PARTE OTTAVA
1
Venerdì 25 marzo
Ore 1.17
Il convoglio di sei furgoni bianchi Mercedes Sprinter di Muslims without borders passò attraverso l’ennesimo posto di controllo della Bengasi libera alla periferia della città segnata dalla guerra. Con tutte le tecniche armate di 12.7, AK e RPG che c’erano in giro avrebbe potuto essere Mogadiscio, a parte che questi africani erano arabi.
Dopo essersi fatto una bella risata, Frank aveva ordinato al G6 di partire per Sollum, il valico di confine egiziano. Vicina al Mediterraneo, sorgeva a circa centoquarantacinque chilometri da Tobruq. Il piccolo aeroporto che mi aveva accolto aveva l’identico aspetto di Camp Hope nella provincia di Aceh sei anni prima. L’unica differenza era che gli aerei da trasporto potevano atterrare molto più vicini al campo rifugiati.
Gli aerei riversavano aiuti umanitari ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Un sacco di gente all’apparenza molto indaffarata correva qua e là con indosso gilè kaki e pantaloni cargo con un’enormità di tasche piene di roba molto importante. Le Toyota 4×4 bianche avevano già fatto la loro comparsa, con le loro grandi antenne e gli adesivi delle ONG e delle MONGO.
Il G6 appariva totalmente fuori posto mentre rullava fino a fermarsi. Persino la folla di religiosi canterini e ballerini appena giunta per convertire libici ed egiziani alla cristianità si fermò a fissarlo, nemmeno fosse arrivato Obama a dare un’occhiata di persona. La gente del posto ci guardava con sospetto, niente di più. Avevano bisogno di assicurarsi che non fosse atterrato per aiutare la famiglia Gheddafi a darsela a gambe.
Quando emersi io con addosso un paio dei jeans di Frank, di quelli stirati con la piega al centro, e una camicia a scacchi gialli, sembrarono tutti molto delusi. Frank certo sapeva come mettere insieme un miliardo o anche di più. Sapeva anche come vestirsi da perfetto idiota.
Entrare in Libia fu di una facilità disarmante, principalmente perché nessuno voleva farlo. Il problema sarebbe stato uscire: il lato egiziano era fortemente presidiato. Lavoratori migranti subsahariani aspettavano di poter transitare per giorni in accampamenti di fortuna, bevendo acqua in bottiglia e mangiando pane distribuito dalle organizzazioni umanitarie. Ognuno di loro portava almeno una grossa borsa della spesa in tessuto a motivi scozzesi fitti, chiusa con un laccetto. Alcuni avevano persino dei televisori avvolti in cartoni.
E anche quando finalmente passavano dall’altra parte, era solo per finire in un altro campo. Dove volevi andare? Non c’era un cazzo per chilometri, in qualunque direzione, a parte alcuni pozzi dei tempi degli antichi romani e un cimitero dei caduti del Commonwealth durante la seconda guerra mondiale.
Perlomeno, tutti quelli che ce l’avevano fatta fin lì venivano sfamati, almeno finché qualcuno, da qualche parte, in qualche modo, non li riportava a casa. Non era che gli egiziani non avessero i loro problemi. La loro Primavera araba si era appena conclusa e stavano ancora tentando di rimettersi in pista.
I cittadini del Bangladesh fronteggiavano le peggiori privazioni. Erano migliaia, ed erano a migliaia di chilometri da casa.
Le milizie controllavano la via principale lungo la costa e la parte orientale dello stato, almeno così dicevano le voci. In ogni modo si dimostrarono entusiasti di vedere il nostro convoglio che transitava. Sapevano che eravamo diretti ad aiutare i loro fratelli.
Wahid Kandawalla, il giovane pakistano al comando della colonna di veicoli, stava superando la zona di guerra per la quinta volta in dieci giorni, trasportando rifornimenti per l’ospedale. Sedeva sul sedile di destra, il viso fresco, pieno di buona volontà. Stava ancora cercando di farsi crescere la barba come un bravo musulmano.
Ogni tanto dava un’occhiata al retro del furgone per assicurarsi che stessi bene. Mi ero messo piuttosto comodo, steso sulle scatole di bendaggi e kit per la sterilizzazione chirurgica. Il dondolio del veicolo, il buio e il caldo mi avevano fatto in breve tempo addormentare.
E adesso me ne stavo semplicemente lì steso a rilassarmi. Non avevo alcun controllo su quanto stava accadendo. Non ci potevo fare nulla. Dunque seguivo la regola: quando c’è un momento di calma nella battaglia, mettiti giù e riposa. Non puoi mai sapere quando ti capiterà di nuovo l’opportunità di dormire.
A Sollum avevo gettato via il telefonino di Awaale. Non volevo snobbarlo, ma quelle faccende del genere «incontriamoci di nuovo» non funzionavano mai. Gli eventi ci avevano unito per un momento, ma era finita lì.
Per giunta, Awaale non sarebbe tornato a Minneapolis per un po’. Sarebbe stato troppo preso a conquistare il controllo del clan, a scambiarsi piombo con Lucky Justice e a resistere agli attacchi di al-Shabab da sud. Tutto questo se fosse rimasto vivo abbastanza a lungo. La pirateria era un affare rischioso, per entrambe le parti in ballo.
Tutte le informazioni di cui disponeva Kandy su quanto stava accadendo sul territorio erano voci di corridoio. Si diceva che disertori dell’esercito di Gheddafi avessero saccheggiato la principale caserma della polizia di Bengasi, portando via tonnellate di armi e munizioni.
Voleva dire che la milizia locale era stata armata di nuovo ed era dunque in grado di affrontare qualunque cosa Gheddafi avesse inviato contro di loro da ovest.
Giravano anche voci che presto la Turchia avrebbe inviato la sua marina a difendere la rotta dal porto di Bengasi fino a Creta, e i suoi soldati a occupare l’aeroporto per garantire corridoi umanitari via mare e via aria.
Kandy una notizia sicura ce l’aveva. La Turchia aveva già cinque navi da guerra e un sommergibile al largo della costa. Stavano impedendo alle navi di Gheddafi di piazzare mine per isolare il porto.
A ogni posto di controllo Kandy riceveva una nuova serie di voci di corridoio. Alla milizia era appena stato riferito che gli aerei a reazione francesi e britannici avevano lanciato una serie di raid contro la città petrolifera di Agedabia. Le forze di Gheddafi erano state sconfitte. La città era stata riconquistata. Più a ovest, però, gli scontri continuavano.
Si vociferava anche che Gheddafi avesse offerto centomila dollari a chiunque fosse disposto a combattere per lui. Tale diceria veniva contrastata dai vertici della milizia con la comunicazione ai combattenti ribelli che, chiunque avesse defezionato, sarebbe stato etichettato come traditore e fucilato appena cessate le ostilità.
Quello era il problema in tale genere di guerra. Era rapida e le comunicazioni erano scarse. L’iPhone era ancora senza segnale e nessuno sapeva veramente che cazzo stava succedendo.
2
Le strade buie della Bengasi libera erano disseminate di carcasse di carri armati distrutti dai cacciabombardieri inglesi e francesi. Erano già coperti di graffiti. Molti erano in inglese, a uso e consumo degli stranieri. Un messaggio diceva: «Grazie Obama, grazie Cameron». Se Sarkozy l’avesse visto al notiziario del mattino sarebbe diventato un francese bello incazzato.
Un manifesto su un muro investito dalle schegge mostrava un Gheddafi provocatorio, ma senza copricapo e con la testa coperta di sangue. Vi erano state scarabocchiate sopra parole come «assassino», «terrorista» e «dittatore». Su un altro dipinto murale la faccia del presidente era stata rimpiazzata da un grosso smile giallo. Avevo visto centinaia di persone rifilare a Saddam lo stesso trattamento solo poche ore dopo che i carri armati americani avevano fatto il loro ingresso a Baghdad.
Mentre attraversavamo la città priva di luce, i segni che Gheddafi aveva perso il controllo erano dappertutto. Se non era coperta di graffiti, ogni traccia fisica del dittatore era stata abbattuta e crivellata o data alle fiamme. La bandiera verde non garriva più sulla sommità degli edifici governativi sgangherati e messi sottosopra che le truppe dello stesso Gheddafi avevano devastato durante il ritiro: al suo posto era stato issato il vecchio vessillo reale, rosso, nero e verde con la falce di luna e la stella al centro.
Sul Mediterraneo infuriava una tempesta. Individuai parecchi traghetti passeggeri tutti illuminati intenti a cavalcarla. Da giorni aspettavano di attraccare ed evacuare i connazionali.
Un’altra voce sosteneva che siccome i turchi, il secondo esercito della NATO per dimensione, avevano mandato un grosso contingente navale, gli inglesi erano stati costretti quanto meno a salire di livello. Stavano inviando una fregata. Doveva ormeggiarsi in porto entro i prossimi due giorni e imbarcare gli inglesi e tutti coloro che ci stavano. Kandy ci rise su. Turchi, italiani e russi se n’erano già andati. Anche i francesi erano già a casa a sorseggiare caffè e guardare la guerra al telegiornale. Ma l’arrivo in ritardo della Cumberland era una buona notizia per Anna. Jules le aveva prenotato un posto a bordo.
Il veicolo rallentò. Kandy si voltò sul sedile. «Nick, siamo arrivati.» Aveva un grosso sorriso amichevole sul volto. «Nick?»
Mi stavo appisolando.
«L’ospedale... ci siamo.»
Mi stiracchiai nel mio pile simil Timberland che avevo comprato al confine. Anche in mezzo alla guerra e alla disperazione c’è sempre un Del Trotter che mette su il suo chiosco.
«Magnifico, Kandy.» Gli passai la mazzetta da mille dollari. «Grazie, amico.» Due dollari al chilometro, come promesso. Sventolò i soldi prima di metterseli in tasca, senza contarli. «Con questi ci compreremo il carburante per il ritorno e dopodomani possiamo venire di nuovo qui. Grazie.»
Non avevo dubbi.
Uscimmo dal veicolo mentre i ragazzi attaccavano bottone con la milizia locale. Ci stringemmo la mano. «Buona fortuna, Nick. Ti auguro di trovarla.»
Annuii. «E buona fortuna anche a te, amico. Spero che tu torni a casa tutto intero, eh?»
Dall’esterno, l’ospedale principale, Al-Jalaa, aveva lo stesso aspetto del resto della città: di cemento, rettangolare, anonimo. Il cortile e il parcheggio erano una frenesia di troupe televisive, ambulanze, tecniche armate di 12.7 e feriti nei combattimenti a ovest.
Un paio di aerei a reazione sfrecciarono in alto, da qualche parte nelle tenebre. Nessuno alzò gli occhi. Potevano solo essere francesi o inglesi. Anche se qualcuno aveva detto che pure gli italiani erano sul punto di aggiungersi.
Per le agenzie di stampa la guerra era un affare. Piazzavano la loro sede fuori dagli ospedali per essere vicine all’azione ma anche per protezione. Gheddafi non avrebbe mai colpito un ospedale, vero? Uhm. Chissà.
Zoppicai fino alla troupe più vicina. «Sapete dove vengono curati gli stranieri? Sto cercando una reporter russa, Anna Ludmilova.» Feci un cenno ai tre tizi seduti su sedie blu di nylon pieghevoli. «La conoscete, ragazzi?»
Persino nel mezzo di una zona di guerra, i tedeschi erano sempre impeccabili. Addirittura i contractor che li proteggevano erano abbigliati perfettamente, fin nei minimi dettagli come la bandiera della loro nazione sui risvolti del giubbotto antiproiettile. Io non mi ero ancora né lavato né fatto la barba sin da quando ero atterrato a Mogadiscio. Gli abiti e le scarpe da ginnastica di Frank con tutta probabilità avrebbero presto cominciato a dissolversi.
Uno di loro, intento a sorseggiare caffè, mi indicò la porta principale. «All’interno lo sapranno. Ci sono un paio di operatori dei media che non possono essere ancora spostati.» Mi gettò una bottiglia d’acqua. «Buona fortuna.»
3
L’interno dell’ospedale era più pulito e illuminato di parecchi suoi pari della NHS in cui ero stato. Era anche molto più trafficato.
Squadre mediche in grembiuli verdi e mascherine mi superarono di fretta con barelle cariche di combattenti, ragazzini e anziani investiti dal fuoco di mortaio e d’artiglieria di Gheddafi. Camminai sul pavimento lucidato di fresco. Mi sentivo quasi imbarazzato ad aspettare in fila all’accettazione dietro a un gruppo di combattenti che si erano imbattuti in un compagno gravemente ferito. L’addetta di quello che immaginai essere un pronto soccorso domandò loro qualcosa in arabo. Di scaricare le armi, credo, visto che così fecero.
La ragazza che presidiava la scrivania aveva meno di vent’anni. Squillò il telefono. Rispose con competenza prima di farmi un cenno col capo. Quello era il futuro della Primavera araba. Un capo coperto da un foulard viola ma un viso incipriato, occhi truccati, labbra lucide. Non pensavo che i jihadisti avrebbero mai fatto granché presa in quella nazione.
«Parla inglese?»
Sorrise. «Certo. Come posso esserle utile?» Era sorprendentemente calma e affabile. Mi fece sentire persino peggio. «Sto cercando una reporter russa, Anna Ludmilova. Le hanno sparato a Misurata un paio di giorni fa.»
«Okay. Gli stranieri sono tutti al secondo piano, reparto diciassette. Se è armato, la prego di scaricare l’arma.»
«Non sono armato.»
«Posso controllare?»
Abbassai la lampo del pile, lo sollevai e mi girai così che potesse ammirare la piega dei miei jeans.
«Grazie. Le auguro di trovarla.»
Entrarono altri due combattenti. Avevano unito le braccia a improvvisare una sedia per un ragazzo che non poteva essere più vecchio della receptionist. La sua gamba destra era stata tranciata da un’esplosione al di sotto del ginocchio. Il sangue lasciava una scia fino all’entrata principale.
4
Il corridoio del secondo piano era rivestito di linoleum grigio, lindo e lucido. Raggiunsi lo snodo centrale del reparto. Telefoni che suonavano. Personale che chiedeva aiuto. I feriti gemevano, ma almeno erano su dei letti e le bende erano pulite. Il posto funzionava. C’era un’atmosfera di completa efficienza.
Non ero sicuro di cosa avrei detto quando l’avessi vista. Quando sparavano ai miei conoscenti, di solito si trattava di compagni e mi limitavo a scherzare. Ma stavolta era diverso. Lei era più che un compagno. Era la persona più importante della mia vita.
Sì, era oltre la mia portata. Sì, un giorno avrebbe potuto anche stancarsi di me. Ma sapevo che, finché fosse durata, avrei passato i momenti migliori della mia esistenza. Addirittura non vedevo l’ora di prendermi cura di lei finché non si fosse rimessa abbastanza in forma da tornare a giocare alla reporter, lasciandomi a guardarla sul televisore del Gunslinger.
Il reparto diciassette non finiva più. Un classico stile Nightingale, tra i quindici e i venti letti su ogni lato. Alcuni avevano dei séparé. Altri, pannelli divisori. Camminai lungo il centro, controllando i letti che riuscivo a vedere. Perlopiù erano occupati da combattenti. Un paio di bianchi stavano distesi bendati. Forse erano contractor militari o delle compagnie petrolifere, oppure operatori dei mass media. Non mi importava.
Continuai a camminare. Gli ultimi due letti erano tenuti separati da due piccoli cubicoli. Forse era lì che si trovavano le donne.
Quello sulla destra era aperto. Un’anziana donna giaceva distesa con la famiglia raccolta intorno. Era stata colpita allo stomaco. Sangue filtrava attraverso le fasciature e colava sulle lenzuola. Il suo viso era butterato da croste rosse. Con tutta probabilità era stata investita da un colpo di mortaio.
Mi avvicinai alla porta sulla sinistra e bussai delicatamente. Non attesi una risposta.
Lei era seduta, mezza addormentata, appoggiata ai cuscini. Indossava un camice chirurgico verde.
«Nicholas?»
5
I suoi capelli biondi erano un disastro. Il viso slavato e stanco. A me però sembrava comunque splendida.
«Ho chiamato. Ho provato ma...» La baciai sulla guancia. «Stai bene?»
Mi squadrò da capo a piedi. «Più che altro, tu stai bene?»
«Tutto bene. Poi ti racconto.»
Mi accomodai sulla sedia d’acciaio accanto al letto e le presi la mano.
C’era un po’ di tensione. O magari era solo una mia impressione.
«Dove sei stata colpita?»
«Fianco sinistro. Basso ventre. Il colpo è arrivato da non si sa dove. C’erano raffiche in lontananza. Era in corso un attacco aereo, ma nulla di troppo vicino. Poi sono andata giù. La troupe è stata grandiosa. Mi hanno portata qui e sono stata operata. Nessun organo danneggiato. Ma fa male e per il momento non posso essere spostata.»
La famiglia dalla parte opposta cominciò a gemere e piangere. Il personale medico arrivò di corsa lungo il reparto.
«Che c’è che non va, Anna? Perché non puoi essere spostata? Ha colpito i nervi della spina dorsale o roba del genere? Le gambe? Riesci a muoverle?»
Stava piangendo. Si morse il labbro inferiore tentando di controllarsi.
«Dicono che si tratta del tramite della ferita, Nicholas. Il proiettile mi ha attraversata ma... è passato molto vicino all’utero.»
La guardai, in attesa di altro.
Le sue mani ora stringevano forte la mia.
«Devono assicurarsi che il bambino non abbia subito danni.» Lacrime le scorrevano lungo le guance. «Sono incinta di tre mesi, Nicholas...»
Fu come se avessi raggiunto 10 G di accelerazione a bordo di un jet. Il mio sedere fu spinto contro la sedia. Tutto il mio corpo provava la sensazione di essere conficcato nel pavimento.
«Va tutto bene, Nicholas. Devo solo riposare e farmi controllare ancora tra qualche giorno. È solo che finché non avrò avuto il via libera non mi potrò muovere.»
La famiglia oltre il divisorio venne condotta via dallo stanzone. Sentii sferragliare una barella.
«Va bene. Va bene...»
Mi baciò sulla guancia. Aveva l’alito pesante. Ero certo che avesse pensato la stessa cosa quando la baciai. Con le mani attirò la mia testa al suo petto. «Ero così preoccupata per te.» Mi accarezzò i capelli.
Alla fine mi feci coraggio e le posai una mano sul ventre, così delicatamente che a malapena lo toccai. La mossi con cautela, come se mi aspettassi che ci fosse qualcosa lì a parte il bendaggio della ferita. Che cazzo ne sapevo?
«Nicholas, ero davvero preoccupata per come avresti potuto accogliere la notizia. Non ero sicura di come avresti reagito. Non siamo insieme da tanto tempo e...»
«Perché sei rimasta qui, in questa situazione?»
«Mia nonna mise al mondo tutti i suoi figli mentre lavorava nei campi di grano.» Tentò di ridere. «Stupido, lo so. Ma immagino di averlo fatto perché sapevo che questo sarebbe stato il mio ultimo lavoro all’estero.» Abbozzò un sorriso sbilenco. «Adesso ho delle responsabilità...»
Sorrisi di rimando. «Sembra proprio che le abbia anch’io.»
Pensai a Mong, a Tracy, a Stefan. Forse, dopo tutto, era la fine di un’epoca. Ne era appena cominciata una nuova.
Anna tenne il mio viso tra le mani e io continuai a fissarla, sorridendo.
Poi mi guardò, più seria. «Hai finito Delitto e castigo?»
Feci la faccia colpevole. «Te lo devo dire, quei classici mi lasciano davvero perplesso. Continuo a dire a tutti quelli che me lo domandano che lo sto leggendo, ma vuoi che ti dica la verità? Sto avendo problemi persino con i riassunti.»
Mi baciò la testa e poi mi colpì con un sonoro schiaffo.
Mi alzai e la tenni stretta, fino a quando l’anziana signora non era stata ormai portata via da tempo e un’altra vittima l’aveva rimpiazzata.
Fine