: Bepy fa -telefonare il socio a sua moglie per essere libero da ogni impaccio, e nel frattempo prepara il suo piccolo pied-à-terre-zebrato-con-luci-suadenti per accogliere Sofia, e scoparsela in un tripudio di sapori diversi. «Dov’è la signora?»
chiede Nanni con voce angosciata alla cameriera. «La principessa ha telefonato, andava a cena con un’amica… Mi ha detto di prepararle il passato di verdure, ingegnere…» Nanni è fuori di sé. Che fare? Che pensare? È una condizione inedita e fastidiosa. Di solito non solo lui sa cosa pensare, ha il pieno controllo della situazione, ma difficilmente si lascia traversare da sfibranti inquietudini.
Vorrebbe rintracciare la moglie. Ma dove? «La signora non ha detto con chi cenava?» chiede ancora con finta distrazione da dietro il giornale. «No, ingegnere. Ha detto solo di non aspettarla per cena…» Andare là, nel pieno della notte? Appostarsi sotto l’alcova del socio? Mai Bepy gli è parso così disgustoso. Ai suoi occhi in questo preciso istante Bepy è un monumento dedicato alla doppiezza. Aspettarli all’addiaccio, come qualsiasi oleografico cornuto che si rispetti? No, Nanni è un freddo, ama esibire lucidità e compassatezza. Non farà nulla. Soffrirà in silenzio. Attenderà il ritorno a casa di Sofia. E proverà a capire, senza estorcerle niente.
Suvvia Nanni, stai tranquillo: Sofia non è quel tipo di donna, poi ha sempre disprezzato Bepy.
Dimentichi? Il tuo fiorellino adorato è un’antisemita convinta e inamovibile, lo è per cultura e tradizione familiare. I suoi porporati trisavoli avrebbero avuto potere di vita o di morte sui trisavoli con zucchetto di Bepy. E allora? Puoi stare tranquillo. Ma tu, allo stesso tempo, hai imparato che una cosa è quel che Sofia dice ufficialmente di pensare, un’altra è il fascino per l’esotico che troppo spesso, con scatti improvvisi e insospettabili, sembra affiorare dalle fibre della tua languida gattina, come il trip d’una segreta perversione che ti lascia sempre esterrefatto. Chi ti garantisce che nell’inaccessibile, muliebre immaginario di Sofia, nel chiuso della sua coscienza di femmina, Bepy non rappresenti proprio la quintessenza del maschio? Sofia a letto è una fuoriclasse, una furia: calda e disinibita. Tu non l’hai mai soddisfatta pienamente. Non raccontarti cazzate, Nanni. È così. È il tuo castigo inconfessabile. Sembra che il corpo di lei, abitualmente irrigidito dall’aplomb aristocratico, nell’intimità sessuale si sciolga voluttuosamente. La temperatura si alza e lei si squaglia come fosse argilla. Questo non puoi scordarlo, né sottovalutarlo. La cosa che invidi a Bepy è l’inarrestabile, famigerato appetito sessuale. Il suo priapismo convulso e compulsivo. È uno dei pochi uomini che non conoscono il sollievo postorgasmico. E, d’altronde, è dai tempi del liceo che Bepy prova un illecito piacere nel rubarti le ragazze: deve essere una recrudescenza di revanscismo ebraico. («Mi sono scopato l’ennesima chiusa con la puzza sotto al naso! E per di più rubandola a quell’incapace!» È così che si esprime Bepy, con questa volgarità, con questo razzismo esplicito.) Almeno così l’hai sempre pensata. Da ragazzo eri tu il bello, l’efebico conquistatore, ma quanta selvaggina fresca o stagionata, da allora, è transitata, per fugaci o lunghi periodi, nel letto di Bepy, a sovvertire quella tendenza! Bepy, ormai, può arrivare ovunque. Non teme niente. Non ha dignità da difendere. Anche di recente ti ha soffiato Giorgia, la giovanissima modista dell’ingrosso. Tu l’hai corteggiata allo spasmo e lui se l’è scopata! Tu ne eri quasi innamorato e lui se l’è scopata.
Nanni non vuole precipitare le cose. Né fare scenate. Ama troppo sua moglie. Come ha potuto quel bastardo, anche con sua moglie? “Un osso duro”, così l’ha definita. Sofia un osso duro, come fosse una troietta d’alto bordo.
Quando Sofia rientra in un ritardo sospetto, soavemente avvolta nel suo collo di visone, Nanni l’attende a letto. La sente muoversi con circospezione, vede la luce accendersi nell’anticamera, eppoi il riflesso incandescente delle perle, o dei denti forse. Mi basterà uno sguardo per capire.
Quando Sofia entra, lo bacia con troppa foga. Nanni ha l’impressione che i gesti della moglie tradiscano un morbido languore, che lei nasconda il sorriso. D’un tratto una fitta a trafiggergli lo sterno. Sofia è bella e colorita come certe donne che hanno fatto l’amore. Non potrai mai avere la controprova. Non troverai mai il coraggio di sottoporla alla trivialità d’un serrato interrogatorio. Lei impiega un attimo ad addormentarsi, mentre il marito cuoce nel suo calderone stracolmo di domande insolubilmente strazianti.
Alla fine degli anni Settanta la divisione è inevitabile. Nanni è scostante, non sopporta neppure la vista del socio. Non gliel’ha perdonata. Ogni gesto di Bepy gli suscita irritazione. Gli ripugna anche la bizantina vezzosità nel vestire e nel parlare. Talvolta si perde nel piccolo baratro nero che si apre tra un incisivo e l’altro di Bepy. Sente montare l’odio al pensiero che la sua Sofia possa aver incontrato con tremore la bocca di quello pseudo-Clark Gable da strapazzo (Bepy è lusingato da tale aleatoria somiglianza). Nanni si rende conto d’averlo sempre detestato, sin dai tempi del liceo.
Comprende d’averlo seguito fin lì proprio in ragione di quell’odio. Sì, ha sempre odiato (o invidiato?) la sua sfrontatezza, l’insolenza, l’amoralità, tante altre cose ancora. Così decide di interrompere quel sodalizio trentennale, chiudendo anche una delle esperienze di commercio tessile più riuscite e floride del dopoguerra romano. L’avventura di “Ugo e Raimondo” è al capolinea.
Ognuno sceglierà il proprio destino in piena autonomia.
S’accordano da veri gentiluomini. Nanni è disposto a liquidarlo profumatamente. In cambio si tiene il vecchio locale in via Caetani e soprattutto il nome della ditta. La Solemex è roba sua, oramai.
Nonno apre un altro ingrosso. Ha sempre odiato le cose vecchie, le tradizioni: è un tipo moderno.
Ha soldi da investire. Al principio gli affari sembrano lievitare con una facilità impressionante, per poi improvvisamente sgonfiarsi, esponendolo alla volubilità di mille speculatori senza scrupoli, proprio quelli da cui per tutta una vita lo aveva protetto il suo assennato socio.
Quando Bepy fallisce, Nanni, che con lui oramai condivide solo qualche piccolo inessenziale negozietto, viene lambito appena dall’alito di quel disastro. Ci rimetterà solo qualche spicciolo, che il tempo e il gossip penseranno a trasfigurare in cifra iperbolica, circonfondendo la sua figura d’un’incongrua aura di generosità. Nanni è pronto alla santità tanto quanto Bepy è impreparato all’inferno. Nanni è solido, non teme niente e nessuno, ormai il grosso è al sicuro, Caravaggio gli ha cambiato la vita e Sofia è al suo fianco.
«Wow, che loden, ragazzi!» esclama Nanni, durante una di quelle visite natalizie, palpando con gesto semiprofessionale la manica del cappotto di mio padre, per poi volgersi a me che sono uno sparuto scricciolo con gli occhiali e chiedermi con un sorriso condiscendente:
«Come ci si sente ad avere il papà più elegante di Roma?»
Ecco cosa intendo!
In questa frase è impressa l’inconfondibile griffe Sonnino – uno dei pezzi migliori del polimorfo repertorio di Bepy – mediata dall’impennacchiata rigidezza di Nanni. Sono abbastanza grande per non lasciarmi abbindolare: è così evidente che Nanni ha filtrato certe affettazioni dal suo ex socio!
Così come appare lampante che non possiede lo stesso tocco leggiadro, non è altrettanto credibile.
Sconta l’inautenticità dell’apocrifo. Pur fidando in se stesso, Nanni resta sempre l’uomo ingessato da Bepy sfottuto con grazia sprezzante. Adesso, caro Nanni, gioca pure a fare il grand’uomo, migliaia di chilometri distante dal tuo ex socio, che, nel frattempo, espia la sua oltreoceanica condanna. Ma lo sappiamo tutti che sei solo un replicante, un attore da avanspettacolo. Houdini è lontano, e tu te la spassi alle sue spalle, snaturando maldestramente i suoi trucchi.
Ma quel complimentoso interrogativo rivoltomi da Nanni – “Come ci si sente ad avere il papà più elegante di Roma?” – delizia letteralmente mio padre. Vedo quel biondo omone sciogliersi come una verginella. Come fa a non capire che quelle parole nascondono l’ironico dissenso d’un miliardario nei confronti del figlio d’un fallito, che nonostante tutto, appena rialzata la testa, piuttosto che risparmiare persevera nell’acquisto di capi costosi? O la mia è solo infantile paranoia?
Perché mio padre – pur sapendo che il vecchio Cittadini conosce nei dettagli la nostra situazione: l’eredità di Bepy fatta di scoperti bancari, l’orgia di famelici creditori, le corse di mia madre a cambiare assegni a destra e a manca – si presenta a lui indossando quel meraviglioso cappotto di loden e il cappello verde a larghe falde che non sfigurerebbe a Saint Moritz? Non teme le spacconerie? Non vuole che l’aspetto corrisponda al conto in banca? O forse questa è un’idea che solo il figlio di quella nevrotica pauperista di mia madre avrebbe potuto concepire? Forse mi sentirei meno a disagio presentandomi al cospetto di Nanni vestito come un figlio del popolo: stinti pantaloni di velluto e sdrucito pullover bordò. Allora forse non avvertirei questo sfasamento angoscioso. Allora forse non avrei difficoltà a riconoscermi in un ruolo prestabilito e a comportarmi di conseguenza. Ma così l’aria è viziata. Tutto è ammantato dall’ipocrisia e dal vuoto oscuro del non-detto. Anche perché c’è una cosa che non riesco a ricordare senza ambascia, per tutte le successive, impensabili implicazioni. È come mettere della carta stagnola su un dente cariato. Da saltare sulla sedia per il dolore. Ogni anno il vecchio Cittadini mi snocciola la solita filastrocca:
«Ehi, Daniel, è vero che adori sciare? Dice tuo padre che sei uno sciatore coi fiocchi! Che ne dici di venire con noi a Cortina? Ci sono i miei nipotini.»
«Perché no, Daniel? Ringrazia Nanni, da bravo…» sorride il più inconsapevole, puro, cieco padre che abbia mai calcato le scene della paternità.
Non c’è altro da fare che sorridere a mia volta. Sia io sia Nanni sappiamo che si tratta d’un convenevole, non c’è niente dietro. Insomma lui m’invita fidando nel mio diniego, così come – dal canto mio – fingo di titubare in studiata meditazione, sapendo di non poter accettare. L’unico che sembra ignorare la mondana squisitezza, nel suo candore, è mio padre. Sembra che lui non comprenda le ragioni per cui non potrò mai accogliere l’invito di Nanni. Inutile spiegarlo. Non capirebbe. Se ci provassi, alzerebbe le spalle, andrebbe su tutte le furie, fino a darmi del visionario o del fissato. E non saprei come replicare perché in effetti il modo di Nanni di tenerci a distanza non è schietto: semmai è rifiuto sotterraneo, inafferrabile, che miscela un po’ di spregio antisemita, riprovazione per lo sfoggio volgarotto di lussi traballanti e superiore coscienza di classe.
Forse Nanni apprezza mio padre proprio perché gli sembra che in lui il giudaismo prenda forma in un modo diverso: raffinata nevrastenia, deviazione genetica alla Warburg o alla Rothschild? O
forse il soccorso prestato a mio padre boccheggiante è l’obolo versato per i peccati commessi dalla sua coscienza contro il popolo ebraico? Lui è uno di quei chiusi che, messi di fronte all’evidenza del proprio pregiudizio, si schermiscono con la solita formula: “Ma su, che ho più amici ebrei che gentili…”. Il che è certamente vero, ma denota una forma d’esibizionismo filoebraico, anticamera dell’odio razziale. Si tratta di quegli antisemiti che hanno scelto di vivere in mezzo agli ebrei, con lo spirito d’uno zoologo che studia le belve feroci dell’Africa nera, senza mai dimenticare il fucile.
In lui affezione e cautela si confondono in una pasta grigia. Che avesse ragione Himmler quando rimproverava i suoi compatrioti di mancanza di senso della Storia, di bieco personalismo? «Tutti abbiamo un amico ebreo che vorremmo salvare… Bisogna pensare in grande!» diceva ai suoi uomini quel fiero, insaziabile stragista. Per Nanni, forse, mio padre, così elegante e perbene, così leale e limpido, era solo l’ebreo che faceva eccezione, così come lo scaltro e truffaldino Bepy era quello che aveva confermato, almeno ai suoi occhi, la regola. E d’altronde l’indulgenza di mio padre per gli antisemiti aveva qualcosa di anacronisticamente orientale.
È per questo che mio padre non comprende le mie ragioni. Sì, è splendido andare a Cortina.
Splendido sciare il giorno di Capodanno. E che sogno incantevole se i “nipotini” di Nanni sono quei due eterei angioletti incorniciati nella foto sopra la scrivania del nonno! Ma quale peso accompagnarsi a questa gente che conosce la penuria donde provengo: mi tratteranno sempre con distacco. Se in certi ambienti gli ebrei ricchi vengono accolti a stento, quelli in miseria non potrebbero neanche figurare tra i domestici. Non so se m’intendete. E Nanni, d’altronde, corrisponde alla precisa fisionomia dell’antisemita represso. Forse ha sposato un’Altavilla, sì, una principessa, efebica e azzurrata come lui, questo topazio napoletano che risplende nella sua dimora sontuosa, solo per difendersi dall’attacco sferrato dalla pletora crespa che frequenta – per lucrosi motivi – sin dai primi anni della sua vita. Nanni usa la principessa consorte come antidoto contro gli ebrei? È questo che fa? Lei è il salvagente in quel mare infestato di pescecani? Il salvacondotto per quell’high society che lo ha sempre ossessionato? Via, passiamo pure la giornata a contrattare con gli Shylock ruvidi e furbastri di piazza Giudia, o con quelli bizantini del mercato artistico londinese, o con quelli spietati dell’alta finanza ginevrina, ma che bello tornare a casa – caldo confetto liberty nel cuore ocra-verdeggiante di Roma – e trovare ad attenderti il sorriso di marmo mille volte celebrato dalle copertine delle riviste vip della tua Fifi (così i suoi amici la chiamano, così a te piace chiamarla, con il labbro inferiore che ti sfiora gli incisivi in un modo sensualmente sincopato): sì, perché la principessa, da quando è tornata a essere sfacciatamente ricca, si compiace di farsi fotografare al fianco del marito, dei nipotini e d’un tediatissimo mastodontico alano… È la sua innocua vanità. Sofia è una vera presenzialista dei rotocalchi patinati, prima donna del gossip mondano. La intervistano sempre a Natale nel salottone stile Impero, dove alcuni pezzi prestigiosissimi superstiti dello scialo delle fortune Altavilla convivono con i nuovi acquisti di Nanni. Qualsiasi sfaccendata signora che vada dal parrucchiere a cercare se stessa può godere dei consigli assennati di Fifi Altavilla (non se l’è sentita di sbarazzarsi del cognome di signorina, semmai è il marito che talvolta ama gratificarsi con quello della moglie) su come apparecchiare la tavola a Capodanno o come accogliere un ospite importante. La principessa sfoggia un raffinato buon senso e illustra, come fosse un pezzo d’antiquariato, l’armonia familiare che lei e il suo ricco sposo hanno saputo così naturalmente instaurare. Lei è una di quelle nobildonne senza garbo che hanno azzerato i debiti di dieci generazioni di sperperi principeschi con un matrimonio che alla fine si è rivelato convenientissimo. Lei ha avuto la lungimiranza di puntare sul cavallo giusto. È stato un incontro miracoloso: Nanni, proveniente da un ambiente medio borghese di tradizione monarchica (nel Quarantasei, nonostante la pessima prova offerta dai Savoia nel ventennio fascista, votò contro la Repubblica), un giorno, durante una caccia al cinghiale nell’anglosassone campagna a nord di Roma organizzata da qualche latifondista morente, s’imbatte nella giovane Sofia, erede d’una fortuna terriera e immobiliare minacciata da un numero cospicuo d’ipoteche. S’innamorano sinceramente. Capita quando ciascuno possiede ciò che l’altro desidera ardentemente. Matrimonio fastoso, ma vita austera, secondo le ferree convinzioni di Nanni. Finché, dopo l’improvviso arricchimento, la vita cambia di sapore e di ritmo. Da allora lei impiega il tempo in svagate beneficenze, anacronistici mecenatismi a favore di ritrattisti squattrinati o promettenti stilisti, o altrimenti impartendo, a pagamento, lezioni di bon ton: ha aperto una scuola che si propone d’insegnare alle domestiche della buona borghesia come apparecchiare e servire in tavola. Nanni adora la moglie, non le fa mancare niente, striscia ai suoi piedi – questa la sua unica fragilità –, per il resto è una vipera con la calcolatrice.
Ma che c’entra con questo edificante ritratto la morte di Riccardo, il loro unico figlio? Come è possibile che se sai così bene organizzare la tua vita, se hai un pieno controllo su di essa al punto da porre le tre forchette sempre a sinistra, il cucchiaio sempre vicino al coltello e, per carità, mai la salvietta sul piatto… Com’è possibile se hai impresso un ordine cartesiano alla tua esistenza, corredandola di tutte le consuetudini amorevoli che alla fine la trasformano in un affare così piacevole, che tuo figlio, per tutta risposta, si ammazzi? E non si sta parlando d’un figlio sbalestrato, d’uno scavezzacollo con la mania di produrre problemi all’ingrosso. Non si allude all’ex adolescente ipercritico o depresso, il solito ragazzo incazzato degli -anni Sessanta. Ma del figlio ideale, quello che hai creato - A Tua Immagine E Somiglianza, epurandolo della tua asprezza piccolo borghese, il rampollo che ti serve a conferire ulteriore lustro alla tua vita. Un Nanni Cittadini smussato nei suoi spigoli di diffidenza e filisteismo. Parliamo del figlio che non ha dato grattacapi, del figlio brillantemente laureato in Architettura, lo spericolato sciatore, il tennista leggiadro, il fantino impeccabile, due volte campione al torneo “Cortina winter polo”, cui hai imposto l’ennesima moglie titolata e indigente, che ha messo al mondo due irresistibili angioletti e che soprattutto non ti ha mai mancato di rispetto. Se c’è qualcosa che non andava – ma è un pensiero retrospettivo, un pensiero di chi sa come le cose sono finite, una riflessione fuori tempo massimo da psicologa di talk show che ti viene in soccorso solo adesso, una perversità ideologica di quest’epoca perversa – era proprio l’eccessivo rispetto del tuo Ricky. C’è tanta gente che si ammazza per i più svariati motivi. Tanta gente che s’ammazza perché non ha combinato nulla di buono o perché non potrà mai raggiungere ciò che considera un livello accettabile di vita. Temo che Riccardo Cittadini appartenga al clan di quelli che si sparano perché hanno fatto le cose troppo per bene. Una di quelle concave personalità abilmente manipolate, programmate a dire sempre di sì. Sì a un assurdo matrimonio con un’aristocratica cacciatrice di patrimoni. Sì a due figli che lo hanno definitivamente incastrato. Sì persino alla proposta di lavorare sotto il controllo autoritario del padre, frustrando la vocazione all’architettura. («Vuoi fare il tecnico? Vuoi lavorare per gli altri? Vuoi essere un dipendente? È questo quello che vuoi? Se è questa la tua più alta aspirazione, accomodati» gli ha detto Nanni con sprezzo.)
Allora non era forse naturale che Ricky, senza preavviso, senza dare segni significativi, senza perdere il buon umore, sull’onda d’una frenesia libertaria, scrivesse un cubitale e definitivo NO, sparandosi in bocca in un giorno qualsiasi della settimana?
Eppure c’è un elemento di questa vicenda che Nanni non riesce a dimenticare. Ricky, poco prima di spararsi, aveva avuto una storiella extraconiugale. Nel suo sentimentalismo, l’aveva presa sin troppo seriamente. Al punto da mettere in discussione il suo matrimonio. E pensare che Chiara, quella puttanella, era stato Nanni ad assumerla! E si era reso conto immediatamente che tra lei e suo figlio stava nascendo quella complicità che talvolta si instaura tra le commesse e i figli dei titolari. Aveva lasciato fare. Sapeva come andavano certe cose. Finché un giorno Ricky aveva trovato il coraggio e si era presentato tremante al cospetto del padre per comunicargli le sue intenzioni: divorziare e risposarsi con Chiara. «Non se ne parla neanche!» aveva risposto Nanni gelido, sprezzante, ma non per questo meno preoccupato. Ricky era rimasto a bocca aperta, non era riuscito a replicare, non aveva trovato il coraggio di contraddire il padre, di difendere la propria posizione, il proprio amore: era, come si suol dire, imploso.
Nanni ricordava anche che, prima di licenziare quella ragazza, aveva sentito l’esigenza di consultarsi con Bepy. Sebbene Nanni avesse sempre trovato insopportabile l’ascendente esercitato da Bepy su Riccardo, aveva pensato che stavolta avrebbe potuto utilizzare tale influenza per un alto scopo.
E cosa si era sentito rispondere da Bepy?
«Ma dai, non esagerare. Se tuo figlio non vuole stare più con la moglie perché lo devi costringere?
Non forzare la mano con quel ragazzo! È molto più fragile di quanto credi. Non immagini quanto possano essere suscettibili i figli normali. Sono loro quelli davvero imprevedibili. Te lo dico per esperienza personale. Ti sembrerà una stronzata, ma ti assicuro che i figli che nascondono la propria vulnerabilità dietro a una facciata di letizia sono i più determinati: sono loro che, alla fine, compiono gesti inimmaginabili e spettacolari. Guarda Teo! Se qualcuno mi avesse detto che Teo…
Sì, insomma, hai capito… Io non c’avrei creduto… Ma allo stesso tempo ti invito a non drammatizzare. In fondo quello di tuo figlio e di tua nuora non mi è mai sembrato un grande amore.
Non sarà una tragedia per nessuno, mio caro. E va bene, sì, ci sono dei figli di mezzo, ma non mi pare che la signora sia la mamma ideale. Sono cose che capitano. Vedrai che quando tutto sarà passato starete tutti meglio e non proverete alcun risentimento particolare. Questo è un modo sano e laico di vedere le cose, tesoro mio. Eppoi perché devi sempre pensare male? Può essere che la ragazzina lo ami veramente, che stavolta i soldi non c’entrino…» gli aveva detto Bepy con la faciloneria, la franchezza e il cinismo che metteva solo nei colloqui con i suoi intimi, destinando le famigerate ipocrisie al resto del mondo.
Per Dio, è facile fare il liberale con i figli degli altri. Ma vorrei vedere lui al mio posto, aveva pensato Nanni con odio, pentendosi di aver dato per l’ennesima volta occasione a quel pallone gonfiato di mettere in mostra la sua superiorità. Che ipocrita! Lui che ha fatto tutto quel casino solo perché Teo è andato a vivere a Tel Aviv, adesso osa farmi la lezione.
Solo ora gli veniva in mente che il feeling stabilitosi immediatamente (per un’elezione quasi epidermica) tra Bepy e Riccardo poteva dipendere da una contiguità caratteriale: erano due smidollati, che non sapevano cosa volesse dire rispettare un impegno, due egoisti senza scrupoli pronti a mandare tutto a rotoli pur di non rinunciare al proprio benessere contingente. E ora un interrogativo gli bruciava: era stata l’assimilazione interiore che aveva fatto tra Bepy e Ricky a spingerlo a quella esemplare severità? Quindi era come se avesse voluto punire Bepy tramite Ricky, o viceversa: così era andata: solo a quel punto, infatti, e senza esitazioni, aveva offerto i soldi a Chiara, esultando nel constatare che lei non aspettava altro che intascare l’assegno e scomparire. Tutto sembrava essere ormai dimenticato quando quello sparo improvviso aveva cambiato – per sempre – la sua vita. E pur sentendo l’iniquità d’una simile posizione, Nanni non era riuscito a disgiungere la morte del figlio dal plagio caratteriale di cui questi era stato fatto oggetto da parte di quel mefistofelico corruttore di Bepy. Possibile che solo ora – dopo che tutto era concluso – gli tornassero in mente le parole di Bepy? “I figli che nascondono la propria vulnerabilità dietro a una facciata di letizia sono i più determinati: sono loro che, alla fine, compiono gesti inimmaginabili e spettacolari.” Possibile che allora le avesse prese sottogamba?
Nanni ripensava a quelle parole come il padre di un condannato a morte rievoca ossessivamente le formule burocratiche con cui un giudice ha proclamato la fine di suo figlio. Proprio così: le parole –
che Bepy aveva pronunciato col suo tono proverbialmente lieve – risuonavano nella mente di Nanni come una sentenza di morte! Così Nanni aveva sentito l’irresistibile esigenza di persuadersi che il suo ex-socio fosse responsabile della morte di Ricky, sebbene stavolta il povero Bepy non avesse alcuna colpa. Per Nanni era evidente che Bepy aveva avuto la sconsiderata impudenza di predire quel gesto imprevedibile, così come era evidente che Bepy aveva offerto a Ricky il suo esempio di impunito adultero e di campione mondiale dell’irresponsabilità e dell’auto-indulgenza. E, a proposito di divinazioni iettatorie, lo stesso Nanni – pur non potendo immaginare quanto la sua profezia fosse tragicamente fondata (come avrebbe potuto?) – sentiva che un giorno anche Bepy, in qualche modo, si sarebbe suicidato.
Nanni, a differenza di tanti padri condannati a dover sopravvivere ai propri figli, aveva almeno trovato qualcuno da accusare per quell’assurdo scandaloso decesso.
D’altra parte, se questa morte non aveva fatto altro che donare ulteriore lustro alla famiglia Cittadini, conferendole quell’aura lievemente dolente che contraddistingue tutte le grandi dinastie, se questa disgrazia aveva reso la principessa Altavilla una moderna raffigurazione della più signorile Dignità, è pur vero che la morte di Ricky, nella sua oscena imprevedibilità, nella sua palese ingiustizia, aveva distrutto la vita di Nanni, irrancidendo il suo spirito e vanificando tutto quel tumultuoso successo.
Ma c’è un’altra cosa assai più seria da considerare.
Perché, per quanto mi riguarda, sono certo che una volta a casa mio padre andrà da mia madre per dirle: «Sai, tesoro, cosa m’ha detto Nanni? Che sono l’uomo più elegante di Roma!». E allora vedrò affiorare nello sguardo della signora un velo d’irritazione. Vai pure a spiegare alla figlia del palazzinaro marchigiano, che vive nella penitenza dei suoi peccati contro la Famiglia e contro il Patrimonio, la poesia del marito-dandy…
Negli anni mia madre è cambiata, ma il marito si ostina a non capirlo. Non è più la chiusa vestita con l’avvitata leziosaggine di Audrey Hepburn, innamorata d’un ricco figlio d’Israele al punto da sposarlo, sfidando il veto di due famiglie e d’un’intera società ostile. È scomparsa la ra-gazzina che nei pomeriggi di giugno s’affacciava al balcone, la bocca nella rossa polpa d’una fetta d’anguria, sbrodolandosi, con l’animo interamente schiuso al futuro. Di quella creatura sognante resistono certi tratti profondamente radicati: la commozione di quando ascolta l’attacco di Moon River, colonna sonora di Colazione da Tiffany, o la toccante melodia di Scandalo al sole (predilezioni che se solo avessi il ghiribizzo d’interpretare mi sconvolgerebbero, se non altro per l’intrinseca sensualità di cui sono te-stimoni). Resistono solo piccole vanità di second’ordine che lei asseconda con magistrale discrezione. Ma ufficialmente ha dismesso il sospiroso idealismo di Giulietta. È
tornata sulla terra. È rinsavita, come capita agli adulti responsabili. Nessuno crederebbe che questa avveduta quarantenne, letteralmente scaraventata da un impegno all’altro, possa aver avuto una vita diversa, fatta di sogni irrealizzabili e speranze fiabesche, o che possa aver provato tanta commozione di fronte a certi filmetti di Billy Wilder. Né che nel suo petto s’annidi il cuore d’una megalomane. Com’è credibile che questa donna, continuamente in balia dei sacrifici imposti dalla propria maternità, un giorno – ancorché remoto – possa aver pensato a se stessa con la vibrante trasognatezza delle debuttanti? Eppure basterebbe avvicinarla con un po’ più d’attenzione, bucando il diaframma del suo cinismo, per scoprire la sorprendente contiguità tra la piccola principessa egoista di allora e questa donna indaffarata. Non ha fatto che spostare i luoghi della sua possibile affermazione: li ha mediati, addolciti, trasformati, nascosti. Ma essi esistono ancora. Sono integri.
Lei è per il differimento programmatico della felicità. Si nutre d’attese e progetti continuamente rinviati… Se acquista un paio di scarpe o un nuovo cappotto è disposta ad attendere anche un anno prima d’indossarli, pur di non guastare l’inebriante impressione di novità! Il suo comodino è ingombro di ritagli di giornali o di interi inserti che pubblicizzano locali alla moda. Basta sfogliarli per imbattersi con lo sguardo in un numero enorme di cerchi, da lei appena accennati con la matita, per salutare la nascita nella nostra meravigliosa città di un nuovo ristorante messicano o la riapertura d’un museo dimenticato. Naturalmente si guarda bene dal trasformare quei desideri cartacei (libreschi?) in realtà. Anche se c’è da dire che le pochissime volte (di solito per il vigoroso sprone del marito) in cui si risolve a visitare finalmente uno di quei luoghi sognati, la sua delusione viene enfatizzata da una specie di scetticismo préalable.
Ma nonostante tali parossistiche incompatibilità, oggi lei difende il proprio sgangherato matrimonio con le unghie. Per tigna? O per amore? Amore, certo, ma con quali dissimulate fangosità… Nella parte profonda di se stessa resiste l’idea d’una famiglia come quella dei film o delle pubblicità, come quelle che sognava dal suo balcone d’adolescente: dolciastra bomboniera ricolma di “armonie familiari” e “successo personale” da cui è quasi ossessionata. Ogni ostacolo che dilaziona quel sogno vellutato viene vissuto come un dramma epocale, con uno sconforto che può degenerare in disperazione. Ormai è insensibile a certi giochi di prestigio. È vaccinata. Non commissiona più le foto a Luxardo, né gli abiti a Capucci, perché sa che dopo la fatua gioia d’averli goduti verrà il castigo di doverli pagare. Il primo, rosato decennio coniugale di follie e sperperi è in solaio, oramai.
Storia vecchia. Fiamma ha affrontato la crisi economica con uno spirito contrario a quello del marito, tutta dalla parte dell’austerità e del karma borghese.
Così si comportano i veri signori? Quest’interrogativo galleggia nella sua mente. Lei risponde con un decoro della sostanza (e non della forma). Esaspera mio padre con le sue trascuratezze nel vestire, pare faccia apposta per indispettirlo. Quando erano ragazzi lui la trattava con arie di superiorità, lui era l’altoborghese ebreo e mondano, e lei la piccola stracciona di My Fair Lady, quella che aveva tutto da imparare. Lei a quel tempo si vergognava della volgarità della sua famiglia, della sua nonna semianalfabeta e del dover condividere il suo – pur grande –
appartamento con zio e cugini. Come scordare il giorno in cui per la prima volta, invitata a colazione a casa Sonnino, aveva varcato la soglia di quel Tempio inaccessibile? Le ginocchia le tremavano e non riuscì ad articolare una frase compiuta. Il turbamento suscitato in lei dall’eleganza della sala da pranzo, la raffinatezza dell’apparecchiatura, la formalità nel servire, il decoro un po’
ingessato dei commensali, la leggerezza nel parlare… Questo era il senso d’inadeguatezza mille volte avvertito da Sabrina, il suo personaggio cinematografico preferito, interpretato ancora una volta dalla sua Audrey Hepburn? La saga dell’appassionata Cenerentola, figlia d’uno chauffeur, che dopo varie peripezie finisce con l’innamorarsi e con lo sposare un rampollo dei Larrabee, milionaria dinastia di Long Island, realizzando così l’incredibile scalata sociale. Certo mio padre non è l’erede delle sconvolgenti fortune finanziarie e minerarie dei Larrabee, né possiede la spensierata avvenenza di William Holden o il fascino scontroso di Humphrey Bogart, ma mia madre, dopo tutto, s’accontenta. È da quel film che ha tratto l’ispirazione per il vestire e per il parlare? È da lì che ha capito che cosa era autorizzata a sognare? E chissà che fine ha fatto Sabrina, quella vera… Chissà se anche i Larrabee sono falliti come i Sonnino… O chissà che Sabrina, nel suo bovarismo, non si sia subito stancata del freddo, inappuntabile marito… Chissà che non l’abbia tradito con il cognato… Chissà che non abbiano divorziato… E che lei non abbia chiesto alimenti miliardari… Chissà se il grande Humphrey era già troppo vecchio per soddisfare sessualmente la moglie… Chissà se l’amore finisce… E chissà quanti altri chissà… So solo che se fosse stato possibile arrestare il corso della vita a certi memorabili apici amorosi, come avviene nelle commedie hollywoodiane, mia madre sarebbe stata la donna più felice che avesse mai calcato le scene di questo mondo! Proprio perché la sua vocazione alla felicità aveva qualcosa d’irreale.
D’altronde, a ben pensarci, sono morti tutti: Bogart, Holden, anche la Hepburn oramai; eppure mia madre ogni volta che siede di fronte al teleschermo e infila la cassetta di Sabrina, giunta all’epilogo del grande -piroscafo diretto verso l’Europa con la sognatrice triste e -malinconica ignara che presto sarà colmata di felicità dall’inattesa apparizione del suo tenebroso ereditiere riprova esattamente quella sensazione di pienezza che danno gli “istanti fuori dal tempo” di cui parla Proust: un sentimento di speranza euforica, come se avesse ancora i suoi sedici anni e tutta una vita da spendere!
Ma quando s’è trattato di lottare, di diventare adulti, di ingaggiare un corpo a corpo con la vita, lei, la figlia dimessa di quel costruttore ricco e rozzo, non si è tirata indietro. Mentre i Sonnino intorno a lei si squagliano, cercando conforto in previsioni irragionevolmente ottimistiche, mentre questi (che un tempo l’hanno tanto intimidita) non smettono di chiedersi come il disastro sia potuto accadere, lei si rimbocca le maniche, mostrando un coraggio, una dedizione alla causa, una stupefacente nobiltà nello sfidare le avversità. In quel preciso istante Audrey Hepburn muore, e dalle ceneri di quella felina attricetta americana nasce mia madre, così come la conosco. Il suo nuovo nucleo familiare, nato così bene, su cui lei tante volte ha fantasticato, non può andare in frantumi adesso, non così, non per questo incidente di percorso in cui lei e il marito non c’entrano niente o quasi. Lei farà quello che il novantanove per cento delle giovani mogli di questo pianeta in circostanze analoghe rifiuterebbe di fare: salverà il suo matrimonio. Ecco il nuovo impulso, più bellicoso di quello che le ha imposto di sposare un ebreo: rimanere al fianco del marito, occuparsi di lui e dei suoi affari a tempo pieno, scontando se necessario il biasimo della propria famiglia e di molte altre persone assennate. Così si dimostra il carattere. Questo è coraggio. Il resto è niente.
Ma adesso, dopo il crack, è venuta l’ora della rivincita. Tutto questo in lei assume il rilievo d’una protesta ideologica, moderata da una congenita pietà, dall’incapacità d’alzare la voce e mortificare il prossimo. È anarchica, ma, come tutte le persone che amano mostrarsi disincantate, nel chiuso di se stessa non ha rinunciato a un sogno di felicità e di piacere: l’ha solo socialmente sotterrato. I sedili posteriori della sua auto sembrano quelli d’uno zingaro, strabocchevoli di mercanzia (scarpe da portare al calzolaio, agende piene di fogli, la spesa per i nonni, vecchi registratori da riparare).
Quel caos, indigesto per mio padre, rappresenta però tutta la disponibilità al prossimo, l’inestinguibile apertura di credito e allo stesso tempo l’efficienza di mia madre, ma è anche il simulacro d’un’impertinente iconoclastia. Quando parcheggiamo vicino a scuola, lei, che ha fatto di tutto per entrare in centro, eludendo la sorveglianza dei vigili, affida l’auto a un barbone che finge di custodirla, ma in realtà ci si accomoda dentro per difendersi dal freddo, lasciando nell’abitacolo un afrore di alcol e di ascelle. Questa è mia madre. Una creatura delicata che potrebbe scalare una montagna. Una populista anarcoide che si sente una Signora o viceversa. Per troppi anni vittima del Sonnino’s style, d’improvviso è passata al contrattacco: s’è venduta al nemico, ma sempre nel suo modo ondivago, barcamenandosi tra dolcezze e improvvisi scatti di astio e insubordinazione.
Se mio padre è riuscito a perdonare Bepy, favorendone il rientro dagli Stati Uniti, prodigandosi per il suo reinserimento, dimenticando tutto, anche il mancato acquisto di quei Caravaggio salvavita, mia madre, invece, non ha condonato niente al suocero. Non è strano che la devotissima cattolica Fiamma Bonanno sia così poco incline alla remissione dei peccati altrui, mentre il suo biblico consorte sembri avere illimitate risorse nel perdonare e nel non serbare rancore? In ogni modo Fiamma non ha perdonato Bepy. Mica per i soldi – quelli per lei hanno ricoperto sempre un ruolo marginale, o, al limite, simbolico: il denaro non è strumento di promozione o letizia, non è fatto per acquistare cose, agi o servizi, ma, se Dio vuole, è solo garanzia di rispettabilità sociale: per questo piuttosto che utilizzarlo andava conservato.
E fu per ragioni formali e simboliche – in lei così preponderanti – che considerò sempre il suocero se non un individuo malvagio, certamente un irresponsabile figlio di puttana. Al punto da arrivare talvolta a irritarsi col marito per la sua indulgenza nei confronti di quel genitore cerca-guai. «In fondo è mio padre!» si schermiva lui timidamente. «E io sono tua moglie!» replicava lei, con tono gelido, sottolineando come le sue ragioni fossero sempre trascurate. «E quelli sono i tuoi figli»
aggiungeva dando alla scena un sapore melodrammatico, da sceneggiata, che non era nelle sue corde. Così i miei si rivolgevano reciproche punzecchiature, ma sempre in un misto di mugolii e cautele. Mia madre non desiderava che noi sentissimo, né voleva umiliare mio padre di fronte ai figli, ottenendo però l’effetto contrario perché, attraverso il contegno carbonaro di quei sussurrati litigi, non faceva che riempire di mistero e spavento quei loro alterchi, che per me diventavano motivo di angosce continue. Lei, che agli occhi del mondo sembrava la donna della Magnanimità e della Misericordia, in realtà era lacerata da rovelli rancorosi. E per quanto la cosa possa apparire strana, l’accusa che lei non aveva il coraggio di rivolgere al marito
– e che emergeva solo talvolta in alcuni incontrollati scatti nervosi – era proprio l’inspiegabile mancanza di rancore di mio padre, la magnanimità, l’infedeltà a ogni sentimento ostile… Il fatto che lui avesse perdonato il padre faceva il paio con quella sua smania di scodinzolare con tanta affettata costernazione attorno a Nanni Cittadini, quel furfante che aveva fatto affogare mio nonno, e con lui noialtri. «Lui è l’unico che c’abbia aiutato! Non sopporto il tuo cinismo!» alzava la voce lui. «Se per te prestare soldi al venti per cento d’interesse è un atto filantropico…» lo inchiodava lei impassibile.
È pur vero che mia madre non aveva mai avuto una grande simpatia per nonno, né per tutto il suo ambiente. Credo che per lei, educata nel pauperismo (per nonno Alfio era più reprobo un uomo che millantava una ricchezza non posseduta che un pluriomicida confesso), il suocero rappresentasse un modello negativo. Ma attese il tracollo per tingere l’insofferenza dei crudi toni dell’ostilità. Da quando quella fatidica mattina dell’Ottantadue Bepy, con l’acqua alla gola, le aveva chiesto un milione e lei aveva firmato un assegno in bianco, per verificare il mese successivo che lui lo aveva riempito con una somma ben più alta per pagarsi il viaggio in Concorde per gli Stati Uniti, a spregio ulteriore della nostra condizione – da quel giorno mia madre gliel’aveva giurata. Ma, torno a ripetere, non per i soldi. No, quelli sono solo un simbolo per mia madre. Per il tradimento della fiducia, semmai. Mia madre tiene a certe cose. La parola data. Onorare l’impegno preso. Una promessa è una promessa. La sacralità del contratto sociale. Date le circostanze era inevitabile il disprezzo per i Sonnino. Mica perché le avevano rovinato la giovinezza, costringendola alla precarietà e al senso di colpa nei confronti della sua onorabilissima famiglia. No, non per questo.
La questione è più complessa. E investe anzitutto l’etica (come tutto quello che riguarda quella giansenista in gonnella di mia madre, d’altronde). La sua vita interiore era un impasto di duttilità e ironie solo talvolta degradanti nel gorgo del cattivo umore, ma il suo universo morale tendeva all’assoluto. Era una creatura nevrotica, atta a generare nevrotici. La cosa che lei non perdonava a mio padre non era il Sacrificio da lui impostole, ma che Esso non le fosse riconosciuto. Voleva identificarsi con la vittima. Questo le sarebbe bastato. Mio padre, refrattario a certe morbosità dostoevskiane, non riuscì mai a contentarla, anche se gli sarebbe convenuto.
In cosa consisteva il Sacrificio?
Anteporre – sempre – ai propri gli interessi degli altri. Un delirio oblativo, perché questa era la vita che aveva scelto: occuparsi a tempo pieno dei genitori intemperanti, della suocera ipocondriaca, dei figli disadattati, della nostalgica domestica filippina, dei suoi lagnosi dipendenti, degli inquilini dei suoi appartamenti e di quelli del padre e di tanta altra gente ancora… Tutti alla sua corte. Quella pletora di “umiliati e offesi” che vedevano in lei un punto di riferimento inalienabile – preziosa, insostituibile Teresa di Calcutta – e che telefonavano sempre un minuto prima che ci mettessimo a tavola, forse perché lei era incapace di porre dei paletti. Lei era sempre protesa e disponibile, come un punching-ball o uno scacciapensieri.
Una volta a una lezione di catechismo cui fui sottoposto, nel tentativo di convertirmi alla religione di mia madre o, alla peggio, epurarmi dalle scorie di quella di mio padre, m’imbattei nel mito di Lucifero: la caduta negli inferi dell’angelo prediletto dall’Onnipotente. Immediatamente sentii un’aria di famiglia. Quel mito l’avevo visto rivivere in mia madre, ma ribaltato. Lei era il contrario di Lucifero: una creatura delle tenebre, dai sentimenti foschi e dalla percussiva volitività nevrotica, che aveva scelto d’espiare la propria inclinazione malvagia in un paradiso di sollecitudine. Ma nel fondo resisteva quella che con una certa pompa potremmo chiamare la “nostalgia delle tenebre”.
Allo stesso tempo, in un singolare dislivello, nei recessi della psiche di mia madre s’acquattava uno smisurato orgoglio, debordante in ostilità e rancore per chiunque fosse “immeritatamente” più felice di lei, di suo marito o dei suoi figli. L’investimento fatto su questi tre talentuosi individui era assoluto. Essi non potevano deluderla in alcun modo. Non l’avrebbe sopportato. E il motivo per cui talvolta ci trattava in modo sferzante era che doveva sfogare la sua amarezza d’investitrice scontenta. Naturalmente non si sarebbe mai lasciata sfuggire tali pensieri vanagloriosi, né di fronte ai suoi figli, né ad alcun altro forse, sia per la pudicizia che molti scambiavano per indifferenza sia perché – considerandosi un’emancipata ragazza degli anni Sessanta, che aveva orecchiato un po’ di psicoanalisi e di pedagogia sperimentale – sapeva che porre i figli d’una buona famiglia borghese di fronte a ostacoli insormontabili equivaleva a un invito indiretto a eluderli, se non addirittura a rifiutarli. Ciò non le impediva di mostrare subdolamente riprovazione per le nostre inadempienze.
Sì, mamma cara, bastava sentirti respirare o guardarti le rughe increspate della fronte per capire quante e quali aspettative tu nutrissi per la vita dei tuoi figli. La solita storia: l’errore formativo per eccellenza: la dolce principessina, maniaca di Audrey Hepburn, divenuta adulta e infelice, versa la sua coppa di frustrazione nell’acerbo recipiente dei figli.
Talvolta mi sembrava di coglierla con lo sguardo perso nel vuoto: forse mi vedeva già in frac, in qualche aula della fondazione Nobel di Stoccolma, pronto a ritirare il premio che mi spettava per la mia indimenticabile opera letteraria. Credeva non capissimo che dentro di sé era certa che Lorenzo
– il suo caro Lorenzo – un giorno sarebbe stato il Presidente o l’Amministratore Delegato di qualche grande cosa, altrimenti niente avrebbe avuto un senso?
Ma quando i successi per cui tanto mia madre s’era adoperata arrivavano, allora il suo contegno mutava di colpo. Non amava ostentare tripudi. Uno dei suoi figli aveva avuto un piccolo trionfo personale (un esame superato brillantemente, un libro pubblicato, un aumento di stipendio, una conferenza esaltante)? Per lei non c’era altro che dissimulare, svanire dietro le quinte come un’operosa maestranza teatrale. Come a intendere che il merito fosse solo nostro, o al limite dell’indubitabile talento didattico di suo marito. Quando le fu comunicato dal preside che suo figlio Daniel all’esame di maturità aveva preso dieci per un tema tutto incentrato sull’intrinseca stupidità dell’impegno politico – un record che, ancorché modesto, avrebbe potuto ripagare qualsiasi madre ossessionata come lei dal profitto scolastico dei figli – lei rimase imperturbabile. Si rifiutò di comunicarlo ad amiche e conoscenti, pur avendo la sventatezza di dirlo al marito che, da par suo, iniziò a farne pubblico sfoggio, come se quell’innocuo voto per un tema liceale sul disimpegno preludesse a una gloriosa carriera letteraria. Mia madre a quel punto non esisteva più. Doveva provare una gioia masochista nel togliersi di mezzo come certi malinconici eroi dei western che nel momento del trionfo in cui la città, liberata dalle violenze dei banditi, li acclama, s’allontanano solitari nella notte, in compagnia del loro cavallo e del cielo stellato. Era un gioco al massacro. Una disciplina orientale dell’autodegradazione dell’io, in favore d’una felicità cosmica. Quella che mio padre, con una certa imprecisione psicologica, chiamava la sindrome della comparsa cinematografica. Perciò lei, pur lacerandosi dentro, si guardava bene dal farci domande. Lasciava a mio padre il compito di sottoporci a uno sfibrante terzo grado. Ma allora che cosa hanno detto? –
c’incalzava lui ingenuamente sorridente – Su, raccontatemi. Vi hanno invidiato? Lui voleva decantare quel piacere, ricrearlo, nella speranza che esso non svanisse, rinnovato dalla nitidezza dei nostri racconti. Per questo era avido di dettagli e schiettamente raggiante, mentre lei dissimulava, forse perché sapeva che la felicità – quella vera – non è mai sociale, ma privatissima, da consumarsi in sdegnosa segretezza, o forse perché era affetta da quelle sue inibizioni dettate dall’eccessiva discrezione.
Sì, mia madre era disposta al sacrificio. Ma voleva essere ripagata con gli interessi. La serietà per lei era un valore, proprio come per i Sonnino era opzione irrilevante. E il fatto strano, anche se può sembrare un facile paradosso, è che mentre lei viveva il suo impegno con l’incredibile levità del sorriso, la frivolezza dei Sonnino era singolarmente grave e asfittica – e soprattutto, come dimostra la storia di fuga e rancore di mio zio Teo, mostruosamente impediente.
Ecco perché mia madre sentiva un irrespirabile fastidio per tutto quello che l’essere Sonnino comportava. Una banda stonata di sbruffoni, disonesti, faciloni, egotisti, che vivevano al di sopra delle proprie possibilità. E quando uno di questi difetti prendeva forma nell’animo e nel contegno d’uno dei suoi figli, sbiancava come se anch’egli si fosse trasformato in piccolo mostro incontrollabile, nuovo Sonnino da abbattere.
Ricordo ancora quando mio fratello, dopo aver vinto il posto per un dottorato in Giornalismo alla Bocconi, trovandosi in mezzo a quel gineceo di conigliette in carriera perse il controllo e lasciò la sua ragazza di sempre per inaugurare un rabbioso libertinaggio, causa di fastidiosi sfoghi all’inguine (era forse un subliminale accanimento contro il proprio strumento di piacere?), perdita di capelli e graffianti sensi di colpa, preludio al matrimonio con l’ex ragazza ritrovata. La reazione di mia madre in quei giorni di crisi fu sintomatica. Pantera in gabbia. Belva ferita. Come avesse percepito lo spirito di Bepy Sonnino incarnarsi nelle spoglie del figlio. Iniziò a fare un lavoro oscuro, telefonando tutti i giorni alla mia futura cognata, boicottando le nuove ragazze, mostrando una sotterranea riprovazione per il figlio e lavorando nell’ombra come un fosco Richelieu. La follia è che, all’epoca, mi sembrò naturale schierarmi dalla parte di mia madre (chissà se oggi lo rifarei?), come m’avesse fatto il lavaggio del cervello. Per lei il peccato mortale era far soffrire gli altri, dimenticare chi c’aveva aiutato. Ciò che lei detestava era l’antimemoria del marito, quella sua propensione a trasfigurare un individuo per poi lasciarlo cadere nel catasto dell’oblio e del disincanto. Mai in una disputa tra noi e il mondo avrebbe scelto i suoi figli. Mio fratello aveva preso un impegno con quella ragazza? L’aveva illusa con tipici espedienti Sonnino (salsa di magniloquenza, splendore e galanteria)? Ebbene ora non poteva tirarsi indietro, doveva rispettare l’impegno, anche se poi avesse dovuto pentirsene… E la felicità? Per quella non c’è posto, mamma?
Sì, ma non a tutti i costi! Altrimenti la vita che senso avrebbe, ragazzi? E quando mio fratello, avendo distrutto in soli tre mesi la propria serenità coniugale e un bel pezzo della propria vita, si ripresentò a casa per accusarla pubblicamente di averlo costretto a un matrimonio riparatore (senza che nulla ci fosse da riparare), mia madre si schermì con quelle sue arie da santarellina oltraggiata:
«Ma io non ti ho detto niente… Hai fatto tutto da solo…». Replica ineccepibile. Mia madre aveva un dominio talmente assoluto sulle nostre coscienze da non avere neanche il bisogno d’imporre scelte e comportamenti. Noi agivamo secondo la sua volontà, senza che lei si preoccupasse di manifestarla. E sottostare ai taciturni, omertosi piani di mia madre equivaleva a vendere l’anima al demonio. Potevi star certo che ti avrebbe reso la vita gustosa, colmandola d’ogni comfort possibile (viaggi esotici, automobili, affetto, comprensione, danaro, organizzazione, interventi tempestivi…), ma il prezzo era sempre troppo alto. E lei, abitualmente così dimessa e sfuggente, al momento di riscuotere era implacabile. Ma come, piccolino, con tutto quello che ho fatto per te ora ti tiri indietro? Non è così che si fa. Gli impegni sono impegni e vanno rispettati. E se tu, in un accesso di enfasi adolescenziale, le avessi detto che non avevi preso nessun cazzo d’impegno, che semmai era stata lei, non richiesta, a metterti al mondo, al solo scopo di sovraccaricarti d’impegni, avresti dovuto scontare l’ironica increspatura delle sue labbra sprezzanti.
Ancora una volta non si prendeva la briga di pronunciare parole o affrontare discorsi. (Puah, i discorsi erano roba da chiacchieroni ebrei!) Sottintenderli serviva maggiormente la sua causa. E io e Lorenzo dovevamo sembrare, agli occhi del mondo, due grasse damigiane traboccanti di senso di colpa nei confronti di quella madre troppo buona per essere vera.
Ma un giorno di dicembre, poche ore prima d’una festa di diciotto anni cui ero stato invitato, accadde che mia madre, appena rincasata, entrasse nella mia stanza attratta dalla musica d’un nastro di colonne sonore che zio Teo mi aveva mandato da Israele. La melodia era quella di Scandalo al sole, in una vaporosa infiocchettata versione di Henry Mancini. Così ci ritrovammo uno di fronte all’altra. Io col mio smoking a nolo e lei con il suo bagnato impermeabile da battaglia. Allora mi prese e, vincendo le mie infantili seriose ritrosie, mi spronò a ballare. Iniziammo così, senza fiatare: lei aveva il viso acceso, completamente disinteressata del suo goffo inessenziale cavaliere, totalmente immersa in un ricordo, o in un’atmosfera, o in qualcosa del genere. E proprio in quel momento ebbi la sgradevole impressione di avere tra le braccia un essere umano senza più niente di familiare. Una creatura viva, fremente, idealista, fantasiosa, sensuale, spensierata, avventurosa…
Avevo tra le mani la volitiva Sabrina affacciata alla sua finestra con le mani e il mento rossi di anguria di cui avevo tanto sentito parlare, ma che non avevo avuto ancora l’onore di poter incontrare. Ero così confuso e smarrito che, se un estemporaneo rinsavimento non me l’avesse impedito, mi sarei presentato: “Io sono Daniel Sonnino”, per poi chiederle: “E tu chi sei?”. Che domanda sciocca! Avevo tra le braccia soltanto una giovane fanciulla che pensava a se stessa, gaiamente infischiandosene dei figli che il destino un giorno le avrebbe presumibilmente inflitto.
SECONDA PARTE. Quando l’invidia di classe degradò in disperato amore.
1 Corso di mitomania applicata.
Nel gennaio del Duemila ricevetti una telefonata dal professor J.R. Leiterman, gloria della comparatistica statunitense nonché entusiasta oppositore delle teorie imperdonabilmente autobiografiche espresse con violenza e furbizia nel mio primo libro Tutti gli ebrei antisemiti.
L’ineffabile decano Leiterman era felice d’invitarmi a un seminario organizzato dall’università della Pennsylvania dal titolo profetico:
I DESTINI DELLA LETTERATURA EBRAICA NEI TEMPI DELLA PIENA ASSIMILAZIONE
E DELLA MINACCIA ISLAMICA
Si diceva certo che una mia provocazione avrebbe avuto la forza d’irrigidire i flaccidi papillon dei superciliosi cattedratici d’Oltreoceano.
Accettai con gioia. Viaggio gratis e gente nuova. Quel che ci vuole per un accademico depresso.
Potevo forse prevedere che, mentre io fantasticavo sul tenore della mia concione, qualcuno, dall’altra parte del mondo, potesse meditare su come disintegrare il World Trade Center? Il destino ha deciso che il convegno fosse posticipato dalla primavera del Duemilauno all’autunno dello stesso anno, nel pieno del Planetario Cataclisma, che io avessi promesso a Giorgio Sevi, compagno di liceo che da anni fa soldi in America, un incontro a Manhattan, e che durante il trasferimento notturno da Pittsburgh a New York (su auto a nolo) fossi raggiunto da una telefonata di mio padre che m’informava, con la voce impastata dalla commozione, della morte di Nanni Cittadini.
Chissà perché la gente è così ansiosa di annunciare la morte d’un proprio simile, come se l’unica cosa davvero inesorabile fosse avvertita come la più imprevedibile. Al punto che un secondo dopo aver registrato la notizia del decesso ero lì ad arrovellarmi pensando a chi avrei potuto a mia volta comunicarla. Finché non venni bruciato dalla constatazione che le persone cui quella morte sarebbe interessata non erano più in rapporto con me da circa un quindicennio. E che quel lasso di tempo –
inframmezzato da un’insoddisfacente razione di soddisfazioni accademiche – si era frapposto tra me e loro senza che mi fossi mai fermato a rimpiangerle.
È così che nel pieno della notte, come Amleto di fronte allo spettro del padre, ma con quanto divertimento in più e quanta minore angoscia, mi è apparso il fantasma di quell’uomo appena morto. Lo vedo risorgere sul cruscotto e sorridermi, nell’immagine decatizzata dal ricordo, immerso nel suo Eden di cachemire e di torbatissimi whisky al malto, nell’improbabile dimora di milionario al numero sette di via Aldrovandi, gialla e liberty come l’ambasciata d’un Paese di seconda fascia. Vedo Nanni Cittadini – proprio lui: il Santo Protettore dei miei odi interclassisti, il nonno dell’allora fanciulla Gaia che mi rovinò semplicemente l’adolescenza – incarnarsi di fronte ai miei occhi increduli, mentre quel brav’uomo di mio padre continua a filosofeggiare al telefono:
«È l’ultimo ad andarsene della generazione di Bepy», e io dentro di me lo riprendo: per Dio, papà, quando ti libererai dall’idolatria per quel ripugnante pagliaccio? Ed è un capolavoro di filiale dedizione trattenere l’ilarità. Solitamente non trovo commovente la morte d’un ultraottuagenario.
Ma date le circostanze la mia canonica indifferenza per la morte d’un ultraottuagenario qualsiasi si tramuta in una specie di euforia suscitata dalla morte di quel particolare ultraottuagenario.
Mi impegno a sbrigare al più presto la pratica-Giorgio-Sevi per rientrare fulmineamente alla base: voglio partecipare alle esequie di Nanni. A tutti i costi!
Che incanto lasciarsi elettrizzare dalla notizia, con il cuore strangolato dai ricordi di Gaia, Gaia, Gaia, preda di quel disincarnato melò che appartiene a noialtri Sonnino! Come se lei non fosse mai esistita, come fosse stato un mito fantasmagorico delle mie estati in Costiera e dei miei inverni dolomitici profumati di sciolina e vin brûlé, come se non mi avesse inflitto alcuna sofferenza, come se in quindici lunghi anni non l’avessi mitizzata e demitizzata almeno una dozzina di volte, come se non avessi patito l’assiduità di quel pensiero così foscamente determinato a perdurare.
Ebbene sì, Nanni è morto! E tu sei il più entusiasta becchino della Storia. Corri verso la città del trionfo della morte, a tua volta trionfante della morte d’uno specifico organismo biologico che hai sempre, sin dall’età di otto anni, detestato e invidiato alla nausea. Odiavi Nanni Cittadini con tutto te stesso. Ecco la sola cosa di cui non ti sei mai vergognato. E sebbene un odio postumo possa apparire inutile e insensato come un amore non corrisposto, forse per una vizza perversità apotropaica non vuoi (o non sai?) sbarazzarti ne dell’uno né dell’altro.
E chissà che non sia stata proprio l’euforia generata dalla notizia o da quell’intrico di domande che via via mi s’attorcigliavano dentro – Chi è Gaia? Dove vive? È sposata? Mi pensa ogni tanto?
Perché dovrebbe pensarmi? È entrata nell’età in cui il novanta per cento delle ragazze iniziano a somigliare pericolosamente alle proprie madri e persino alle proprie nonne? Appartiene a quella categoria di trentenni affette da noiose idiosincrasie e ossessionate dagli spettri del fallimento?
Come accoglierà la mia presenza alla cerimonia funebre? Ho la cravatta giusta?… – a preparare l’immersione nella Manhattan più angosciosa dai tempi della sua epica fondazione.
Finché, pesantemente in equilibrio tra lo Hudson e -l’East River, immersa nella bolla rosa dell’alba e in un’azzurrata fantasia mattutina, l’isola mi offre il suo profilo: per la prima volta privata dei goffi gemelli d’acciaio.
Constatare l’orizzonte mutilato, cercando di epurarlo dalle simboliche implicazioni emotive, è stato difficile come quando diversi mesi fa in un ristorante ai Parioli m’imbattei in Silvia Toffan, stellare compagna di classe un tempo in cima alle hit parade del nostro mondo di altolocati liceali, privata da un tragico incidente stradale dei suoi splendidi arti inferiori. Ecco perché questo assurdo spettacolo dell’assenza, il capolavoro urbanistico del terzo millennio, mi ha serrato la gola di raccapriccio, ma -anche di un certo sinistro gusto alla Sansone: due miti lontani della mia adolescenza (Silvia Toffan e New York) mostruosamente lacerati.
La giornata è fenomenale. I contorni oscillano tra il rosso il viola l’arancio e un radioso azzurro. La mia oblunga auto color miele si specchia nel mosaico d’un grattacielo dai riflessi bluastri.
Costeggio adagio un autunnale Central Park da cartolina passando in rassegna lussuosi caseggiati custoditi da regali afroamericani in livrea, eppoi di seguito Guggenheim, Metropolitan, Frick Collection.
Ma è solo addentrandomi nello sferragliante trambusto del downtown – tra l’esercito di tassisti pakistani che per esorcizzare la diffidenza suscitata dai loro turbanti hanno attaccato agli specchietti piccole bandiere a stelle e strisce – che mi accorgo con sollievo, e a dispetto della prima impressione, che Manhattan non ha trovato di meglio che restarsene a Manhattan.
«Anche questo presto verrà fagocitato…» sentenzia un tizio alla radio con un tono apocalittico. Per quanto mi riguarda io fagocito la sua voce insieme a un pancake ai mirtilli impregnato di burro e sciroppo d’acero, seduto al bancone d’un non troppo affollato caffè della Cinquantesima. È come se il suono di quella voce, con l’aiuto di quella penosa poltiglia al caramello, mi trascinasse per il bavero del cappotto all’estate Ottantasei, nella mia terza consecutiva nonché ultima vacanza studio a Boston. Gaia esisteva. E molti altri, a ben pensarci, esistevano. Tutti allora avevano il sottostimato pregio di esistere! Dici bene, chiunque tu sia: anche questo presto verrà fagocitato…