Gengis era tra me e l’abitacolo. O dormiva o se ne stava semplicemente disteso, non ne ero sicuro. La sua testa ciondolava sul giubbotto antiproiettile che si era tolto. Il bambino era accanto a Joe, seduto in braccio a Mr. Loverman, coccolato, blandito e consolato.

Stefan teneva una bottiglia d’acqua quasi vuota. Mr. Loverman faceva il buffone nel tentativo di fargliela finire. Doveva buttar giù dei liquidi. Ancora il bambino non aveva mostrato una gran reazione agli eventi.

Sedevo, fissando i fagotti. Mong era morto. Tracy era morta. Ora anche BB. Era come se fosse morta anche una parte della mia vita. Forse era destino. Adesso era Anna l’importante. Di questa situazione ne ero consapevole, della sua no. Speravo solo di poter riprendere da dove ci eravamo interrotti.

Tirai fuori l’iPhone dalla tasca. Non c’era rimasta molta carica, ma c’erano tre tacche di segnale. Per cercare un po’ di riparo dal rumore, mi stesi accanto a Tracy. Non fu di grande aiuto. Alla fine, con un dito nell’altro orecchio, la chiamai. Stavolta niente donna araba furiosa, ma solo un lungo segnale acustico ininterrotto. Forse francesi e inglesi avevano raso al suolo l’infrastruttura delle telecomunicazioni.

Riagganciai. Chiamai Jules e finii diretto alla segreteria. «Amico, sono in Kenya, vado da Anna oggi. Ti chiamo appena riesco a caricare un po’ questo aggeggio.»

Mr. Loverman si voltò e urlò a Gengis. L’abitacolo di colpo divenne un brulicare di attività. Entrambi scrutavano dal parabrezza segnato dai proiettili mentre Joe era preso a conversare con il controllo del traffico aereo.

Mi alzai e andai davanti. Mr. Loverman indirizzava lo sguardo di Stefan verso il suo papà. Era impossibile non vedere il G6, anche da quella distanza. L’aeroporto non era molto più di due strisce di asfalto, enormi cicatrici nere nel terreno che si univano a formare un angolo di novanta gradi. C’erano un paio di piccoli edifici e hangar e aerei leggeri sparsi ovunque. La luce del sole balenava in alto a sinistra mentre cominciavamo la manovra di avvicinamento conclusiva.

Il ragazzino sbirciava verso di me da sopra la spalla di Mr. Loverman. Ogni secondo che passava somigliava sempre più a Frank. Gli sorrisi e feci l’occhiolino. Nessuna reazione. Il bambino si girò, la bottiglia d’acqua sempre in mano, e si accoccolò contro il petto del suo padrino. Aveva i capelli incrostati di sabbia.

Lo guardai e capii che si sarebbe ripreso. Suo padre gli voleva bene, i suoi padrini lo adoravano. Parecchi bambini sono sopravvissuti a guerre, carestie, persino all’Olocausto, e sono comunque diventate brave persone, equilibrate. E, inoltre, Stefan aveva qualcosa di diverso dagli altri bambini: il gene-Frank. Senza dubbio questa esperienza si sarebbe trasformata in un vantaggio, più avanti, nel corso della sua vita.

Mi sentivo un po’ geloso di lui. Entrambi i suoi genitori lo avevano amato così tanto, e Mr. Loverman aveva dato a Stefan più baci sulle guance e coccole durante questo viaggio di quanti ne avessi avuti io in tutta l’infanzia.

Il carrello si posò a terra, liscio come la seta, e Joe rullò verso il G6 nei pressi dell’incrocio delle due piste.

 

Il bambino allungò il collo verso il jet. Mr. Loverman colse l’occasione per voltarsi e guardarmi. La sua espressione non era cambiata. Giusto. Che cazzo gliene importava di me? Il lavoro era lavoro. Il ragazzino era salvo, ecco cosa contava.

Non era granché come finale del film, ma Frank e i suoi avevano avuto quel che volevano più di ogni altra cosa. Tutto girava attorno al bambino.

Ci fermammo dietro il G6 e le eliche si arrestarono scoppiettando. Fu un po’ una delusione. Niente banda né comitato di benvenuto. Nessun sindaco a conferirci la cittadinanza onoraria di Malindi.

Joe aprì di scatto il portellone dell’abitacolo e scese giù di volata per cominciare la sua ispezione. «Cazzo, amico. Guarda qui.» Il plexiglass era crepato. La fusoliera aveva un sistema di aria condizionata bello nuovo.

Mr. Loverman abbandonò l’aereo con Stefan in braccio. Io seguii Gengis fuori dal portellone della stiva. Li lasciai per conto loro e mi unii a Joe. Era molto chiaro che la mia parte nello spettacolo itinerante di Frank era conclusa. Li lasciai alle loro faccende.

Joe infilò un pugno in uno squarcio nell’alluminio e tirò un po’ indietro, cercando di chiudere i lembi dell’apertura. Sbirciò dentro al velivolo. «Adesso che si fa, amico? Che cazzo sta succedendo?»

«Non lo so. So solamente che devo andare a Bengasi.»

La sua mano sbatté contro il fianco come se gli avessero dato l’elettroshock. «Che cosa? Sei davvero un pazzo, amico. Non ne hai ancora avuto abbastanza di questa roba?» Fece un cenno con il capo verso la stiva. «Quelli chi sono?»

«Georgiani. E un tizio che una volta era un mio compagno. Volevano il ragazzino. Il padre non era esattamente nella loro lista degli auguri di Natale, non so se mi capisci.»

Sollevò le mani per tapparsi le orecchie. «Non voglio sapere altro di questa merda, amico. Assicurati solo che il padre mi ripaghi l’aeroplano. Ho intenzione di andarmene presto in spiaggia, bermi qualche birra e non fare un cazzo. Intanto può ordinare il mio nuovo mezzo. E io sono a posto. Quello che fate voi altri tizi non mi riguarda.»

Sentii dei passi dietro di me. Mi voltai e vidi Mr. Loverman, con Stefan ancora appiccicato al suo fianco e Gengis.

Mr. Loverman baciò il bambino sulla guancia e gli sussurrò qualcosa in russo. Stefan annuì lentamente. Mr. Loverman mi guardò. La sua espressione non era cambiata. Sembrava ancora che volesse piantarmi quell’ascia nel cranio.

«Ci hai restituito Stefan. Adesso devi ridare suo figlio al signor Timis.»

Mi passò il bambino e finalmente ricevetti un sorriso. «Grazie, Nick.» Fece un cenno con il capo e si fece da parte mentre Gengis tendeva la mano. Persino lui se ne uscì con un «grazie» dalla forte inflessione.

Conclusi la stretta di mano e mi diressi verso il G6. Stefan adagiò il mento sulla mia spalla e guardò giù, verso la pista.

Quando raggiunsi la base della scala, Frank apparve sulla soglia. Indossava ancora jeans immacolati, con la piega, e una camicia bianca a maniche corte inamidata e stirata, con una penna nel taschino. Il suo viso però non era in condizioni altrettanto impeccabili. Piangeva.

 

33

 

Mentre mi avviavo su per gli scalini sussurrai all’orecchio di Stefan: «C’è papà, Stefan! Guarda!»

La sua testa si sollevò e ruotò. Finalmente un sorriso anche sul viso del bambino. Si agitò per liberarsi.

«Papà! Papà!»

Raggiungemmo il portellone.

Frank tese le braccia e lo prese. Si abbracciarono forte. Lungo le guance di Frank scendevano le lacrime mentre baciava il viso del figlio. «Oh, il mio Stefan...»

Frank lo portò all’interno, un trionfo di poltrone La-Z-Boy in pelle bianca e divani e folti tappeti di pelo. Rimasi dov’ero, appena oltre la soglia. Frank si incamminò all’interno dell’aereo. Sedette su un divano curvo insieme a suo figlio. Si abbracciarono e baciarono.

Stefan attaccò a parlare in russo. Non capivo quel che stava dicendo, ma incespicava con le parole nella fretta di spiegare tutto ciò che era successo. Sentii «mamma, mamma» un paio di volte.

Frank asciugò le lacrime dalle guance del bambino. Le sue erano fradice. Non riusciva a controllarsi.

Di lì a poco Frank iniziò a parlargli gentilmente in russo, accarezzandogli il viso. Fece un po’ di smorfie, come si fa con i bambini. Non funzionò.

Una donna più anziana emerse dalla porta più vicina all’abitacolo, ricavata in una parete rivestita di noce smaltato. Disse un «ciao» garbato ma allegro al bambino e gli accarezzò i capelli.

Stefan la conosceva. Lo portò via tenendolo per mano, ma non prima che ricevesse un altro bacio sulla fronte dal padre.

Frank lo guardò per tutto il tragitto fino alla stanza da letto, dove suo figlio si voltò e salutò con la mano.

Il suo Zenith tintinnò quando mi fece cenno di entrare in cabina.

«Nick, per favore. Vieni. Siediti.»

La mia attenzione rimase per un momento alla porta della camera, poi li raggiunsi all’interno.

«Le ferite di Stefan devono essere pulite, Nick. Poi lei gli darà qualcosa per aiutarlo a riposare fino a che non saremo di ritorno a Mosca.»

Affondai nel divano curvo davanti a Frank. Si asciugò gli occhi e si sporse in avanti. Sollevò la mano per stringere la mia. «Nick, ti ringrazio. Grazie.»

Mi offrì una vera bottiglia d’acqua in vetro. Il tappo sibilò quando lo svitai. Guardai fuori dal finestrino, buttando giù un paio di grosse, bramose sorsate. Mr. Loverman e Gengis stavano trasferendo nella stiva i fagotti di cerata.

«Cosa ne farai delle teste?»

«Saranno inviate a certe persone a Tbilisi. Come regalo.»

«Ma che bel regalo!»

«Farò crollare il regime di Tbilisi e la mia nazione sarà libera. La Georgia è nemica della Russia, Nick. Nemica dell’Ossezia del Sud. Presto la violenza imperverserà per le strade di Tbilisi. La gente che finanzio e sostengo farà in modo che accada. Quelle teste sono un dono per quelli disposti a usare mio figlio come arma contro di me.

«Gli offrirò un’anticipazione del loro futuro, perché presto avrò anche le loro di teste. Mia madre e mio padre avevano più di settant’anni quando i georgiani invasero la mia terra. Erano persone anziane, gentili, non erano una minaccia per nessuno.»

Quando la Georgia aveva lanciato la sua offensiva militare per riconquistare l’Ossezia del Sud separatista, circa millequattrocento persone erano rimaste uccise. I genitori di Frank dovevano essere stati tra quelle.

Entrambi facemmo silenzio mentre veniva caricato il corpo di Tracy.

Quando aveva parlato dei suoi genitori c’era stata rabbia nella sua voce. Ora la tristezza aveva rimpiazzato l’espressione da Terminator, molto più familiare.

«La seppelliremo a Mosca. Stefan ha bisogno di starle sempre vicino.»

Di colpo Frank fu incapace di incrociare il mio sguardo.

«Che cosa gli dirai?»

Si strinse nelle spalle.

«Se può essere d’aiuto, Frank, la prima volta che ho visto Tracy a Merca gli stava accarezzando la testa e cantando una filastrocca. E se gli dicessi che sua madre è andata in cielo a insegnare agli angeli a cantare Three blind mice?»

Le lacrime affiorarono di nuovo negli occhi di Frank. Non pensavo fossero solo per Stefan. Sollevò una mano, per provare più a ricacciarsele nella testa che ad asciugarle.

«Sì, è un’ottima idea. Grazie, Nick.»

Il mio lavoro era finito, ma all’improvviso sentii che quello poteva essere un nuovo inizio, non la fine di tutto. Magari quel che avevo detto a Tracy era vero. Stefan era parte di lei. E lei era parte di Mong. E Mong? Be’, Mong era per sempre parte di me.

Concessi a Frank un paio di secondi per ricomporre la sua espressione facciale.

«E adesso che ne sarà di Stefan? Sarà tenuto separato dalla tua famiglia?» Feci un cenno con il capo in direzione della stanza da letto. «Sarà tenuto sotto una campana di vetro, con una balia, per tutto il resto della sua infanzia? Non sarebbe giusto, non credi Frank?»

Le lacrime erano scomparse, e il vecchio Frank, anche se forse non il vero Frank, stava facendo ritorno. «Ti sei dato davvero molto da fare per scoprire cose sul mio conto.»

Annuii. «Fa parte del mio lavoro, amico.»

Si sporse verso di me, in grado ora di guardarmi negli occhi. «Stefan sarà parte della mia famiglia. Mia moglie si chiama Lyubova. Significa ’amore’. E ne ha molto da dare. Ha dovuto averne, Nick. Non sono sempre stato un buon marito. Lyubova sapeva di alcune altre donne, ma mi ha sempre amato.»

Puntò un dito verso di me. «Non sa nulla di Stefan. Ma lo saprà, e molto presto. Le racconterò tutto. Credo che abbraccerà mio figlio, accogliendolo come uno dei suoi. Spero sappia perdonarmi. Spero di poter diventare il marito che si è sempre meritata. Dunque, magari, da tutto questo ne è già uscito qualcosa di buono.» Tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Ma adesso basta, Nick. E tu? Che cosa vuoi? Di cosa hai bisogno?»

Anch’io tornai a rilassarmi, buttando giù l’ultimo sorso d’acqua. «Penso che a Joe, il pilota, serva un nuovo aereo. Il suo ha più buchi dei miei calzini.»

Frank abbassò lo sguardo e vide in che stato erano ridotti i miei piedi. Rise.

Alzò le mani. «Naturalmente, me ne occuperò. Ma tu personalmente Nick, qual è la cosa che desideri di più al mondo?»

Era una domanda semplice a cui rispondere.

«Frank, mi serve un passaggio per Bengasi.»

Spalancò gli occhi. Rise ancora, una risata, profonda, calda, sonora. Quello era il vero Frank. E mi piaceva.