L’idea di prenotare al Morgan è venuta da mio padre naturalmente. È da tempo che su certe cose ho perso il controllo. «È un delirio postmoderno alla Philippe Starck, tutto poltrone anni Quaranta e linee vertiginose…» mi ha detto l’altra sera al telefono ricorrendo a una delle sue espressioni genialmente fatue, dopo avermi torturato per un quarto d’ora nel tentativo di estorcermi la verità sull’accoglienza ricevuta da suo figlio e dalle sue strampalate idee antisemite in quel fortino ebraico dell’università di Pittsburgh. E io, dopo averlo a mia volta martirizzato raccontandogli la mia perdita di controllo e il biasimo della più intransigente platea con cui mi sia mai cimentato, ho ceduto, accogliendo il suo consiglio, violentando la mia natura reazionaria che chiede agli alberghi un lusso decrepito, liberty, ai limiti della pura magniloquenza… Cristo, duecentosessanta dollari a notte per questa lobby microscopica? Per non parlare del concierge affetto da statunitense paresi al sorriso che inarca appena il sopracciglio nel trovarsi di fronte a un tipo come me che non ha nulla del cliente abituale.
Dopo una doccia in un loculo in questa stanza per lillipuziani e una dormita fino al pomeriggio, mi alzo e scendo, con il mio trentennale fardello d’inadeguatezze, al bar dell’albergo, per il rendez-vous con il passato che persino durante il sonno mi ha tormentato gli intestini. Pagherei in diamanti per eludere quest’incontro.
Eppure solo quando la porta del velocissimo ascensore lentamente si schiude su una sala tutta decibel e morbide luci lillà che carezzano le dentature di cristoni griffati Calvin Klein e le curve di barbie internazionali che infondono un’ebbrezza panteista – solo allora mi sento realmente spacciato.
Come credere che il preppy dal sorriso stellare, simile a un commesso di Brooks Brothers, che si slancia verso di me in questo chiassoso bar del Middle East side sia Giorgio, il nostro emigrante di successo? Un individuo così irrilevante che quando pochi mesi fa mi ha telefonato nel piccolo studio all’università: «Ehi Daniel, sono Giorgio…», ho avvertito il bisogno di tergiversare:
«Giorgio?», ottenendo in cambio un’incoraggiante conferma da quella voce: «Giorgio Sevi! Ho trovato il tuo numero sul sito dell’università. Spero di non disturbarti». «Ma per carità! … Giorgio.
Dove diavolo sei? Da dove chiami? … Ma pensa te, Giorgio…», implorando le meningi d’un ultimo sforzo per associare a quel nome l’esile figura d’un ragazzino la cui sola prerogativa ai tempi della scuola era un’appetitosa avvenenza e un appena insufficiente intelletto. A quei tempi tutti sapevano che Giorgio e io eravamo gli estremi di un segmento affettivo al centro del quale brillava in tutto il suo fulgore e la sua bonomia il nostro eroe liceale: DAVID RUBEN detto DAV.
Ma quell’equidistanza dall’oggetto di tanta ammirazione piuttosto che sedimentare un’amicizia rese me e Giorgio – per un misto d’incompatibilità e competizione – nemici fervidi. Per capirlo basterebbe guardarci quindici anni dopo mentre ci stringiamo la mano diffidenti, non solo con la reciproca impressione che vedersi serva a poco, ma soprattutto con la coscienza che tra noi manca qualcuno o qualcosa di essenziale: erano millenni che non percepivamo così acutamente l’assenza di Dav.
Proprio di colui che, sebbene odiasse sentirselo ripetere, era la smagliante controfigura di Tom Cruise. Proprio del quattordicenne che sin dall’esordio nella nostra scuola aveva incendiato la fantasia di centinaia di ragazzine, contendendo il primato alla star hollywoodiana in giacchetta da Top Gun, la cui patinata effigie corredava i diari delle mie fanatiche compagne di classe.
Pur essendo il solo altro ebreo della mia scuola, Dav era la mia antitesi rilucente, come se il giudaismo, che su di me aveva agito in modo drasticamente caricaturale, lo avesse risparmiato: e lo scandalo consisteva proprio in quel genere di avvenenza, così civilmente rasserenante, di solito appannaggio dei chiusi altolocati ma nel suo caso marchiata da un nome e un cognome, non solo esotici, ma così inequivocabilmente ebraici: David Ruben: dei Ruben dei gioielli avrebbe precisato mia madre con un po’ d’orgoglio e un po’ d’invidia e nel tono medesimo con cui avrebbe detto i Piperno delle case o i Savelli dell’acciaio.
D’altro canto era evidente come il nostro biondo Tom Cruise, venti centimetri più alto dell’originale, avesse pagato pegno all’iconografia semita con il naso dalla punta lievemente all’ingiù: ma lo era altrettanto che lui dovesse il suo irresistibile democratico ascendente proprio a quella somatica imperfezione.
Quanto fosse stato arduo per Dav accreditarsi in una scuola di piazza di Spagna in cui la maggioranza degli allievi utilizzava la parola “rabbino” come sinonimo di “taccagno”, non saprei dire: ma suppongo dietro ci fosse la stessa logica che aveva condotto Silvia Toffan – ineffabile zaffira dalle splendide ancorché provvisorie gambe da pinup – a sostenere durante una memorabile interrogazione in geografia che il Kashmir era una pidocchiosa regione indiana che aveva preso il nome dai twin set di Burberry’s.
Le nostre difformità fisio-caratteriali non avevano impedito a Dav di mettersi alle mie calcagna come una sanguisuga, così come non avevano attenuato la mia impressione che lui fosse ciò che, se avessi potuto ricominciare, io avrei scelto di essere. Senza che, tuttavia, la mia devozione, impastata con l’invidia, riuscisse a rivelarsi schiettamente: per niente avrei rinunciato a mostrarmi sdegnosamente insensibile agli entusiasmi davidiani del mondo, intuendo che, al di là della correligionarietà, fosse questo il nodo della nostra unione: la ragione per cui i Dean Martin scelgono di frequentare i Jerry Lewis è nella capacità di questi ultimi di sbeffeggiarli là dove tutti li esaltano. Ma, d’altro canto, non saresti il prediletto dell’idolo delle folle se lui, a sua volta, non sapesse di essere la tua segreta aspirazione. E a cosa serve agitare le mani o parlare a voce alta per guadagnare la scena se a lui basta un sorriso per rapire gli sguardi da te solo temporaneamente attratti? La gente (soprattutto intorno ai sedici anni) mostra una naturale indulgenza per la bellezza e una cronica irritazione per lo sforzo intellettuale. Non restava che professare una monoteistica religione, fissando il feticcio delle nostre bionde urlacchianti ragazze con l’ammirazione di chi non avrebbe mai imparato a competere.
Quando un giorno Dav, per una leggerissima miopia, fu costretto a inforcare la sua prima montatura di occhiali – non troppo dissimili, in fondo, da quelli che avevano avvelenato la vita di tanti ragazzini come il sottoscritto assimilandoli a quella sottomarca di adolescenti comunemente noti come “quattrocchi” –, sul suo naso essi sembrarono un elemento di consacrazione. La sua bellezza assumeva agli occhi del mondo una legittimità morale, diventando allo stesso tempo seria e svagata. E come posso scordare che girando per i corridoi della nostra scuola seicentesca al fianco del neo-occhialuto David Ruben l’atmosfera si riempiva di un inconfondibile cicaleccio di ninfette?
Come posso dimenticare che proprio in quei giorni il comitato del “David Ruben fan club”, fondato un anno prima da un gruppo di ragazze del Linguistico, indisse una riunione straordinaria per deliberare che l’Idolo con quella travolgente idea di mettere gli occhiali venisse definito – coram populo e senza tema di smentita – “il ragazzo più bello di tutti i tempi”?
La creatura cui “il ragazzo più bello di tutti i tempi” doveva il bronzeo fulgore e la smaniosa irrequietezza di quei contenti che non si risolvono alla felicità, era Karen, la madre.
Consideravo l’incontro con quella signora un’autentica “sbronza a prima vista”. D’altra parte non mi sarei mai più totalmente disintossicato dal cocktail afrodisiaco i cui ingredienti non smettevo di enumerare interiormente: quarantaduenne bionda poliglotta svampita indifferente griffata snob minata da umorali intermittenze, e assolutamente bella.
Temo la signora ripagasse la mia venerazione con distacco: quegli anni sono distinti nella memoria dalla mia vocazione a frequentare persone capaci di esaltare la mia futilità, ma nessuno riuscì a regalarmi un’impressione così vivida della mia umana irrilevanza come Karen Ruben. Eufemistico dire che non mi prendeva in considerazione come possibile interlocutore: semplicemente non esistevo. Non appartenevo a questo pianeta. Diceva di aver conosciuto Bepy, tanti anni prima, a una festa su una terrazza di Positano. Diceva di averne sopportato il corteggiamento. E di non essere riuscita a dimenticarlo. E lo diceva come se mi stesse elargendo un premio, o per meglio dire, un importante attestato. Ecco perché, quando m’incontrava (poteva capitare dieci volte nell’arco della stessa giornata), mi diceva, in preda a un riflesso condizionato: «Sai che tuo nonno era proprio un bell’uomo, così chic e perbene…». Tale giudizio – che molti degli incazzati creditori di Bepy avrebbero ritenuto parzialmente incongruo – veniva da lei sospirato con la stupefazione di chi constata un fenomeno paranormale: la corruzione genetica capace di degradare il discendente d’un uomo très charmant in uno sfigatello cronico.
Karen era allergica al passato. Si sarebbe detto che il suo modo di essere ancorata al presente avesse un che di malsano.
E chi – guardandola – avrebbe detto che lei fosse uscita dall’inferno?
Era come se la tragica avventura della sua famiglia non avesse lasciato tracce. Allo stesso tempo però, a controbilanciare l’impressione d’un passato inesistente, la macchia che il tempo aveva impresso su di lei era percepibile nell’anacronismo del suo stile di vita. Forse sotto l’influenza della mia condizione di neo-lettore di romanzi ottocenteschi, mi veniva facile identificare in Karen l’incarnazione vivente di tante rarefatte eroine fin de siècle. Questo se non altro rendeva le seghe che le dedicavo, durante i pomeriggi in casa Ruben, un tributo al mio amore per la letteratura decadente: avere tra le mani e sul naso un collant di Karen equivaleva, nella mia fantasia, a possedere le lastre dei malandati polmoni di Claudia Chauchat. Come non accorgersi, d’altronde, che la voluttuosa erre blesa di Karen – glamour franco-prussiano che aveva inciso anche la lingua e il palato di David – durante le mie fulminee maratone nel cesso dei Ruben serviva egregiamente la causa della mia eccitazione? “Ehi piccolo, qui c’è tanta saliva per te!” sussurrava al suo Fanatico Onanista la Signora della mia fantasia, la cui versione in carne e ossa avrei trovato pochi istanti dopo in salotto in piscina in serra od ovunque avesse scelto di essere.
L’inferno di Karen aveva il nome d’una località, così trito da risultare impronunciabile.
Buchenwald.
In quel sito adiacente all’olimpica Weimar, i suoi genitori – due distinti signori alsaziani – erano stati annientati quando lei era ancora troppo piccina per soffrirne e per serbarne memoria. Karen era stata cresciuta a Parigi da una prozia scampata alle stragi hitleriane (in quanto moglie di un diplomatico cattolico), che Karen aveva preso pomposamente a chiamare “maman”. Eppoi c’erano stati gli anni a Le Rosey, collegio ginevrino, come conviene a una fanciulla della buona borghesia francese. Le Rosey perché entrasse in contatto con quella macedonia di aristocrazie industriali e nobiltà di sangue che le forgiassero gusti e aspirazioni. Karen s’era trovata a frequentare il jet set che alla fine degli anni Cinquanta celebrava i suoi riti tra Saint Moritz e la Costa Azzurra. Sebbene fosse bella in modo originalissimo, dotata di maniere impeccabili e in fondo abbastanza ricca da sostenere quel fiabesco tenore di vita, non era mai riuscita a liberarsi da una specie di sindrome dell’esclusa: ciò che invidiava ai suoi amici e alle sue amiche erano le loro famiglie. Famiglie numerose, fintamente o autenticamente unite: invidiava le riunioni, le chiassose festività (il Natale soprattutto), i patriarchi canuto-baffuti e le grandi foto di gruppo. D’altra parte la vergogna ispiratale dal nulla dietro di sé la induceva a mentire, a inventare parenti che non aveva, a inscenare viaggi durante le vacanze estive nelle dimore di zii che aveva perso ancora prima di venire al mondo. Così – nella diuturna e ostinata invenzione della propria famiglia – Karen aveva cresciuto in sé un’insana mitomania. In effetti non era chiara la ragione per cui si vergognasse tanto di essere orfana. Tanto più che, a quel tempo, c’erano molti disgraziati (un cugino di Bepy per esempio) che, colpiti dalla stessa sciagura di Karen per mano dei medesimi assassini, avevano sentito l’esigenza di costruire intorno a quei parenti sterminati una specie di mausoleo della Memoria. Tutto il contrario di Karen che, per sbarazzarsi dei suoi morti, aveva edificato un tempio invisibile dedicato all’Oblio e al Depistaggio. Ma perché provare tanto imbarazzo per una cosa della quale non aveva responsabilità? Possibile che lei arrivasse a considerare inelegante il modo in cui i suoi genitori e i suoi nonni e tutti gli altri s’erano fatti ammazzare?
Mistero! Una delle poche cose che ho imparato nella vita è che la gente trova i pretesti più disparati e insulsi per vergognarsi: colpe inventate, presunte, che vengono follemente trasfigurate da chi se le sente addosso come un morbo fatale. In fondo, se è sbagliato dire che la sventura di Karen fosse di per sé rispettabile, lo è altrettanto liquidare una simile tragedia come un’onta da cancellare.
Tanto più che questo cancro le rovinò la vita.
Molte volte, infatti, fu vicina a sposarsi con uomini da sogno. Ma poi?… Poi desisteva. E per la solita dissennata ragione: non sopportava le famiglie dei suoi promessi sposi. Arrivava a odiare ciò di cui in realtà era innamorata: quelle famiglie strutturate che la facevano sentire inferiore, instillandole il velenoso fiele dell’invidia. E, inoltre, dopo un po’ il fidanzato di turno reclamava il diritto di conoscere i genitori di Karen, di cui lei parlava continuamente. A quel punto lei preferiva gettare alle ortiche la propria felicità pur di non confessare che aveva mentito, che non esisteva alcun genitore. Ecco perché non deve affatto stupire che alla fine lei abbia scelto Amos Ruben. Si tratta dell’uomo nei confronti del quale esercitare la propria indubbia superiorità. Lui non ha niente che lei possa invidiare e allo stesso tempo ha tutto quello che le serve per orchestrare la sua rivincita. Amos è semplicemente il primo uomo cui Karen non senta l’esigenza di ammannire un’inquinante sequela di frottole colossali, e quindi l’uomo con cui costruire una famiglia senza il rischio di impazzire. Sì, perché Amos le appare come il classico ebreo déraciné imbarazzantemente ricco che potrà condurla in una città nuova di zecca, ove lei possa inventarsi una vita nuova e praticare impunemente la propria mitomania schizoide.
Tripoli, la città da cui Amos proviene, sembra aver tinto di giallo il suo incarnato: la pelle di lui brilla come i gioielli che la famiglia Ruben smercia da secoli o come l’alba nel deserto africano. Ma ormai anche Amos è un apolide. Quando incontra Karen non è altri che l’ennesimo transfuga delle purghe di Gheddafi, che ha trasferito i propri interessi a Ginevra, il classico mercante d’alto bordo marchiato dalla semplicità spirituale che caratterizza gli uomini che hanno fiuto per gli affari. Dalle pietre preziose agli orologi di lusso, nulla sfugge al calibratissimo olfatto di quel Creso libico. La sua vita è sobria, niente affatto lussuosa, divisa tra l’atelier che ha allestito in un appartamento in rue de Rhône (scintillante grotta di Alì Babà tradotta nel cuore dell’Europa, ove i futuri coniugi s’incontrano) e la sinagoga di Ginevra.
David – quando per puro caso ci ritroviamo vicini di banco in prima media – è perfettamente al corrente delle frottole della madre: e non solo non prova alcuna pena per esse, ma è abbastanza sicuro di sé da non farne mistero con i suoi amici. La sua strategia, in tutto simile a quella del padre, consiste nel provare, nei limiti del possibile, a secondarle. Così, quando Karen gli chiede:
«As tu té-lé-pho-né à tes grand-parents à Genève?», il grande Dav non ci mette niente a giurarle che lo ha già fatto. E bisogna dargli atto che non è da tutti assicurare alla propria madre di aver telefonato a due distinti vecchietti morti una trentina d’anni prima e che – per la cronaca – non hanno mai abitato a Ginevra.
Karen si è imposta due missioni tra loro collegate: da un lato degiudaizzare Amos, dall’altro creare dal nulla un rispettabile pedigree per Dav. E se la realizzazione di questo secondo proposito si è rivelata nient’affatto difficile, il primo ha creato problemi. Perché, sebbene Amos sia in balia della moglie, ciò non di meno mostra una certa orientale resistenza a stravolgere le proprie abitudini.
Karen sta esagerando: che faccia pure di suo figlio un gentile, che lo mandi a scuola dai preti, che gli faccia osservare il Natale, la Pasqua, il mercoledì delle Ceneri, che gli faccia frequentare tutte quelle insipide biondine, che riempia la casa di tutti quei chiusi snob, ma perché la sua tracotanza deve estendersi al punto di impedire a lui, Amos Ruben, di vivere a suo modo, così come gli hanno insegnato? Sì, non vede proprio perché anche lui deve aderire alle sciocche sceneggiate della moglie. Lui è ebreo. È fuggito da un Paese e da un’epoca nei quali tale peculiarità era considerata un problema. Proprio per questo ora non permetterà a nessuno (neppure a quella sublime signora di fronte alla cui potestà erotica è assai più che vulnerabile) di impedirgli di vivere come tale. Sente l’esigenza di onorare le feste comandate e di sostenere economicamente i suoi parenti sparsi per l’Europa. D’altronde Amos è troppo scaltro per non sapere che quei congiunti sono, allo stesso tempo, il dolore e la vergogna della moglie. Sicché per quieto vivere ha deciso che quanto più la moglie lo molesterà con racconti dei suoi parenti inventati tanto più lui dovrà risparmiarle le disavventure dei propri familiari in carne e ossa. Dal canto suo Karen, come tutte le persone instabili e insoddisfatte, non conosce la stessa indulgenza del marito. E spesso arriva a battezzare i familiari di lui con ingiuriosi epiteti come “beduini” o “berberi”. Sicché quando Amos, dopo aver finito gli spaghetti, si esibisce in una delle sue famigerate scarpette, Karen lo sgrida: «Mio caro, controllati, non stai in mezzo ai tuoi beduini!». Lei ha vietato al marito sia d’invitarli in casa – quei beduini! – sia di farli incontrare con Dav. Se Amos rispetta il primo di questi divieti, gli accade spesso di violare deliberatamente il secondo, tanto più che il figlio – scevro dagli snobismi materni
– ha palesato un’imprevedibile curiosità per quella parte di sé che affonda le radici in posti tanto lontani ed esotici. Sì, il ragazzo, con grande stupefazione di Amos, ostenta un’attrazione per quei parenti veri: chissà, forse proprio perché la madre per tanto tempo lo ha costretto a vivere in mezzo a quei ridicoli fantasmi.
La villa dei Ruben declinava sul verde pendio occidentale dell’Isola 1 dell’Olgiata, la più vecchia e signorile, sorta intorno al Golf a metà degli anni Sessanta, dopo la prima lottizzazione.
Per gli anni del liceo quel pretenzioso castellotto gonfio di edera immerso nel fiabesco isolamento di pini e cerri nel più britannico lotto di Roma nord fece da sfondo a un novero imprecisato di feste, nella memoria confluenti nel megaparty di dicembre circonfuso di siepi rosse e di edere violacee: quello che Karen pomposamente chiamava, e dietro a lei tutti gli altri, “la festa del tacchino”: ma che la consuetudine aveva contribuito a contrarre nell’espressione “il tacchino”.
Appuntamento cult del nostro ambiente, e per ragioni che avevano poco a che fare con la mondanità, niente col misticismo cattolico e molto con un’estenuata forma di tradizionalismo giudaico-hollywoodiano. E va bene, questi eccentrici Ruben pretendono da te smoking e abito lungo (Cristo, siamo solo adolescenti e distiamo appena quindici anni dal Duemila), t’immergono in quest’atmosfera che sa troppo di vischio, eppure la sensazione è superbamente rétro: il breve tragitto dalla propria casa a villa Ruben viene fatto su una macchina del tempo: come un eccitante viaggio dall’euforica Italia craxiana alla patinata America di Eisenhower.
Essere invitati al tacchino non costituisce privilegio, ma solo un diversivo piacevolissimo. Sia per gli invitati che vengono scaraventati in quello spazio inconsueto, sia per gli organizzatori così ansiosi di rispettare l’iconografia natalizia da non lesinare leziosaggini nell’addobbo della casa fino a farla assomigliare al set d’uno spot di pandoro.
C’è una smania nel collezionare finezze che potrebbero dire della nevrosi dell’organizzatrice più di qualsiasi altro indizio. Forse sulle liste di palissandro che compongono il parquet della sala da pranzo non c’è tutto il calore auspicato, ma solo retorica del calore, sapientemente orchestrata da Madame Ruben. Né può sfuggire agli invitati che tale esibizione – sebbene si tenda a esasperarne il risvolto pagano-consumistico – viene messa in scena da una famiglia ebraica. Né che la signora Ruben, per millenaria tradizione ostile all’idea che Gesù fosse il Messia tanto atteso, ama festeggiare il compleanno di quel crocifisso ebreo di successo in un modo che nessun cattolico saprebbe eguagliare (via, Karen, cosa penserebbero tuo nonno o tuo padre della sincera commozione che ti assale ascoltando Tu scendi dalle stelle…?). Né si può sottovalutare il fatto che i soli adulti presenti alla pirotecnica kermesse dicembrina (oltre ai camerieri) sono Amos e Karen (Dio, che nomi improbabili!). Come non va trascurato il sapore americano impresso all’evento. Che c’entra il tacchino di quindici chili ripieno di mele e castagne? O quell’illuminazione del giardino con faretti di luce viola e arancione nascosti sotto il glicine? Che c’entrano gli swing di Sinatra o di Bobby Darin? O il truck e la station wagon parcheggiati sotto la tettoia?… Via, ragazzi, siamo a Roma, mica nel Connecticut!
Ma come sospettare che dietro le quinte della lieta consuetudine mondana si nasconda un nucleo doloroso così palpitante? Il dolore d’una donna che ha investito emotivamente su un evento che dovrebbe tutt’al più svagarla. Come immaginare che una signora così impenetrabile possa lasciarsi andare a una giostra di apprensioni irragionevoli? Come possiamo accettare l’idea che noi rappresentiamo per lei molto più di quello che lei rappresenta per noi? Che Karen sarebbe disposta a pagare qualsiasi cifra per entrare nei nostri cervelli e capire finalmente che cosa noi pensiamo realmente di lei, di Amos, di Dav, di villa Ruben e soprattutto del suo insostituibile dindon ripieno di castagne?
Il calvario iniziava alla fine di ogni novembre, quando veniva stilata la lista dei partecipanti. I Ruben finivano con l’invitare un numero esorbitante di persone, per poter assorbire qualsiasi eventuale defezione e per esorcizzare l’horror vacui che atterriva Karen durante tutto il mese di dicembre: e se nessuno si fosse presentato? Sono cose che accadono. Cose che lasciano un segno indelebile. Possibile che la nostra felicità sia completamente affidata alla benevolenza del prossimo?
Un istante dopo aver spedito gli inviti Karen iniziava a chiedersi se essi sarebbero giunti a destinazione, e se i destinatari avrebbero avuto l’accortezza di rispondere tempestivamente. Dopo un paio di giorni andava al contrattacco, sottoponendo Dav a continui interrogatori: «Certo che i tuoi amici sono davvero maleducati». «Perché?» «Beh, non ti hanno ancora risposto!» «Ma dai, mamma, mancano ancora tre settimane!» «Ah, perché tu credi che sia una cosa facile? Credi che dare da mangiare a quella truppa sia uno scherzo? Ho bisogno di sapere – con pre-ci-sio-ne – quanti sarete!» «Va bene, domani li sollecito.» «Nooo, non sta bene sollecitare, sembra quasi che… Mica siamo esattori delle tasse.» «E allora che devo fare?» «Fai in modo che te lo dicano, mon petit.»
«Va bene, ci proverò, ma stai tranquilla.» «Uff, sono tranquillissima! Lo faccio solo per te. Sai quanto me ne può importare, della tua festicciola… Ma i miei genitori mi hanno insegnato a fare le cose per bene. Ecco tutto.» Naturalmente Karen concludeva sempre con una frase che alludeva all’educazione che le era stata impartita da quella famiglia inesistente. E David taceva.
Negli anni Karen aveva capito che il giorno migliore per il tacchino era il secondo o il terzo venerdì di dicembre. Per una serie di circostanze che sarebbe stato difficile razionalizzare, il venerdì sera garantiva un cospicuo numero di adesioni prestigiose, laddove il sabato sembrava invece escluderle.
Ma bisognava tenere conto dell’ostacolo-Amos. Che sua moglie organizzasse una festa di Natale in casa loro gli sembrava già un’ironica stravaganza della sorte, ma che addirittura gliela imponesse, per ragioni tanto sciocche, proprio la sera dello Shabbath, beh, questo era davvero intollerabile!
Naturalmente lei non sentiva ragioni e lui alla fine cedeva, non senza rancori. E diciamo che l’ostilità di Amos contribuiva a rendere l’aria ancora più irrespirabile. D’altra parte questo non era il solo caso di sovrapposizione religiosa. Non era raro, per esempio, che, entrando nel salone di casa Ruben, un giorno qualsiasi di dicembre, ci si trovasse di fronte allo spettacolo imprevedibile offerto da un panciuto, luminescente e pluridecorato albero di Natale al fianco del quale ardeva una hanukkia 8 accesa da Amos. Tale vista – che avrebbe deliziato qualsiasi fautore degli scambi interculturali tra le grandi religioni monoteiste – mandava letteralmente in collera Karen.
Così i giorni precedenti la festa, quando lei metteva in moto la sua ormai collaudata macchina organizzativa, la potevi incontrare in giro per casa con la lista degli invitati in mano. Non smettendo ossessivamente di contarli, associava ogni telefonata ricevuta da Dav a una possibile defezione. Era come se ogni squillo del telefono equivalesse, per lei, a una scudisciata sul timpano.
Per questo l’odio che provava per coloro che davano la disdetta all’ultimo minuto aveva proporzioni bibliche. Giurava a Dio che sarebbe andata a tutte le feste a cui l’avrebbero invitata. Sì, Karen, in quei giorni pieni di sospensione, in un accesso improvviso di religiosità, pregava: pregava che nessuno morisse. O che almeno avesse il buon gusto di spirare a festa finita. Che nessuna calamità colpisse la nostra città. Che nessuna guerra planetaria rendesse la sola idea di quella festa una grave offesa al decoro.
È agli annali il giorno in cui accade un fatto che fa vacillare pericolosamente la fede di Karen: tutto avviene quando, a poche ore dal tacchino, un aguzzo calcolo, acquattatosi per mesi nei reni di Amos, ha la sciagurata idea di destarsi, per ricominciare la faticosa corsa verso l’abisso, infognandosi all’altezza della strettoia dell’uretere. Amos, storicamente soggetto a coliche renali, ci mette un istante a riconoscere quella vampata di dolore paralizzante che s’irradia su tutta la schiena.
Il tacchino è in pericolo?
David, richiamato d’urgenza a casa, trova ad attenderlo uno spettacolo incredibile: Karen – i cui lineamenti sono stati ridisegnati dal nervosismo e dalla rabbia – è rannicchiata a fianco del marito che giace, come Marat, nella grande vasca del bagno. Amos è nudo, sofferente, la testa reclinata all’indietro, circondato da una dozzina di bottiglie di acqua di Fiuggi: il vapore acqueo gli ha imperlato la fronte e il caratteristico giallo del suo incarnato sembra tendere a un cupo verde foresta. È come se il dolore, e la paura che il dolore ritorni sotto forma di quelle fitte spaventose, lo avessero messo in uno stato di permanente allerta che gli tende i muscoli facciali e quelli delle braccia che hanno qualcosa di michelangiolesco. Se, da un lato, Karen lo accudisce, dall’altro non sa impedirsi di torturarlo con astiose recriminazioni: «Quante volte ti ho detto che dopo cena non devi bere tutta quella Coca-Cola ghiacciata? Sai che ti dico? Non la compro più!». «Dai, mamma, lascialo stare, non vedi come soffre?» «Lo dico per lui!» «Mamma, se vuoi rimandiamo il tacchino!» «Che c’entra il tacchino? Stiamo parlando di una cosa molto più seria: la salute di tuo padre! Eppoi chi l’ha detto che bisogna spostarlo? Tuo padre sta bene, ha bisogno solo di un po’ di riposo. Non facciamo tragedie. Certi malanni vanno solo sdrammatizzati. Non lo dico mica per me.
Sai quanto me ne importa. Ma non è carino mandare tutto a monte proprio adesso. Non sta bene.
Pensa ai tuoi amici di Firenze! Avranno già comprato il biglietto del treno. Pensa a tutta la roba che ho ordinato. Pensa a quel povero tacchino di quindici chili. Andrebbe sprecato…»
Insomma, lo spettacolo deve continuare. Né bisogna vanificare il sacrificio mortale del tacchino.
Sicché Amos solleva una mano con gesto mosaico per dare il suo assenso. Lui sta bene, non devono preoccuparsi per lui: «Tua madre ha ragione, non è successo niente, è impossibile disdire tutto proprio ora». Con che gravità emette queste parole! È quasi commosso dal proprio stesso coraggio finché una fitta tremenda non gli squassa nuovamente i reni e le sue guance vengono ulteriormente bagnate da piccole lacrime incontrollabili.
D’altronde Karen non avrebbe mai confessato che non le dispiaceva affatto che il marito, durante il tacchino, rimanesse immerso nella vasca. Eh sì, perché la sola cosa su cui, negli anni, non era riuscita a esercitare adeguato controllo, era il contegno di Amos durante il tacchino. Quante volte lo aveva visto servirsi al buffet indecorose quantità di cibo, e mettersi in un angolo con la testa affondata nel piatto come un carcerato. O alzare troppo la voce, o accendere improvvisamente la TV, o fare rumore con la bocca mangiando la zuppa (da quel giorno Karen aveva abolito dal menu ogni cibo liquido). Per non parlare delle volte in cui il buon Amos attaccava discorso con figli di sue clienti, nei confronti dei quali assumeva la posa lievemente servile che taluni bottegai ostentano con i più prestigiosi tra i loro avventori abituali, che fa da contraltare al tono sbrigativo riservato a quelli occasionali. «Mi saluti la sua mamma» diceva Amos, con un tono mellifluo da far sfigurare Shylock, esibendosi in un inchino impercettibile la cui vista faceva quasi svenire la moglie dalla vergogna.
«Perché, mon cher, non te ne vai un po’ di là? Non vorrai annoiarti con questi ragazzi. Ti porto io un bel piatto… Sembri così stanco» gli diceva lei affettando un calore che non provava. Ma lui, sempre commosso dalle attenzioni della moglie, la rassicurava: stava benissimo. Gli piaceva la compagnia dei ragazzi: «Tesoro mio, tranquilla, non essere nervosa, è tutto delizioso».
No, stavolta, grazie a quella colica benedetta, si sarebbe risparmiata il calvario di vedere all’opera quel molesto cafone di suo marito!
Il contegno di Dav, durante il tacchino, risulta non meno sorprendente di quello dei suoi genitori.
Forse, sotto l’influsso dell’ansiogenia materna e dell’iconoclastia di Amos, tradisce segni, se non proprio di nervosismo, di palese scorbutichezza, come se desiderasse essere altrove. Di solito ha fatto impazzire la madre rientrando dal golf nel pomeriggio inoltrato. Appena in tempo per una doccia e per indossare lo smoking e riducendo la sua stanza da letto a un campo di battaglia. Non che si trovi a disagio nei panni di padrone di casa in alta uniforme. Piuttosto sembra mancare nei più elementari doveri imposti dall’ospitalità: per esempio è il primo a servirsi. Mangia come un disperato, soprattutto la carne, evidentemente per riprendersi le proteine consumate durante i suoi atletici tour de force.
Sembra quasi che, come ogni figlio che si rispetti, stia attento a non partecipare alle dissennate euforie della madre.
O forse sta ancora pensando a una partita che non è andata bene. Tutti sappiamo che la sua nevrosi è lo sport, o per meglio dire la competizione sportiva. Tutti sappiamo che lui non accetta di perdere.
Tutti sappiamo che non c’è niente che influisca più negativamente sul suo umore d’una sconfitta.
Tutti sappiamo che anche nella partita più amichevole e insignificante Dav impegna la sua aggressività arrivando a offendersi con il compagno di squadra incapace di comprendere quanto vincere quel match sia una questione d’importanza capitale.
Forse per questo nelle altre cose della vita è d’una mitezza olimpica, che sconfina nell’abulia.
Possibile che il desiderio di umiliare il prossimo – quel vizio che allieta e avvelena le vite di tutti noi – in lui si esaurisca in un leale desiderio di battere gli avversari sul campo? Che origine ha tale magnanimità? Si può dire che Dav appartenga a quel novero di ragazzi così soddisfatti del proprio presente da non sentire l’esigenza di sporgere il viso nell’avvenire, attraverso l’immaginazione, per essere felici? Dav ha la fortuna di desiderare quello che possiede e di possedere quello che desidera. Non conosce la speranza ma solo l’ordinaria prassi della propria letizia. Ama se stesso, senza dolore senza idolatria, ma con calore e indulgenza. Ama dormire nudo la notte e ritrovarsi al mattino scarmigliato di fronte allo specchio. Così come gli piace nuotare, fare la doccia, trangugiare enormi bistecche e quantità equine di verdura, trascorrere le estati in America a pescare trote o a surfare. Non fa niente in modo professionale. Si annoia presto di tutto. Alla lunga ama dimostrare la propria infedeltà a se stesso. Il dilettantismo in lui diviene categoria morale. Ogni passione viene decantata da quell’organismo che nasconde il proprio mistero in una profondità che nessuno potrebbe attribuirgli.
Se è vero che il Tempo è il vero nemico dei Ruben e che, per questo, Karen ha ripudiato il passato, allora forse è lecito ipotizzare che Dav abbia semplicemente abolito il futuro.
Insomma, a che ti serve il futuro se hai avuto – all’età giusta e senza sopportare alcun sacrificio – il meglio che la vita sa offrire? Che te ne fai della speranza se tua madre, al di là dei sogni di gloria, ha avuto il buon gusto di non proiettare su di te alcuna ambizione scolastica o professionale, e se tuo padre è troppo apolide per pretendere da te l’orgoglio dinastico che ci si aspetterebbe dal rampollo d’una famiglia dal patrimonio consolidato?
David è libero, più libero di tutti noi, e soprattutto ha le idee chiare su come spendere la sua libertà.
Non disdegna il lusso ma non lo idoleggia. Per lui è del tutto funzionale. Lo hanno precocemente munito d’una carta di credito illimitata con la quale togliersi sfizi estemporanei, ma difficilmente indulge in quel consumismo compulsivo che intossica la vita della maggior parte delle nostre fanciulle.
Insomma, il segreto di David può riassumersi in una formula piuttosto grossolana: non avere un passato da rispettare né un futuro da desiderare.
Una volta mi disse con voce seria e angosciata: «Senza sport sarei un disadattato sociale». Questi barlumi di consapevolezza autocritica erano forse i soli microbi che attentassero alla salute di quel tripudiante ragazzo. Ecco perché talvolta il suo animo sembrava tendere a una specie di sospensione catatonica che lambiva il disturbo depressivo. Ecco forse perché durante il tacchino, sebbene circondato da tanti ospiti che avrebbe dovuto accudire, Dav se ne restava in disparte intontito a ingozzarsi di leccornie, mentre il suo amico-valletto Giorgio Sevi, pluridecorato veterano di quella festa, accoglieva e intratteneva gli ospiti in uno stato di esaltazione, come se fosse il padrone di casa.
La noia era il termometro della vita di David Ruben: appena quel morbo spirituale lo sfiorava, ecco intervenire un esercito di anticorpi a sospingerlo verso nuovi allettanti diversivi. Se si annoiava evidentemente era tempo di cambiare qualcosa. D’accantonare vecchie passioni e sceglierne di nuove: cambiare era il modo per non lasciarsi adescare dalla morte.
L’equitazione ha fatto il suo tempo? È ora di diventare pescatori.
E allora, proprio come quei bambini che si divertono più ad allestire battaglie immaginarie che a combatterle, David preparava il proprio futuro di pescatore, acquistando l’attrezzatura, cerchiando con il pennarello su carte topografiche i laghi e i torrenti che avrebbe violato con i suoi stivaloni di gomma verde, pregustando il piacere di levatacce mattutine e di partenze nel cuore della notte. Il miracolo è che quelle passioni private in un baleno diventavano collettive, finendo con il contagiarci tutti. Così le nostre vite erano scandite dall’ultima follia di Dav che in poche settimane diventava anche nostra, almeno fin quando quel capriccioso maître à penser non avesse deciso che eravamo maturi per un altro cambiamento di rotta, per un nuovo sfizioso trip.
Eppure Dav se ne infischiava degli altri: come se gli sparissero davanti. Era troppo superiore per prenderli in considerazione.
Perché perdere tempo, come faceva sua madre, a ipotizzare cosa gli altri pensavano di lui? Piuttosto che rincorrere, non era più sano e divertente lasciarsi inseguire?
Non che Dav fosse privo di vanità: la somiglianza con Tom Cruise, per esempio, lo lusingava assai più di quanto non fosse disposto ad ammettere. Prova ne sia il fatto che spesso arrivava a schermirsi anche senza ragioni apparenti con frasi tipo: “Oh, basta con Tom Cruise!”, che non servivano ad altro che a ribadire di fronte a tutti l’incredibilità di quella somiglianza. E in fondo la corrispondenza rivendicata con quel divo del grande schermo non era di carattere fisionomico, ma addirittura ideologico. A Dav piacevano i figli belli della middle class americana, quelli che avevano conquistato ruoli da protagonisti nei film di allora: era stregato dalle loro scarpe da ginnastica, dalle camicie a scacchi, dagli occhiali da sole, dai piumini senza maniche, ma soprattutto dalla normale straordinarietà del loro tenore di vita. Spesso rimproverava i genitori –
chissà quanto scherzosamente – di non essere emigrati in America. Dio, se solo lo avessero fatto! Si vedeva impettito come un galletto solcare i campi da football salutato dagli urli acuti di ragazze pon pon. Quello era il suo destino. Altro che l’insulso piccolo Paese in cui l’avevano confinato.
Avrebbe barattato l’invito a qualsiasi rendez-vous mondano organizzato dall’ennesima contessina (corteggiata in sua vece da Karen) con un Big Mac o con una pepperoni pizza, all’epoca, almeno dalle nostre parti, autentiche rarità. La cosa strana – e che denotava ancora la gustosa eccentricità del suo punto di vista – è che Dav all’America delle coste (quella più fascinosa) preferiva l’entroterra: la peggiore, la più meschina, quella che nessuno ama. Gli piaceva giocare a essere il tipico teenager cresciuto in una casupola del Mid West sperduta in mezzo a ettari pianeggianti di granturco: baseball, biliardo, Bud ghiacciate, prime colazioni sostanziose, barbecue, country music e sesso in motel con slavate biondine dall’apparecchio per i denti. Indignato che in Italia non fosse permesso prendere la patente a sedici anni, aveva costretto la madre ad acquistare un pick-up con il quale lui, appena quindicenne, si divertiva illegalmente a saltare sui dossi dell’Olgiata di fronte agli sguardi di quei borghesi indulgenti (così felici, in fondo, di vedere all’opera quello che considerano il proprio figlio mancato, sì, il figlio che ogni signorina spera un giorno di avere e che qualsiasi signora rimpiange di non avere avuto).
Sebbene Dav facesse parte, suo malgrado, di quella lista selezionata di nomi che le discoteche del tempo si disputavano – arrivando a offrire quattrini (come oggi si fa con la starlettina di stagione) per accaparrarsi l’esclusiva e assicurarsene la presenza il sabato sera – lui, senza particolare snobismo ma in preda agli abituali soprassalti di stizza, preferiva raccogliere la sua piccola corte in casa e allestire, nella sala cinema, l’ennesima sfiancante visione di C’era una volta in America. Si trattava del suo film. Della quintessenza di quello che il cinema e la vita avrebbero dovuto riservare a un uomo come lui: eroismo, anarchia, violenza, lealtà, sentimentalismo, sangue, amore romantico, amore carnale… Ed è strano che all’epoca mi sfuggisse come quel colossal suggestivo e stilizzato mettesse in scena una vicenda di violenta assimilazione ebraica: C’era una volta in America non è che la storia di due gangster da strada, figli di émigré ebrei, che avevano voluto, a ogni costo, conquistare il Nuovo Mondo. È strano che non mi ponessi neppure la questione e che non comprendessi come la commozione che Dav cercava testardamente di dominare e di nascondere, alla fine delle snervanti proiezioni di C’era una volta in America, derivasse da una specie di empatia profonda, quasi inconsapevole, nei confronti dei due protagonisti mirabilmente interpretati da Robert De Niro e James Woods. È evidente che quel film funzionava così bene per Dav perché era pieno di ebrei, è evidente che se fosse stato zeppo di italoamericani esso non avrebbe avuto su di lui quell’impatto così dirompente.
Questo era David Ruben, il nostro Dav: un concentrato di adrenalina, di deliranti iniziative e di remote svenevolezze, una versione borghese dell’americano a Roma così trascinante da contagiare un’intera comunità di ragazzi al punto di indurli, senza alcuna costrizione, a rivedere per un anno consecutivo quasi ogni sabato lo stesso film. Era davvero bello lasciarsi guidare da quel figlio di puttana che, rispetto a tutti gli altri, aveva saputo elaborare una visione del mondo completamente autonoma, capace di agire sulle nostre interiorità in un modo che non avremmo saputo spiegare a chi non avesse avuto il privilegio di essere amico di David Ruben, detto Dav.
Ebbene, la coscienza su cui più tenacemente il mondo di Dav sembrava aver inciso – con una violenza tale da ipotizzare il reato di plagio – era quella di Giorgio Sevi.
A quel tempo Giorgio era funestato da una bellezza noiosa, certo sovradimensionata da maniacali cure inflitte al proprio corpo. L’intervento chirurgico cui si era (clandestinamente) sottoposto per sistemare le orecchie da lui giudicate troppo sporgenti aveva sortito l’effetto di rendere la sua avvenenza ancora più insipida. La natura di tale fisionomica piacevolezza sembrava fatta in modo da impressionarti al primo incontro, quando il tuo cervello, quasi distrattamente, collocava Giorgio nella casella dei “bei ragazzi”. Ma era increscioso come tale giudizio fosse incapace di resistere all’assiduità d’un’amicizia e persino a una saltuaria frequentazione. Già alla seconda o alla terza volta che lo vedevi, ti veniva spontaneo deplorare il nasino cesellato, le orecchie artificiali e gli occhi che sembravano affogare nella propria fissità. Il nostro povero ragazzo sembrava essere l’incolpevole vittima dell’incantesimo d’una strega beffarda che s’era divertita a trasformare la sua bellezza in qualcosa di misteriosamente fastidioso. Il viso di Giorgio ricordava quei rumori di fondo del cui disturbo ti rendi conto allorché improvvisamente cessano di molestarti. Proprio così: solo quando gli occhi di Giorgio scomparivano dal tuo orizzonte potevi comprendere quanto la loro inespressività ti avesse infastidito. Ciò aveva fatto di Giorgio uno di quegli aitanti manichini che nei licei di tutto il mondo incontrano consensi tra le ragazze più piccole, lasciando indifferenti (se non addirittura nauseate) le coetanee.
Vorrei che tale estetica disfunzione fosse messa agli atti come “dramma n. 1”.
Di più Giorgio non avrebbe potuto fare: impossibile avere un corpo più scolpito: sì, forse al paio di lampade settimanali avrebbe potuto aggiungerne una terza, o cospargere la pelle d’una dose ulteriore di crema idratante e i capelli di magici elisir atti a prevenirne la caduta. Ma a che pro se, come sa bene ogni chef, l’accumulazione di buoni ingredienti – lungi dal garantire un effettivo beneficio – serve solo l’insulso dio della stucchevolezza? Giorgio aveva un luccicante Rolex d’acciaio rigorosamente portato a destra, Ray-Ban inforcati ventiquattro ore su ventiquattro, un piumino, una moto Enduro, capelli ingelatinati e una manierata propensione alla celia e al contatto interpersonale. Nel suo ambiente, tra vecchi amici e parenti, nel nucleo dei suoi supporter istituzionali, era bastato questo per fare di lui un predestinato. Ma tra noi, come lui aveva capito con sgomento, le cose funzionavano in modo diverso. Quel che aveva lui lo avevano in molti – e quest’inflazione bastava a squalificare anche i suoi doni migliori. Ci voleva l’Ineffabile (quel non so che…) che Giorgio non riusciva ad afferrare, limitandosi dolorosamente a intuirlo. Tutto quello per cui aveva lavorato sin dalla nascita, tutto quello che aveva faticosamente costruito, qui sembrava irrilevante. Cos’altro inventarsi allora? E come reagire di fronte al successo insensato di alcuni giovani pieni di verve, ma totalmente sprovvisti dei suoi muscoli e refrattari alla sua quotidiana, frocesca toilette? Giorgio era come una di quelle macchine fotografiche il cui obiettivo non riesce a mettere a fuoco la scena. Le sue letture della realtà erano sempre pateticamente sfocate. Per questo rideva di battute non divertenti per rimanere imperturbato di fronte a scene assolutamente comiche? Per questo riusciva sempre così inopportuno? Forse la sua sciagura consisteva nell’essere abbastanza intelligente da capire l’irritazione da lui suscitata nel prossimo, ma non abbastanza da porvi tempestivo riparo.
E questo è decisamente il “dramma n. 2”.
Una volta a una sua festa di compleanno a sorpresa –organizzata dal fratello con grande dispetto del festeggiato – ebbi modo d’imbattermi nei signori Sevi, che con la loro aria, tutt’altro che dimessa, erano lì a spiegarmi parecchie cose sul conto del figlio. Notai soprattutto il padre: indossava una giacca Armani color vinaccia che malconteneva il massiccio corpo benedetto da un viso che recava inequivocabili segni dell’origine contadina: occhi spillati, pelle coriacea, capelli dipinti da Mantegna e un polso sfavillante di bracciali. La cosa realmente caratteristica della sua persona era il modo di parlare: il signor Sevi ce la metteva tutta per ricacciare nelle profondità del diaframma le intonazioni che denunciavano la sua umile nascita. Era uno di quegli individui che, avendo appreso il dialetto prima dell’italiano, per liberarsi dall’influsso soverchiante del primo e gettarsi a corpo morto nelle braccia del secondo compiono spaventosi sforzi autopunitivi. Era come se questo signore, quando parlava – soprattutto con gli amici del figlio o con i suoi munifici clienti – si sentisse costantemente sull’orlo d’un precipizio. Un passo in più della lingua, una consonante dimenticata o inopinatamente raddoppiata sarebbero bastate a scagliarlo nel baratro della sua estrazione sociale. Ma nonostante questa piccola impasse, il signor Sevi aveva un’aria spigliatamente compiaciuta, segno che la vita, date le premesse, lo aveva risarcito d’ogni sacrificio.
Da figlio di famiglia umilissima a rispettato commercialista che aveva coronato il proprio miracolo ascendente con il matrimonio con la bella del quartiere. Quel trionfo, incarnato, ai suoi occhi almeno, da due figli d’un’avvenenza promettente, era ulteriormente celebrato dalla villa a Casalpalocco il cui giardino ingombro di palme, cicas e lantane faceva il verso al parco d’un’isola caraibica. Al centro del luminosissimo salotto a giorno splendeva immacolato e oblungo un pianoforte a mezza coda su cui Manuel, il fratello minore di Giorgio, intratteneva gli ospiti con una versione imbarazzantemente sgrammaticata di Per Elisa che riempiva il cuore dei suoi genitori d’un orgoglio corroborante.
Durante quella sciagurata festa a casa Sevi, in cui più volte vidi Giorgio avvampare trafitto dagli strafalcioni del padre e dal vizio della madre di apostrofare tutti con rude colloquialità romanesca
“A ni’”, compresi come lui, in poco tempo, si fosse trasformato in uno di quei ragazzi che, pur avendo ricevuto ogni beneficio materiale e affettivo dai propri genitori, non sa impedirsi di vergognarsene mostruosamente. Era come se, dopo aver adorato, per tutti gli anni della sua infanzia incantata, quei dolci benefattori con la condiscendenza dei suoi occhi innocenti, oggi non potesse impedirsi di vederli e giudicarli attraverso i diaframmi di snobismo che noi eravamo stati ben lieti di regalargli per il suo sedicesimo compleanno (“dramma n. 3“).
Ma per il “dramma n. 4” (il più clamoroso e circostanziato) dobbiamo spostarci a una “classica” in piscina a casa di Dav, il penultimo anno di liceo. Di solito andiamo lì d’estate il sabato, nel primo pomeriggio. Karen è meravigliosa nel farci trovare sul tavolo sotto il gazebo vassoi pieni di fette d’anguria e di melone immerse in un bluastro mare di ghiaccio. E mentre noi giochiamo a pallanuoto e le ragazze prendono il sole in smaglianti bikini colorati, refrattarie a bagnarsi perché il cloro è nemico della melanina, Giorgio, abbronzatissimo, seduto sul bordo della piscina, sfoggia un fisico tonico e un allusivo costumino a righe: ha lottato contro di sé tutto l’inverno affinché il dolce promontorio disegnato dai dorsali emergesse con nettezza. Sta piegando il braccio e stringe il pugno per mostrarci la tornitura del tricipite. Il giardino è invaso da una musica euforica e sincopata. Un mix dei successi dei Kool & the Gang, semplicemente adorati da Dav e da tutti noi.
A un tratto Giorgio, vedendo Diamante Arcieri in disparte che guarda a bocca aperta alcune sedicenni ballare tra loro come lesbiche, la chiama a sé.
Diamante è una moretta dagli occhi smeraldo apparentemente privi di qualsiasi astuzia seduttiva.
Una delle rare starlettine a non darsi arie in una scuola che produce industrialmente vamp da strapazzo e in cui la discriminazione pecuniaria ed estetica non è considerata affatto una distorsione sociale ma un segno di profonda civiltà. Non che sia alla mano, ma la sua inafferrabilità sembra dipendere più dalla timidezza che dall’alterigia. È una che in classe incespica spesso, che alle interrogazioni non risponde mai, a cui le cose cadono dalle mani, la cui faccia s’imporpora per niente, il cui fascino sembra consistere proprio nell’allusività espressa da quell’apparente svagatezza. Si favoleggia che il padre, azionista di riferimento d’un industria farmaceutica, possegga un jet. Si maligna che sia l’unica ragazza del nostro entourage ad aver opposto un risoluto rifiuto a Dav. Tale voce l’ha circonfusa d’un’aura d’inaccessibilità metafisica, che, in una prevedibile osmosi, ha fatto di lei, così minuta e malcerta, l’incarnazione della Ragazza Impossibile.
È per questo, Giorgio, che fai lo stupido con lei? È per questo che la corteggi continuamente? Sai che, alimentando ambiguità su un inesistente rapporto, un giorno potrai raccontare che tra voi c’è stato qualcosa, certo di non essere smentito? Che tu, Giorgio Sevi, sei riuscito laddove David Ruben ha fallito? Per questo alzi tanto la voce quando la chiami? Possibile che ogni tuo atto sia subordinato a un calcolo autopromozionale? E possibile che tale calcolo sia sempre drammaticamente errato?
Ora Giorgio la sta chiamando:
«Su, Diamante, sali sopra di me con tutti e due i piedi. Senti che addominali.»
«Sei matto?»
«Su, ops, senza paura, è come salire su una lastra di marmo» insiste il nostro smargiasso.
Lei cede e, prima con un piede poi con l’altro, gli sale sulla pancia conquistando l’attenzione degli astanti. Proprio allora avviene la cosa più imprevedibilmente imbarazzante che sarebbe mai potuta accadere. (Siamo nel pieno climax del “dramma n. 4”.) Giorgio per lo sforzo emette una scoreggia lunga e rumorosa, e lei dalla costernazione cade in acqua. E mentre tutti ridono convulsamente, Giorgio si tuffa in piscina fingendo di correre in soccorso di quella fanciulla che non avrà più il coraggio di guardare in faccia per il resto della sua vita.
È ragionevole, quindi, ritenere che il motivo per cui sono stato convocato in questo pacchiano bar di Manhattan quindici anni dopo i fatti sopra esposti è che il nostro Giorgio voglia vendicare quella lontana flatulenza. Che il nostro nuovo impeccabile Giorgio possa spassarsela a spese del vecchio Giorgio scureggione. Perché di certe umiliazioni non ci si libera facilmente. Perché certe adolescenziali figure di merda non cadono in prescrizione. Ti rimangono attaccate per sempre.
Giorgio vuole cancellare l’effetto di quella risata, quella risata irrefrenabile che tutti ci contagiò irresistibilmente, che lo sommerse fino a liquefarlo nell’azzurro della piscina dei Ruben.
Al telefono, quando è arrivato addirittura a invitarmi, offrendo ospitalità nel flat nell’Upper West Side («Anche per una settimana se vuoi, Daniel, ho tanto di quello spazio!»), ho capito dall’ansimante insistenza che evidentemente le cose straordinarie che avevo inteso sulla sua riuscita professionale erano vere: ma così incombenti e insostenibili da spingerlo a rintracciare una vecchia conoscenza dei tempi del liceo – tanto meglio se si trattava del pessimo, irritabile Daniel Sonnino, a costo di sotterrare la nostra ufficiosa inimicizia di liceali – per potergliele almeno spiattellare in faccia. Ho finito col convincermi che volesse usarmi da ambasciatore presso i vecchi compagni nei confronti dei quali ha conservato un irrisolto risentimento.
Sembra quasi che per Giorgio sia venuto il momento di chiedere il conto. D’incassare crediti pluriennali. D’altronde, se hai fatto tanti soldi, come goderteli fino in fondo senza che i tuoi vecchi amici ne siano informati nel dettaglio? Senza che la tua Diamante – allora indifferente e oggi distrattamente coniugata – sappia che tu, proprio tu, lo scureggione, ce l’hai fatta? E come può sfuggirmi che il vero interlocutore – l’interlocutore fantasma – di Giorgio sia Dav, quell’ombra di platino che si muove sugli sfocati sfondi delle nostre esistenze? È per lui, in suo nome e contro di lui, che Giorgio ha costruito la sua vita. Non a caso è venuto a cercare fortuna in America, il Paese che Dav gli ha insegnato a idolatrare. Non a caso si è rivolto a me, il migliore amico di Dav.
Giorgio desidera che io, rientrato a Roma, riunisca il gruppo del liceo per celebrare il suo trionfo?
Che mi faccia promotore di questo ennesimo Big Chill tradotto sulle putride rive tiberine ove, in vece del morto, venga glorificato il più vivo tra noi?
Amen. Sono qui per servirlo.
Dacci dentro, cucciolo. Siamo nel posto giusto, nelle viscere della città delle colossali fortune e dei disastri epici. Sfogati, piccolo mio, ora che ce l’hai fatta. Ora che sei uno schianto con questo gessato blu, con la regimental che va così bene con i gemelli di corda colorata e con gli argentei riccetti alla George Clooney. Ora sì che hai raggiunto quello che nessuno di noi potrà mai raggiungere. Ora sì che sei diventato quel che desideravi ardentemente essere. Ora sì che la famigerata scoreggia ha smesso di vibrare. Ora sì che, in un sol colpo magistrale, hai cancellato i quattro drammi della tua quasi perfetta adolescenza.
Ma mentre una cameriera dal sorriso augurale e dalla gonna inesistente torna a servirci, leggo negli occhi di Giorgio l’espressione di desolata sorpresa che anch’io tenterei di dissimulare se dopo quindici anni di straordinari successi ritrovassi un compagno – un irritabile rompipalle passato alla Storia per la lettera minatoria più folle che sia mai stata scritta e consegnata a una diciottenne dei quartieri alti – trasformato, dal tempo, in una palletta di grasso inoffensiva. Così mi sono presentato a lui: sopraffatto da un cumulo di ben ventisette chili in più e alleggerito di centomila capelli rispetto alla nostra ultima volta insieme. Sono qui: gli occhi bagnati di chi mangia, fuma e beve continuamente, per colmare i vuoti esistenziali, l’impotenza erotica e una certa rabbia strisciante.
Temo che l’effetto che ho prodotto nel suo animo non si scosti troppo da quello in me suscitato da Silvia Toffan e dalla mutila Manhattan.
Com’è potuto accadere?
Come ci si riduce così?
Da dove esce questo sgorbio invecchiato?
Dove li ha messi i capelli?
Quanti quintali di cibo ha ingurgitato per mettere su quella pancia, quel collo, quelle guance massicce?…
Ecco il frullato di enigmi espressi dall’intelligibile sguardo di Giorgio Sevi, cui il mio cervello sembra rispondere con una specie di interrogatorio autoinflitto: Perché sei qui?
Che senso ha stare qui?
Perché hai accettato di incontrarlo?
Perché ti sei assoggettato?
Perché non riesci a controllarti?
Finché la furia interrogativa non si generalizza, estendendosi al mondo intero, come un coro greco: Che qualcuno ci spieghi per quale motivo un individuo che ha superato mille traumi, che potrebbe parlare dell’ultimo splendido libro di Saul Bellow di fronte a centomila persone appollaiate sulle tribune d’uno stadio, un tipo che – pur non essendo donnaiolo, né filantropo, né particolarmente piacente o simpatico – ha avuto i suoi incontri eccitanti e le sue esperienze formative, un individuo dopo tutto strutturato… al solo contatto con uno dei suoi vecchi amici del liceo sbianchi, ridiventi il bambino che se la faceva sotto, il balbuziente che in presenza d’un’ariana evangelica fanciulla non sapeva dove mettere le mani? Ecco, che qualcuno ci sveli questo mistero. Perché è così terrorizzato, come fosse di fronte a una giuria o a un plotone d’esecuzione? Perché continua a versare per terra il suo aperitivo? Cos’ha questo Giorgio di diverso da tutte le altre migliaia di persone incontrate quotidianamente che mettono il nostro Daniel straordinariamente a suo agio? Cosa deve risolvere ancora? Quale prova di valore dovrà fornire alla comunità per non sentirsi soverchiato da quest’indecente spettro di puerilità?
«Su, dimmi di te» mi dice Giorgio a un certo punto, per scacciare da sé quella montante impressione di disagio: «è vero che ti sei sposato?»
«A dire il vero, no.»
«Mi sto confondendo, allora.»
«Temo di sì.»
«Allora ti stavi per sposare?»
«Mai avuto questa intenzione. Dimmi tu, piuttosto!»
«Beh non posso lamentarmi…»
Pausa. Riprende:
«Che ne dici d’una bistecca da Smith and Wollensky?…»
Faccio un gesto lieve di assenso. Uno dei posti di mio padre. Molto borghese, un po’ antiquato, ma niente male.
«Ma forse bisogna prenotare» dice lui allora, deluso dalla mia preparazione. «Se non trovi i tavoli in fondo alla sala, quelli riparati e tranquilli, è uno strazio.»
«Guarda, Giò, che per me una cosa vale l’altra…» (Una cosa vale l’altra? Ma ti senti? Sei impazzito? Perché parli così? Perché vuoi dare l’idea di non essere un tipo esigente? Tu sei un tipo esigente! Perché dissimularti? Che diavolo ti succede?) «E Cipriani?» dico allora per far vedere che me ne intendo «sai, il proprietario, il figlio del vecchio Arrigo, è amico dei miei.»
Nulla è cambiato da allora: ostentazioni: imperterrite ostentazioni temperate da fasulla nonchalance.
«Le lasagne più strepitose di Manhattan» aggiungo trionfalmente per conformarmi al suo registro.
Il superlativo assoluto è un’eredità di quegli anni. Affidavamo a quell’euforia grammaticale i nostri continui rilanci.
«Beh, se vuoi incontrare la crema dei rampolli italiani da esportazione con i loro palmari del cazzo e i Daytona in bella mostra… accomodati» mi brucia lui affettando sdegno.
«E insomma, come vanno le cose?» torna a chiedermi, dopo l’ennesimo sorso di Bloody Mary e l’ennesima pausa. «Non dirmi che Daniel Sonnino ha perso la parola? Dimmi di tua moglie almeno!»
Temo che questa ostinata curiosità su una mia presunta consorte non sia altro che una manovra diversiva propedeutica alle informazioni che sta per elargirmi su di sé. In realtà desidera ardentemente che io sia sposato, perché non vede l’ora di contrapporre la mia sinistra e melanconica monogamia di borghese insoddisfatto alle sue poligamiche sfrenatezze di uomo di successo.
Non siamo qui per questo?
E allora lasciamoci investire da un torrenziale seminario sulla felicità.
Manager d’una multinazionale alimentare americana. Dirige il settore surgelati. Ha, come si dice, bruciato le tappe e sgominato la concorrenza dei colleghi più anziani grazie ad alcune sorprendenti intuizioni di marketing. Lui, per tutta l’adolescenza assetato di approvazione, non poteva fare altro che studiare professionalmente i misteriosi ingranaggi del consenso. È pagato per sedurre, e da quel che vedo è davvero in gamba.
Evidentemente ci tiene a farmi sapere che vive tra Milano e New York in due sontuosi appartamenti pagati dalla società. Ha la stravaganza di lamentarsi per l’esiguità del suo stipendio: 700.000 dollari l’anno, senza tenere conto di premi di produzione e stock option e sorvolando su molti altri benefit. Eppoi è insediato in un siderale ufficio al sessantesimo piano dell’ITT Building, una carovana di segretarie, un istruttore di fitness che lo segue in capo al mondo, una calibratissima dieta ipocalorica, una coppia di domestici messicani e un’intera nidiata di Labrador, una BMW X5, una collezione di Harley, una casa a Southampton il cui scantinato ospita una piscinetta piena di aragoste vive, e tante altre inimmaginabili cose che avrebbero fatto la gioia di qualsiasi ragazzo cresciuto nella gloria angosciosa e fittizia del nostro pretenzioso liceo anni Ottanta.
E come può una così deprimente ostentazione di benessere non scatenare in me la metamorfosi?
Inevitabile. Era lì in agguato. Non posso reprimerla. Mi afferra il polpaccio come uno squalo. Sono in balia della metamorfosi come certi personaggi dei fumetti, come l’Incredibile Hulk. L’atavico adolescente ha preso il sopravvento sul sedicente adulto in un bar di Manhattan. Non è mica uno scherzo incarnare – anche se a tempo determinato, anche se una sera soltanto – l’idea stessa del Fallimento! È un’urtante sensazione che, dopo cinque aperitivi alcolici, s’approfondisce. È come se un altro me stesso, molto più potente e al contempo molto più fragile, fosse emerso, esumato dal terrore che l’incontro con un conoscente all’apice dell’ascesa ha saputo infondermi: un terrore che credevo di non poter più provare, un terrore superato, ascrivibile a una stagione passata della mia vita, una reliquia consegnata alla Storia. Ma che – è evidente – era lì. Il terrore di non farcela. Di non bastare. Un terrore d’inadeguatezza. È Lui – quel Dio Vendicatore – a parlare per me. Giorgio l’ha resuscitato. E ora lo zombie è qui, di nuovo tra noi.
Così mi trovo a raccontar fandonie, proprio come al-lora, con la stessa dolorosa intensità, con gli stessi occhi bassi, con la voce che tenta di non tremare, con un tono euforico e disperato. Quel che ho perduto forse è la spudo-ratezza del contaballe di professione: la forza di credere forsennatamente nella frottola che sto dicendo: quello che mi manca è un po’ di sano allenamento!
Forse per questo le menzogne appaiono così diverse da quelle che ammannivo da ragazzo. Oggi trasfiguro la realtà, allora inventavo di sana pianta. A quel tempo dai miei torrenziali discorsi zampillavano fichette scopate sulla spiaggia, viaggi intrapresi in capo al mondo, peripli dell’Africa su panfili favolosi. Nel mio mentire di allora c’era qualcosa di eroicamente titanico.
«Ti ho detto che ho vinto il concorso di Ordinario? Ma certo, lo sai, non è così che m’hai trovato?…»
«Credevo fossi un professore a contratto. Almeno così c’è scritto sul sito dell’università, se non sbaglio.»
«Ah sì, sai, probabilmente avendo appena vinto il concorso non lo hanno ancora aggiornato, il sito intendo…»
«Ah, ecco…»
«Nel frattempo ho scritto un libro. Molto apprezzato. Avrà venduto quasi… quasi… diecimila copie.
Sai, non troppe forse in assoluto, ma per un saggio di sociologia letteraria è come dire un best-seller. Tanto che ha avuto una sua eco qui negli States. Pensa che solo tre mesi fa ho tenuto una conferenza a Harvard. Dovevi vedere quanta gente e di che livello. Un centinaio di accademici.
Cenacolo di prim’ordine. Lì, ad ascoltarmi. Sai, una soddisfazione… Tutti con il mio libro tra le mani.»
«Allora è stato tradotto?»
«Non proprio… Cioè sì… insomma, solo alcune dispense per l’università…»
«A proposito, dove hai tenuto la conferenza?»
«Cosa intendi?»
«Beh, in quale aula? In quale struttura? Conosco bene Harvard, ho vissuto a Cambridge per tre anni, ho fatto lì l’MBA: gli anni più belli della mia vita…»
«Beh, sai che non me lo ricordo? Sai, ero fuori di me… emozionatissimo… mi sono lasciato scortare… pioveva… poi è passato un po’ di tempo…»
E intanto bevo, bevo, mando giù il sesto Bloody Mary.
E ora il colpo di grazia.
«Stai scrivendo qualcosa?» mi spara a bruciapelo.
Se fossi onesto risponderei: “No, non sto scrivendo niente”. È da quando ho scritto quel cazzo di saggio (se contro o a favore degli ebrei nessuno lo ha mai capito) che non riesco a scrivere più niente. È triste che un trattatello abbia prosciugato tutte le mie riserve creative. È patetico che il più grande muscolare sforzo letterario che il dottor Daniel Sonnino – professore a contratto in una delle tante università di Roma – abbia saputo profondere nel primo trentennio della sua inutile esistenza sia bruciato così rapidamente nel rogo da lui volgarmente allestito per distruggere l’immagine ebraica dei suoi scrittori preferiti. È sconcertante che la sola occasione concessagli sia marcita nell’invidia per grandi e prolifici scrittori che gli hanno salvato e distrutto la vita. È avvilente che, volendo scrivere un saggio, lui abbia edificato un mausoleo dedicato all’Invidia.
E invece rispondo: «Sì, un romanzo. Quasi finito oramai. È nelle mani d’un agente…».
(Pronunciando queste parole sento la testa traversata da un’improvvisa vertigine. È da diciassette anni – diciassette anni! – da quando ero uno sbarbatello martirizzato da cocenti sogni di gloria, che non faccio che ripetere a tutti, ma soprattutto a me stesso, che ho quasi finito un romanzo. Credo che la maggior parte dei miei conoscenti abbia capito da almeno un decennio che quel romanzo non lo finirò mai, che quel romanzo è esistito solo nella fantasia d’un moccioso megalomane. Io, invece, lo capisco ora, mentre per l’ennesima volta rispondo a un mio interlocutore che il romanzo è quasi finito oramai… Sono quei meccanismi di malafede che ci aiutano a vivere: come quando con gravità e tristezza dico ai miei allievi: «Sapete, ragazzi, il romanzo è morto!» oppure: «È così difficile scrivere un capolavoro prima dei cinquant’anni. Guardate Proust», espressioni canoniche che se solo uno di loro avesse voglia di decodificare potrebbe intendere così: “Non è il romanzo che è morto, ma semmai sono morto io come romanziere ancor prima di nascere. In ogni modo non c’è da preoccuparsi perché ho ancora una quindicina d’anni per scrivere la Recherche”. «Ma professore» m’inchiodò una volta una maliziosa studentessa – che Iddio se ne sbarazzi al più presto!–, «Proust non ha iniziato a scrivere la Recherche a trentatré anni?» «Beh, di questo non siamo certi…» rettificai cattedraticamente.)
«Perché torni a Roma così presto?» mi chiede dopo una lunga pausa, e il suo tono si è fatto (almeno mi sembra) secco, quasi inquisitorio. «Non mi avevi promesso di restare almeno una settimana?»
«Non ci crederai!»
«Cioè?»
«Vado a un funerale.»
«Mi dispiace. Ti è morto qualcuno?»
«Non proprio.»
«Allora?»
«Il funerale di Nanni Cittadini.»
«Il nonno di Gaia?»
«Precisamente.»
«Oddio, ti sei bevuto il cervello?»
«È così!»
«Cazzo, non ti basta mai?»
«Beh, mi sembrava una cosa carina… Un gesto riconciliatorio…»
Da questo punto in poi non rispondo di me. Non so se quello che sto per dire sia il resoconto di un fatto o un’allucinazione. Non so se sia realmente accaduto o sia semplicemente un postumo dell’ebbrezza. Un banale vaneggiamento etilico. O addirittura la parossistica eco del mio Catto-Ebraico Senso Di Colpa.
D’un tratto Giorgio si fa serio e mi dice:
«Sei l’essere più spregevole che abbia mai conosciuto.»
«Come scusa?»
«Hai sentito benissimo, risparmiami la parte dell’ubriaco.»
«No, è solo che…»
«Lo sei sempre stato, d’altronde. Credevo fossi conciato meglio. E invece guardati, fai schifo.»
«Non ti sembra di esagerare?»
«Ne conosco di tipi come te. Questa città è piena di tipi come te. Ti somigliano persino fisicamente.
Hanno tutti il tuo profilo da formichiere e le lenti degli occhiali rigate. Sempre pronti a mandare in avanscoperta i vostri libri, la vostra sensibilità, e gli ebrei e l’Olocausto e tutte queste altre puttanate…»
«Che c’entra l’Olocausto?»
«… E pretendete pure che gli altri vi rispettino. Perché poi? Hai più diritti di noi? Perché se Diamante mi dà buca è normale, ha le sue ragioni e tutto il diritto di scegliere… Mentre se Gaia rifiuta lui, il Signor Sensibilità, il Signor So Tutto Io, Mister Olocausto 1989, lo fa per motivi oscuri, reconditi, perché è una mignotta, una pompinara antisemita. Me lo sai spiegare questo?
Cosa ti diceva la testa quando l’hai minacciata di morte?»
«Ma dai, facevo così per dire. Non avevo nessuna seria intenzione di… Bluffavo. Era una provocazione dialettica. Un proposito surrealista.»
«… E la cosa più incredibile e divertente è che dopo aver combinato tutto quel casino, piuttosto che scomparire, di non farti più vedere, ti sei presentato alla sua festa, ti sei ubriacato, mortificando tutto e tutti. Arriva lui, l’inconsolabile, e manda tutto a puttane. Dico solo che avresti potuto svanire. Toglierti definitivamente dalle palle. Sarebbe stato più degno. E invece hai iniziato a fare la campagna elettorale.»
«Campagna elettorale?»
«Sì, la più incredibile campagna autopromozionale che abbia mai visto. Tu volevi arraffare solidarietà. Volevi dimostrarci che Lei era cattiva, che Lei ti aveva ingannato, che ti aveva portato all’esasperazione, che Lei era il male assoluto… Te lo ricordi quando hai osato paragonarla ad Adolf Hitler? Sì, di questo tenore era la tua propaganda. E sai qual è l’ironia?»
«Sono certo che stai per dirmelo.»
«Che molti di noi hanno finito col crederti. Non io, intendiamoci, ma un sacco di gente sì. Li hai plagiati. Ecco cosa penso. E ora dopo tutti questi anni ti ripresenti e mi racconti queste fregnacce! E
mi dici che vai al funerale del nonno di Gaia. Come se non fosse successo niente. Come se non fossero passati così tanti anni. Come se tu in quella grottesca lettera non l’avessi minacciata di morte. Via, Daniel, conosci parole quali “vergogna”, “dignità”, “decoro”?»
«Te l’ho detto: non avevo intenzione di ammazzarla veramente… Era uno scherzo… Una boutade…
Uff, ma perché provo a spiegartelo? In fondo non hai mai avuto il senso dell’umorismo… Prendi quella scureggia, per esempio. Ne hai fatto una malattia…»
«Di cosa stai parlando?»
«Su, non fare la sceneggiata, sai bene a quale scureggia alludo… Non fare il modesto! C’è una sola grande scureggia passata alla Storia. E tu hai il merito di averla emessa.»
«Sei una merda, Daniel!»
«Pensa che recentemente ho incontrato Diamante e lei mi ha chiesto di te: “Hai più visto il petomane?”… E io mi sono messo a ridere, perché io ho senso dell’umorismo…»
«Che stronzo…»
«E va bene, hai ragione, non era il caso di tirare fuori questa storia. Ma sei tu che hai iniziato, dopo tutto. Sei tu che hai evocato i fantasmi. Sei tu che hai aperto i cassetti. Sai, dopo una certa età, è meglio tenerli chiusi, questi cazzo di cassetti! E se vuoi sapere cosa penso, ti dirò che Gaia non aveva il diritto…»
«Non aveva il diritto a cosa? Me lo sai dire? Non aveva il diritto a scopare, a fare i pompini?…»
«Beh, sarebbe stata più carina se li avesse elargiti a un uomo alla volta. In fondo aveva solo quattordici anni.»
«Volevi ammazzare una ragazzina che faceva pompini a quattordici anni? È questo che stai cercando di dirmi? Vuoi dirmi che se avesse aspettato un altro paio d’anni, allora avresti compreso?
Vuoi dire che se fosse stata maggiorenne avresti approvato?»
«Ma no, su, messa così non ha senso… Eppoi piantala co’ ‘sta storia: non volevo ammazzare nessuno!»
«La verità è che certe ragazze precoci bisognerebbe glorificarle. Su, Daniel, mica è un reato fare i pompini a qualcuno. È un piacere farli, e, se ci tieni a saperlo, è ancora più bello riceverli. Mica siamo in Iran. La nostra costituzione consente a chi voglia di elargire o ricevere pompini… E invece tu hai montato tutto quel casino, tirando in ballo cose che non c’entravano niente, sviando la nostra attenzione dai fatti… Hai sempre sviato i nostri sguardi dai fatti. Non eri mica così in gamba come ti sentivi, eri solo un volgare depistatore, ecco cos’eri, se ci tieni a saperlo… Non ho mai capito perché un tipo a posto come Dav ti desse tanto credito. È davvero un mistero! Dovrebbe vederti oggi. Sei una vignetta del perfetto fallito. Tu e i tuoi futuri best-seller! Tu e le tue strainventatissime conferenze havardiane… Sai che ti dico? Conosco meglio io la Patagonia di quanto tu conosca Harvard…»
«Sei stato in Patagonia?»
Mentre Giorgio si accalora in quella che non so ancora precisamente se collocare nella casella delle allucinazioni etiliche o in quella dei fatti storicamente verificabili, sento montare improvvisamente il buon umore. E allora – penso tra me e me, accendendo il fidatissimo toscanello, sfidando il divieto del locale e l’indignazione degli astanti – se è vero che in quegli anni ho fatto tanto rumore, se è vero che sono stato il Moralizzatore ipocrita, quest’incrocio tra Cromwell, Savonarola e Tartuffe, se ho rotto le palle a tutti in questo modo indegno… sì, se tutto questo è vero e non il frutto di un livido ex amico o d’un mio alcolico miraggio, allora, a dispetto della sensazione di vacuità trascolorante che da trent’anni m’affligge, io sono esistito davvero.
2 Un po’ di pace sulle nuvole.
Solo ora, dopo aver lasciato Giorgio simulando indignazione per le sue sferzanti parole (ultima bugia in un penoso incontro dedicato alla mistificazione), ora che un taxi mi ha condotto all’aeroporto di Newark, avendo pervicacemente riflettuto per tutto il tragitto, saturo della monca Manhattan sbiadente dietro e dentro di me negli specchi rosa-dorati del tramonto, ora che mi preparo a salire in aereo per questo viaggio di ritorno a Roma verso le esequie del vecchio Nanni e tante altre cose ancora… Solo a questo punto, dopo essere stato letteralmente scaraventato nel mio passato, vedo affacciarsi nella sua rivoltante densità la storia di Gaia, di Nanni, di Dav, di tutti gli altri. E, mentre consegno il biglietto a una hostess e mi guardo attorno per sincerarmi che nessuno dei miei compagni di viaggio abbia il truce aspetto d’un attentatore islamico, sento il fremente desiderio di riattraversare quella storia: riappropriarmene per un’ultima volta. Ripartire da zero, a costo di lavorare tutta la notte, nel mio ambulante em-pireo sospeso a novemila metri d’altezza sull’oceano Atlantico verso quella magnifica soleggiata città ove tutto ebbe inizio.
3 Inventario delle mie estive svenevolezze.
Vorrei poter dire che Gaia non mi piacque all’istante, che la vista di quella ragazzina bionda con la vena diafana sul collo e sui polsi, quel topino in T-shirt a strisce blu e bianche, quella teenager con in testa un foulard di seta verde acqua che la faceva simile a Jacqueline Kennedy o a una Madonna pontormesca, sbarcata al molo di Positano dal ligneo motoscafo Riva un pomeriggio estivo dell’Ottantaquattro, mi lasciò indifferente. Preferirei addirittura buttarla sullo psicologico, celarmi dietro a qualche suggestiva definizione: sostenere che i giorni di vita inconsueta nella villa dei Cittadini, la perdurante, ingiustificata assenza di mia madre, e la presenza insopportabile di Giacomo che proprio in quei giorni aveva inaugurato uno “sciopero del silenzio” contro Nanni e contro i suoi ospiti, avessero fiaccato il mio sistema nervoso al punto da pormi nella prostrata condizione di spirito che antecede ogni miraggio amoroso. Vorrei poter dire che quell’incantesimo, un primo assaggio del mio disastro giovanile, sia scaturito da una debolezza, da un’inesorabile carenza ormonale. O addirittura adottare un registro patetico, asserendo che trovarmi di fronte a una delicata fanciulla che aveva un padre suicida mi sgomentasse al punto da mobilitare in me simultaneamente l’idealismo ebraico e il -solidarismo cattolico. Vorrei poter dire che mi invaghii d’un’idea, un’idea che ci sovrastava tutti, una contagiosa utopia collettiva che imponeva alle ragazze di quell’epoca il perseguimento d’una bellezza sfuggente, quasi astratta. Vorrei poter dire che l’impressione ricavata dalla coscienza che lei fosse perfettamente al corrente di chi ero, da dove venivo, delle proporzioni della mia inferiorità rispetto a lei eccitasse il mio organismo in un modo sinistro. Vorrei poter dire che le condizioni storiche, quella sorta di pax augusta instaurata dal presidente Ronald Reagan (siliconato condottiero destinato a vincere la Guerra Fredda) mi avesse reso sentimentale, abbassando le mie difese immunitarie.
Ma non posso fare altro che abbandonarmi alla cruda verità.
Gaia, con il suo sguardo color brezza marina, era uno schianto, e per ragioni diametralmente opposte a quelle che avrei sostenuto negli anni con me stesso e con i miei incantati interlocutori.
Non è vero che fu la banalità di privilegiata ad attrarmi (uno snobismo successivamente elaborato).
Né che l’aver sperimentato per la prima volta il paradigma masochistico che mi poneva in una posizione di netta sudditanza nei confronti d’una mia coetanea (lei aveva un anno esatto meno di me, ma quale maggior consapevolezza…) mi avesse drammaticamente suggestionato. Perseguirei la falsità dichiarando che lei fosse come tutte le altre, un prodotto del suo ambiente raffinato, con tanto d’arido e ruffiano, uno dei mille cloni di quegli anni, marmorea raffigurazione dell’inconsistenza altoborghese (anzi temo che tali definizioni si attagliano più al sottoscritto in fieri). Con ciò non intendo che quella passione, destinata con gli anni a estenuarsi ben oltre le soglie dell’ossessione, non poggiasse su una valutazione soggettiva, su un mio gusto personalissimo di carni diafane. (È quasi ovvio dirlo: altrimenti tutti si sarebbero innamorati di lei e tutti avrebbero finito per scriverle quell’odiosa lettera…) Vorrei ridimensionare la portata di quel soggettivismo, però. Vorrei chiarire che non mi innamorai di un porcospino né d’una formula matematica e tanto meno d’uno stemma patrizio. Bensì d’una ragazzina all’apice del suo fluorescente splendore, che aveva le carte in regola per far innamorare di sé metà della popolazione adulta di Positano in quel rovente Millenovecentottantaquattro. Ecco cosa sto cercando di dire.
Senza con questo voler negare che io allora mi trovassi nella disposizione giusta per un pieno abbandono. La mela era matura per il raccolto. La sequenza appare perfidamente perfetta, da plot hitchcockiano: prima la vacanza in Inghilterra, che serve a mostrarmi il volto licenzioso dell’altro sesso e quello scabroso della sessualità femminile tout court (impresso nel naso l’afrore esalato dalle dita di mio fratello: quel miasma da mercato palermitano). Poi c’è il lungo (tale mi è parso) viaggio-calvario sulla Porsche di mio padre in un arido pomeriggio di mezza estate nell’alternanza dantesca di perversità ambientali e visioni paradisiache. La casa lussuosa di Nanni, con le sue regole piene di civismo e armonia. L’esposizione ai raggi solari che mi hanno colorito braccia e fronte e caramellato i capelli. Il panorama di ogni mattina a colazione. Il fremito odoroso della moca sul fornello della cucina. Il velo di nutella che spalmo furtivamente sulla lingua per darmi coraggio. Il giallo sgretolato dei muri delimitanti i vicoli che ogni mattina percorriamo, mio padre e io, per andare a comprare i cinque quotidiani, le riviste di auto e la “Settimana Enigmistica”. Il profumo delle creme solari. Il bruno della pelle delle mie coetanee autoctone che si rincorrono sull’affusolato lembo di terra sabbiosa che costituisce la spiaggia di Positano. L’inglese biascicato degli americani in ferie. Il fiume variopinto e cosmopolita di uomini dai bianchi cappelli e i parei arcobaleno delle loro stagionate signore. I profili di imponenti yacht in rada per giorni di fronte ai miei occhi, ma così irraggiungibili da apparire fantasmatici come navi pirata! Il ricordo di Bepy morto solo un anno fa che sgorga da tè freddi con granita (una versione on the rock della reminiscenza proustiana). Gli ardenti astici del Covo dei Saraceni. Il pergolato di vite sotto al quale la sera ceniamo. Il gusto agro e verdognolo dell’unico sorso di Falanghina concessomi ogni sera.
La metodica eco delle onde proveniente dalla caletta privata sotto la mia finestra poco prima di addormentarmi. Date tali premesse, sfido chiunque a non innamorarsi.
Possibile che il sinestetico intreccio di queste impressioni abbia alterato il regolare equilibrio del sistema? E allora ecco ogni cosa tendere a un’ineffabile pienezza. Con una sola preoccupazione: per quanto tempo terrò a bada la mia perniciosa vocazione all’infortunio, quella forza indomabile e sanguinaria che mi ha portato sin dai primi anni della vita a rovesciare almeno un paio di volte a pasto la bottiglia dell’acqua sui pantaloni del padrone di casa, o a urtare un oggetto pregiato polverizzandolo? Per quanti giorni terrò a freno la mia natura di gaffeur professionista, se tutto in questa casa sembra alludere a una fragilità metafisica, e se l’eccesso di attenzione ha ridotto i miei movimenti ai brevi scatti sincopati d’un patetico Pinocchio?
Supponiamo che Gerhard Fischer, rubizzo tedesco di mezza età, la fronte protetta da un largo panama color vaniglia – che di mestiere faceva il fotografo per l’oggi defunta rivista inglese
“Fashion Press” specializzata in servizi su grandi luoghi di villeggiatura a uso di leziose coppiette angloamericane – si fosse trovato nell’estate dell’Ottantaquattro a dover fare un reportage fotografico su Positano. Supponiamo che il nostro Gerhard fosse uscito in mare con una piccola imbarcazione a nolo alle sei e mezzo di pomeriggio allo scopo di trovarsi a un chilometro dalla costa poco prima delle sette così da poter fotografare Positano e dintorni immersi in un delicato crepuscolo. Supponiamo che per giorni avesse atteso quella luce: quella luce seducente tassativamente vietata all’arte e che solo le cartoline autorizzano: quella luce del tramonto che piace agli americani (così come piaceva ai veneti nel Sedicesimo secolo). Supponiamo che costui si fosse trovato proprio di fronte alla villa di Nanni nel preciso istante in cui mio padre e io parcheggiavamo l’auto e la solita pattuglia di minuti domestici ci veniva incontro per aiutarci a scaricare le valigie e io sentivo mancarmi il fiato come di fronte a qualcosa che m’offendeva personalmente: ecco, sono certo che Gerhard, in tutt’altra condizione emotiva rispetto alla mia, avrebbe iniziato a fotografare rapacemente. Sono certo che non si sarebbe lasciato sfuggire quella casa (anche se, date le dimensioni del complesso, dovrei ricorrere al termine assai ridicolo di “fortezza”), che non avrebbe rinunciato al privilegio d’immortalare quel labirinto di scale, terrazze e strapiombanti costruzioni bianco-arancioni agilmente inerpicate sul costone, dall’ombrosa spiaggia fin quasi alle altezze siderali di Monte Pertuso, immerse nella luce ramata del tardo pomeriggio. Perché, per quanto la cosa potesse apparirti incredibile – fin quasi all’umiliazione –, Nanni possedeva un pezzo di costa in uno dei luoghi più suggestivi del pianeta, esattamente equidistante tra la villa di Zeffirelli e l’Hotel San Pietro. Ecco perché il fotografo tedesco sarebbe rimasto esterrefatto, chiedendosi chi mai avesse potuto meritare di vivere in un simile paradiso verticale.
La zona più interessante della dimora era quella centrale: balconi e pergolati e una panoramica piscina di acqua salata, la cui parete sinistra era rimasta studiatamente grezza. Ogni mattina una pompa succhiava l’acqua dal mare e, dopo averla depurata, la versava nella vasca attraverso un pertugio aperto nella roccia, come una cascata artificiale. L’interno della villa era un succedersi di archi e camini di muratura che esaltavano un restaurato pavimento dei primi del Novecento: sfavillante mosaico di maioliche turchesi con disegni che ricordavano vagamente grottesche rinascimentali. Il mobilio, per lo più coloniale, non di pregio – come Nanni ci spiegò –, era stato assemblato dal vecchio proprietario nel corso d’una vita di viaggi. Ecco perché quell’accozzaglia di bassi tavolini indonesiani, suppellettili aborigene, tappeti berberi, arazzi zebrati e cineserie varie ti faceva sentire immerso nell’anacronistica atmosfera della dimora d’un governatore inglese sulle rive del Gange alla fine del Diciannovesimo secolo. Poltrone chesterfield di pelle color panna, poste come sentinelle vicino alle finestre, flirtando con le pareti bianche dense di luce, spezzavano l’oscurità dell’arredo. Era una di quelle case-cantiere che i proprietari non finiscono mai di arredare. Non mancavano pezzi pregiati della collezione di Nanni, come lui stesso si affrettò a mostrarci. Avendo solo di recente scoperto l’art déco, nel giro di poco tempo, e con favolosi esborsi, si era aggiudicato un vaso di René Buthaud, scatole laccate di Shinobu Tsuda, un servizio da tè d’argento di Puiforcat, gingilli che mandarono in estasi mio padre, che arredavano casualmente l’ampio living-room, il cui più prezioso oggetto restava comunque il panorama che si godeva dalla vetrata a giorno. Era come il ponte più alto e vertiginoso d’un transatlantico. Ed era magnifico sedersi su uno di quei divani di stoffa pallida e lasciarsi ipnotizzare dalla sterminatezza del mare.
Eppure la segreta attrattiva di quella casa da sogno, che, con il fasto contenuto, gli imprevedibili spiragli e le improvvise aperture mozzafiato, sembrava fatta apposta per torturare un ragazzino nato al principio degli anni Settanta e pasciuto nella convinzione che l’intero mondo si esaurisse in una gara sfrenata a chi fosse più ricco, non aveva nessun rapporto con quel succedersi di oggetti pregiati e viste spettacolari… Il capolavoro nascosto e magnetico di quella casa, che il nostro Gerhard non avrebbe mai potuto intuire, era una porta.
In fondo nient’affatto diversa dalle altre, quella porta, rigorosamente serrata, sembrava proteggere un segreto inimmaginabile. La mia mente – forse ancora suggestionata dalle visite ai castelli inglesi
– si figurava che la porta proteggesse una stanza enorme sfarzosa e rinforzata, non troppo dissimile da quella in cui aveva vissuto Enrico VIII: la stanza di Gaia.
Sì, quella porta custodiva un’attesa: e non un’attesa generica, non un’attesa metafisica: non il solito Godot o un trito Deserto dei tartari: parlo d’un’attesa circoscritta e circostanziata che sembrava aver tutti contagiato: l’attesa che Gaia, la cui bellezza sembrava consacrata da questa villa come quella di Afrodite da alcuni templi dell’antichità, si degnasse di tornare dalla sua piccola vacanza caprese.
Ora, che esistesse una bimbetta, per di più mia coetanea, capace, con la sua sola assenza e con la promessa d’un imminente ritorno, di mettere in moto il meccanismo di quella dimora, mi sembrava il fenomeno più strano cui mi fossi mai trovato ad assistere.
E come poteva la mia sorpresa non essere acuita dall’incredibile contegno del vecchio?
Era semplicemente fuori di sé. Sembrava il sacerdote officiante un rito pagano. Come se stesse aspettando la visita d’un capo di Stato, non faceva che ammonire i domestici con stucchevoli raccomandazioni: «Consuelo, ricordati che sui fusilli alle zucchine devi mettere tanto basilico e niente parmigiano, come piace a Gaia… Perché non è ancora venuto l’idraulico? Doveva aggiustare l’idromassaggio, altrimenti la mia bambina…».
Sì, questa dea assente, vampira del nostro sangue, cui Nanni sembrava alludere con ogni gesto delle mani e con ogni sintagma emesso dalla bocca, era lo spettrale monarca che incombeva sull’organizzazione domestica da quasi sei giorni. Per Nanni, evidentemente, era più importante fare colpo sulla nipote che su mio padre. Questo per me era assurdo, sacrilego, doloroso, ma soprattutto eccitante. Si aveva l’impressione che l’intero nucleo di quella cittadina di mare fosse stato allertato. E che tutto questo avvenisse per una ragazzina il cui visetto – assai carino, non c’è che dire, ma non esageriamo! – sembrava moltiplicarsi, come in una vaporosa ossessione, in tutte le fotografie disseminate per casa, rendeva la mia attesa ancora più lugubre. E il fatto che quella frenesia di Nanni potesse essere la piccola tessera d’un più ampio mosaico psicologico (all’epoca a me totalmente incomprensibile) che se qualcuno si fosse interessato a ricostruire avrebbe – chissà –
mostrato la figura incombente ma, nonostante tutto, niente affatto tragica, del suicida Ricky Cittadini, è un pensiero successivo che nulla toglie e nulla aggiunge al mio pathos di allora e alla mia angosciosa stupefazione.
Inoltre il mistero di quella porta chiusa richiamava – per contrasto – l’impudicizia della porta a essa adiacente, quasi sempre aperta. Non chiudere la porta della propria stanza era una delle tante strategie adottate da Giacomo per differenziarsi dalla sorella e per esasperare il nonno. Il messaggio era esplicito: io non sono un tipo misterioso, io non ho nulla da nascondere, io non aderisco al grottesco programma autocelebrativo di questa famiglia. Ecco al-lora come quel ragazzo esponeva se stesso allo sguardo strabiliato del prossimo. Non era raro che, passando nei pressi del bagno, lo vedessi pisciare nel lavandino con un’espressione manieratamente estatica. Era addirittura frequente che lui si spogliasse completamente per sdraiarsi sul letto di fronte alla porta spalancata.
Eppoi c’era quel benedetto “sciopero del silenzio”, che comportava anche altre stranezze intollerabili. Non solo Giacomo si era imposto di non rivolgere la parola né a Nanni né a mio padre e tanto meno a me, ma aveva deciso di disertare anche i raggi solari. Viveva recluso, le persiane abbassate, come desiderasse distinguersi in ogni modo dalla abbronzata tribù che frequentava la piscina di Nanni. Giacomo parlava solo con i domestici. Questa forma di vieto pauperismo non mi avrebbe particolarmente sconvolto se una sera non avessi assistito a una scena singolarissima. Ero andato in cucina per prendere un bicchiere per mio padre e rimasi sulla soglia, esterrefatto. Davanti ai miei occhi c’erano i quattro domestici, per una volta vestiti in borghese, seduti intorno al grande tavolo rettangolare imbandito in un modo se possibile ancor più ricercato di quanto non pretendesse ogni sera Nanni per la sua tavola sotto il pergolato di zagare. Mangiavano silenziosi e un po’
imbarazzati. Finché non vidi, in piedi, con aria impettita e il vassoio in una mano come insegnano alla scuola alberghiera, un cameriere improvvisato vestito d’un rigatino con alamari d’oro e guanti immacolati. Era Giacomo. Sì, Giacomo, che stava servendo la cena ai domestici del nonno. Ebbi la prontezza di sgattaiolare via prima che qualcuno mi vedesse. Ma non riuscii a disintossicarmi da una strana forma di malessere. Mi veniva naturale chiedermi se quella recita si ripetesse tutte le sere, o solo una volta ogni tanto. O se avessi avuto l’onore di assistere a una prima. Eppoi tante altre domande: era lui a costringerli? O erano loro ad averlo plagiato? Nanni sapeva? E se sapeva perché non interveniva con decisione? Perché Nanni, la cui severità sembrava avere qualcosa di emblematico, mostrava tale negligente indulgenza per le stranezze di Giacomo e per l’arroganza dei suoi domestici? Era una strategia educativa o un segno di resa? Forse Nanni non solo sapeva, ma era lui l’ideatore, lo sceneggiatore e il regista di quella pagliacciata? Forse essa rientrava nei suoi famigerati metodi educativi? Cosa provava Nanni per quel ragazzo? Affetto? Vergogna? Pietà?
Rabbia?
Cosa penserà Gaia Cittadini di me? (E chissà perché il cognome era indispensabile?) Questo interrogativo era così conficcato nella mia mente che, talvolta, mi svegliavo nel pieno della notte per guardarmi allo specchio, nel tentativo d’intuire quale potesse essere il preciso effetto che la mia persona – quella screditante pubblicità al popolo ebraico – avrebbe prodotto su di lei.
E allora tornavo a immaginare la porta chiusa a chiave, mi veniva spontaneo alzarmi e improvvisare un furtivo pellegrinaggio di fronte a quel muro del pianto e, infine, tornavo a interrogare le stelle:
Cosa penserà Gaia Cittadini di me?
Questa domanda aveva la stessa disperata intonazione di quella che mi sarei rivolto molti anni dopo sull’effetto che i miei scritti avrebbero potuto produrre su qualche crudele e indifferente editore di massa.
Ma se solo avessi avuto un po’ più di lucidità e sangue freddo probabilmente sarei riuscito a formulare entro di me interrogativi assai più stringenti e appropriati, come per esempio: Cos’avranno provocato tutte queste attenzioni regali nella mente d’una bambina? Quale indelebile segno possono aver impresso sul suo viso o sui suoi comportamenti abituali? Ma in quello stato di semiprostrazione, acuito da tutto quel clamore abbacinante, non avevo trovato di meglio che rifugiarmi nel solo interrogativo che a quel tempo sapesse angustiarmi: Cosa penserà Gaia Cittadini di me?
Ecco la madre di tutte le domande: tanto che il successivo quinquennale sodalizio con Gaia, contrassegnato da una serie d’indelebili mortificazioni, si esaurisce in questa domanda (cosa penserà Gaia Cittadini di me?), ben più che in tutte le temporanee e volubili risposte che avrei tentato di dare. Non solo: ma se un grammo di quell’ormai estirpato dolore persiste in una regione del mio organismo, sono certo che esso riguarda questo torturante quesito: cosa penserà Gaia Cittadini di me? D’altra parte sento oscuramente che se solo avessi cambiato i termini della questione, fin quasi a ribaltarla in: cosa penso io di Gaia Cittadini?, ecco, credo che tutto sarebbe stato diverso. Eppure, per quanto possa apparire strano, non una sola volta in quei cinque anni avrei trovato la forza e la dignità di rivolgermi un interrogativo naturale, denotante un certo spirito critico, quale: cosa penso io di lei? Di più: temo che se solo avessi avuto la forza di estendere questa domanda a tutto l’ambiente che frequentavo, se solo mi fossi chiesto, tentando di leggermi dentro: via, Daniel, cosa pensi tu di loro?, piuttosto che rifugiarmi nel trito e ossessivo adagio: cosa penseranno loro di me?, allora forse chissà… D’altronde ciò che distingue l’esemplare esperienza di mio fratello Lorenzo rispetto alla mia così disastrosa può essere il fatto che non solo lui ebbe la forza e l’ironia di chiedersi sin dal principio: cosa penso io di loro?, ma addirittura quella di rispondersi nel modo superbamente icastico che gli era proprio: io penso che loro siano una manica di stronzi paranoici! Non esiste altra significativa differenza tra me e Lorenzo se non che lui riuscì a stabilire con quel mondo crudele un rapporto sfacciatamente convesso, mentre io mi rinserravo nella mia ottusa concavità. E bastò questo, evidentemente: perché, per il resto, la nostra condizione era pressoché identica: avevamo lo stesso padre e la stessa madre, la stessa cultura, gli stessi soldi a disposizione, la stessa incerta identità religiosa, la stessa capacità introspettiva, la stessa vocazione egotica, gli stessi occhi scuri, la stessa incipiente calvizie, la stessa “esse” difettosa… E allora bisogna concludere che fu solo un difforme atteggiamento mentale a determinare la sua serenità e il mio rumoroso schianto.
(Poche settimane fa languivo in soggiorno, abbracciato a un bottiglione di Coca-Cola, con le mani affondate in una vaschetta piena di arachidi. Guardavo la TV, come spesso accade negli ultimi tempi. Appena risorto dal mortificante tedio degli studi mattutini. Da quando ho un posto precario all’università, da quando ho preso coscienza che il mio rapporto con Sharon, la mia ragazza, si è sbrindellato, da quando ho incominciato a ingozzarmi ogni giorno di tanto di quel cibo che mi basterebbe per una settimana, la mia vita ha perso qualsiasi valore e qualsiasi attrattiva, diventando una tana per mille ossessioni e altrettanti vizi. Non ho voglia di studiare, d’incontrare gli altri, di partire, di andare allo stadio, di fare lezione, di visitare musei, di scrivere un rigo su scrittori morti, di tradire Sharon e tanto meno d’immaginare un’alternativa a lei… Guardo la vita correre via sui binari morti di funeste fantasticherie sui miei compagni di scuola. Mi piace vederli morire in strani incidenti: vedo Dav affogare in una piscina piena di Dom Pérignon millesimato. Vedo Diamante Arcieri colpita in fronte da un meteorite di tartufo d’Alba. Vedo Silvia Toffan perdere anche le braccia, mutilate da un enorme tagliacarte di Gucci.
Le sole resistenti passioni, subito dopo la masturbazione [che, d’altronde, ha perso il pioneristico appeal della mia pubertà, per diventare una cara compagna di vita!], sono la Play Station 2 e la TV
satellitare. Sì, la mia vera esistenza, ormai, è il brevissimo interludio tra una sega e una massacrante seduta televisiva. Mi piazzo di fronte al teleschermo, da solo: e mentre tutto e tutti lavorano – o perlomeno hanno il decoro di fingere di farlo – intraprendo viaggi attraverso documentari sui vampiri della terra, sofisticatissime ricette culinarie, corsi di aerobica, capillari esplorazioni della savana o della foresta vergine, lunghe divagazioni sul NASDAQ sull’hi-tech e sul design giapponese.
Ebbene, quel giorno ero sintonizzato su una delle mie emittenti satellitari preferite: Wishline Channel: sì, il pianeta dei desideri irrealizzabili: un canale che trasmette aste di roba per milionari a prezzi inaccessibili: sultaneschi panfili, panoramiche dimore toscane o castelli provenzali, jet supersonici, automobili da collezione… D’un tratto sono letteralmente saltato sulla sedia vedendo apparire in TV, incredibile e impensabile, la villa di Nanni a Positano. D’un tratto sono stato catapultato dall’asetticità d’una telecamera nel pantano confuso del mio passato: mi sono improvvisamente addentrato nella stanza di Gaia [di tale natura è stata la mia violazione!] e in quella di Nanni, persino in quella che mi fu assegnata, proprio mentre la voce del venditore cercava di allettare acquirenti impossibili con espressioni convenzionali:
«La vista strabiliante godibile dal piccolo balcone affacciato sul golfo è un’ottima compagna per chi voglia cenare in compagnia di amici nel più suggestivo scenario della costa amalfitana…»
diceva la voce, e io ero esterrefatto.
Se Nanni adorava quella casa, perché voleva sbarazzarsene? Cosa pensava Gaia di tutto questo? E
io come dovevo prenderla?…
Non occorre una laurea in Psicologia per capire che si trattava delle solite domande, incapaci ormai di scaldarmi il cuore. Ero dentro a quelle immagini, un po’ irritato dalla frigidezza delle descrizioni, un po’ deluso dall’incapacità degli ambienti di reggere il confronto con lo sfolgorio del ricordo. La villa di Positano sembrava un luogo morto, un luogo ove era impossibile vivere o aver vissuto, un luogo che doveva essere stato abitato un centinaio d’anni prima da uomini imparruccati, da zombie, un luogo che emanava un odore di polvere e umidità. Anzi no: somigliava al set d’una soap opera: una casa improbabile abitata da creature improbabili: un deludente apocrifo. Non certo lo spazio concreto quale mi sembrava di ricordarlo e quale allora m’apparve.
Ma fu un’ombra lievemente ridondante a ravvivarlo, annientando la prima impressione.
Perché, subito dopo aver infilato una cassetta nel videoregistratore e spinto il tasto REC per registrare il servizio da mostrare a mio padre, vidi sullo schermo un’immagine riflessa da una delle grandi finestre del living-room: una figura di donna. Lasciai che il servizio terminasse mentre entro di me montava una strana angoscia che non aveva niente a che fare con le morse soffocanti di un tempo: era una vertigine, come se il mondo avesse inaspettatamente smesso di girare. Come se la mia vita si fosse raggomitolata nell’angusto cantuccio d’un istante. E poi adagio, con le mani che quasi non rispondevano agli impulsi, peraltro confusi, del cervello, riavvolsi il nastro fino al punto incriminato nella speranza di bloccare quell’ombra con il ferma-immagine.
Gaia!
Non c’erano dubbi. Almeno mi parve. Una Gaia trentenne. Quindi una Gaia priva di senso. Ero quasi furente per non essere riuscito a vedere e registrare l’intero programma. Forse nella prima parte della trasmissione l’avevano inquadrata così come gli anni l’avevano ridotta. Ma perché ci tenevo così tanto? Curiosità, certamente. Ma anche una forma sottile di feticismo. Con quel pizzico di cupio dissolvi cui ogni feticismo s’accompagna.
Stavo soffrendo?
Me lo chiesi con lo stesso distacco con cui m’ero rivolto le precedenti domande. No, non stavo soffrendo. Non c’era nulla di travolgente, nulla che alimentasse nostalgie in quell’immagine rubata.
Ero nauseato, semmai: un sapore acre in bocca, tanto che non trovai di meglio che attaccarmi alla bottiglia di Coca e immergere le mani nella vaschetta di arachidi quasi a raschiarne il fondo.
Ma se non soffrivo, se non ero atterrito, se non stavo sull’orlo d’un collasso emotivo, se davvero me ne infischiavo, se quella calma ostentata a me stesso non era l’ennesima dimostrazione della mia trentennale malafede – come non stancavo di ripetermi –, perché avevo il viso appiccicato alla televisione? Perché con quella foga da cane randagio che raspa nella spazzatura tentavo di carpire, nel pallido riflesso sulla finestra che il ferma-immagine rendeva ancor più vacuo, la prova inoppugnabile del presunto disfacimento fisico di Gaia?
Forse avevo bisogno della mia congrua razione di attesa. La dose giusta. Niente d’esagerato. Forse ciò che distingueva la casa di allora da quella di oggi era semplicemente l’attesa: togli a una cosa l’attesa e perderai il suo solo tesoro. Nulla ha valore senza attesa. L’attesa è Dio. Non esiste altro Dio al di là dell’attesa. L’attesa spiega tutto: perché andiamo avanti. Perché non anneghiamo.
Perché ci lasciamo sedurre da ciò che di per sé non è seducente. L’attesa è l’unica passione della mia vita.
Non so altro. Non c’è altro da sapere. E ora, finita la lezioncina, riprendo da dove ho lasciato. La vedete Gaia che scende sul molo con la grazia e la solennità di Jacqueline Kennedy e d’una Madonna pontormesca? Ebbene, aspettatevi da lei – e dal suo incauto adoratore – qualsiasi cosa.) Solo in presenza di Dav avevo avvertito un disagio fisico vagamente raffrontabile a quel senso d’opprimente pesantezza da cui mi sentii investito vedendo quella marinaretta che sbarcava dal suo motoscafo. Era bastato un istante perché mi sentissi affetto dalla così detta “sindrome dello struzzo”: quel difettoso meccanismo che illude il Soggetto che distogliere lo sguardo dall’Oggetto equivalga a scomparire. E sebbene avessi scelto di non guardare, di sottrarmi a quella visione strabiliante, stavo per esplodere, saturo dell’immagine che già mi scorreva nelle arterie. Come un’azzurra pennellata alle grigie pareti della mia vita. Come una squillante secchiata d’acqua gelida dopo un sonno durato per anni. Ma allo stesso tempo era come se quel vago sentimento d’inadeguatezza avvertito durante i sei giorni trascorsi in casa di Nanni avesse trovato il suo ineluttabile sbocco in quella chiazza di cobalto. Come se avessi inalato un balsamo della conoscenza: solo ora vedevo come la mia vita sin qui si fosse privata di una cosa fondamentale: da domani le cose sarebbero andate in modo differente, tutto quello che mi aveva interessato avrebbe smesso d’interessarmi, così come avrei dovuto riconsiderare tutto quel che mi riguardava.
Che senso ha vedersi dall’alto?, mi sarei chiesto molti anni dopo. Da lontano? E allo stesso tempo da vicinissimo? Perché vedevo ogni brufolo, ogni punto nero, ogni piccola imperfezione del mio naso? Perché il mio naso occupava d’improvviso ogni pensiero presente o possibile? Perché il mio naso riempiva l’orizzonte come uno scoglio gigantesco? Perché la dentatura premeva sulle labbra come a mostrarsi in tutta la sua maldestra imperfezione? Perché un solo molare sembrava grande e pesante come un faraglione?
«Ti presento Daniel, il figlio di Luca, nipote di Bepy» disse Nanni a Gaia, perentoriamente biblico, come se stesse leggendo una sentenza di condanna a morte. E mai il mio nome (Daniel) mi sembrò indicare un così insulsamente concreto referente.
«CIAO, DANIEL» disse lei quasi a riabilitarlo…
… Fu allora che sentii che la faccenda era conclusa: fu allora che percepii il mio futuro in una strana retrospettiva alla fine della quale non c’era altro che Gaia: fu allora che compresi (con una nitidezza che forse oggi tendo a trasfigurare) non solo che non mi sarei più liberato, ma che quella forma sorpassata di libertà non mi avrebbe più interessato. Che esisteva una stretta correlazione semantica tra la libertà e la morte. Fu allora che presentii in modo inquietante che l’esistenza di quella ragazza mi disonorava e che il solo modo per uscire dalla mia condizione di annichilente inferiorità fosse di ammazzarla con le mie mani.
Ecco perché il resoconto delle due successive settimane di permanenza a Positano sembra pleonastico e irrilevante. Non ho voglia neppure di narrarlo. Bastano queste parole di Gaia, pronunciate (chissà perché) con un vago accento meridionale (appreso, forse, dalle sue altolocate frequentazioni capresi e filtrato dal diaframma del mio nervosismo), per comprendere l’entità di quel terremoto interiore. Capite dov’è la novità e dove il talento? Non disse un “ciao” sgarbato o indifferente. Non mi salutò come si saluta uno che non ha importanza. Mi chiamò per nome. Si sottrasse allo stereotipo che aveva portato la maggior parte delle belle ragazzine fino a quel momento incontrate non solo a svalutare con insolenza l’importanza del mio nome, ma ad affrontare la questione della mia esistenza storica con tono liquidatorio, sottovalutando la mia suscettibilità. Disse: «Ciao, Daniel» come a decostruire il giudizio che mi ero fatto di lei durante quella breve settimana di passione. Disse: «Ciao, Daniel». Testuale. Non disse: “Ciao, Alessandro”,
“Ciao, Fabrizio”… No, disse: “Ciao, Daniel”, e di questo non smetto di ringraziarla dopo tanto tempo, pur ammettendo che quel promettente inizio fu solo una falsa partenza. Senza, tuttavia, tacere che quel “Ciao, Daniel” pronunciato con naturalezza, che in un solo istante polverizzò tutti i miei ricordi d’infanzia – finanche i recenti ed elettrizzanti della vacanza inglese, della tedeschina simile a Eva Braun così come dell’afrore d’ammoniaca impresso sulle dita di mio fratello –, fu la causa di tutto il resto.
Mi sia concessa un’ultima meschinissima chiosa, prima di passare ad altro.
Avere coscienza del proprio privilegio. Ecco l’indelebile lezione appresa in quel soggiorno memorabile. Fino a quattordici anni, fino a quella strana vacanza che mi precipitò, con un ragguardevole salto temporale, dallo snello lassismo del Ventesimo secolo alla rigida etichetta del Diciannovesimo, mi era sembrato
di avere piena coscienza del mio privilegio… Fino a quattordici anni, prima che la villa positanese di Nanni mi aprisse i battenti in tutto il suo rosato eclettico fulgore, ero stato abituato a considerarmi un ragazzo privilegiato. Non ero stato ancora sottoposto alla sovrumana legge della relatività che rende tutte le nostre convinzioni sul mondo inesauste e precarie. Fin lì avevo frequentato solo famiglie e persone del mio livello o d’un ceto più basso. Avevo sempre creduto che la consuetudine di mio padre di cambiare una Mercedes per una Porsche quasi ogni sei mesi o le nostre lunghe villeggiature all’estero o la coppia di domestici fissi o il nostro appartamento pieno di tappeti e di quadri, e la serena abitudine di toglierci ogni tecnologico sfizio testimoniasse un benessere che se non poteva dirsi ricchezza la lambiva pericolosamente.
Non c’è da stupirsi. Queste considerazioni vengono fatte dai ragazzini di quell’età molto più di quanto si creda, molto più che dagli adulti, specialmente in certi ambienti. Se poi si aggiunge a questo snobismo familiare la congenita tendenza a ingigantire ogni cosa esaltato dall’età infantile e da un precoce talento per la comparazione è facile comprendere il mio dolore, un dolore più cocente e invasivo dell’amore che stava sorgendo. La verità è questa: il raffronto sociale occupava il mio immaginario – e quello dei miei compagni – molto più allora – quando non aveva alcun senso – che oggi, quando forse dovrei affliggermene. E allora non restava – a me e a tutti gli altri –
che mentire impunemente sfidando ridicolezza e inverosimiglianza. Era questione di sopravvivenza: mentire sulla consistenza patrimoniale e il conto in banca dei tuoi, su prestazioni sportive, sul parco macchine, sui costosi viaggi intrapresi per il mondo, su ragazze avute e verginità compromesse, sulla lunghezza del pene e prestazioni erotiche… Per Dio, bluffare su queste cose era il solo modo per respirare. Chi di noi non annoverava tra i propri familiari un eccentrico zio collezionista di Rolls-Royce? Chi di noi resisteva alla tentazione di rivelare che il nonno era prefetto d’una sezione del Rotary Club, se non addirittura presidente? Perché privare i propri compagni della visione del proprio passaporto affinché potessero compiacersi dei timbri che attestavano i plurimi viaggi esotici? Chi di noi non desiderava uniformare la propria vita di modesto borghese ai sacri vincoli delle pubblicità di liquori e orologi di marca così condizionanti?
Quale altra risorsa disponibile per difendersi dalla pressione di quell’ambiente ipereccitato se non quella d’inventare luoghi, situazioni, persone mai esistite?
La cosa folle, solo oggi comprensibile, è che quasi tutti mentivano. Nessuno – a parte il privilegiato o il buddista inconsapevole che vedeva coincidere aspirazioni e realtà – si sottraeva all’incantesimo. Unico scudo per schermirsi dalle aggressioni dei successi altrui. Si era a tal punto speculato sulla menzogna che ormai era come trovarsi in una sorta di Borsa del prestigio sociale in cui i titoli d’ognuno fossero stati goffamente sopravvalutati da un branco di patetici broker. E ora, per me, era come se quel mercato azionario delle bugie fosse sotto l’incombente minaccia di un crack epocale. Molto più tardi mi sarei chiesto – con una dose di moralismo e saggezza retrospettivi, senza peraltro ottenere adeguata risposta – se, smantellando quell’apparato di contraffazioni, la vita avrebbe avuto un sapore diverso. Ma forse è una domanda stupida e insensata. Sarebbe come chiedersi che cosa cambierebbe nella nostra vita se ci liberassimo dall’incombenza quotidiana di mangiare e di bere.
Fu proprio l’incontro con i Cittadini di poco successivo a quello con i Ruben che mi introdusse a questo diverso modo di concepire la mia esistenza, facendomi sentire per la prima volta quello che presumibilmente molti miei amici meno ricchi avevano avvertito al mio cospetto: un senso d’inadeguatezza, una specie di fiato corto. Il dramma d’un corridore che ce la mette tutta e viene superato con apparente lievità da un altro concorrente con le ali ai piedi. L’incontro con i Cittadini e con i Ruben mi mostrò una ricchezza che mortificava in modo imprevedibile il mio amor proprio: che non aveva nulla a che fare con il benessere che la mia famiglia mi garantiva: una ricchezza che incideva in modo significativo – nel bene e nel male – sulle persone che ne potevano disporre. Basti pensare alle nevrastenie di Karen Ruben o a quelle fatali di Ricky Cittadini e di suo figlio Giacomo.
Perfino il suicidio del primo e le idiosincrasie del secondo avevano qualcosa di così chic. Bastava questo, ai miei occhi, a cancellare i privilegi di cui avevo sempre goduto. D’ora innanzi, la casa dove avevo sempre vissuto, dove ero nato e che non avevo smesso un solo istante di ritenere splendida mi sarebbe parsa una patetica stamberga. E tuttavia sbagliavo nel ritenere che ciò che a me appariva un traguardo definitivo per i Ruben o per i Cittadini fosse fonte di gioia e soddisfazione. Non c’era limite alle ricchezze desiderabili. Sarebbe sempre esistito qualcuno contro cui rivolgere l’aculeo infuocato dell’umana invidia. Nanni Cittadini non era l’uomo più ricco del mondo. E neppure Amos Ruben. E allora perché non era lecito pensare che entrambi traessero da tale penosa constatazione un motivo di legittimo avvilimento?
4 Cinque anni in miniatura.
Pur avendo amato Gaia con solipsistica determinazione per un lustro intero, godendo anche del lusso di imprevisti piaceri (in fondo non meno egocentrici dei dolori), non posso dire che il tempo mi avesse insegnato a conoscerla. Anzi, sembra quasi che il tempo avesse reso più complicati l’equivoco sulla sua personalità e l’enigma della sua vita. Il solo corteggiamento di cui mi fossi sentito all’altezza era stato quello da me subdolamente intrapreso nei confronti di Giacomo, suo fratello: corteggiamento che può essere annoverato tra quelle manovre diversive che preludono alla battaglia campale.
Per il resto avevo letto alcuni libri (meno di quanti avrei dichiarato negli anni a venire), ascoltato un numero ragguardevolissimo di dischi brutti ma commoventi, abusato senza alcuna continenza di me stesso, visitato a più riprese gli Stati Uniti, ero tornato in Israele con Dav: mi ero spinto persino in Australia e in Nuova Zelanda con i miei genitori e con mio fratello. Per il resto avevo avuto agio di approfondire la mia ipocondria, di serbare inflessibilmente intatta la mia verginità e di preparare, con autentica pedanteria, il mio stesso ostracismo.
5 Mondanità prima del disastro.
Le cose andarono pressappoco così.
Fin dall’inverno dell’Ottantasei non mi ero perso una sola festa dei diciott’anni degli amici e conoscenti più in vista. Una trentina di ricevimenti in tutto, così incredibilmente simili tra loro in ogni sfumatura (un po’ come sarebbe avvenuto in seguito per i rinfreschi nuziali pieni di pinguini e di papere) che avevo l’impressione di essere andato a un -unico, interminabile party di compleanno, indossando smoking al ritmo d’un piccolo Grande Gatsby, bevendo più sangria di Hemingway e masticando aspirine con la disinvoltura di certi neuropatici anni Sessanta. Diciamo che appartenevo alla prima generazione di adolescenti che avesse la possibilità di vivere la libertà – conquistata dai nostri scalmanati predecessori – senza troppi drammi o vitalismi, in preda, semmai, a un egro disimpegno.
Una cosa è certa: Azzurra Paciotti, Silvestro Pallavicini, Giando Raspelli, David Ruben, molti altri ancora non avevano avuto il coraggio, o l’interesse forse, di imprimere alla propria festa dei diciott’anni il marchio dell’originalità. Come se avessero pedissequamente seguito un format composto di alcuni melensi capisaldi: gli inviti stampati da Pineider, l’affitto d’un locale alla moda (Jackie O’, Open Gate, Cabala, Gilda…) o lo sfruttamento del proprio gelido casale di campagna (Cortona, Montepulciano…) o della villa al mare (Fregene, Capalbio, Porto Rotondo…), l’abito lungo per le fanciulle e la cravatta nera per i ragazzi, il catering affidato a Ruschena, il valzer di Strauss a mezzanotte con il festeggiato o la festeggiata impegnati in un ballo col genitore dell’altro sesso, eppoi la musica assordante alle cinque del mattino, e il divieto dei superalcolici quasi sempre violato, con qualche verginità
delicatamente o disperatamente compromessa. Per queste irrinunciabili kermesse marchiate a fuoco dalle stigmate del provincialismo romano venivano investiti a cuor leggero decine di milioni.
E la cosa migliore che il celebrato potesse aspettarsi dalla celebrazione era di finire con gli abiti indosso gettato in una piscina nel cuor della notte, completamente sbronzo nonché traversato da un ardente desiderio di suicidarsi. Solo grazie alla mia pubblicizzatissima nevrosi e alla mia aura tardoromantica riuscii a impedire a mia madre di organizzare per me una tale dispendiosa sconcezza. Ed è a tutt’oggi uno dei pochi eventi-non-vissuti per cui io non serbi rimpianti, ma solo un perdurante sollievo.
Questa è la storia della festa di Gaia, passata agli annali – con il mio determinante contributo –
come la più disastrosa e indimenticabile. Questa è la storia della mia fine. Della mia fallita rivoluzione. Delle mie dimissioni da figlio di papà. Questa è la storia del secondo ebreo giustamente crocifisso da un’oligarchia di romani. Questa è la storia della mia crocifissione, dopo la quale non sarei mai potuto risorgere. Questa è la storia della mia cacciata dall’Eden: la storia che sin dal principio io m’ero proposto di raccontare, prima di perdermi in un labirinto d’inutili dietrologie.
La strana e confortevole esistenza condotta all’interno di quell’istituto snob in cui si veniva promossi per forza d’inerzia e nel quale avevo più o meno quietamente vivacchiato per tredici anni volgeva al termine. Quell’ultimo anno fu, per lo più, dominato da una gamma composita di sgradevoli impressioni che erano confluite nel panico generato da un’angosciosa seppur interlocutoria constatazione.
Gaia diciottenne? La mia bambina maggiorenne?
Uno scherzo di pessimo gusto. Assurdità decisamente inammissibile. I diciottenni sono liberi, emancipati, adulti. I diciottenni del Millenovecentottantanove poi, a dispetto di quelli d’appena un secolo prima, rientrano a casa quando vogliono. Sbevazzano e fumano fino all’ebbrezza. I diciottenni hanno l’automobile. Per non parlare dell’incontrollabile attitudine alla promiscuità e alla fornicazione.
È fatale: l’amore è annoverabile tra quelle esperienze emotivamente estreme che ci rendono puritani e reazionari!
Ecco perché la maggiore età di Gaia mi sembrava una conquista intollerabile. Oltretutto con la fine della scuola avrei sofferto il drastico diradarsi dei nostri incontri, perdendo via via la mia capacità di tenerla d’occhio, di procrastinare la sua illegittima emancipazione. Allo stesso tempo però non potevo non essere contagiato dal suo entusiasmo. Come non contentarla quando mi chiedeva d’accompagnarla a ordinare i biglietti d’invito o la torta? Quando esigeva il mio aiuto per l’addobbo, l’orchestra, l’illuminazione…? Come non spalleggiarla quando mostrava tutta la sua indignazione di fronte alla prova dell’abito le cui spalline erano evidentemente troppo gonfie? O
quando mi raccontava che avevano sbagliato le cifre sui tovaglioli bianchi di fiandra con la stessa partecipata indignazione con cui una suora missionaria avrebbe potuto narrarmi un genocidio di bambini africani? Ebbene sì, ero il suo consigliere. O per meglio dire, una bifida dama di compagnia. Un pederasta innamorato d’una fanciulla. Un tipo a metà strada tra l’orrido Iago e il patetico Polonio.
Come ci si riduce così? A tutt’oggi è un mistero inesplicabile.
Come si diventa anzitempo una vecchia zitella? Come può un ragazzo brillante mutarsi in ameba asessuata? Annullare con la sola volontà tutta la forza, tutto l’impatto del suo giovanile vigore?
Disinnescare la propria ambizione virile? Disintegrare la carica erotica? Come è riuscito ad abolirla? Possibile che allora non te ne rendessi conto? Che come certi neuropatici irrecuperabili fossi talmente sprofondato nella tua ossessione, nel ruolo autoattribuito di Sovrintendente Alle Castità Di Gaia Nonché Guardiano Dei Suoi Santi Orifizi, da giocarti tutte le chance e tutte le cartucce disponibili per la tua felicità? Che fossi così cieco da credere non esistessero alternative a quella vita di sospiri e di meschinerie? Talmente fesso da non capire che un segaiolo della tua stoffa non era nato per fare l’anacoreta? Possibile che non comprendessi la palese discrasia tra la tua aspirazione all’astinenza (la tua come quella da te arbitrariamente attribuita a Gaia) e la rabbiosa, inesausta ricerca di indumenti femminili su cui masturbarti? Così rinunciatario da accontentarti di una situazione nella quale Gaia ti offriva solo le briciole delle sue innumerevoli attrattive?
Eri il suo migliore amico, c’eri riuscito, tutti lo sapevano, avevi usato subdolamente l’assistenza gratuita offerta a quel pazzo furioso di suo fratello pur di accaparrarti la fiducia di lei. Ma come potevi ignorare che tale fiducia fosse la cosa meno avvincente che avrebbe potuto donarti? Che forse avresti avuto più speranze con lei se ti avesse francamente detestato? Come potevi ignorare che l’assistentato sociale non era certo la professione più popolare in quella cazzo di scuola, quella palestra per maggiorate fisiche e minorate mentali?
No, tutto questo allora mi era incomprensibile, tanto quanto oggi mi è nitidamente intelligibile. Non c’è altro da dire: a quattordici anni in quella strana vacanza a Positano avevo deciso di tumulare la mia virilità, rinunciando alla grinta, alla verve reclamate dalla mia età per votarmi totalmente a una causa folle. Sì, folle, se non altro perché non dava speranza, non prometteva premi. Era folle e inutile come il suo promotore. Avevo commesso l’errore più grave che un ragazzo possa commettere: non tanto quello di non credere in se stesso (capita alla maggior parte degli adolescenti), ma di conferire a quella sfiducia un crisma d’inalterabilità metafisica. Non avevo voluto crederci. Avevo peccato di cinismo, assorbendo il messaggio implicito di quell’ambiente: l’invito subdolo e reazionario all’immutabilità.
Eppure vorrei salvare un solo giorno dal mare di quei cinque anni. Per essere più precisi, vorrei salvare un pomeriggio di dicembre del Millenovecentottantasei (un paio d’anni prima della festa di Gaia che sto per narrare) in cui le tiepide rarefazioni del mio appartamento vengono spezzate da uno squillo telefonico:
«Dani, sei tu?»
«Gaia!»
«Precisamente.»
«Dimmi.»
«Hai da fare oggi pomeriggio?»
«Beh…»
«Che ne dici di accompagnarmi a fare shopping?»
«Ma…»
«Se non ti va, non importa…»
«Ma sì, dai…»
«Splendido, ti passo a prendere tra dieci minuti.»
Eppoi eccomi qua – sono proprio io, sebbene stenti ancora a crederlo! –, infreddolito, con le gambe larghe, in sella al motorino di Gaia: le sto dietro e lei ha il piumino rosso e un cardigan di cachemire azzurro e guanti di lana con disegni di orsacchiotti: il suo alcolico odore di Neutro Roberts è acuminato da una punta lieve di sudore. Sguscia in mezzo al traffico incurante di me.
Forse non sente le mie proteste a causa del paraorecchi di peluche. O forse, come al solito, se ne infischia. Scivoliamo sinuosamente lungo il Muro Torto distribuendo sgarbi ad automobilisti esasperati dalla vita e dal Natale alle porte, e coroniamo il nostro criminoso percorso con una conversione a U all’altezza di piazza del Popolo e uno slalom tra paletti umani su un falsopiano tassativamente pedonale. E ora siamo a via del Babuino, seriamente intenzionati a raggiungere via Condotti prima che si riempia di stranieri. Sono ancora le quattro, c’è un freddo secco dal quale è facile e bello proteggersi. Un languore postprandiale paralizza i cervelli in quella luce adamantina.
Tutto è benedetto dalla penombra di porcellana della sera che va spargendosi sugli intonaci.
Gaia e io ora parliamo fitto.
Di cosa parliamo?
Di niente. Di quanto sia indispensabile il niente. Di quanto il niente è istruttivo. Di come niente ti faccia più felice del niente. Lei spende quattrini con una disinvoltura spaventosa. È la gioia d’increduli commercianti e di commessi nevrotici. L’unità di misura dei suoi acquisti è la dozzina.
Che ne dici di questo? Sai per chi? Per zia Edna… Questo per Dada, la farà morire… Questo qui per la mia tata… Le buste si moltiplicano a tempo con il vorticoso scialo di sillabe. Tale incontinenza verbo-consumistica non sembra avere alcun rapporto di parentela con l’endemica parsimonia di Nanni, né tanto meno con l’incurante prodigalità di nonna Sofia. Tale sfrenatezza è violenta, a tratti persino tracotante, e tuttavia così irresistibile per me – io, il groopie personale di Gaia: il suo occhialuto adoratore che non la scoperà mai.
Ma ciò che più mi sorprende – e non so se lei lo elargisca consapevolmente o per il puro istinto di piacere a chiunque – è il suo odierno contegno nei miei riguardi. Ho l’impressione che si finga la mia ragazza. Che mi conceda l’inimmaginabile. Oggi è il mio giorno fortunato, il cui ricordo servirà a esasperarmi nella lunga sequela di giorni sfigati. Lei mi sorride, si fa smorfiosa per me, mi chiede consiglio, mi strattona, mi apostrofa con buffi nomignoli, mi tratta come se al mondo esistesse solo Daniel Sonnino, mi ha inserito nella lista di regali da fare e da ricevere, e soprattutto per una volta ha il delicato buongusto di non chiedermi nulla su Dav… Vorrei parlare, replicare, dire la mia, ma non mi ascolta. Percepisco, piuttosto, il tintinnio del suo spirito che si spande sulla scalinata di piazza di Spagna punteggiata dal rosso e dal bianco dei ciclamini.
Gaia è, anzitutto, la mia epoca.
Via Condotti alle sei e mezzo d’un giorno di dicembre del Millenovecentottantasei è imparagonabile a qualsiasi altra via io abbia mai visto. Probabilmente per avere degli uguali bisogna pensare alla Prospettiva Nevskij ai tempi di Gogol’, o a Washington Square placidamente battuta dai tacchi di Henry James o a quella Madison Avenue in cui vissero e soffrirono i personaggi di Edith Wharton. Un fiammeggiare di luci scarlatte, un luccicore di tappeti rossi e di rubini sulle vetrine color amaranto, un profumo abbrustolito di castagne, una glassata canzoncina di Bing Crosby diffusa con discrezione su un pezzo di città in festa.
D’un tratto vengo scosso da un inequivocabile gorgheggio del suo stomaco che ricorda il suono attutito del temporale in certi film gotici.
«Ops, che pancia svergognata!», e sorride. «Che ne dici di una torta da Babington’s? Sono esausta!»
Ora, lo vedete questo docile e romantico Shylock entrare al fianco di quell’amore di ragazza in una tea-room di piazza di Spagna piena di mogano e paglia e sedersi contegnosamente su una minuscola sedia, accavallare le gambe, prendere il menù con l’affettata disinvoltura d’un cinquantenne, dissimulare l’orrore per i prezzi astronomici, trattenere l’emozione nel vedere la ragazza della sua vita snodare la sciarpa sfilare la giacca e posare i guanti in un angolo con la fluidità d’un unico gesto, eppoi sollevare il dito per chiamare una vecchia megera pseudobritannica e ordinarle un tè al bergamotto e due muffin con burro e marmellata di arancia?
È bene che lo vediate. Perché è esattamente quello che accade.
È dal principio di questa cronaca che sto cercando l’istante propizio per concedermi un piacere che dovrei interdirmi: descrivere Gaia. Forse è giunto il momento, ora che lei non mi guarda, ora che ha il viso affondato nel menù, ora che sembra un po’ stanca immersa in quel presepe di buste e di acquisti, ora che non temo nulla, ora che potrei fare quello che in analoghe circostanze il novanta percento dei miei amici farebbe: baciarla confessandole all’orecchio un segreto che sembra enorme ma che in fondo non è un gran che… proprio ora mi permetto il più inebriante e démodé tra i privilegi letterari: l’ecfrasi della donna amata.
Gaia è una Britney Spears ante litteram, qualche centimetro più bassa rispetto a quel modello venturo. Gaia è esasperata da un paio di chili di adipe (che lei ritiene inutili e dannosi) di cui vorrebbe sbarazzarsi, smarrendosi in sveviane promesse di redenzione dietetica e sottoponendosi a inimmaginabili razioni di massaggi. Gaia mangia con un piacere inaudito ma con lentezza da esteta.
Il lieve accenno di doppio mento è il motivo per cui amo Gaia. Gaia è piccolina e ben proporzionata. Il biondo ungherese dei capelli di Gaia è ereditario e il suo naso è quello di Brigitte Bardot. Gaia non indossa quasi mai la gonna. Tutti pensano che Gaia sia splendida nonostante i suoi denti un po’ in avanti. Nessuno capisce che Gaia deve il suo splendore alla dentatura irregolare e soprattutto a quella piccola imperfezione dell’incisivo, quella macchia impercettibile che, se solo ne avessi la possibilità, prenderei ininterrottamente a leccare, per giorni, settimane. Gaia ha l’alito che sa di albicocca e la pelle che odora di cachemire. Gaia ha una voce che fa pensare alla saliva delle undicenni. Gaia ama gli accessori da uomo: orologi grandi, Clark’s, cardigan, camicie oversize a scacchi da boscaiolo canadese rigorosamente portate fuori dai pantaloni. Gaia, quando alle numerose feste a cui partecipa indossa un abito da sera e si trucca copiosamente, non assomiglia più a Gaia. Gaia sta benissimo vestita da equitazione. In quelle occasioni esibisce l’androgina leggiadria d’un ussaro.
Ora, sfinito dalla stanchezza, mi tolgo gli occhiali e con un gesto che mi è consueto sfioro le palpebre coi polpastrelli come se volessi carezzare gli occhi per il magnifico servizio prestatomi nell’ultimo paio d’ore.
«Sai, Dani, che hai degli occhi bellissimi? È strano che con gli occhiali non si notino… Eppure le lenti te l’ingrandiscono…»
Taccio in estasi.
«Dico davvero… Hai mai pensato di mettere le lenti a contatto? Sai, così non sei affatto male…»
Basta avere una pratica modestissima di Gaia per sapere che queste parole non contano: in esse non c’è neppure un’ombra di concupiscenza (a meno che per concupiscenza non s’intenda il desiderio di essere unanimemente amati). Con ciò non voglio dire che se provassi a baciarla lei sicuramente si ritrarrebbe. Potrebbe persino cedere sull’onda di tale complicità emotiva, per questo caldo morboso e avvolgente. O perché fuori – al di là dei vetri smerigliati – ormai fa freddo. Certo che potrebbe cedere. Per spiegarmi subito dopo che forse c’è stato un equivoco, che lei è impegnata, ma che se non fosse impegnata chissà… Che lei comunque è lusingata. Che lei non avrebbe mai creduto che io… Che certo è già nata la ragazza giusta per me e bla, bla, bla… D’altronde i complimenti sono il contrario dei consigli: solitamente (e tanto più in un rapporto segnato da un siderale squilibrio) contano assai per chi li riceve e quasi niente per chi li elargisce. Sono il nipote di Bepy, conosco certe dinamiche. Pur avendo sempre deplorato la retorica dell’“esperienza” come vaccino contro il dolore, devo ammettere che se allora avessi avuto un po’ più di esperienza, pur non potendo annullare in me l’effetto di quelle parole che sembravano degnamente conchiudere un pomeriggio fiabesco, certo avrei provato a ridimensionarle, riportandole al livello del vaniloquio con cui le belle donne apostrofano il mondo e abbindolano gli adoratori. Non che sperassi qualcosa. Non ero nelle condizioni di sperare alcunché. Ero francamente un adolescente disperato. Però avevo voglia di credere a quelle parole. Sì, anche la mia voglia era disperata. Avevo la disperata voglia di credere alla sincerità delle sue parole. Avevo l’esigenza d’illudermi che se lei non fosse stata impegnata io sarei stato una possibile alternativa.
Che il suo orizzonte emotivo poteva contemplare anche un maschio come me. Sì, un maschio che aveva bisogno di alcuni ritocchi: togliere gli occhiali, mettere le lenti a contatto, ingrossare i bicipiti, ingentilire alcune linee spezzate eccetera, ma comunque un maschio da prendere in seria considerazione. Non si può dire d’altronde che tale illusione smontasse radicalmente l’idea che mi ero fatto di Gaia sin dal principio, e cioè che lei dividesse il mondo tra due generi di persone: quelle desiderabili e tutte le altre: e che se non appartenevi al primo gruppo tanto sarebbe valso che tu non fossi esistito, anche perché non avresti avuto alcuno strumento psicologico e fisiologico per mutare quella condizione. Gaia era come il Dio calvinista che dà la Grazia o la toglie a seconda del suo insindacabile Volere. Ebbene, per quanto possa sembrare un’aporia, in quel momento riuscivo ad armonizzare l’idea che Gaia mi prendesse in considerazione come maschio della sua specie con l’idea che lei non mi avrebbe mai preso in considerazione come maschio della sua specie. Stavo lì vicino a lei, forse come mai prima d’allora: ansimante e tormentato come un’astrusa formula chimica, sentivo che – sebbene Gaia racchiudesse la ricompensa per ogni desiderio possibile, al punto che il mio nome non aveva alcun valore senza il suo al fianco – il sesso (il sesso famigerato, il sesso della rivoluzione sessuale ma anche quello proibito nei secoli precedenti a essa) non c’entrava un tubo. Che non era il sesso che m’interessava. Che il sesso, semmai, avrebbe distrutto tutto (come infatti da lì a breve sarebbe avvenuto). Che il sesso era una fissazione sciocca di alcuni ingordi pansessualisti (tutto quel nutrito segmento di arrapatissimi ebrei che unisce Sigmund Freud a Philip Roth cui avrei dato una bella sistemata nel mio libro antisemita). Che l’idea d’immergere il cazzo nel cavernoso umidore della gaiesca intimità era un’astrazione assoluta come quella della metempsicosi o del teletrasporto. Che ciò che le chiedevo – o meglio ciò che non avevo il coraggio di chiederle ma che non potevo impedirmi di desiderare con tutto il mio ardore – era che lei mi prendesse in considerazione come maschio della sua specie. Che lei mi elevasse socialmente. Che lei mi fornisse il suo azzurro passe-partout per il Paradiso. Che lei mi garantisse l’upgrade che credevo di meritare.