PARTE SESTA

 

 

1.

 

Girai a sinistra in Papaverhoek e superai FilmNoord XXX. Le tende alle finestre erano aperte e fili di luce azzurro acceso e bianco luccicavano invitanti sul marciapiede.

Era buio ma viaggiavo lo stesso con l'aletta parasole abbassata, anche se lì le telecamere per la velocità non erano numerose come in Inghilterra. Non volevo correre rischi.

Superai l'edificio tedesco e parcheggiai di muso contro la saracinesca, esattamente come avevo fatto con la Panda. Spensi i fari. Scesi e zoppicai fino al portone. I segnali erano intatti. Infilai la chiave nella serratura superiore. Alzare il braccio mi provocò fitte di dolore lancinanti alla natica. Il sangue coagulato era freddo contro la pelle.

Mi appoggiai al portone con la mano sinistra e affrontai le altre serrature. Stavo da cani. Un fiotto di bile m'inondò la gola.

Alla fine riuscii a entrare. Volevo mettere al riparo l'auto nel minor tempo possibile, e poi volevo bere un tè caldo, fare una doccia e medicare la natica.

Sussultai: i passi dietro di me erano pesanti. Mi voltai. Lei venne dritta nella mia direzione con le braccia allungate. Indossava ancora i Timberland e i miei vestiti.

"Che cazzo vuoi?»

"Prego, per favore...»

Stringeva ancora in una mano i soldi che le avevo dato.

"Ti prego, prendili. Io...»

L'afferrai e la scaraventai oltre la soglia. Piazzai il viso contro

il suo. "Aspetta qui!» Non volevo che restasse in strada, e neppure che la Passat rimanesse incustodita. Mi sarei liberato della mocciosa più tardi.

Si zittì. Avrebbe ubbidito al comando, voleva il mio aiuto.

Mi spostai più veloce che potei nel magazzino. Picchiai sul pulsante verde e la saracinesca cominciò a sollevarsi. Non accesi la luce. Appena ci fu abbastanza spazio mi chinai e ci passai sotto. Il movimento allargò le ferite e un'altra fitta lancinante mi attraversò il corpo.

Scivolai dietro il volante. Il sedile era macchiato ma non c'era una pozza di sangue. Dopo il trauma iniziale i capillari si ipotrofizzano e la massa muscolare profonda circoscrive la lesione; il sangue gocciola ma non scorre più a fiotti.

Mi restava comunque un bel cazzo di cavità nella natica e ogni movimento mi faceva sentire come se fossi seduto su un attizzatoio incandescente.

Parcheggiai accanto alla Panda, rientrai dal portone e lo chiusi.

Quando mi vide mi implorò: "Prendimi con te. Tu parti stanotte, sì? Aiutami, ti prego». Gli occhi le si riempirono di lacrime.

"Ma perché diavolo non sei andata all'aeroporto? La donna, la donna bionda, mia amica, ti stava aspettando.» Presi altri soldi dai jeans.

Crollò in ginocchio, mi abbracciò le gambe e strinse forte. L'attizzatoio arroventato riprese la sua opera, e io spinsi via la ragazzina con più forza di quanto avrei voluto.

Si osservò le mani sporche del sangue che mi imbrattava i jeans e sentì anche la puzza di bile. "Io ti aiuto. Io ti aiuto.»

Avevo un disgustoso sapore di vomito in bocca. Il dolore alla gamba era intollerabile. Strinsi i denti e respirai forte con il naso. "Bene, sali di sopra. Accendi il bollitore.» 'Fanculo, tutto sarebbe finito entro ventiquattr'ore, ora più, ora meno.

"Bollitore?» Si rilassò. Non conosceva la parola, ma aveva capito che non la cacciavo via.

"Fa' bollire l'acqua.» Mimai il gesto di bere. "Per il tè.»

Annuì e saltò su, ansiosa di rendersi utile. Salì di corsa le scale.

Mi voltai e chiusi a chiave. Non mi preoccupai di mettere segnali nuovi. Strascicando i piedi raggiunsi di nuovo il magazzino.

Tolsi il tappo del serbatoio della Passat. Non avevo elementi per sapere se andava a benzina o a gasolio. Annusai. Ottimo: benzina. Per quel che avevo in mente, era perfetta.

Recuperai il Bergen dal sedile del passeggero e mi trascinai al piano di sopra con il miraggio di bere un buon tè.

 

 

2.

 

Salii con cautela e controllai gli altri segnali cercando di piegare la gamba il meno possibile. Tutti a posto.

Entrai zoppicando nella stanza adibita a cucina. La ragazza era girata di spalle davanti al lavello, molto indaffarata: preparava il tè come se fosse un pranzo di tre portate. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per rendersi indispensabile. Il rotolo di soldi che le avevo dato era posato accanto alla confezione aperta di Yorkshire Tea.

Scrollai dalla spalla la tracolla del Bergen e lasciai che il peso

lo trascinasse lungo il braccio. Non avevo la forza di sollevarlo come si deve. Mi appoggiai al muro nel vano tentativo di alleviare il dolore. Non volevo sedermi per non allargare ancora di più le coltellate. Mi sentivo a pezzi, ma contento di essere ancora vivo.

Lo zaino scivolò a terra e io mi rivolsi alla schiena della felpa. "Come ti chiami?»

Non si voltò. Forse temeva che le avrei detto di andarsene. Era davvero una bambina, e l'impegno nella preparazione del tè la proteggeva come la coperta di Linus sopra la testa.

Non sapevo se non mi avesse sentito o se avesse scelto di ignorarmi. Alzai il tono. "Come ti chiami?»

Sollevò e agitò le mani davanti a sé come se dirigesse la Filarmonica. "Angeles.»

"Come la città?»

A quel punto si voltò e sorrise.

"Da dove vieni, Angeles? Nazionalità? Il tuo Paese?»

"Moldavia.»

"Perché non sei andata all'aeroporto come ti ho detto? Adesso saresti in salvo.»

Si girò di nuovo e borbottò qualcosa verso lo scolapiatti.

"Cosa?»

S'impegnò a fondo con il sacchetto dello zucchero e poi venne verso di me con due tazze fumanti di roba nera.

"Ma io sono al sicuro. Voglio stare con te», sussurrò piano mentre i capelli le cadevano sul viso. Faticavo a capirla se non potevo vederle la bocca.

Avevo una voglia matta di sedermi, invece appoggiai tutto

il peso del corpo contro il muro. Lei rimase immobile davanti a me.

"Quanti anni hai?»

"Quindici. Cucinerò per te. Mi occuperò di te. Qualsiasi cosa. Ti prego fammi restare...»

Annuii e cominciai a bere. Il tè era caldo e dolce e in quel preciso momento il migliore che avessi mai gustato.

Sorseggiò il suo come un uccellino e poi cominciò a parlare come una matta. "Io ti aiuterò, sì. Mi porterai via di qui? Vengo con te stanotte?»

Sollevai la mano per invitarla a calmarsi. "Devi fare una cosa per me. Prendi quell'asciugamano e taglialo a strisce larghe così.» Alzai il pollice e l'indice distanziati di una decina di centimetri. "Come una benda, capito? Io vado a lavarmi.»

Iniziai a muovermi ma trasalii per la fitta di dolore al sedere.

"Ti prego, ti aiuto. Cosa è successo?»

"Non chiedere. Non dire nulla. Se fai ciò che dico, ti aiuterò, okay?»

"Sì, grazie.»

Barcollai dentro la doccia. Aprii l'acqua e, mentre aspettavo che diventasse calda, mi tolsi a fatica le scarpe da ginnastica e i jeans.

 

 

3.

 

Quando l'acqua calda mi colpì la parte ferita trattenni a stento un urlo. Ma era l'unico modo per evitare un'infezione.

Raccolsi l'acqua nella mano a coppa e lavai bene, era il meglio che potessi fare per il momento. Mi sarei curato come si deve dopo aver liberato Lilian e detto ciao ciao a Flynn e al suo silo.

Fatta la cosa più importante, desideravo soltanto togliermi di dosso la puzza di vomito e lavarmi i denti; mi sembrava quasi di sentire dove l'acido aveva intaccato lo smalto.

Sporsi la testa dalla tenda della doccia. "Mi puoi portare quei pezzi di asciugamano?»

Tornai sotto il getto d'acqua e mi lavai i capelli con lo shampoo. Poco dopo la porta si aprì e Angeles entrò. Mi voltai verso di lei. Non volevo che si facesse idee sbagliate, ma non mi andava neppure che vedesse le coltellate.

Uscii dalla doccia e mi asciugai con le parti della felpa che non erano sporche di vomito. Angeles rimase ferma a fissare le cosiddette "ferite da trauma», come Kleinmann aveva definito le cicatrici di tagli, proiettili, morsi di cane che mi costellavano

il corpo.

"Togliti i jeans e la felpa.»

Sbarrò gli occhi.

"Toglili. Ne ho bisogno.»

Cercai di sistemare le strisce di asciugamano attorno ai fianchi, tipo Gandhi, per bendare il sedere in qualche modo, ma non ci riuscii.

Angeles mi passò gli indumenti e se ne andò. Indossai i pantaloni con cautela, arrotolai un pezzo dell'asciugamano e lo infilai alla meglio tra la pelle e la stoffa dei jeans per proteggere le ferite. In Africa avevo visto uomini sopravvissuti alle mutilazioni dei machete che avevano troncato loro braccia e gambe. Io avevo subito molto, ma molto meno. Non dovevo fare altro che resistere ancora due mesi.

Mentre mi infilavo la felpa pulita sopra la testa mi resi conto che per qualche strano motivo il dolore sapeva di buono. Veniva da ferite vere, vecchio stampo, e non da una crescita maligna che non avevo cercato e contro cui ero impotente. Questo era un dolore che potevo gestire, e un'aspirina o due potevano aiutarmi. Per un bel po' di tempo ne avrei sempre portata dietro una bella scorta. Forse anche le Smarties potevano servire.

E poi mi resi conto di un'altra cosa: avevo lasciato le Smarties al 118.

'Fanculo, presto sarei stato con Anna e avrei risolto il problema.

Angeles era seduta sul materassino con il sacco a pelo sulle spalle. I miei vestiti erano imbrattati di sangue o sporchi di vomito. Per il momento li avrei messi in uno degli uffici vuoti. Iniziai a raccoglierli, mentre la puzza mi scatenava conati di vomito. Lei si alzò subito per aiutarmi. Fece un fagotto e li avvolse nel giaccone imbottito.

"Vai a casa dalla tua famiglia? Dai tuoi figli?» Sorrise. "Hai un seggiolino per bambini.»

"Ho detto niente domande, ricordi? Non chiedere. Capisci?»

Si rattristò. Continuavo a dimenticare che aveva soltanto quindici anni. "Sì, mi dispiace.»

Le presi il fagotto dalle mani e ripresentai i miei piedi ai Timberland. "Esco per un po'.»

Il mondo le crollò addosso, era terrorizzata. "Per favore, posso venire? Per favore, non lasciarmi. Ma poi torni?»

Frugai nel Bergen e buttai giù due aspirine. "Esco a comprare del cibo, va bene? E cercherò anche di comprarti qualche vestito. Cosa vuoi mangiare? Carne? Pane?»

"Va bene tutto. Grazie.»

"Mettiti seduta e riposa. Non uscire dalla stanza. Intesi?»

Si avvolse meglio nel sacco a pelo e si sistemò sul materassino. Tremava.

"Ascolta, tornerò. Tutta la mia roba è qui. Tornerò, stai tranquilla.»

In un mondo ideale sarebbe stato meglio che venisse con me così avrei potuto controllarla ogni momento, ma non avevo vestiti anche per lei. E dovevo fare una telefonata.

Lasciai il Bergen nel magazzino e chiusi il portone a chiave. Passai davanti a FilmNoord XXX diretto al mercato. Mi sentivo molto meglio con i miei stivali ai piedi.

Approdai a uno spaccio aperto tutta la notte, il tipico negozio che poteva essere ovunque in Medio Oriente. Grandi sacchi di spezie giacevano accanto a mucchi di frutta e verdura dall'aria sospetta. La TV montata sopra il bancone trasmetteva la versione araba di Starsky e Hutch. Il ragazzo dietro la cassa aveva i capelli neri lisciati con il gel e le basette rasate. Sfoggiava mezzo suq di gioielli sul davanti della maglietta, e la bandiera dell'Iran pendeva orgogliosa alle sue spalle.

Camminai in su e in giù nelle corsie e riempii il cestino con pane arabo, scatolette di salmone con apertura ad anello e cartoni di latte a lunga conservazione che si trovavano accanto a sacchi di riso da venticinque chili e a pentoloni giganti di alluminio. C'erano secchi di plastica, palette, scope, assi da stiro e, cosa più importante, vestiti per bambini e adolescenti, tra cui magliette di cotone e felpe, in gran parte con vecchie immagini di Disney tipo Il Re Leone e altre simili ormai fuori moda da un pezzo. Scelsi alcuni indumenti che potevano andarle bene e li gettai nel cestino. Non vidi asciugamani di dimensioni decenti, al massimo erano grandi quanto un asciugapiatti, ma in mancanza di meglio avrebbero funzionato.

Tornai alla cassa mentre in TV le auto erano affiancate e i cattivi con i capelli anni Settanta e i collettoni a punta estraevano le pistole e si sparavano l'un l'altro. La colonna sonora era adatta per una danza del ventre. Dietro il ragazzo ingioiellato pendevano una serie di carte telefoniche esposte nella loro plastichina. Il poster pubblicitario aveva delle piccole frecce che puntavano verso le bandiere del mondo, e un paio di frasi in olandese mi informavano che con due euro avrei potuto chiamare l'Iran e l'America. Grugnii e indicai, come fanno tutti quando non parlano la lingua, e riuscii a comprarne una da cinquanta euro.

Uscii con i miei acquisti in sacchetti di plastica leggera che mi tagliavano le dita. Ora dovevo telefonare; la cosa buona delle periferie povere di ogni città, soprattutto quelle con emigrati, è che quasi tutte le cabine telefoniche funzionano ancora. La rete di telefonia mobile non ha preso il sopravvento perché gli abitanti non hanno soldi.

Entrai nella prima che vidi e grattai la striscia sul retro della mia carta. Composi il numero della compagnia, poi il codice e finalmente il numero del cellulare di Anna.

Sentii squillare, e poi la sua voce registrata in russo. Attesi il bip.

"Anna, sono Nick. Continuerò a chiamarti.» Abbassai la cornetta e richiamai immediatamente. Se l'avevo svegliata, forse non era riuscita a rispondere abbastanza in fretta. Dopo tre squilli udii la versione russa di "Pronto».

"Sono Nick.» Della ragazzina le raccontai soltanto ciò che doveva sapere. Non c'era il tempo di fare un resoconto completo, e poi non si può mai sapere chi o che cosa possa essere in ascolto. "Si chiama Angeles. Non vuole lasciarmi. Devi venire a prenderla.»

"è spaventata, Nicholas. Ha paura di tutto e di tutti, tranne di te, al momento. Probabilmente sei l'unico volto amico che vede dopo mesi. Posso salire su un taxi e venire a prenderla, ma potrebbe fuggire ancora. Perché mai dovrebbe fidarsi di un'estranea? è passata da una persona a un'altra e a ogni cambio la situazione è peggiorata. Non puoi affidarla al contatto?»

"No, ti spiegherò poi. Non potresti chiuderla a chiave in camera?»

Rifletté per qualche secondo. "è giovane, vero?»

"Quindici anni.»

"Gesù. Difficile prevedere quello che potrebbe fare. Sei il suo unico amico. Pensaci, Nicholas, è facile che si trovi qui a causa di stranieri. Ho chiamato Lena. Riuscirà ad aiutarci. Ha dei contatti in città. Ma devi accompagnarla tu: si fida soltanto di te.»

Me ne stavo lì fermo, in piedi con la cornetta contro l'orecchio. Cercai di dimenticare il dolore al sedere e di pensare.

"Nicholas? Che cosa vuoi che faccia?»

"Okay, la terrò con me. Puoi organizzare l'incontro con gli amici di Lena, all'albergo, diciamo tre ore prima del volo?»

"Quale volo?»

"Il nostro per Mosca. Sabato dobbiamo essere lontani da qui anni luce. Devi prenotare. Hai ancora gli estremi della mia carta di credito?»

"Sì, ma...»

"Ma cosa?»

"Le altre ragazze. Che ne sarà di loro?»

"Non ti preoccupare. Ho già pensato a tutto.»

 

 

4.

 

Quando rientrai avevo le dita intorpidite e gonfie per il peso dei sacchetti.

Avvolta stretta nel sacco a pelo, Angeles balzò dal materassino per prendermeli. "Ti aiuto.»

La lasciai fare, perché mai toglierle l'occasione di rendersi utile?

"Dentro ci sono dei vestiti per te. Vedi se ti vanno bene.» Andai ad accendere il bollitore. Sentivo il fruscio della plastica alle mie spalle.

"La mia amica, la signora bionda, ti aiuterà. Ma io resterò sempre al tuo fianco per accertarmi che sia tutto a posto, okay?» Ignorò le mie parole, continuò a spacchettare i vestiti e li indossò.

"Non devi dire a nessuno che sei stata qui, e non parlare con nessuno di me. Hai capito?»

Mi voltai e la vidi aprire in due un sacchetto per formare una specie di tovaglia che allargò sul pavimento vicino al materassino. Poi aprì la busta del pane e le scatolette.

"Angeles, hai capito cosa ti ho detto?»

Da lei volevo soltanto che tenesse la bocca chiusa finché non fossi stato a Mosca con Anna. Dopo? Non m'importava.

Mi fissò dritto negli occhi e annuì.

"Ottimo, bene. Comincia a mangiare, non aspettarmi.» Scosse la testa. Era seduta sul tappeto con le gambe sotto il sedere, in attesa. Io versai l'acqua calda sopra due bustine di Yorkshire e aggiunsi qualche cucchiaio di zucchero di troppo. Mi avvicinai con le tazze del tè, e con un cenno la invitai a spostarsi sul materassino. Io di sicuro non mi sarei seduto.

"Mi prepari un panino con il pesce?»

Sembrava dispiaciuta che restassi in piedi; infilò il salmone nel pane e me lo passò. Dopo di che non perse tempo. Attaccò a mangiare leccandosi dopo ogni morso le dita sporche di olio.

"Angeles? Perché non hai le sopracciglia?» Non avrei aggiunto che avevo notato che erano disegnate con la matita per gli occhi.

Smise di masticare a metà boccone. Le mani che stringevano il cibo le crollarono in grembo. Abbassò anche gli occhi.

"Ci hanno violentato e poi tenute ferme e rasato le sopracciglia. Ci hanno detto che ai clienti piacciono le ragazze così come le ho ora.»

"Soltanto disegnate?»

Annuì lentamente, sempre a testa bassa, mentre il pensiero la riportava a momenti raccapriccianti.

Presi un cartone di latte e mi sedetti, con molta cautela, accanto a lei. Ne sembrò contenta.

Glielo passai. "Cos'è successo? Com'è che ti sei ritrovata qui con le altre ragazze?»

"Stavo tornando a casa da scuola. Quando ero quasi al villaggio, sono arrivati degli uomini in auto. Ucraini. Mi hanno picchiato e buttata nel bagagliaio.» Sollevò il capo. Il suo volto non aveva espressione. "Mi hanno portato in auto fino a Odessa e mi hanno chiuso in un garage. Sempre nel bagagliaio.» Provò ad aprire il contenitore del latte, ma non ci riuscì e non perché le mancasse la forza. Una lacrima si raccolse all'angolo dell'occhio e poi rotolò lungo la guancia. Posò il cartone a terra per recuperare il controllo. Me ne occupai io.

"Ero vergine. Volevo aspettare fino al matrimonio come aveva fatto la mamma. Ma gli uomini...»

Le concessi un momento o due per riprendersi. "Come hai fatto ad arrivare qui?»

"Sono fuggita dal garage. Sono andata alla polizia. Ma i poliziotti mi hanno arrestato, hanno avvertito gli ucraini e mi hanno riconsegnata a loro.»

Attesi che si asciugasse gli occhi. Prese un sorso di latte, le mani rigide per la rabbia e l'angoscia. Cominciavo a capire perché Anna era stata così decisa nel consigliarmi di non affidarla a nessuno.

"Gli uomini mi hanno portato su una barca. Ci sono stata per molto tempo. E io ho...» Si voltò, ancora una volta sopraffatta dalla vergogna. "Ho dovuto pagare il mio biglietto...»

"Sei arrivata qui, ad Amsterdam?

"No, a Copenaghen. La ragazza della fotografia... anche lei adesso è qui. Anche lei è stata portata qui da Copenaghen. Gli uomini là...» Strofinò l'indice su dove avrebbero dovuto trovarsi le sopracciglia. "Gli uomini là hanno fatto questo.»

"Stavate insieme nella casa, una vecchia casa fredda?» Annuì. "Una settimana, forse dieci giorni, non lo so.»

"E Lilian, la ragazza della foto, era lì con te?»

"Sì. Con altre tre ragazze.»

Tornai con il pensiero all'incontro con Robot e a ciò che accadeva al piano di sopra.

"Poi ci hanno messo in un camion stipato di mobili e ci hanno portato qui. Ma io sono fuggita. Mi sono arrampicata sulla torre.»

"Angeles, quanti uomini ci sono dentro l'edificio? Dove stanno, che cosa fanno? Pensi di riuscire a disegnare una piantina dell'interno?»

"Non so altro, mi dispiace. Era buio quando siamo arrivate e poi ci tenevano chiuse in una stanza.»

"Uscivate per mangiare, per andare in bagno?»

Scosse la testa. "Nella stanza c'era un secchio, e il cibo lo prendevano a un take-away. Io non posso esserti di aiuto, io...» "Va bene così. Non ti preoccupare.» Non volevo farle rivivere quegli orrori più del necessario. "E i tuoi genitori? Fratelli? Sorelle? Parenti? Hanno cercato di rintracciarti?»

"Mio padre? Gli ucraini mi hanno detto di avergli dato dei soldi. Se lui parla o se io torno a casa gli incendieranno la fattoria. Nessuno mi aiuterà. Mia mamma? Cosa mai potrebbe fare?»

"Quegli uomini forse hanno mentito... forse ti hanno detto così per non farti scappare e ritornare a casa. La mia amica conosce delle persone in Moldavia che ti ospiteranno. Una era proprio come te, era stata rapita e non aveva nessuno. Ma adesso è in salvo, e anche tu lo sarai presto. Scopriranno se è vero ciò che ti hanno detto gli ucraini. Qualsiasi cosa accada, potrai tornare al tuo villaggio. Ti piacerebbe?»

"Sì.» Lentamente la tensione la stava abbandonando. Mi fece un sorrisino timido. "Mio fratello... ti assomiglia.»

"Poveraccio!» Riuscii a farle spuntare una specie di sorriso e poi le lasciai finire il picnic. Scesi in magazzino dove avevo lasciato lo zaino. Presi la tanica da venti litri e tornai di sopra. Mi serviva molta acqua per quello che avevo in mente di fare.

Lei mi osservava, intenta a buttare le scatolette vuote in un sacchetto.

"Resta qui. Dormi un po'. Devo riempire questa e poi ho del lavoro da fare al piano di sotto.»

Tornò l'espressione spaventata.

"Non vado da nessuna parte, ma tu non scendere, capito? Resta qui. Va bene?»

Annuì.

"Non manca molto ormai. Poi sarai salva.»

Fece un gran respiro. "Come ti chiami?»

"Nick.» Mi voltai in fretta e sparii per andare a riempire la tanica. Mi erano tornate alla mente le immagini di quanto era accaduto a lei e a Lilian nella casa verde. Basta! Dovevo smettere di rimuginare sempre le stesse cose.

Svitai il soffione della doccia e lo usai come una manichetta. Era molto più semplice che trafficare nel lavello.

Zoppicando, scesi le scale con la tanica piena e il fagotto dei vestiti imbrattati di vomito.

Disposi l'attrezzatura nello spazio dietro le due macchine. I neon lampeggiavano in modo instabile. Ma non importava. Non mi serviva molta luce.

Presi il fornello da campeggio e avvitai la bomboletta di carburante, poi scartai il set di pentole.

L'articolo più ingombrante erano le aspirine. Ne avevo comprate trecentoventi e le avrei usate tutte, meno le due che avevo già preso, le due che stavo per prendere e altre due come portafortuna.

L'attizzatoio incandescente tornò a torturarmi, ma io sorridevo come uno scemo. Avrei sistemato i bastardi che avevano reso schiave Lilian, Angeles e le altre ragazzine che avevo visto alla casa verde, e avrei usato trecentoquattordici aspirine per far venire loro il mal di testa più forte del mondo. Un mal di testa procurato da un ordigno artigianale.

 

 

5.

 

Non mi serviva troppo esplosivo ad alto potenziale per mandare a puttane il silo e tutti quelli che c'erano dentro. La CNN e la BBC avrebbero ottenuto dei bei filmati davvero. Ne sarebbero bastati due pezzi: uno di circa un chilo, per produrre la carica di innesco, e uno più o meno della metà per produrre la bomba incendiaria.

L'acido picrico è un materiale magico, ma è un bel casino da preparare. Dovevo separare l'acido acetilsalicilico da tutto il resto, aggiungere un paio di altri ingredienti e poi mischiare e distillare. Il problema era che l'attrezzatura che avevo mi consentiva di prepararne solo piccole quantità alla volta. Probabilmente ci avrei messo tutta la notte a finire il lavoro.

Per me era la miscela esplosiva numero 7. Per far parte della squadra antiterrorismo avevo dovuto imparare a essere un terrorista. Molto spesso facevo proprio ciò che facevano loro: infiltrarmi in un Paese e comprare tutto l'occorrente in negozietti e farmacie, aggiungendo altri articoli nel cestino per non insospettire il cassiere. Poi, come un vero terrorista, rientravo nel mio nascondiglio, preparavo e piazzavo l'ordigno, e abbandonavo la zona prima dell'esplosione.

Oggi la situazione è cambiata a causa degli attacchi suicidi. I kamikaze vanno sul posto e restano con il congegno per avere la certezza che esploda. Alcuni l'esplosivo se lo tengono addosso. Niente di tutto questo era incluso nei miei piani.

Il primo corso da demolitore che avevo frequentato dopo essermi arruolato nel reggimento era durato dodici settimane. Mi ero goduto ogni minuto. Già da ragazzino mi appassionavo ai filmati di Fred Dibnah che faceva crollare le ciminiere di centrali elettriche e le torri che implodevano all'interno del loro stesso perimetro. La sostanza del corso era: le truppe nemiche potevano anche batterci al fronte, ma nessun esercito riesce a sopravvivere senza approvvigionamenti, ecco perché bisognava sapere in che modo far saltare un ponte, una linea ferroviaria, una centrale idroelettrica o una raffineria, o rendere inutilizzabile un porto, o ancora aprire una chiusa o distruggere aerei civili e militari. Basta un chilo di esplosivo al plastico per fare un danno enorme. A che serve far intervenire l'aviazione per distruggere un importante sito industriale, quando si può ottenere lo stesso risultato tagliandone l'alimentazione? Ed è anche più semplice: una squadra di quattro uomini si infiltrano come civili, compiono la ricognizione, comprano i prodotti da banco necessari e costruiscono l'ordigno.

Distruggere qualcosa non vuol dire eliminarlo dalla faccia della terra. Una grande fabbrica, o anche una piccola città, può essere neutralizzata facendo esplodere la cabina elettrica. A volte è sufficiente piazzare dell'esplosivo in un pezzo specifico del macchinario per bloccarne l'intero meccanismo. Poi l'impianto si distrugge da solo. L'abilità consiste nel localizzare il punto debole, entrare, fare il lavoro e uscire.

Il problema è che non si va in giro con un blocchetto di appunti in tasca con tutte le formule e le istruzioni per assemblare una bomba. Avevamo passato le prime settimane del corso di demolizione a imparare tutto a memoria. Le formule erano nove, nove tipi diversi di esplosivo per nove diversi tipi di lavori, dall'esplosivo a basso potenziale se si vuole produrre un gran cratere su una pista o far saltare una strada o un mezzo che ci passa sopra, all'esplosivo ad alto potenziale che può essere perfetto per distruggere una centrale o un ponte o un paio di piloni. A ciascuno il suo: esplosivi differenti per attacchi differenti. Per questo lavoro, l'esplosivo ad alto potenziale era il più adatto.

Sbriciolai quaranta aspirine nel primo dei quattro bicchieri di vetro spesso cinque millimetri che avevo comprato. Utilizzai il cucchiaio di plastica del set coltello-forchetta-cucchiaio da campeggio. Non poteva essere di metallo perché notoriamente l'acido picrico, a contatto con i metalli comuni come il piombo e il rame, forma sali pericolosissimi, sensibili agli urti e detonanti. Può invece essere contenuto senza problemi in oggetti di legno, vetro o plastica.

Aprii il piccolo rubinetto alla base della tanica e versai dell'acqua nella pentola più grande di alluminio leggero e la misi sul fornello. Mentre aspettavo che si scaldasse, aggiunsi un filo d'acqua alla polvere nel bicchiere numero uno fino a creare una pasta; completai con uno schizzo di alcol e mescolai fino a che il tutto non si amalgamò e diventò liquido.

Era finalmente giunto il momento di dedicare amorevoli cure alle ferite da arma da taglio. Abbassai i jeans e spruzzai un po' di alcol tra la parte ferita e l'asciugamano che fungeva da medicazione.

La pelle bruciò come se fosse a contatto con il fuoco.

Raggiunsi zoppicando la Passat. Scarpebelle non era ancora rigido. Tutto il corpo, tranne le palpebre, era ancora morbido e flessibile. Di norma il rigor mortis comincia due o tre ore dopo la morte. Faceva freddo nel magazzino e questo avrebbe accelerato il processo. Le palpebre, insieme a mascella e collo, si induriscono per prime, e infatti i suoi occhi non erano più chiusi ma fissavano nel vuoto fuori dal bagagliaio. I poveri li coprono con una moneta proprio per tenerli chiusi.

La pelle era già pallida. Il sangue era defluito nelle vene più grosse per depositarsi nelle parti del corpo più declivi. Gli tolsi le scarpe di camoscio marrone fatte a mano. Mi servivano i calzini in tinta.

Cercai di sedermi a terra per infilarne uno sul bicchiere numero due, ma il mio fondoschiena non era per niente d'accordo, e quindi restai in piedi e mi chinai. Versai il miscuglio di aspirina sopra il filtro. Un liquido lattiginoso gocciolò di sotto. Dopo un po' tolsi il calzino e buttai via i resti. La schifezza residua non mi serviva, a me interessava ciò che si trovava nel bicchiere, o meglio, quello che sarebbe rimasto dopo aver fatto evaporare l'acqua e l'alcol dal liquido. Ma prima di arrivarci mancavano ancora dei passaggi.

Misi il bicchiere numero due a bagnomaria nell'acqua che sobbolliva. Ci sarebbero voluti venti minuti per far evaporare l'alcol e il resto e ottenere una polvere bianca.

Il passo successivo era aggiungere l'acido solforico concentrato, che non si trova facilmente di questi tempi a causa delle leggi sull'antiterrorismo. Comprarlo suscita sospetti a meno che tu non sia un chimico industriale. Il mio piano originale prevedeva di ricavarne un po' dalla batteria della Panda, ma la Passat era un extra. O così credevo. Ce n'era molto di più, ma fu un casino tirarlo fuori. Sotto il cofano tutto era coperto e sigillato per farlo sembrare più bello ed elegante.

Versai circa un terzo del liquido di ogni cella nella pentola piccola di alluminio. Anche se svuotata, la batteria era ancora funzionante. L'acido solforico doveva bollire fino a che i fumi bianchi non sparivano. Mi serviva molto concentrato.

Il sistema per creare l'acido picrico è lo stesso da secoli. Era stato scoperto nel diciottesimo secolo e venne usato principalmente per tingere di giallo la seta e la lana. Circa cento anni dopo se ne scoprirono le proprietà esplodenti. Il grosso problema era la pericolosità dei sali prodotti dall'acido picrico a contatto con i metalli comuni. Durante la guerra anglo-boera gli artiglieri caricavano le granate di acido picrico che scoppiavano all'interno dei cannoni, in quanto la miscela reagisce con il metallo contenuto nell'involucro del proiettile. Altre esplosioni imponenti si verificarono nelle fabbriche e sulle navi che trasportavano munizioni. L'acido picrico non riesce a corrodere due soli metalli, lo stagno e il nichel, usati durante la prima guerra mondiale per rivestire bombe e granate; ciò nonostante gli operai delle fabbriche di munizioni venivano chiamati canarini per le macchie gialle che rimanevano loro sulla pelle.

Più avanti si scoprì che l'acido picrico è così pericoloso soltanto quando è in polvere, comunque, ancora adesso, se la polvere viene conservata in bottiglie di vetro o di plastica, occorre prestare la massima attenzione affinché i grani non restino nella filettatura del tappo o della bottiglia. è talmente volatile che la semplice azione di svitare un tappo può farlo detonare.

Dopo quella missione mi sarebbe mancata l'eccitazione di saper creare miscugli del genere e vedere le reazioni che scatenavano: già mi vedevo seduto sul volo per Mosca con Anna da una parte e un passeggero qualsiasi dall'altra impegnato con il suo computer. E, mentre lo osservavo scrivere, pensavo: Stasera quando guarderai il notiziario vedrai cosa sono stato capace di fare.

Osservai che la polvere bianca cominciava a sedimentare nel bicchiere numero due immerso nell'acqua che bolliva piano. Tolsi la pentola dal fuoco e vi misi quella contenente l'acido della batteria. Molto presto i fumi bianchi si sollevarono e si diffusero per tutto il magazzino. Terminata l'evaporazione, versai un poco dell'acido concentrato nel bicchiere numero tre, poi, con il coltello di plastica, ci aggiunsi lentamente la polvere bianca del bicchiere numero due. Ottenni un liquido bianco.

A quel punto dovevo aggiungere un po' di potassio prima di mettere il bicchiere numero tre nell'acqua e farlo bollire fino a quando la miscela non fosse diventata color giallo-arancio.

L'ultimo passaggio consisteva nel filtrare il composto sul secondo calzino che copriva il bicchiere numero quattro. Ma questa volta non avrei tenuto il liquido. Mi serviva il residuo stesso nel calzino. I grumi umidi che restavano erano il risultato dell'intero processo. Una volta asciutti, si sarebbero trasformati in un potentissimo esplosivo instabile in grado di detonare facilmente per il calore o per una scarica elettrica. Per il momento, l'avrei conservato in un doppio strato di sacchetti per il congelatore, attorcigliati, piegati e chiusi con un giro di filo di metallo plastificato, per non far entrare l'aria.

 

 

6.

 

Venerdì 19 marzo, ore 7.20.

 

Mi ero addormentato con indosso il cappotto di cammello di Scarpebelle, sopra i tappetini della Passat che avevo disteso sul pavimento accanto ai miei sacchetti di esplosivo. Prima dell'arrivo di Bradley dovevo restituirlo al legittimo proprietario nel bagagliaio della macchina.

A fatica mi tirai su dal cemento. Avevo ancora molte cose da fare.

La prima era svuotare l'acqua dalla tanica: l'avrei riempita in seguito con la benzina della Passat. Quindi presi il blister con le lampadine alogene. L'involucro di plastica era così rigido che dovetti usare la lama del piccolo Leatherman cinese per riuscire ad aprirlo.

Le lampadine di quel tipo erano ciò che mi serviva: piccole, producevano all'istante una gran quantità di calore, e per la loro dimensione erano assai più resistenti di quelle normali, sempre più difficili da trovare a causa della normativa UE sull'energia verde. Probabilmente anche queste sarebbero state bandite se i legislatori avessero scoperto che potevano essere usate come detonatori.

Ne estrassi una. Era grande quanto la punta del mio mignolo. I terminali alla base erano due anelli di metallo.

Dallo zaino dei miracoli presi la sveglia digitale a forma di moschea. Ci infilai quattro pile AA e poi strappai i cavi che collegavano l'alimentazione all'altoparlante sul retro. Attorcigliai i terminali scoperti ai due anelli della lampadina e regolai l'orologio sulle otto. Poi puntai l'allarme sulle otto e un minuto, e al momento esatto, invece di sentire il lamento del muezzin, la lampadina si accese. Dopo tre secondi era già calda, non abbastanza da far detonare qualcosa, ma al momento non era importante. Avrei modificato la lampadina per renderla più efficace. Chiusi la sveglia per preservare le batterie e la posai.

La tanica da venti litri si era svuotata. La sollevai e presi il pezzo di tubo di plastica trasparente che avevo comprato in un negozio che vendeva pesci tropicali; quindi mi avvicinai alla Passat.

Svitai il tappo del serbatoio del carburante e vi infilai il tubo. Con la tanica vicino ai piedi, portai l'altra estremità alla bocca e aspirai. I polmoni si riempirono delle esalazioni della benzina, ma continuai. Pochi secondi dopo il tubo si scurì e, appena il liquido arrivò a una decina di centimetri dalle mie labbra, lo sfilai dalla bocca dopo averlo chiuso con il pollice. Lo piegai verso il basso e lo inserii nella tanica, tolsi il pollice e il carburante fluì.

Ricordai la prima delle innumerevoli volte che mio padre mi aveva mandato a rubare la benzina dalle altre auto, sostenendo che i benzinai erano a secco di carburante. Avevo dodici anni, erano gli anni Settanta, quelli dell'austerity. In seguito, mi aveva detto che scarseggiava lo zucchero, e mi spediva a prelevare le zuccheriere dai bar. Naturalmente erano tutte balle, però lui voleva risparmiare qualche spicciolo e se ne sbatteva di farmi rischiare il carcere.

Lasciai il tubo dov'era a finire il suo lavoro. Era giunto il momento di bermi un tè. Guardai il mio G-Shock. Bradley sarebbe arrivato fra poco. Dovevo nascondere Angeles.

Salii controllando i segnali, per vedere se era scesa a curiosare. Erano tutti a posto, incluso quello dietro lo schedario. Mi resi conto che il dolore non era peggiorato da quando avevo smesso di prendere le Smarties, non quanto avevo previsto. Presi l'appunto mentale di darmi una pugnalata nel sedere al primo accenno di emicrania.

Quando aprii la porta lei balzò dal materassino e attraversò la stanza. "Nick, preparo il tè?»

Sollevai il pollice. "Sarebbe da sciocchi rifiutare.»

Guardai il lavello. Le tazze erano state lavate e tutto era in perfetto ordine, erano spariti anche i cerchi di latte e tè che avevo fatto quando mi ero cimentato io nell'impresa. "Hai mangiato qualcosa?»

"No, Nick. Ti aspettavo.» Sembrava preoccupata. "Non ho toccato niente.»

La lasciai fare e frugai nei sacchetti della spesa per prendere un pezzo di pane arabo che si era indurito. Le ferite ripresero a farmi male. Spostai il peso sulla gamba sana e rosicchiai il bordo croccante del pane.

"Ascolta, Angeles, qualcuno sta per venire a trovarmi.»

Mi passò la tazza. Non aveva un'espressione felice.

"Non deve sapere che tu sei qui, okay? Hai capito?» Sembrava assente.

"Non ti deve vedere. Ti cercherò un nascondiglio e non devi uscire, chiaro?»

Sembrò gradire il fatto che nessuno dovesse vederla. Forse perché voleva dire che non sarebbe stata allontanata.

"Resta nascosta fino a quando non ti dico che puoi uscire. Non devi fare rumore. Il tizio in questione si arrabbierebbe moltissimo se sapesse che sei qui. Mi lascia usare questo posto soltanto perché sa che sono solo. Se la prenderebbe con me se pensasse che c'è qualcun altro. Capisci?»

Annuì. "Sì, sì, Nick. Ce ne andiamo stanotte?»

"Nessun problema. Stanotte. E incontreremo la signora di cui ti ho parlato e lei chiederà ai suoi amici in Moldavia se quello che ti hanno detto gli ucraini su tuo padre e la fattoria è vero.»

Tuffai il pane nel tè per ammorbidirlo. Lei raggiunse la sua tazza quasi saltellando.

 

 

7.

 

Nell'ombra, vicino alla finestra dell'ufficio di mezzo, osservavo il portone d'ingresso e anche un tratto della strada che portava a quella principale.

Controllai l'ora e mandai giù le ultime due aspirine. Non servivano un granché per il dolore al sedere, ma pensavo che un'altra dose potesse essere utile. Il cielo era sempre coperto. Il sole non aveva ancora abbandonato l'idea di aprirsi un varco fra le nuvole, e la tentazione doveva essere forte.

Vidi Bradley: indossava gli stessi vestiti, ma questa volta stringeva nella destra una pesante valigetta di pelle dall'aria costosa. Quando raggiunse il portone, andai verso le scale.

Arrivato all'uscita di sicurezza sul primo pianerottolo, mi voltai e guardai in basso: era già dentro e stava chiudendo a chiave.

"Ti ho portato tutto quello che mi hai chiesto.»

"Ottimo. Grazie.» Gli andai incontro. "Ho già fatto metà del lavoro.»

"Cosa intendi?»

Lo guidai nel magazzino. Girò la testa in ogni direzione, nell'aria stagnava la puzza di vomito e benzina. Vide il casino di pentole e bicchieri coperti da calzini. L'ultima dose di acido solforico era ancora nel bicchiere, posato sul cemento. Ma più che altro i suoi occhi guizzarono fra me e la Passat.

Moriva dalla voglia di sapere, ma non voleva chiedere.

"è nel bagagliaio.»

"Là? Sei sicuro che sia lui?»

"Dimmelo tu. Chiunque sia, ho preso anche il suo scagnozzo. Niente domande.»

Presi dalla tasca la chiave e pigiai il pulsante. Nel bagagliaio i corpi erano raggomitolati come le vittime di Pompei. Il piumino e il lenzuolo macchiati di vomito e sangue non li coprivano del tutto.

Dal cappotto di cammello di Scarpebelle estrassi un sottile portadocumenti di coccodrillo da cui sfilai la carta di credito, con un nome impronunciabile, e la allungai a Bradley, che non volle toccarla.

"Molto bene. Come hai fatto?»

"Come ti ho appena detto, non chiedere niente. Hai le cartucce?»

"Sì, certo.» Posò a terra la valigetta e aprì la lampo.

Mi rivolsi alla cocuzza dei capelli lisciati indietro con il gel. "Hai parlato con il grande capo da quando ci siamo visti ieri?» "No, assolutamente no. Perché me lo chiedi?» Era sempre accucciato accanto alla valigetta e fissava il fornello da campeggio. Io invece guardavo le scatole di cartucce da fucile.

"Quante ne hai prese?»

"Venti. Quando colpirai il silo?»

"Stanotte.»

Annuì lentamente come se dovesse assimilare la notizia. "Devo sapere a che ora pensi di andartene per essere pronto a rilevare la ragazza.»

"Appena presa la porterò qui e poi leverò le tende. La legherò con il nastro adesivo così non potrà fuggire da nessuna parte.»

"E la Passat?»

"Tranquillo, lascerò tutto in ordine e sgombro. Non so a che ora, nove, dieci, undici, ma di sicuro entro stanotte la ragazza sarà in attesa.»

Bradley si inginocchiò per tirar fuori le cartucce. "Ottimo.» Sollevò la valigetta vuota e tornammo sui nostri passi. "Ritengo che non ci incontreremo mai più, vero signor Smith?»

"No, mai.»

Se solo avesse saputo il vero motivo! Saremmo morti entrambi molto presto. Io stavo cominciando ad accettare l'evento, ma un po' mi dispiaceva per lui. Era soltanto uno stronzetto doppiogiochista, ma tutto in nome della regina e della patria. Ero triste per lui e per tutti quelli come Bradley che non si rendevano conto che la regina neppure sapeva della loro esistenza e che il Paese non dava niente in cambio.

Raggiungemmo il portone. Bradley tese la mano. "Buona fortuna, Nick.»

"Grazie, amico, anche a te.»

Aprii e lui uscì in strada. Continuò a camminare, con la valigetta vuota, senza mai voltarsi indietro.

 

 

8.

 

Tornai nella stanza di mezzo e spalancai le ante del mobile d'archivio. Era tutta raggomitolata come un'altra vittima di Pompei. Il faccino aveva un'espressione preoccupata e non per essere stata costretta a rifugiarsi in uno spazio angusto a vivere la sua piccola esperienza da Anna Frank, quanto per il timore di avermi deluso. "Non ho fatto rumore, vero? Non mi avete sentito?»

"No, sei stata proprio silenziosa. Adesso devo fare un lavoro e tu te ne stai buona buona, okay? Torna sul materassino, riposa e stai al calduccio.»

"Okay, Nick.»

"Non manca molto ormai. Poi usciamo e compriamo dei vestiti veri per quando incontrerai la mia amica. Io resterò con te, non ti preoccupare, e mangiamo anche qualcosa, va bene?»

Annuì.

"Resta qui.»

Scesi nel magazzino chiudendo tutte le porte dietro di me. In ognuna delle venti scatole portate da Bradley c'erano venti cartucce, molte più del necessario. Però così sarei riuscito a costruire un congegno un po' più grande ed efficace.

Iniziai a lavorare.

Il nastro telato che mi ero procurato era del tipo standard alto due centimetri. Ne misurai circa due metri e bloccai le estremità con una pentola per parte perché non si arrotolasse.

Aprii la lama del Leatherman cinese e tagliai la punta della prima cartuccia. Erano vecchie, lo capii subito dal fatto che potei tagliare con estrema facilità il cartone cerato rosso, e infatti i pallini che scivolarono fuori erano di piombo, quando da anni li fabbricavano in acciaio.

Svuotati i due terzi della cartuccia, tolsi il cuscinetto di cotone che separava i colpi dal propellente e picchiettai i grani di esplosivo, iniziando da un'estremità e proseguendo sul nastro telato per quattro o cinque centimetri. Stavo facendo più o meno gli stessi gesti di mio padre quando si arrotolava le sigarette, soltanto che questa roba sprigionava molta più energia del Gold Leaf.

Impiegai circa un'ora per tagliare e versare i grani di esplosivo sui due metri di nastro. Dovevo essere sicuro che il propellente fosse veramente attaccato all'adesivo, così ci sarebbe stata continuità di combustione anche in presenza di qualche interruzione qui e là fra la polvere sparsa, causata dalle torsioni della miccia. Fatto quest'ultimo controllo, arrotolai il nastro telato, in modo stretto e preciso, fino ad avere due metri di miccia spessa mezzo centimetro. La misi da parte insieme all'acido picrico.

Restava da accertarsi che il detonatore a lampadina facesse il suo dovere. Con le lame del piccolo Leatherman ruppi il cappellotto di vetro per esporre l'interno della lampadina. Ci versai il propellente di una delle sessanta cartucce che non avevo usato. Poi accesi la sveglia, la puntai un minuto dopo e attesi. L'elemento si accese e dopo tre secondi il propellente si incendiò con una fiammata brillante, e una piccola nuvola di cordite restò sospesa in aria.

Scrollai via la polvere residua e ripuntai la sveglia. Provai ancora, questa volta senza propellente, e la luce si accese. Adesso ero certo che il collegamento elettrico con i terminali della lampadina funzionasse e che l'alogena non avesse problemi. Perché usarne una nuova e correre il rischio che fosse difettosa?

Spostai le parti assemblate lontano da tutto il resto. L'orologio era l'innesco, la lampadina il detonatore. Adesso che erano collegati, dovevo essere sicuro che non facessero il loro dovere fino al mio via. Tolsi le pile e le posai di fianco.

Mancava ancora una cosa, ovvero versare il propellente delle cartucce avanzato in due sacchetti da freezer, uno per ogni carica. Ci misi poco più di un'ora. E quando finii, appoggiai i sacchetti accanto all'acido picrico e alla miccia.

Ero ormai a buon punto. Restava soltanto da sistemare il picrico umido. Presi i sacchetti, li aprii e spalmai la sostanza gialla, che aveva la consistenza della creta, sulla plastica. Poi, dopo aver controllato un'ultima volta che il cappotto di Scarpebelle, la sua carta di credito e il portafogli fossero dentro il bagagliaio della Passat, salii di sopra.

A quell'ora il mercato sarebbe stato aperto, e avevamo tutti e due bisogno di abiti per lasciare il Paese. Volevo essere in ordine in uscita quanto lo ero stato in entrata. Angeles? Lei aveva bisogno di essere vestita e basta.

 

 

9.

 

Sui banchi alimentari erano ammucchiati i prodotti che si trovano di solito nei suq: datteri, spezie, sacchi di riso e pistacchi. Il banco accanto vendeva solamente vestiti usati. Passavamo entrambi inosservati. Nessuno guardava Angeles due volte con addosso quella roba presa alla Casa del gingillo.

L'avrei tenuta con me, punto e basta. Non l'avrei mai lasciata nella casa sicura con i moldavi di sotto e una stanza piena di misture esplosive volatili. Se si fosse messa a curiosare e avesse scoperto i cadaveri, avrebbe perso completamente la testa. E, se avesse trovato il preparato e ci avesse giocato solo un po', avrebbe potuto anche far crollare l'edificio. Soltanto se la tenevo sempre sottocchio ero in grado di sapere dove si trovava.

La priorità numero uno era comprare un cappotto a testa, non soltanto per tenerci caldi e asciutti, ma anche per coprire i vestiti che avevamo addosso se fossimo dovuti fuggire prima di acquistare il resto. Olandese, arabo, turco, non sentii altre voci attorno a me, e quindi partii con il collaudato repertorio di grugniti e gesti. Il risultato fu due paia di scarpe da ginnastica, due paia di jeans e due felpe a testa. Per lei comprai anche una spazzola per capelli perché potesse districare il nido che aveva in testa.

Mi faceva incazzare dovermi trovare ancora ad Amsterdam quando il bersaglio fosse saltato in aria. Il timer poteva essere puntato a due, tre ore al massimo, per non correre il rischio che le batterie si scaricassero. Dopo aver lasciato il silo, avrei perso il controllo sul congegno, non avrei avuto modo di sapere se era stato scoperto perché dovevo tornare alla casa sicura, non soltanto per prendere Angeles, ma anche per fare una doccia e togliermi di dosso DNA e cordite e liberarmi degli indumenti usati durante l'azione. Mancava solo che, durante i controlli prima della partenza, i sensori di sicurezza individuassero tracce di esplosivo sui vestiti e sulle mani!

Ci allontanammo dai banchi di abbigliamento e lei si cambiò in uno dei bar vicino al mercato mentre io indossavo il nuovo orribile giaccone nero. Acquistai kebab e caffè per due, e lei ingurgitò tutto come se fosse digiuna da un mese.

"Nick?»

"Cosa?»

"La tua amica come si chiama?»

"Lo scoprirai tra poco.»

Non potevo impormi di cambiare le abitudini di tutta una vita. Negli anni avevo imparato che andava bene svelare il mio nome: apparteneva a me e potevo decidere cosa farne e quali menzogne attaccarci. Ma divulgare i nomi degli altri era tutto un altro paio di maniche. Stava a loro decidere. In ogni caso, non si forniscono mai informazioni se non si è obbligati. Meno Angeles sapeva di me, di Anna, di Flynn e di tutte le persone coinvolte, e meglio era. L'unica cosa davvero importante era uscire entrambi da quella situazione. Se fossi riuscito a tenerla lontana dal magazzino, sarebbe restata all'oscuro di tutto e io avrei potuto salvarla.

Mentre superavamo FilmNoord XXX, scrutai la strada davanti a noi. C'era sempre la nave da carico che bloccava la visuale del canale, ma niente fuori dall'ordinario, neppure un'auto posteggiata sul marciapiede.

Una volta tornati alla casa sicura, vide che controllavo i segnali nelle serrature.

"Questa non è una bella zona, bisogna stare attenti che non entri nessuno.»

Le chiavi lacerarono i pezzettini di carta e io aprii. Angeles entrò con i sacchetti; la seguii e mi voltai per chiudere.

I due corpi mi piombarono addosso in un turbinio di giacche di pelle, teste pelate e metallo sulla faccia. Erano già a metà strada e si avvicinavano veloci.

Saltai dentro e cercai di chiudere il portone.

Angeles mi guardò terrorizzata, ferma immobile.

"Vai, scappa!»

Spinsero e calciarono, scuotendomi avanti e indietro. Non potevo resistere ancora.

La porta si spalancò con uno schianto.

 

 

10.

 

La trascinai fino al magazzino. Lì c'erano le armi. E dove ci sono armi c'è una possibilità.

In quel momento non potevo fare altro per lei.

La lasciai andare ma mi afferrò la mano. Fui costretto ad allontanarla con una spinta. Il mio corpo si preparava alla lotta, la sentivo urlare alle mie spalle ma io ero concentrato sul bicchiere con l'acido posato sul pavimento.

Uno dei due aggressori era così vicino che potevo percepire il suo respiro affannoso. Crollai sulle ginocchia, l'impatto con il cemento mi provocò fitte lancinanti alle gambe. Afferrai il bicchiere, il liquido si rovesciò in parte e mi bruciò la mano destra. Quando mi voltai, vidi soltanto stivali e jeans.

Sollevai di scatto il bicchiere e lo lasciai una frazione di secondo dopo. Rotolai via per sfuggire agli schizzi.

Il nazi numero uno lanciò un urlo e si coprì il viso con le mani. Cadde in ginocchio. Era alla mia altezza. Saltai in piedi. Volevo il Leatherman. Volevo qualsiasi cosa da usare come arma contro l'altro killer che vedevo confusamente a sinistra. Quello a terra continuava a lamentarsi e a grugnire, era ancora in ginocchio e cercava di sopportare il dolore lancinante.

Il corpo del secondo nazi mi investì a tutta velocità, l'impatto produsse un suono sordo, come se fossi stato travolto da un'auto in corsa. Fui scagliato contro il muro dalla parte opposta. Battei la nuca contro dei blocchi di cemento. Vidi le stelle. Strilli e urla venivano da ogni direzione: da me, da loro, da Angeles.

A fatica mi misi carponi. Dovevo alzarmi. Dovevo stare in piedi. Se vai a terra è finita.

Il nazi numero due tornò alla carica. Lottammo come due monelli nel cortile della scuola. Cercai di prenderlo a testate, di morderlo, qualsiasi cosa pur di togliermelo di dosso. Scalciai e m'inarcai. Gridavamo entrambi. La sua barba di una settimana mi grattugiò una guancia. Il ragazzo emanava un tanfo terribile, puzzava di alcol, di fumo e di rancido. Avevo la faccia incastrata nel suo collo. Cercai di sollevare le mani e di stringerlo. Sbuffò per lo sforzo di tirarsi indietro e sparò del muco dal naso.

Alla fine vidi i suoi occhi roteare dappertutto, come un indemoniato. Era agitatissimo. Riuscì ad afferrarmi il collo, mi stava soffocando. Mi dimenai a destra e a sinistra mentre lui ringhiava come un pitbull.

Finì sopra di me, sul pavimento. Lo avvinghiai con le gambe. Il sedere mi bruciò come se fossi seduto su un ferro per marchiare il bestiame. Provai a colpirlo a testate, o in qualsiasi altro modo, cercai di mordergli la guancia ma girò la testa di scatto. Avvertii il gusto del suo sudore stantio. Con un altro orrendo ringhio spalancò la bocca e mi conficcò i denti nel cranio, lacerandomi la pelle come una belva.

Lo strinsi con più forza tra le gambe: lo stronzo tirava indietro la testa e grugniva di dolore.

Gli ficcai le dita nella faccia, sentivo il sangue che mi colava lungo la nuca. Con i pollici gli cercai a tentoni gli occhi, risalendo oltre gli zigomi... Nel momento in cui gli cacciai i bulbi oculari dentro le orbite, il nazi gettò la testa indietro in preda a un dolore lancinante: i suoi denti mollarono la presa e spalancò la bocca per urlare.

Spostai la destra in modo da avere il palmo ben aperto sotto il suo mento, e con la sinistra gli afferrai l'orecchio destro. Se avesse avuto i capelli avrei stretto quelli. Volevo fratturargli il collo e per riuscirci avrei dovuto torcerlo, girarlo proprio come un rubinetto, a destra e a sinistra. Bisognava disarticolare la base cranica dalla prima vertebra cervicale. Non è difficile quando l'avversario è in piedi. Se gli fai perdere l'equilibrio, puoi eseguire questa manovra mentre sta crollando a terra, sfruttando il peso del corpo che stramazza. Ma non potevo fare altro che strizzarlo tra le gambe per tenerlo fermo.

Finalmente riuscii ad agganciargli gli stivali. Non smettevo di torcergli il collo, come se avessi tra le mani un pollo. Urlavo io e urlava lui. Era fuori di testa.

Gli feci scivolare la sinistra attorno alla nuca. Mantenni il palmo della destra sotto la sua mascella, che spinsi con forza in alto. Il collo si fratturò con un piccolissimo schiocco. Il nazi si afflosciò come una bambola di pezza. Rotolai da sotto il suo cadavere e lo cacciai di lato.

Avevo la vista annebbiata. La testa era in fiamme per il dolore, e il sangue mi colava dietro l'orecchio. Ma le ferite al cuoio capelluto sembrano sempre molto peggio di quello che sono, raramente sono gravi.

I polmoni erano sul punto di esplodere. Inspirai ossigeno mentre mi giravo bocconi. Mi rialzai a fatica, preparandomi al secondo attacco. Ma ciò che vidi fu del tutto inaspettato.

Angeles era inginocchiata accanto all'altro corpo sdraiato sulla schiena. Il sangue le copriva le mani e il volto mentre continuava a colpirgli il torace, ancora e ancora, senza sosta.

"è tutto a posto, smetti!»

La raggiunsi barcollando e le bloccai il braccio che brandiva il coltello. Le tolsi il Leatherman dalla mano e lo gettai a terra. Sulla mano destra avevo una chiazza ovale rosa scuro nel punto in cui l'acido aveva corroso la pelle.

La palpebra destra del killer era così tumefatta da non potersi più aprire. L'occhio sinistro era spalancato, spento.

Angeles era in preda ai singhiozzi, forse per il sollievo, forse per la paura. O forse per la felicità per essersi vendicata di quei bastardi. Lo ignoravo, e in quel momento non m'importava. Dovevo fare una cosa soltanto: accertarmi che tutto fosse finito lì.

"Aspetta qui.»

Barcollai fino all'ingresso. Chiusi a chiave. Quando tornai nel magazzino, la ragazzina era sempre in ginocchio accanto al corpo. Non si era mossa.

Mi avvicinai e la sollevai delicatamente per le ascelle. "Va tutto bene, andiamo.»

Avrei sistemato il casino più tardi. La priorità era portarla via da quel mattatoio prima che assimilasse l'accaduto e iniziasse a perdere il controllo dei propri nervi.

La aiutai a rimettersi in piedi. Lei si voltò e singhiozzò piano contro il mio petto, aveva bisogno di essere confortata. La abbracciai e la cullai per un po'. "Va tutto bene. è tutto finito. Ci sono io a proteggerti. Andrà tutto a posto.»

 

 

11.

 

La accompagnai fino alla doccia e aprii il getto. Sentii il ronzio elettrico dello scaldabagno quando si attivò. Cinque minuti dopo era ancora ferma, in piedi, con le braccia lungo i fianchi e le spalle abbassate.

"Entra. Lavati. Mettiti i vestiti puliti. Ti sentirai meglio.»

Non si mosse. Fissava il sangue sulle mani.

Doveva lavarlo via in fretta, doveva compiere un rito di purificazione, anche se solo a livello fisico. Più a lungo senti quell'odore, più a lungo lo vedi, più ti entra dentro: avrebbe ripensato a quel giorno chissà quante volte nella vita, nelle occasioni più disparate, in un negozio di macelleria o guardandosi le mani macchiate di inchiostro o di pittura rossa. Il fatto che quei bastardi meritassero di morire o che lei si fosse vendicata giustamente degli orrori patiti non avrebbe avuto alcuna importanza se il prezzo da pagare fosse stato il ricordo indelebile di quell'omicidio.

Il vapore si levò dalla doccia e si sparse per la stanza. Mi tamponai la fronte. Il sangue si sarebbe fermato in fretta. La esortai di nuovo. "Entra e lavati. Io mi occuperò di tutto il resto, va bene?»

Nessuna risposta.

"Angeles, vuoi ubbidirmi? Per favore!»

Le presi con dolcezza il viso fra le mani e mi piegai per guardarla negli occhi. Adesso il sangue le imbrattava anche le guance.

E finalmente mi guardò. "è morto?»

"Sì.» Non c'era motivo di negarlo. "Ma tu non hai fatto niente di sbagliato. Hai agito bene. Ci avrebbero uccisi. Hai salvato la tua vita e hai salvato la mia. Lo capisci?»

Abbassò lo sguardo.

Mantenni un tono di voce basso e dolce. "Angeles, fai le cose con calma. Usa tanta acqua. Ma prima dammi i tuoi vestiti. Vado di sotto a sistemare tutto. Capito?»

Le lasciai il volto. Iniziò a spogliarsi e io mi avvicinai al lavello. L'acqua fredda sulle mani bruciò quasi quanto l'acido.

Mi raggiunse con il fagotto di abiti insanguinati. Aveva le spalle curve e la pelle d'oca. Mi sembrava di essere sul set di un film dell'orrore. Il suo corpo era di un bianco quasi trasparente, ma le mani e il viso erano rosso scuro.

"Brava. Adesso infilati sotto la doccia e lavati bene. Io scendo a prendere i nostri acquisti.» Le sorrisi e indicai i capelli. "Penso proprio che ti servirà la spazzola, vero?»

Non rispose al sorriso. Non potevo fare nient'altro per lei dal punto di vista emotivo. Solo il tempo poteva aiutarla.

Si avvicinò lentamente alla doccia.

"Va tutto bene, Angeles. Non vado da nessuna parte, soltanto di sotto. Devo sistemare il casino. Tu devi aiutare me e io devo aiutare te. è tutto a posto. Adesso vai.»

Annuì e s'infilò nelle nuvole di vapore.

 

 

12.

 

I sacchetti della spesa giacevano vicino al portone. Alcuni erano lacerati, così ficcai tutto il possibile in quelli ancora integri e raccolsi il resto fra le braccia. Risalii le scale e gettai ogni cosa sul tappeto marrone. Lo scaldabagno ronzava dall'altro lato della parete di legno mentre Angeles viveva l'orrore di vedere il sangue di un altro colarle ai piedi.

Mi precipitai di sotto così in fretta che rischiai di cadere per le scale. Volevo iniziare a pulire. Per prima cosa infilai nel bagagliaio i jeans con gli squarci delle pugnalate e il fagotto degli altri indumenti sporchi di vomito.

Poi mi occupai del mio nazi. Lo trascinai per i piedi e a spinte lo rovesciai sopra i suoi degni concorrenti. Giustizia era fatta, si può dire.

Reputavo i nazi due stupidi idioti, ma ce l'avevo anche con me stesso. Era probabile che ci avessero riconosciuti al mercato, quando io ero occupato a sollevare il morale ad Angeles invece di guardarmi alle spalle.

Dopo aver individuato la casa sicura, avrebbero dovuto informare i Flynn invece di prendere in pugno la faccenda. Comunque fosse, entro un paio d'ore chi era rimasto al silo si sarebbe agitato. Non potevo farci niente, tranne procedere con il mio piano.

Nel bagagliaio non c'era più posto e quindi incastrai il nazi di Angeles nello spazio davanti ai sedili posteriori. Prima di partire l'avrei coperto con il sacco a pelo.

Lo sforzo mi lasciò sudato e senza fiato. Mi appoggiai alla Passat e tastai la ferita a forma di mezzaluna sul cranio dove l'arcata superiore dei denti di quell'indemoniato mi aveva lacerato la pelle. La crosta si sarebbe formata abbastanza in fretta. Tremavo di freddo e di dolore: il sudore sulla schiena si stava raffreddando e il sedere e la mano mi facevano un male cane.

Dovevo agire subito per garantire ad Angeles e a me stesso di uscire da lì tutti d'un pezzo, molto semplice. Lei aveva appena cominciato la sua vita e io volevo terminare la mia con Anna. Altrettanto semplice.

Mi staccai a fatica dall'auto, raccolsi tutti gli strumenti usati per costruire il congegno e li infilai fra i cadaveri. Non c'era modo di cancellare le mie impronte dal veicolo, figurarsi il DNA. L'unico sistema per risolvere la situazione era radunare tutte le prove e fare in modo che non venissero mai trovate. Per

lo meno non finché ero in vita.

Non toccai i portafogli o i documenti dei nazi. Se avessi portato a termine il lavoro come si deve, l'auto non sarebbe mai stata rinvenuta.

Rimisi a posto la batteria della Passat e la collegai. Funzionava ancora, e per fortuna, perché non avevo i cavetti.

Mi concentrai sull'ordigno. Infilai nel Bergen per prima la tanica con circa quattro litri di carburante, poi arrotolai con cautela la miccia fatta con il nastro telato e ce la posai sopra. Srotolai il nastro sopra la sveglia proteggendo con cura la lampadina, mi accertai che le pile fossero inserite al contrario e infilai dentro anche quella.

Poi mi occupai dell'acido picrico. Trasferii la poltiglia gialla che si era cristallizzata sopra la plastica in due sacchetti da freezer nuovi, che poi infilai nella tasca esterna di sinistra dello zaino. I due sacchetti con il propellente finirono nella tasca opposta.

Posai il Bergen davanti al sedile del passeggero della Passat e mi misi al volante. Lì seduto iniziai a vedere la sequenza delle azioni che avrei intrapreso quella notte: visualizzai ogni gesto, osservai le mie mani che assemblavano il congegno, tutto quanto, fase per fase. Non volevo dimenticare qualche dettaglio che avrebbe impedito la detonazione.

Angeles apparve nel magazzino: aveva indossato i jeans nuovi e teneva in mano la spazzola, ma non aveva neppure provato a pettinare i capelli arruffati. Si guardò attorno. L'unica traccia della tragedia era la striscia di sangue lasciata sul cemento dal suo nazi quando l'avevo trascinato fino alla Passat.

Scesi dall'auto. "La pulirò prima della nostra partenza.» Non mi ascoltava. "Lo diremo alla polizia?»

"No, non diremo un bel niente alla polizia. Ce ne andiamo e basta e non apriremo bocca con nessuno, in nessun momento e per nessun motivo. Ti sta bene?»

La sua testa sobbalzò, forse per paura. "Io volevo ucciderlo.» Indicò il sangue a terra. "Volevo fargliela pagare. Volevo farla pagare a tutti.»

Mi avvicinai convinto che si sarebbe messa a piangere come aveva fatto prima, invece no. Niente più lacrime. Era soddisfatta della sua impresa. Giusto, anch'io mi sarei sentito così. "Angeles?»

Teneva lo sguardo fisso sul sangue.

"Angeles, guardami.» La raggiunsi e mi chinai per incrociare il suo sguardo. "Stanotte dovrò uscire per un po', ma tornerò.»

Sbarrò gli occhi.

"Solo per poco. Devo liberarmi dell'auto. Quando torno, ce ne andiamo e raggiungiamo la mia amica che ti aiuterà, che aiuterà tutti e due.»

Annuì con un movimento brusco. Quel che restava in lei di infantile era come svanito, cosa che suppongo avvenga in fretta quando si pugnala a morte un uomo.

"Nick, perché sei qui? Che cosa fai di... come si dice?... di lavoro?»

"Ricordi quello che ti ho detto prima? Non fare domande perché io non rispondo, okay?»

Mi fissò per un paio di secondi e disse di sì con la testa.

 

 

13.

 

Fermai la Passat e scesi per premere il pulsante della saracinesca. Pochi momenti dopo ero in strada verso la rotatoria e poi su Distelweg. Mentre guidavo infilai nello scomparto portaoggetti la cartellina di Bradley.

Sarei andato sterile sul bersaglio. Il mio passaporto era ancora nella stanza dello schedario. Era piacevole sentire il tepore del riscaldamento attorno al corpo, mentre la Passat scivolava verso il canale, e non mi importava che puzzasse di vomito e di morte. Raggiunsi il deposito di piastrelle. Posteggiai nella piazzola e spensi i fari e il motore. Rimasi seduto. Guardavo e ascoltavo. Il cielo era sereno, se non altro quella notte non sarebbe piovuto.

Nessuna luce, nessuna voce, niente traffico.

Attesi altri cinque minuti, poi avviai il motore e continuai lungo Distelweg. Non troppo veloce, non troppo piano, in modo che nessuno potesse notarmi per un motivo o per l'altro. Anche se non potevo vedere bene, controllai gli eventuali cambiamenti dall'ultima volta che ero passato da lì.

Il bersaglio era avvolto dal buio.

Quando transitai davanti alla fabbrica a due piani prima del tratto incolto si aprì una porta e ci fu uno squarcio di luce. Ma richiusero in fretta. Nessun problema. Era a circa trecento metri dall'obiettivo, come già avevo notato. Se qualcuno stava lavorando fino a tardi e rimaneva dentro, non sarebbe rimasto coinvolto. Di sicuro, niente sarebbe trapelato all'esterno.

Guidai in direzione della stazione dei traghetti, le luci della città brillavano davanti a me riflettendosi sul mare. Proseguii per altri duecento metri. Sulla mia sinistra si profilò un raggruppamento di piccoli capannoni industriali. Uno stretto sentiero di mattoni e una striscia d'erba portavano verso l'acqua.

Giunto sul posto, trovai un varco nella recinzione e m'infilai dentro. Spensi il motore e lasciai la chiave inserita. Mi raggomitolai sul sedile spostando il peso sulla natica sinistra. Se non mi muovevo, nessuno sarebbe riuscito a vedermi a meno che non mi fosse passato accanto.

Abbassai il finestrino per sentire il rumore di veicoli o di passi. Spostai l'interruttore della luce interna in modo che non si sarebbe accesa aprendo la porta, e scesi dalla Passat. Raggiunsi il lato del passeggero, presi il Bergen e lo appoggiai contro la recinzione. Poi tornai al volante.

Accesi il motore e abbassai il più possibile lo schienale del passeggero per bloccare il cadavere del nazi di Angeles, poi eseguii la stessa operazione con il sedile del guidatore. Aprii la portiera e mi guardai attorno un'ultima volta.

Mi aggrappai allo spigolo del tetto e mi spinsi dentro l'abitacolo reggendomi alla portiera. Dovevo avere liberi il piede e la mano sinistra. Mi piegai in avanti, portai il piede sul pedale del freno e selezionai drive. Lasciai il freno, la Passat avanzò piano piano. Rimasi attaccato alla portiera e, quando l'auto ebbe coperto la metà del percorso che avevo calcolato, premetti l'acceleratore con il piede sinistro. La macchina scattò in avanti. Resistetti in quella posizione per non più di due secondi perché la Passat prese subito velocità.

Sospeso a mezz'aria, buttando i piedi in avanti mi gettai fuori, mentre l'auto proseguiva la sua corsa verso il mare. Quando i piedi toccarono terra mi raggomitolai per assecondare la caduta. Stava andando a trenta all'ora ma la percezione era che fossero ottanta.

Rotolai un paio di volte e la macchina sparì dalla visuale. Seguì un tonfo fragoroso.

 

 

14.

 

Stavo malissimo. Il sedere e il fianco destro avevano subito un impatto tremendo. Barcollando raggiunsi la sponda. Non guardai a destra e a sinistra: se qualcuno mi aveva visto non potevo farci niente.

Mi fermai a osservare la coda dell'auto che spariva sott'acqua. Sembravano gli ultimi istanti di una nave silurata. Avevo lasciato soltanto un finestrino aperto, volevo che l'auto si riempisse d'acqua per essere certo che affondasse con i corpi intrappolati all'interno.

In condizioni normali, dopo tre giorni, i batteri intestinali di un cadavere producono immense quantità di gas che fluiscono nei vasi sanguigni e nei tessuti. Sulla pelle si formano grosse vesciche e poi tutto il corpo comincia a dilatarsi e a gonfiarsi, passando da un colore verde al rosso e infine al nero, e i gas spingono in fuori la lingua e gli occhi e spesso anche l'intestino dall'orifizio più vicino. Il processo subisce un'accelerazione se il cadavere si trova in un luogo caldo o in acqua.

Quando ero un giovane soldato a Hong Kong andavo spesso di pattuglia lungo le spiagge a cercare i resti degli immigrati clandestini cinesi. Viaggiavano su battelli stracarichi che parecchie volte si rovesciavano, e a Hong Kong arrivavano cadaveri; dopo aver galleggiato per tre o quattro giorni, assomigliavano agli alieni di Star Trek.

Volevo evitare che il nazi di Angeles offrisse un simile indecoroso spettacolo, gonfio come un pallone sulla superficie dell'acqua: con un po' di fortuna, i sedili lo avrebbero trattenuto al suo posto; in caso contrario, dubito comunque che sarebbe riuscito a passare attraverso un finestrino. Mi augurai che l'impatto con l'acqua avesse chiuso, e non spalancato, la portiera.

Raggiunsi la riva e scrutai in basso. Il mare era scuro e liscio. Chissà che cosa si nascondeva là sotto. Cadaveri e segreti di ogni epoca. La Passat ormai apparteneva alla storia. O così speravo.

Presi il BlackBerry e lo lanciai il più lontano possibile nella baia. Non volevo che mi rintronasse nelle orecchie nel momento in cui Tresillian si fosse incazzato di brutto, cosa che sarebbe avvenuta certamente perché avevo liberato le ragazze.

Con Anna era al sicuro, non temevo le sue reazioni. Cosa poteva farmi? Uccidermi? Se voleva questo, avrebbe fatto bene a darsi una mossa perché il piccolo mostro nella mia testa poteva arrivare prima di lui a rompergli le uova nel paniere. Avrebbe dato in escandescenze.

Zoppicai fino al Bergen. Il dolore al fianco era un po' diminuito ma quello al sedere no. Ricordai l'ultima volta che avevo cercato di affondare un'auto in un bacino idrico. Ero un novellino, anni prima ancora di essere spedito a Hong Kong. La mia vecchia Renault 5 era un relitto. Avrei dovuto pagare per farla demolire. Una sera ero seduto in un pub con un amico e a un certo punto ci venne una bella idea. Il sabato notte saremmo andati con due macchine al bacino di Talybont, nel Galles, e avremmo lanciato in mare la Renault; la domenica ne avrei denunciato il furto avvenuto in una via in centro città.

Ci recammo a Talybont e tutto sembrava andare liscio come l'olio. Mandai su di giri il motore, saltai giù e osservai la Renault precipitare nell'acqua che secondo noi in quel punto era profonda diciotto metri. Invece si arenò a una profondità di circa un metro, in bella vista per chiunque passasse di lì. Scoprimmo che era atterrata sopra un mucchio di altre auto buttate nello stesso punto. Fummo costretti a calarci giù, ad arrampicarci sopra gli scheletri arrugginiti per farla oscillare fino a che non scivolò nell'acqua più profonda.

Tutto questo fiorire di ricordi è prevedibile quando la strada che hai davanti è giunta al termine. O forse una vocina insistente mi sussurrava che, anche se avevo sempre pensato che queste cose fossero cazzate, mi sbagliavo di grosso.

Misi il Bergen sulle spalle e mi tenni all'ombra degli edifici che si trovavano su quel lato della strada. Basta pensare ai vecchi tempi. Dovevo concentrarmi sul lavoro, il lavoro che mi aveva condotto ad Amsterdam, la missione che ero intenzionato a portare a termine e il cui fine non era uccidere qualcuno e basta, anche se per una nobile causa, come avrebbe sentenziato Tresillian. Trovandomi nel punto più basso di questa montagna di merda, non avrei mai potuto salvare il mondo. Ma sarebbe stato bello pensare che riuscire a liberare Angeles, Lilian e le altre ragazze lo avrebbe reso, se non altro per loro, un posto migliore.

L'unico rumore che accompagnava la mia camminata verso la fermata del battello era lo sciabordio dei quattro litri di carburante dentro la tanica contro la mia schiena.

In prossimità della pensilina rallentai e poi mi fermai. Posai le mani sulle cosce, mi misi in ascolto e osservai la zona. Quando mi chinai il peso del liquido mi fece vacillare, poi si stabilizzò. Gli unici altri suoni, oltre al mio respiro, venivano dalla parte opposta della baia e dalle navi in navigazione. Proseguii lungo la recinzione verso il varco.

La fabbrica oltre il bersaglio, dove avevo visto la luce, adesso era immersa nel buio come tutto il resto.

Una volta giunto sul posto, controllai che non ci fosse alcun movimento e lasciai cadere le chiavi della casa sicura nel cespuglio sulla destra. Ero a piedi e volevo averle a portata di mano. La schiena a contatto con il Bergen era madida. Mi allungai in avanti, feci un saltello e lo zaino sobbalzò. Quando la pressione sulle cinghie si allentò le tirai per sistemarle per bene sulle spalle.

Controllai che non ci fosse il chiarore di un falò da qualche parte. Niente. I drogati avevano scelto di passare una tranquilla serata a casa.

Mi abbassai più che potei per riuscire a passare con lo zaino senza doverlo togliere dalle spalle, e strisciai nel terreno incolto.

Ancora nessuna luce e nessun segno di vita, solo la sagoma inquietante del silo che si profilava nel buio.

 

 

15.

 

Ero a circa venti metri dal bersaglio. La torre dominava il cielo. Ancora non riuscivo a vedere alcuna luce. Da quando ero stato lì due notti prima non si erano registrati cambiamenti rilevanti. Mi appoggiai a una pietra e tesi l'orecchio. Non sentii altro se non lo strombazzare lontano di una barca incazzata con un'altra barca, giù nella baia.

Provai a deglutire: portare la pesante attrezzatura mi aveva seccato la gola. Il fango appesantiva gli stivali. Ripartii, dovevo continuare la ricognizione.

Seguii il lato sinistro con il frontone fino a trovarmi all'angolo verso l'acqua. Sulla piattaforma non era cambiato niente. Al molo non era legata alcuna barca.

Con il Bergen sulle spalle, mi avvicinai lentamente al portone a due ante di acciaio. Non era stato manomesso. Il prato e le erbacce erano sempre sull'attenti. Buio totale.

Raggiunsi il lato di destra, passando davanti a quella che speravo fosse la finestra della stanza dove erano tenute prigioniere le ragazze, e costeggiai il muro fino alla porta con gli inserti in ottone. Era sempre chiusa a chiave. Posai l'orecchio sulla cornice e sentii un debole rumore. Impossibile capire che cosa l'avesse prodotto. Misi il naso contro la toppa. L'odore di pasticceria era sempre lì. Ispezionai per ultimo il retro e proseguii per completare il giro che terminava al nastro trasportatore. C'era qualcuno che mi stava osservando? Improbabile. E se sì, dove si trovava? 'Fanculo, anche se ci fosse stato uno dei padroni di casa in agguato, non sarebbe cambiato niente di ciò che stavo per fare.

Mi arrampicai sul Meccano rasentando il più possibile la parete del silo. La scalata sarebbe stata più lunga ma non volevo affrontare il nastro trasportatore con tutto quel peso sulle spalle. Non ero esattamente Superman, e comunque anche lui avrebbe avuto qualche difficoltà con il dolore al sedere, al fianco, alla testa, alla mano ustionata e il peso instabile del Bergen con quattro litri di carburante che sciaguattavano all'interno.

Uno alla volta affrontai i montanti, arrugginiti e con la vernice scrostata, mantenendo sempre tre punti di contatto: mani e piedi saldamente stabili, poi una mano saliva al montante successivo, seguita da un piede. Ogni due o tre mosse, mi fermavo e restavo in ascolto. Sudavo, ma non per la paura. Stavo facendo ciò che volevo fare. Stavo compiendo la mia ultima missione.

E, comunque, questa volta sapevo già di essere morto. Intuii come si sentivano gli attentatori suicidi. Come me, non avevano un cazzo da perdere. Una sensazione quasi liberatoria.

Raggiunsi l'ultimo montante e mi issai in vetta. Mi sdraiai giù piatto sul nastro trasportatore. Il portello era socchiuso, esattamente come l'avevo trovato e lasciato. Strisciai in avanti. Un jet decollò da Schiphol in lontananza e salì nel cielo.

Il nastro cigolò sotto il mio peso. A me sembrò che fosse così forte da svegliare tutta Noord 5. Non potevo evitarlo. Potevo soltanto agire con calma e non fare casino lasciando cadere qualcosa o scivolando a terra.

Aprii lentamente il portello di quel tanto da poterci infilare la testa. Come la volta precedente, il naso si riempì di odore di farina. Come la volta precedente, c'era un debole chiarore sul fondo.

Allentai le cinghie del Bergen e mi sdraiai su un fianco per liberarmene. Dovevo passare attraverso l'apertura e posare i piedi sul primo piolo: un incubo. Strinsi la mano attorno a una cinghia in caso lo zaino avesse deciso di andarsene per conto suo.

Abbassai i piedi e incontrai il primo piolo, poi trascinai il Bergen verso di me e me lo rimisi sulle spalle. Questa volta non dovevo preoccuparmi del fango sulle suole.

Scesi piano ma con sicurezza. Quando gli stivali si posarono sul cemento e aggiunsero le loro impronte a quelle già presenti nella farina, avevo le mani impiastricciate di terra. Le pulii sui jeans. Faceva caldo lì sotto. Tolsi il Bergen e lo appoggiai contro il muro. Passai la testa sotto la saracinesca che immetteva nella palazzina di uffici dell'edificio.

All'inizio tutto sembrava essere proprio come la volta precedente. La finestra a destra in alto era l'unica con la luce accesa. Da una delle due sulla sinistra filtrava il chiarore di un televisore. Buie anche le due di sotto, ai lati della porta. Non sentii alcun suono e nessun movimento. L'aria era impregnata di fumo di sigaretta.

Mi chinai e presi il martello di gomma dalla tasca superiore del Bergen. Il ronzio del televisore diventò più forte quanto più mi avvicinavo alla porta nel muro di mattoni.

 

 

16.

 

M'inginocchiai e controllai se c'era luce dall'altra parte. Niente. Posai l'orecchio contro la porta. La TV andava alla grande, non sentivo nient'altro.

Provai la maniglia. Entrai.

C'erano due porte sulla sinistra e due sulla destra. Dieci estintori erano allineati fra queste come sentinelle. Alla fine del corridoio si trovava il portone d'ingresso, illuminato dall'alto dalla luce che proveniva dalle scale.

Una striscia chiara filtrava sotto la seconda porta a sinistra: la prima a destra se percorrevi il corridoio dall'entrata principale verso il silo vero e proprio. Mi avvicinai il più possibile. Avvertii un debole mormorio di voci infantili. Qualcuno piangeva e qualcuno dava conforto. Una chiave Chubb era nella toppa sormontata da un paletto, non abbassato, che era stato aggiunto di recente.

Girai appena la chiave per avere conferma che fosse chiusa, poi la estrassi. Dal piano di sopra, solo il rumore della TV, niente altro. Riconobbi la voce: Horatio Caine, molto tranquillo in CSI: Miami.

Tre serrature chiudevano il portone che però non era sprangato. Per uscire dovevano avere le chiavi e ci avrebbero messo un po' di tempo. Chiusi i catenacci. Adesso anche chi voleva entrare ci avrebbe messo un po' di tempo.

Girai a sinistra verso le scale. Avevo soltanto una possibilità di eseguire il lavoro in fretta e in silenzio. I gradini in cemento consumato verniciati di un rosso ormai sbiadito erano rischiarati dalla luce dei due tubi di neon del pianerottolo sopra la mia testa. Ai lati delle scale, i supporti vuoti segnalavano che un tempo c'era stato anche un corrimano.

Strinsi forte il martello di gomma nella destra. Salivo dondolando le braccia a ogni passo, a testa alta, respirando profondamente per prepararmi all'assalto. Due nazi giacevano sul fondo della baia. Non sapevo quanti dei quattro che avevano fatto la mia conoscenza alla fabbrica di piastrelle si fossero rimessi in sesto. A metà scala cominciai ad avvertire odore di fumo di sigaretta, denso, spesso, quello che fa bruciare gli occhi e spellare la gola. Chiunque fosse lassù non teneva in alcun conto gli avvertimenti del governo sulla salute.

Arrivai al pianerottolo. Agivo come un automa. Sentivo il sangue affluire nelle mani e nelle gambe. Ero pronto a dare l'assalto alla fortezza.

A un tratto, nell'esatto momento in cui avevo più bisogno di lui, Horatio smise di parlare.

La porta in diagonale a sinistra era aperta. Forse avevo un secondo di vantaggio su chiunque fosse nella stanza. Non di più.

Mi guardai in giro: grandi tabelloni per avvisi, costellati da spilli arrugginiti ma senza foglietti, coprivano le pareti, intervallati dalle punte di acciaio che un tempo sostenevano gli estintori segnalati dai cartelli sbiaditi ancora appesi sopra.

Avanzai di tre passi nel corridoio e giunsi sulla soglia. Tenevo il braccio sollevato pronto a colpire chiunque avesse fatto capolino.

Dentro non c'era nessuno, tranne Horatio, ma gli ultimi centimetri di una sigaretta senza filtro si consumavano sul posacenere.

Rumore di sciacquone: una porta si aprì nell'angolo più lontano della stanza. Ne uscì Robot chiudendosi la patta. Indossava lo stesso cappotto marrone che aveva a Christiania.

Sistemò la cerniera e sollevò la testa. Mi vide. Nessuna sorpresa, nessuna paura, nessun timore, nessuna esitazione sul suo viso. Si slanciò subito contro di me.

Portai in alto il martello. Il suo braccio scattò e lo bloccò facilmente. L'altra mano stretta a pugno mi colpì al fianco e un calcio centrò la mia coscia. Crollai per il male. Picchiai la testa a terra e vidi le stelle. Il dolore mi attraversò tutto il corpo. Seguirono altri calci. Stavo per perdere i sensi. Non doveva accadere. Mi impegnai a non chiudere gli occhi e mi raggomitolai mentre un ginocchio mi calava sul torace.

Nessuna emozione sul suo volto, esattamente come quando parlava dei compensi extra del Grosso nella cucina della casa verde. Con calma e sicurezza si dispose a farmi fuori.

 

 

17.

 

Dovevo reagire o sarei morto.

Robot non batteva ciglio, mentre io mi agitavo come un folle per trasformarmi in un bersaglio in movimento. Una voce nel cervello mi ordinava di bloccargli immediatamente le braccia, così lo strinsi a me in una specie di abbraccio fra orsi, poi gli infilai la testa fra mento e collo perché non potesse usare la sua per colpirmi. Se continuavo a tenerlo stretto, forse sarei riuscito a bloccarlo per il tempo che mi serviva a pensare cosa diavolo potevo fare.

Mi dimenai all'impazzata per montargli addosso. Pesavo più di lui. Poteva funzionare. Ma Robot non voleva saperne. Allargò le braccia per allentare la mia stretta e abbassò di scatto la testa contro la mia guancia. Mi colpì in pieno l'orecchio, che mi parve esplodere: il dolore fu bruciante. Rotolai a terra. Ci trovammo entrambi sdraiati su un fianco.

Avvicinò la bocca al mio orecchio. "Arrenditi. Sei già morto.» La voce era come sempre tranquilla, priva di emozione.

Mi contorsi ancora per riuscire a salirgli sopra, ma rotolammo insieme fino a sbattere contro il muro. Avevo le mani bloccate dalla sua schiena. Mi restava libera soltanto la testa. Lo colpii sulla tempia.

Robot agitò le braccia. Mi trovai con le mani libere. Dovevo essere più veloce di lui. O più bravo: scappare non sarebbe servito a nulla. Dovevo restare. Era lui il mio bersaglio. Bisognava continuare.

In qualche modo riuscii a rialzarmi, con il corpo in diagonale rispetto al suo, abbassato, gambe ferme e stabili, mani sollevate.

Anche lui si mise in piedi; si spolverò il cappotto... Mi aspettavo quasi che si sistemasse i polsini! Eravamo a tre metri di distanza. Occhi negli occhi.

Mi preparai: ginocchia flesse, braccia in alto, testa piegata avanti così da avere il mento conficcato nella gola. Lo fissavo pronto ad afferrare, colpire o reagire in altro modo al suo attacco, qualunque fosse. Odiavo farlo. Preferivo di molto la rabbia cieca, feroce e incontrollata.

Robot si equilibrò sugli stivali. Si divertiva. Forse provava mentalmente le mosse. Parecchi di coloro che praticano le arti marziali visualizzano le azioni prima di tradurle in movimento. Per questo restano immobili, squadrando l'avversario per due minuti prima dei tre secondi di azione vera. Si chiama "preparazione al lavoro». Lo sapevo e ne capivo l'importanza. Solo che non mi andava che lo sfidante fossi io. Mantenni i piedi saldi a terra e i muscoli tesi, pronto alla lotta. Lo volevo più vicino, era ancora fuori portata, ma sapevo che, una volta preparato mentalmente, si sarebbe avvicinato. E così avvenne sotto forma di un calcio sferrato alla mia cassa toracica. Con le braccia sollevate tentai di bloccarlo ma riuscì a centrarmi il bicipite sinistro.

Ondeggiai all'indietro. Ancora un calcio, questa volta sul polso destro. Allargai le braccia. Sapevo che aveva altri micidiali colpi in serbo. Nel momento in cui vidi arrivare l'ennesimo calcio, gli afferrai la gamba con entrambe le mani. Avevo il suo polpaccio quasi sulla spalla, gli stringevo la coscia con la sinistra e sotto la destra sentivo la consistenza della rotula attraverso la stoffa dei jeans. M'infilai fra le sue gambe, attirandolo a me e cercando di sollevarlo. L'obiettivo era scagliarlo con la schiena contro il muro.

Robot si inarcò quando avvertì la punta del sostegno dell'estintore. Sbarrò gli occhi. Irrigidì i muscoli nel tentativo disperato di resistere all'impatto con l'asta di acciaio. Si dibatté per buttarmi da parte, e schizzi di sputo mi arrivarono sul collo.

Mi piegai su di lui, avevo le gambe a quarantacinque gradi e spingevo, spingevo con tutto il peso del corpo per conficcarlo nella punta.

Il cappotto cedette per primo, lui non urlò, da vero stoico. Respirava forte, non era terrorizzato, cercava di pensare alla contromossa. Sentii lo scricchiolio di una costola che si fratturava.

Robot portò di scatto le mani contro il muro e si liberò di me con grugniti di dolore. Cadde in ginocchio, fissandomi truce. Si sarebbe rialzato. Avrebbe continuato a combattere.

Girai sulla punta del piede sinistro e ruotai sferrandogli un calcio che lo centrò in piena faccia, rispedendolo contro il muro.

Robot sussultò, poi rimase fermo, immobile.

Tastai la carotide. Niente. Era andato. Crollai accanto a lui. Di là, Horatio e i suoi colleghi di CSI affrontavano un nuovo caso con la musica a palla.

Nella stanza del televisore sentii squillare un cellulare. Balzai in piedi e mi avvicinai. Un forte colpo al portone mi bloccò.

 

 

18.

 

Ansimavo e sbattevo da un muro all'altro, rischiando di cadere, ma riuscii a restare in piedi e a barcollare fino in fondo alle scale.

"Aprite la porta! Porca puttana!»

Il cellulare riprese a squillare. Raggiunsi, incespicando, il portone e ci appoggiai contro l'orecchio. Rumore di un veicolo con il motore al minimo. Poi sentii il suono metallico delle chiavi nelle serrature.

Seguirono altri colpi e scossoni, nel punto esatto dove avevo l'orecchio.

"Cazzo, aprite!»

L'accento era uguale a quello di Robot.

Il catenaccio bloccava il portone. L'uomo urlò a chi gli stava dietro: "Chiamalo ancora! Che branco di stronzi!»

Distinsi un'altra voce, più fredda, più controllata.

Guardai dal buco centrale. Vidi brillare la luce dei fari, poi un corpo bloccò la visuale. Il fascio luminoso era piuttosto alto. Forse un veicolo con carrozzeria MPV, o un camion per portare via le ragazze.

Il tipo era fuori di sé. "Chiamalo ancora, papà. Ma dove cazzo è andato?»

Finalmente riconobbi la voce di quello che dava in escandescenze: era Tettine, che pregava suo padre di dare la sveglia a Robot. Non potevo farli andare via. Avrei perso il controllo sulle loro mosse successive. Mi voltai e vidi gli estintori. Ne presi due e li posai sul secondo gradino. Spensi la luce sulle scale e l'atrio piombò nel buio. Mi avvicinai all'ingresso guidato dal chiarore che filtrava dalle fessure delle serrature.

Tettine diede un ultimo scossone mentre io armeggiavo con il primo catenaccio. "Che cazzo combinate là dentro?»

Tolto anche l'ultimo, mi precipitai alle scale. Afferrai il primo estintore mentre il portone si spalancava e la luce inondava l'atrio. Tettine si precipitò all'interno in una confusione di ombre che danzavano sul cemento.

L'uomo dietro di lui era grosso e bloccava tutta la luce dei fari. "Accendi quella cazzo di luce.»

Sollevai l'estintore sopra la testa e lo scagliai contro Tettine. Non vidi dove lo colpii, ma udii il suono sordo dell'impatto e

lo vidi stramazzare. Io stavo già andando incontro all'altro ospite con il secondo estintore.

Michael Flynn aveva fatto tre passi nel corridoio. La sua immagine era incisa a fuoco nella mia mente: un corpo robusto con una testa pelata. Avevo notato nel video del BlackBerry che le zampe di gallina attorno agli occhi tradivano la sua età, ma il tipo era in ottima forma.

Scivolai alle sue spalle. Stava ancora cercando di capire cosa fosse successo al figlio. Chiusi il portone con la spalla e fu di nuovo buio.

Il secondo estintore calò con forza sulla nuca di Flynn, che grugnì e crollò. Per sicurezza lo sbattei con forza sulla forma confusa sotto di me, come un battipalo, ripetutamente. Non m'importava dove colpivo, mi bastava andare a segno. Una volta presi un osso. Sentii lo scricchiolio ma nessun urlo, soltanto lamenti soffocati, seguiti da rantoli bavosi quando il calvo tentò di respirare attraverso lo scempio che avevo fatto della sua faccia.

Mi spostai nel corridoio e replicai il movimento un paio di volte su Tettine, resistendo alla tentazione di finirlo del tutto, subito. Ma avevo un'altra idea in mente.

Buttai l'estintore e uscii all'aperto. Avevo il viso coperto di sudore. La Lexus ronzava piano. Spensi il motore e le luci e infilai le chiavi in tasca. Tornai nel corridoio, chiusi e sprangai l'ingresso prima di accendere la luce sulle scale.

Flynn e Tettine giacevano bocconi sul cemento. Erano malridotti, ma respiravano ancora.

Diedi a entrambi un altro colpo sulla schiena per tenerli immobilizzati prima di controllare se erano armati. Erano puliti.

Cercando di muovermi rapidamente, andai a recuperare il Bergen. Lo sollevai su una spalla. Avevo i piedi pesanti, ero distrutto. Respirai a fondo. L'adrenalina mi avrebbe fatto andare avanti. L'adrenalina e la mia rabbia cieca. Dovevo tornare dai Flynn prima che avessero il tempo di riprendersi. Avevo bisogno di tenerli sotto controllo.

Crollai in ginocchio fra i due e mi tolsi lo zaino. Presi il nastro adesivo. L'unico occhio che Senzacapelli poteva ancora aprire era fisso su di me.

Non opposero resistenza quando legai loro le mani dietro la schiena e poi passai alle caviglie. Per completare l'opera gli appiccicai attorno alla bocca una bella striscia di nastro adesivo molto stretto: volevo che lottassero per ogni molecola di ossigeno.

E, ciliegina sulla torta, con del nastro adesivo tra la palpebra e l'arcata sopracciliare gli tenni aperto un occhio per ciascuno, quello che era meno conciato. Volevo che non perdessero neppure un dettaglio di quanto stava per accadere.

 

 

19.

 

Mi lasciai cadere a terra senza avere più neanche la forza di respirare. I due stavano iniziando a riprendersi un po'. Provarono a implorare e a ragionare con mugolii soffocati attraverso la bocca tappata.

Non avrei voluto alzarmi. Ma dovevo farlo.

Mi tirai in piedi e barcollando aprii le finestre dei due uffici del pianoterra, e anche le tre al piano di sopra. Il notiziario era ancora in corso. La giornalista, bionda con un bel taglio di capelli, comunicava con crescente eccitazione i risultati di calcio. Robot non si era spostato di un centimetro. Già.

Con passo malfermo tornai di sotto. Afferrai Senzacapelli per i piedi e, data la mole, lo trascinai a fatica nel silo. Gli lasciai cadere le gambe appena oltre la soglia e le presi a calci. Gesto inutile, ma ogni volta che lo guardavo mi veniva in mente la casa verde. Poi tornai indietro per recuperare anche Tettine.

Posai l'orecchio contro la porta delle ragazze. Avevano sentito la rissa. Dalle voci si intuiva che erano agitate. Alcune gridavano, altre piangevano. Una parlò a pochi centimetri dalla mia testa: probabilmente stava facendo come me, con l'orecchio alla porta cercava di capire cosa stesse accadendo.

Diedi un'occhiata alla fotografia di Facebook, poi girai la chiave e spalancai la porta.

"Lilian Edinet?»

Tutte le ragazze indossavano felpa e jeans ed erano a piedi nudi. Indietreggiarono fino ai materassi, alcune si tenevano per mano aspettando il peggio.

"Lilian?»

Le guardai una per una, prima le bionde.

"Sì, sono Lilian.»

La ragazza che avanzò di un passo era in piedi accanto al secchio degli escrementi e a un mucchio di cartoni unti della pizza e contenitori di plastica per tramezzini. I capelli erano più lunghi rispetto alla fotografia, e sporchi. Aveva un'espressione di sfida.

Mi avvicinai con la mano tesa.

"Vieni. Muoviti!» Sapevo che avrei dovuto comportarmi come Madre Teresa, ma non avevo tempo. Nessuno di noi ne aveva.

Fui costretto ad afferrarle un braccio e a trascinarla fuori dalla stanza. Sbattei la porta e chiusi a chiave.

La sua sicurezza si sbriciolò alla luce del corridoio. Le lacrime rotolarono sulle guance. Tremava. Cercava di nasconderlo, ma senza riuscirci.

"Per favore, la prego...»

Le presi il viso fra le mani e la spostai verso la luce.

Era proprio lei. L'aspetto da vampiro era un po' meno evidente rispetto alla foto, ma era impossibile non riconoscere il fuoco nei suoi occhi. Qualsiasi cosa le avessero fatto, non erano riusciti a domarla.

La lasciai andare e premetti la fotografia sulla sua mano. "Lui chi è? Come si chiama?»

Il foglio le tremava fra le dita, le lacrime finirono sulla pagina. "Viku.»

Le afferrai di nuovo il braccio. "Ti porto a casa.»

La trascinai nella stanza di fronte e la spinsi dentro.

"Accendi la luce. Resta qui. Io torno subito. Non uscire da questa stanza, okay?»

Annuì.

Chiusi la porta. Anche questa aveva la chiave inserita. Probabilmente l'avevano tutte se questo posto veniva dato in affitto. La girai una volta. Lilian si sarebbe spaventata di nuovo, ma non volevo che vedesse cosa stavo per fare.

Era tutto sistemato. Le ragazze e i due bastardi erano sotto controllo, e avevo Lilian. Adesso potevo occuparmi del congegno.

Sollevai il Bergen su una spalla e tornai da Flynn e Tettine. I due si trascinavano sul pavimento e muovevano la testa all'unisono mentre cercavano di insultarmi attraverso il nastro isolante. Avevano smesso di implorare. Erano soltanto molto, molto incazzati.

Guardandomi intorno vidi che dal cemento spuntavano tre spessi tubi in ghisa fissati al muro con staffe a distanza regolare. Li scrollai per verificarne la tenuta. Solidissimi.

Mi faceva male tutto il corpo, i piedi diventavano sempre più pesanti e morivo di sete, ma niente poteva sminuire la gioia di sapere che quei due avrebbero osservato ogni mio movimento e capito esattamente cosa sarebbe successo. E, per essere sicuro che non perdessero nemmeno un dettaglio, passai ancora del nastro adesivo sopra la loro testa e attorno ai tubi, e ripetei l'operazione con il torace e i fianchi. Le gambe erano allungate in avanti. Non sarebbero andati da nessuna parte. Lo spettacolo stava per iniziare, e li volevo seduti in prima fila.

Tirai fuori i sacchetti da freezer: due con i cristalli gialli di acido picrico e due con il propellente. Poi presi la tanica con la benzina. Li posizionai su un'unica fila. Dovevo agire in modo metodico per non correre il rischio di combinare casini o dimenticare qualcosa.

I due avevano smesso di agitarsi. Gli restava un occhio buono a testa e lo tenevano puntato su di me come un fascio laser.

Per prima cosa dovevo assemblare le due cariche esplosive. Tolsi il sigillo a un sacchetto di picrico e inserii un pacchetto aperto di propellente grigio scuro in mezzo ai cristalli gialli, e li misi da una parte. Strappai con i denti la cima di un capo della miccia fatta da me e la infilai nel secondo sacchetto di propellente, poi li fissai saldamente insieme con il nastro adesivo prima di ripetere la procedura. Fissai con il nastro anche il secondo sacchetto di picrico.

Mi spostai verso il muro che divideva il silo dalla palazzina con gli uffici, dove si era raccolta la farina residua. Sembrava neve. A carponi cominciai a spostarla il più possibile da una parte in modo da poter posare la tanica da venti litri a diretto contatto con il cemento. La sottile polvere bianca mi riempì quasi subito il naso, la bocca e anche gli occhi.

Posai il contenitore nello spazio che avevo pulito e ci fissai sopra con il nastro adesivo il secondo ordigno. La miccia serpeggiava fuori alla mia destra.

La farina, ormai mescolata al sudore che mi colava sulle guance e sulla nuca, mi rendeva un misto tra un capocuoco e l'omino di farina del marchio Pillsbury.

Afferrai i componenti del primo ordigno, che costituiva la carica di innesco. Scavai una buca profonda nella montagnola di farina che avevo appena creato contro il muro. Dovevo preoccuparmi di due fattori: primo, posizionare la carica di innesco più in alto rispetto alla bomba; secondo, farla affondare il più possibile nella farina. Questi due sacchetti non erano ancora sigillati. Controllai che la miccia che usciva dalla bomba incendiaria arrivasse agevolmente fino alla carica di innesco e che non fosse in nessun punto a contatto con il carburante. Per questo motivo la carica di innesco doveva essere più in alto, per consentire alla miccia di scendere agevolmente nell'acido picrico.

Presi il Bergen e mi allontanai dai due ordigni. In TV c'era sempre il notiziario. Entro un paio d'ore avrebbero avuto qualcosa di cui parlare giusto a due passi da loro.

Estrassi la sveglia a moschea e la lampadina, tolsi le pile dal vano posteriore e le inserii per il verso giusto.

 

 

20.

 

Staccai il nastro che proteggeva la lampadina ed effettuai un rapido test. Perfetto. La spensi prima che il filamento si surriscaldasse. Puntai la sveglia per due ore dopo. Avrei avuto il tempo di tornare alla casa sicura e fare una doccia per lavare via tutta la schifezza prima di avvicinarmi all'aeroporto.

Tornai all'ordigno e infilai delicatamente la lampadina dentro il sacchetto aperto con il propellente della carica di innesco. Staccai con i denti un pezzetto del capo libero della miccia e la infilai all'interno. Mi accertai che entrambe fossero ben inserite nel propellente prima di fissarle. Avvolsi con altro nastro adesivo sia il cavetto sia la miccia e controllai che tutto fosse a posto.

Al debole chiarore verde del timer, iniziai a coprire con la farina la carica di innesco. La sveglia avrebbe fatto accendere la lampadina che, a sua volta, avrebbe fatto esplodere il propellente nel sacchetto e acceso la miccia. La miccia avrebbe cominciato a bruciare verso la bomba incendiaria. Il propellente all'interno della carica di innesco avrebbe generato un gran calore. L'acido picrico sarebbe esploso. E poiché era contro il muro, la sua forza si sarebbe irradiata per tutto l'edificio.

La pressione avrebbe sparato la farina a velocità supersonica trasformandola in nebbia fine. Non c'erano finestre e l'edificio stesso era stagno. L'ondata di pressione non avrebbe avuto sfogo. Così, mentre rimbalzava e sbatacchiava nell'edificio, avrebbe trasportato anche la nuvola di farina e polvere, una nuvola che avrebbe riempito il silo.

Nel frattempo la miccia, continuando a bruciare, avrebbe raggiunto la carica principale. Anch'essa sarebbe esplosa facendo detonare il picrico, creando un'altra gigantesca ondata di pressione. Per questo motivo ci doveva essere uno spazio tra il carburante e l'esplosivo. Bisogna dare all'onda il tempo di arrivare al carburante il quale, se è fisicamente a contatto, a volte si limita a esplodere e a sparare fuori a velocità supersonica il liquido e non le fiamme.

E io volevo le fiamme. Avrebbero incendiato tutte le particelle di farina, e questo avrebbe creato altra pressione. L'ondata si sarebbe fatta strada bruciando in tutto l'edificio in un paio di secondi.

Michael Flynn e Tettine avevano tutta l'aria di essere sul punto di esplodere per conto loro.

Completai l'opera seppellendo la carica di innesco e abbandonai il Bergen accanto al carburante, ma presi il nastro isolante avanzato. Avevo quasi finito. L'ultima parte era la più difficile di tutte, ed era l'attesa. Però un vantaggio c'era, pensai. Anche Flynn e Tettine dovevano aspettare.

Avevano ripreso a fare rumore. Non avrei saputo dire se stavano implorando, provando a scendere a patti o comunicandomi il loro ultimo pensiero sulla vita sessuale di mia madre.

Mi inginocchiai accanto a loro e avvolsi il nastro adesivo che ancora mi restava attorno alle loro gambe.

Frugai nell'elegante giaccone di Flynn per prendere le chiavi dell'ingresso principale. Lui mi guardò dritto negli occhi. Sapeva cosa stavo pensando e accettava il fatto di essere in punto di morte. Tettine non seguiva l'esempio del padre: continuava ad agitarsi. E a me andava più che bene.

Mi voltai e uscii, lasciando aperta la porta.

 

 

21.

 

Lilian era in piedi nell'angolo della stanza vuota, con la schiena rigida contro il muro; se avesse potuto sparirci dentro, l'avrebbe fatto.

"Vieni via, veloce!»

Non si mosse.

Attraversai di corsa il locale. Sollevò le braccia per proteggersi.

"Per la miseria, calmati. Non sono qui per farti male.»

Non rispondeva.

Le sfiorai una spalla con tutta la dolcezza possibile. Si ritrasse come se l'avessi colpita con una Taser. Abbassai la voce e cercai di mantenerla calma. "Ascoltami, Lily. Io sono qui per aiutarti. Ma tu devi aiutare me, capito?»

"Signore, le mie amiche...?»

Vidi che indicava la porta ancora chiusa.

"Signore...?»

Aprii un poco il portone per controllare fuori. Richiusi subito.

La guardai. "Ascolta bene. Devi dire alle ragazze che saranno liberate, okay?»

Annuì, molto concentrata a capire bene ogni parola.

"Le farò uscire per sempre da questo posto. Capisci?» Non servivano neppure due neuroni cerebrali per afferrare che bisognava tagliare la corda al più presto, ma il grande, immenso mondo poteva essere una prospettiva ancora più terrificante.

"Sì, ma dove andranno?»

"Siamo ad Amsterdam. Quando saremo fuori di qui, glielo dirò.»

Non mi capiva.

"Forza, entra e di' loro di seguirmi.»

Aprii la porta della camera delle sue compagne e praticamente ce la buttai dentro. "Per la miseria, sbrigati!»

Una volta uscite, si riunirono davanti al portone. Mentre richiudevo, pensavo al da farsi.

Non avrei preso l'auto anche se avevo la chiave dei Flynn. Non bastava a trasportarci tutti e sarebbe stato un rischio. Non desideravo complicazioni dell'ultimo minuto. Andare a piedi era la cosa migliore per tutti.

Svoltai a destra e mi trasformai nel pifferaio magico. Puntai in direzione del varco. Ogni tanto dovevo fermarmi per dare alle ragazze il tempo di raggiungermi. I piedi scalzi non rendevano facile la vita. Aggirai il cratere perché non entrassero in collisione con i bastoncini dello shanghai dei drogati.

Circa dieci minuti dopo le aiutai a passare una alla volta attraverso il varco della recinzione. Le bloccai dall'altra parte fino a che non furono tutte fuori. Le guidai oltre la stazione dei traghetti e seguii la strada in direzione del canale dove gettai le chiavi che avrebbero fatto compagnia alla Passat.

Indicai le luci dall'altro lato. "Amsterdam.»

Lily trasmise il messaggio. Seguì un mormorio di comprensione, paura ed eccitazione.

 

 

22.

 

Camminavo con andatura sostenuta tirandomi dietro Lily. Le altre ci seguivano come un branco di rifugiate.

Non c'era tempo per parlare, e non ce n'era neppure motivo. Dopo l'esplosione del silo, avrebbero recintato la zona e io volevo essere lontano da lì e in viaggio verso la Russia. Al momento quello era il mio unico pensiero. Mentre proseguivo mi spolverai i vestiti. L'aspetto da garzone di fornaio non era precisamente quello che volevo.

Raggiungemmo la zona dei prefabbricati bianchi. Le ragazze erano senza fiato. Lily mi tirò un braccio. "Per favore, più piano...»

Le afferrai la mano e la obbligai ad accelerare. Dovevamo allontanarci.

Il quartiere era animato. Schermi di televisori brillavano dietro le tende. I ragazzini giocavano a calcio alla luce dei lampioni. Tutti i negozi erano ancora aperti, le loro luci illuminavano il marciapiede.

Avevo una sete tremenda ma avrei dovuto aspettare. Controllai l'ora. L'ordigno sarebbe esploso poco dopo le 22.30. In quel momento saremmo stati sulla A10 diretti a Schiphol.

Mi fermai poco prima della rotatoria e attesi che la banda sgangherata mi raggiungesse. Gli automobilisti ci lanciarono occhiate, ma a questo punto me ne sbattevo di tutto. Erano ben altre le priorità.

Indicai la fermata dei taxi in fondo alla strada. "Lily, devi dire alle ragazze di attraversare la strada e di continuare a camminare fino al centro culturale islamico, la moschea... hai capito?»

Annuì e parlò ai visi spaventati.

"Le persone là dentro le aiuteranno.»

Parlò ancora e io iniziai a incitarle.

"Raccomanda loro di non raccontare dove erano tenute prigioniere... Che stiano sul vago: da qualche parte vicino all'autostrada.»

Fui costretto a orientarle nella direzione giusta. "Andate, fuori dalle palle, via!»

Lily iniziò a seguirle.

"Tu no!»

La presi sottobraccio e la guidai attraverso la rotatoria verso Papaverhoek.

Tresillian si sarebbe incazzato con me anche per questo, e allora? Io ero fottuto a prescindere. E comunque, prima di prendermi, avrebbe dovuto trovarmi. 'Fanculo anche all'edificio bersaglio. Ci avrebbero messo un bel po' a scoprire da dove venivano le ragazze, anche se avessero detto subito la verità.

Non potevo far intervenire gli amici di Lena. Sarebbe stato troppo complicato e non c'era tempo. Ma se non altro le compagne di Lilian erano al sicuro. Le avrebbero nutrite, dissetate e vestite, avrebbero dato loro un posto dove riposare prima che a qualcuno venisse in mente di chiedere alla polizia se era interessata a sapere dove erano state rinchiuse, o chi le aveva salvate. Ma a quel punto io sarei stato uccel di bosco.

FilmNoord XXX era in piena attività. C'erano quattro auto parcheggiate e gli uomini al volante controllavano la mercanzia. Una donna sui quaranta abbondanti e un po' sfatta fumava in attesa di un cliente. Non ci degnò di uno sguardo. Un uomo appiedato con una ragazza non poteva certo interessarle.

Mi avvicinai alla casa sicura dall'altro lato della strada. Sembrava tutto a posto. Controllai i segnali: niente era stato manomesso.

Mi rilassai un po'. Mi ricomposi e mi concessi un paio di momenti di soddisfazione per un lavoro ben fatto.

"Presto sarai a casa, Lily. Presto.»

Quando ci trovammo di sopra, però, notai subito che la porta della stanza dello schedario era aperta, ma Angeles non ci venne incontro, e la luce fioca fu sufficiente a farmi vedere che l'uomo aveva un fucile appoggiato alla spalla. Puntato verso di me. Bradley aveva entrambi gli occhi spalancati. L'indice era dentro la guardia e il polpastrello sul grilletto.

 

 

23.

 

"Ma che cazzo...» Mi crollarono le braccia. Scossi lentamente la testa mentre Lily balzava dietro di me, terrorizzata.

In quel momento mi resi conto che, se non fosse stato per Anna e le due ragazze, lo avrei lasciato fare e sarei stato anche contento di morire.

Bradley mi guardò con il fucile sempre puntato. "Cosa ti sei messo a fare, Nick? Collezione di ragazze? L'altra che tieni qui dovrebbe essere ancora nell'edificio.»

La canna si spostò da sinistra a destra. "Muovetevi.» Camminò all'indietro, tenendoci sotto tiro.

Angeles era seduta all'ingresso del bagno. Le usciva il sangue dal naso. In vista non c'era quasi più niente, ma adesso le tazze erano sul tappeto e le bustine di tè sparpagliate ai suoi piedi. Riconobbe subito Lily e iniziò a implorare Bradley in russo. Le lacrime le rotolavano sulle guance macchiate di sangue. Era un bluff? Parlava la sua lingua per non svelare che capiva l'inglese? Oppure era così sconvolta da non riuscire a tirar fuori neppure una parola in inglese?

Bradley faceva del suo meglio per sembrare calmo, ma io sapevo che era agitatissimo. Probabilmente il piano originario era entrare in casa e aspettare che arrivassi con Lily, e poi uccidermi. Semplice. Ma adesso doveva pensare con la sua testa e occuparsi anche di un'altra persona.

Guardò oltre le mie spalle.

"Lilian?»

"Sì.»

Si sentì subito rinfrancato. "Allora chi diavolo è quest'altra, Nick?»

"Soltanto una puttana. Dal pornoshop di fronte. Non sa niente.» Mi spostai di lato e mi appoggiai al muro. Il sedere mi faceva un male cane. "O per lo meno, non sapeva niente prima che tu decidessi di entrare qui come lo sceriffo Wyatt Earp.»

"Resta immobile!» Adesso che aveva Lily, Bradley aveva assunto toni autoritari.

"Perché? Cosa mi fai se mi muovo? Mi spari?» Indicai con un cenno Angeles. "Guarda come l'hai ridotta.»

"Chi altro sa che sei qui?»

Sollevò l'arma di qualche centimetro per spaventarmi. Si fottesse. "C'è qualcun altro qui?»

"E perché dovrei dirtelo? Tanto mi ucciderai comunque, o sbaglio?»

Angeles si era calmata, e il suo sguardo guizzava fra noi due.

Il fucile era sempre appoggiato alla spalla di Bradley. Non riuscivo a vedere se la sicura davanti al calcio fosse inserita o no. Guardai gli occhi di quell'idiota. Saettavano. Non erano freddi e calmi. Forse gli stava bene uccidere un uomo, ma una ragazzina...

Conoscevo la sensazione.

Teneva sempre il dito piegato dentro la guardia del grilletto. Per volontà o per errore, poteva ancora ammazzarmi. Il risultato finale sarebbe stato lo stesso. Sbatté le palpebre. Aveva lo strumento per farlo, d'accordo, ma ne aveva davvero l'intenzione? è da psicopatici uccidere senza un motivo, e lui non era uno psicopatico. Io lo sapevo, era facile da capire.

"Bradley, non devi farlo. Se lo fai, amico, avrai incubi per il resto della vita. Sarai fottuto per sempre, credimi. Non potrai dormire. Il mio viso e quello della ragazza ti appariranno ogni volta che chiuderai gli occhi. Non farlo. Possiamo inventarci qualcosa. Potrebbe funzionare per entrambi...»

Stava andando via di testa. Le dita della sinistra tamburellavano sulla canna come se stesse suonando la tromba. Sistemò meglio l'impugnatura dell'arma e la strinse più forte, come se potesse cadergli a terra da un momento all'altro.

"Tu fai fuori me, e dopo loro faranno fuori te, lo capisci, vero? Qualcuno verrà a cercarti. Non lasciano niente in sospeso. Hai visto come lavorano. Siamo tutti strumenti. Non solo ci usano: abusano di noi.»

Dovevo continuare con quella manfrina, in un modo o nell'altro. Il tempo stringeva, eravamo nella merda.

Notai che sulla fronte gli si formavano gocce di sudore. Lo guardavo dritto negli occhi. "Amico, tu sarai il prossimo. è così che si comportano. Sono anni che faccio questo lavoraccio infame. A loro non piacciono le persone come me e te. Loro...»

Una tazza volò da sinistra a destra e colpì la testa di Bradley.

Io mi abbassai sotto la linea di tiro.

"Stronza puttana!»

Angeles scagliò un altro missile a forma di tazza e si buttò su di lui come una furia. L'uomo crollò in ginocchio. Mi lanciai, afferrai il fucile con la sinistra e lo spinsi verso il tappeto. Angeles non smetteva di agitare vorticosamente le braccia, urlava come un'ossessa, gli scaricò una serie di colpi in testa e alla fine gli saltò addosso.

Caddero entrambi, la canna fra loro. Il fucile sparò, il colpo esplose pallini di piombo contro il muro sotto il lavello e aprì un buco grande quanto un pugno nello scarno torace di Angeles. La ragazzina si afflosciò su di lui.

Allontanai il fucile da Bradley e liberai quel maledetto dal corpo di Angeles, poi gli piombai sopra. Volevo che restasse a terra. Lo volevo vivo. Volevo scoprire chi, dove e quando.

Scalciò come un matto. "Lasciami! Lasciami in pace!»

Gli gonfiai di botte la faccia e gli urlai: "Fermo, Bradley! Porca puttana, fermo!»

Era fuori di sé, nessuno lo avrebbe fermato. "No!No!» ripeteva furibondo.

Poi sentii la canna fredda contro la tempia. Raggiunse il viso di Bradley. La pelle della guancia gli si increspò e coprì la bocca dell'arma.

"No, Lily! No!»

Mi girai di scatto, ma udii l'onda d'urto dell'esplosione contro il viso. Una nebbiolina fine, liquida, mi coprì la pelle, e non mi serviva uno specchio per capire cosa fosse.

Appena sotto l'occhio di Bradley c'era un grosso buco ovale. Guardandoci attraverso vidi una chiazza rossa e lucida sul tappeto.

Lei lo fissava senza espressione. Mi alzai e le presi il fucile.

Mi guardò. "Ha cercato di ucciderti.»

Non c'era tempo per parlare. Dovevamo uscire da lì.

Lasciai scivolare a terra l'arma. Non mi serviva. E le cartucce che non avevo usato per l'ordigno erano in fondo alla baia.

Levai le scarpe da ginnastica ad Angeles e le passai a Lily. Poi tolsi il contante dalla tasca posteriore dei suoi jeans. Non riuscivo a guardare il suo viso.

Mentre rigiravo le banconote fra le mani qualcuno picchiò forte al portone e un altoparlante urlò all'esterno.

 

 

24.

 

"Aspetta qui!»

Mi accucciai e strisciai veloce fino all'ufficio di mezzo, prendendo posizione al mio solito punto di avvistamento. Non mi sarei certo alzato per salutare con la mano. Le luci azzurre lampeggiavano dappertutto nella nostra zona di Noord 5; uniformi, volanti, uomini che si coprivano dietro scudi immensi. Una squadra di quattro elementi più un responsabile stava tempestando il portone.

Mi precipitai nella stanza dello schedario, presi il passaporto e salii la scala che portava sul tetto. Lottai con i fermi. Lily si materializzò.

"Sali, veloce!»

Scossi i fermi in su e in giù e cercai di farli arretrare. Lottavo senza successo per via delle mani bagnate di sudore. Tirai il più possibile la manica e la usai come un guanto.

Il portone aveva ceduto. Sulle scale si era scatenato l'inferno.

Finalmente la botola si spalancò. L'aria fredda della notte mi colpì mentre mi arrampicavo fuori. Tirai su Lily e poi richiusi. Le luci azzurre si moltiplicavano. I fari rimbalzavano sul terreno incolto e l'aria era satura di urla e del gracchiare delle radio.

"Resta vicino a me, d'accordo?» Le strinsi il braccio per incoraggiarla. Non volevo che si agitasse ancora di più e combinasse qualche casino.

Camminando bassi puntammo verso il tetto dell'edificio adiacente. Non avremmo avuto una seconda occasione.

Avevo la gola secca e non riuscivo a respirare a fondo. Subentrò l'adrenalina. Presi la rincorsa, saltai in alto e afferrai il bordo del parapetto. Le gambe sfregarono contro i mattoni, poi, scalciando, mi issai fino ad avere lo stomaco sulla ghiaia e

il catrame. Strisciai ancora un po' in avanti, mi girai e allungai le braccia. "Vieni.»

Lei saltò e le afferrai le mani. Scivolò.

"Di nuovo!»

Questa volta la acciuffai solo con la destra e sporsi la sinistra con la speranza di riuscire a prendere qualcosa. La acchiappai per la felpa e la sollevai oltre il bordo. Ondeggiò le gambe di lato e riuscì a salire.

Dalla strada giunsero altre urla e altro gracchiare di altoparlanti. Le luci azzurre sfrecciarono su Distelweg.

Non potevamo restare lì ancora per molto. Avevamo bisogno di andare via in fretta da quel campo minato.

FilmNoord XXX brillava come un faro. Sapevo che Lily era alle mie spalle: tossì e sentii il suo fiato umido di sudore contro

il collo. Avanzai seguendo il parapetto fino a trovarmi sopra una piattaforma di acciaio zincato che avevo visto l'ultima volta che ero salito lassù. Sporsi le gambe e mi lasciai cadere. Atterrai con un fragore simile a un colpo di gong, ma il rumore non era un problema. Ne facevano già abbastanza quelli di sotto.

Lei dondolò le gambe sopra la mia testa. Io chiusi le mani a coppa per offrirle sostegno.

Altre sirene e luci lampeggianti sfrecciarono su Papaverhoek e si fermarono. Stavano organizzando un posto di blocco. Che altro motivo avevano di sostare così vicino alla strada principale?

Una volta a terra, svoltammo a destra. Volevo perdermi nel dedalo di muretti e steccati di legno dei cortili. Trovammo un sentiero fangoso che si snodava in mezzo e superammo un tratto di terra incolta. Non avevo idea di cosa ci fosse dall'altra parte. Puntavo soltanto a raggiungere la rotatoria e il complesso residenziale.

Intravidi la strada principale all'estremità di un vicolo. Coprii velocemente la distanza e guardai a sinistra. Non vidi nessuna auto della polizia, ma sapevo dov'era il posto di blocco: le luci azzurre lampeggiavano dappertutto attorno alla zona dell'incidente e rimbalzavano contro le nubi basse.

"Adesso rallentiamo, Lily.»

Era senza fiato, con gli occhi sbarrati. S'inclinò in avanti e appoggiò i gomiti sulle cosce.

"Respiri profondi, calmati e riprenditi.»

Volevo che assumesse un aspetto normale. Le posai una mano sulla spalla. "Stai bene? Forza!»

Aveva ancora il fiatone, ma annuì. Piegai il braccio perché lo prendesse. "Fidanzatini?»

Sollevò la pelle dove un tempo c'era il sopracciglio.

"Okay, come non detto: padre e figlia...»

La proposta mi fece guadagnare il primo sorriso. Mi si chiuse la gola, ripensai a un'altra ragazzina che si era fidata di me ed era morta. Sarei stato fottuto se avessi lasciato che accadesse ancora.

Uscimmo allo scoperto e attraversammo sulle strisce pedonali fino al mercato, nel labirinto di strade dietro i negozi. Dopo appena cento metri fui costretto a nasconderla in un portone mentre un'altra azzurra e bianca sfrecciava verso l'incidente.

E in quel momento, a circa un chilometro di distanza, giunse un forte rombo sordo. Quindi una fiammata svettò nel cielo, come quella dei gas sopra un pozzo di petrolio. Bruciò per poco tempo. Ma poi all'interno del silo si scatenò l'inferno.

 

 

25.

 

Guardai il chiarore nel cielo sopra Noord 5.

Lily mi tirò un braccio. "Che cos'è?»

"Non lo so. Camminiamo.»

Meno sapeva di tutto quanto e meglio era. Ma rimase immobile a osservare le fiamme, poi mi scrutò. Sapevo che avrebbe voluto una spiegazione. Ma non l'avrebbe avuta. Quel lavoro era finito, e io già pensavo al successivo.

Superammo il centro islamico. All'incrocio guardai a sinistra e vidi le ragazze. Erano radunate in cerchio, chiuse da due auto della polizia. Anche loro guardavano verso il luogo dell'esplosione. La polizia doveva essersi occupata di loro con la stessa velocità con cui mi aveva raggiunto. Comunque non mi importava scoprire perché gli agenti fossero arrivati così in fretta alla casa sicura: non mi avrebbe portato a niente. L'essenziale era tenerci il più lontano possibile da loro.

Camminammo per altri trenta minuti. Attraversammo canali e parchi più grandi, e poi passammo sotto una strada sopraelevata a doppia corsia. I dintorni assumevano sempre più un aspetto residenziale. Spuntarono condomini di lusso con piste ciclabili e macchine parcheggiate in modo ordinato. Eravamo tornati nella civiltà ma non avrei mai preso un tram o un bus o un taxi. I trasporti municipali sono dotati di telecamere. E gli autisti dei taxi possono ricordare qualcosa. L'operazione di polizia che aveva quasi portato alla nostra cattura non si sarebbe fermata per settimane. Una cabina telefonica verde brillante si materializzò davanti a noi. Finalmente potevo chiamarla.

Anna rispose subito. Percepivo la tensione nella sua voce. "Quando arrivi? Io...»

"Ferma, ferma! Ho bisogno che tu venga a prenderci. Puoi farlo? è successo di tutto. Hai modo di noleggiare un'auto?»

"SI.»

"Prendila con il navigatore e incontriamoci.»

"è sempre con te?»

"No, un disastro. Ma Lily è con me. Hai una penna?» Attesi per qualche secondo che recepisse l'informazione. Rimase lucida e attenta. Sapeva che non era il momento di perdersi in chiacchiere.

"Dimmi.»

"Mi trovo all'incrocio tra, te lo dico lettera per lettera, H-e-t nuova parola D-o-k e nuova parola K-o-p-e-r-s-l-a-g-e-r-i-j. I nomi delle strade hanno dei numeri davanti che sono 1-0-2, potrebbe essere il codice di zona. Si trova a nord della baia. Hai capito? è pieno di belle case, di bei prati e c'è una bellissima cabina telefonica verde.»

"Capito.»

Mi ripeté tutto quanto e ricontrollai i nomi delle strade per essere sicuro di non aver confuso qualche lettera.

"Più veloce che puoi, Anna, senza superare i limiti.»

"Lei sta bene?»

"Sì. Le altre ragazze sono in salvo. Ma devi annullare l'intervento degli amici di Lena. L'incontro non è necessario. Angeles non ha più bisogno di loro.»

Restammo in silenzio mentre lei assimilava il senso delle mie parole.

"Sì, certo. La chiamo.» Sentii che si stava muovendo, la porta della camera si chiudeva e la sua voce rimbombava nel corridoio.

"Ti chiamerò per sapere a che punto sei. Va bene?»

"Sì. Ci vediamo presto.»

"Anna...»

"Sì?»

Esitai. "Muoio dalla voglia di vederti.»

Rifletté per un secondo. "Allora chiudi la telefonata.»

 

 

26.

 

Aspettammo per oltre un'ora e mezzo sotto la sopraelevata, con le sirene che sfrecciavano sull'asfalto sopra di noi. Il parco era deserto.

Come promesso, avevo chiamato Anna da una cabina telefonica. Stava arrivando.

Eravamo seduti contro un albero e tenevo Lily fra le braccia per ripararla dal freddo. Aveva la testa contro il mio torace.

"Lily, cos'è successo? Perché te ne sei andata da casa?»

Non si mosse. Forse la posizione le dava sicurezza.

"Dovevo andarmene.»

"Dovevi?»

Si strinse nelle spalle. "Sembra così stupido, visto quello che è successo. Mio padre mi ha tradito. E ha tradito il movimento di protesta.»

"Dopo le elezioni?»

Spostò appena la testa. "Devi capire quanto è stato meraviglioso per noi conoscere finalmente la democrazia. Per un giorno, un unico giorno abbagliante e intenso, il potere è stato in mano al popolo. Noi, gli studenti, stavamo per diventare parte della soluzione. E non parte del problema, come mio padre.» "A lui andava bene che tutto restasse uguale?»

Sentii che annuiva lentamente.

"I comunisti hanno truccato le elezioni. Hanno comprato tutti usando i soldi di persone come mio padre. Lui pensa soltanto a se stesso e agli affari. Volevo andarmene. volevo ferirlo come lui feriva me.»

"Perché Christiania?»

"L'anno scorso, per un corso di sociologia, avevo letto qualcosa sulla comune di Copenaghen. Mi era sembrato il posto giusto in cui rifugiarmi.»

Frugò nei jeans e prese la fotografia di Facebook. La aprì come se la vedesse per la prima volta. "Ma lui ha cambiato tutto.» "Era il tuo ragazzo?»

"Una specie.» Fece una pausa. "Voleva sesso, ma io ero ben decisa ad aspettare fino al matrimonio.»

Lasciò cadere le mani e il foglio rischiò di volare via. Lo afferrai in tempo.

"Mi disse che conosceva qualcuno a Copenaghen, un amico di suo padre. Mi disse che gli avrebbe parlato e che mi avrebbe aiutato a realizzare i miei ideali.»

Ripiegai il foglio e lo infilai nei jeans.

"Viku mi ha venduta... Come ho fatto a essere così stupida?» Piegò il collo per guardarmi negli occhi. "Ho incontrato

il vecchio. è stato gentile con me. Mi ha comprato da mangiare e abbiamo parlato di quanto era meravigliosa Christiania e quanto sarei stata felice lì. Ma poi mi ha accompagnato in una casa...»

Non pianse, si limitò a fissare l'erba per impedirsi di pensare a ciò che era accaduto dopo.

"Va tutto bene, Lily, conosco il resto. Ma adesso sei al sicuro.»

Posò di nuovo la testa contro il mio petto. Sentii che serrava la mascella. Essere al sicuro era una sensazione che apparteneva a un'altra vita.

"Mio padre... Ti ha mandato lui?»

"Lui non ne sa niente. è stato un suo amico.»

"Uno dei suoi amici assassini», disse beffarda.

"Cosa te lo fa pensare?»

"Lui e tutti gli altri che producono armi sono assassini.»

"Ma tuo padre non lavora nell'elettronica?»

Valeva la pena verificare le mie supposizioni.

"Non sto parlando di missili e carri armati. Anche i computer e i radar sono armi, lo è tutto ciò che procura morte e mutilazioni.» Si tirò su. Si stava infervorando. "Un computer equipaggiato con standard di livello militare è letale quanto una bomba. Produrre simili macchine è un commercio schifoso.» "Ma li vende a qualcuno... In fondo lui soddisfa la richiesta.»

Aveva il fuoco negli occhi. "Un magnaccia soddisfa una richiesta. Anche uno spacciatore soddisfa una richiesta. Qual è la differenza tra il traffico illegale di donne o eroina e l'esportazione di armi? Sono tutti gestiti da mercanti di morte. L'università mi ha fatto aprire gli occhi. Per questo me ne sono andata. E guarda come sono finita.»

Pensai che si sarebbe messa a piangere.

"Ti prego, non raccontargli cosa mi è successo.»

La abbracciai. "Non saprà mai niente da me.»

"Grazie. Come ti chiami?»

"Nick.»

"Grazie, Nick.»

Restammo in silenzio. Lily si addormentò o era sul punto di farlo. Sentivo il suo respiro lento e regolare.

Altre due sirene sfrecciarono a tutta birra sulla sopraelevata. Controllai il mio G-Shock. "Dobbiamo andare.» Le accarezzai la testa.

Si mosse. "è già arrivata?»

"Sì, secondo i miei calcoli.»

Attraversammo il parco, il traffico continuava a scorrere veloce, ma adesso l'avevamo alle spalle. Cercavo una Opel familiare argento: 62-LH era l'inizio della targa.

La vidi parcheggiata poco dopo l'incrocio, e vidi il profilo della testa di Anna. Non era il momento di utilizzare le tecniche di incontro casuale. Volevo salire in macchina e partire.

Mentre ci avvicinavamo sentii lo scatto dell'apertura centralizzata. Aprii la portiera posteriore per Lily e salii davanti. Anna uscì dal parcheggio senza dire una parola. Il navigatore iniziò a darle istruzioni. Avvertii un accenno di Bulgari e mi sentii subito meglio.

Controllò lo specchietto retrovisore. Non voleva ancora parlare. Voleva andare via dalla zona. La guardai e le sorrisi. Non rispose. In quel momento era assente e priva di emozioni.

Anna ruppe il silenzio soltanto quando imboccammo la strada a doppia corsia. "Lily... Posso chiamarti Lily?» Non attese la risposta. "Io sono Anna.» Iniziò a parlare in russo.

La ragazza rimase senza fiato e quasi soffocò per l'emozione. Si allungò in avanti fra i sedili, parlava a raffica. Compresi un'unica parola: Angeles.

"Ferma, Lily. Stop.» Mi rivolsi ad Anna. "Lei sa soltanto che Angeles è morta. Ti racconterò tutto appena arriviamo in albergo. Ma non adesso, d'accordo?»

 

 

27.

 

Parcheggiammo in un multipiano a Schiphol. Lily era crollata sul sedile posteriore, cosa che avrei tanto voluto fare anch'io. Il riscaldamento della macchina aveva fatto gli straordinari.

Anna mi mostrò la carta della porta del Radisson. Il numero era scarabocchiato sul cartoncino contenitore. "Quinto piano.»

"Quando si entra, gli ascensori sono a sinistra, a destra o al centro?»

"Gira a destra appena entri, oltre il bancone della reception.»

"Vi lascio quindici minuti di vantaggio, va bene?»

Lily sbadigliò, si stiracchiò e si mise seduta. Doveva aver percepito che ci eravamo fermati.

Mi girai. "Non possiamo salire tutti insieme. Tu sali con Anna. Io arrivo dopo.»

La sua mano scattò sulla maniglia.

"è tutto a posto, Lily.» Mi allungai e le strinsi una gamba fasciata dai jeans. "Tu resti con me. Saliremo insieme.»

Anna s'intromise: "Voi salite per primi. Io vi seguo. Ti va bene così, Lily?» Mi passò la chiave.

Uscimmo dalla Opel e scendemmo, di nuovo a braccetto, le scale del parcheggio che non puzzavano di pipì stantia come a casa. "Cammina in modo normale, Lily. Sorridimi se io ti sorrido. Devi pensare che alloggiamo qui e che stiamo rientrando in camera per la notte. Hai capito?»

Lei sapeva, come sapevo anch'io, che l'addetto dietro il bancone avrebbe pensato che lei fosse una puttana che avevo scelto per la notte. Io puntavo sul fatto che, dato che faceva il turno di notte, il signore in questione non conoscesse gli ospiti e non mi volesse mettere in imbarazzo facendo un controllo. Dopotutto, quella era Amsterdam.

Entrammo nell'atrio deserto. In caso qualcuno stesse guardando, giocherellai in modo evidente con la tessera della camera di Anna e svoltai subito a destra come se conoscessi il percorso. Mi avvicinai a passo sostenuto agli ascensori e premetti il pulsante di salita. Continuai a fissare il cartoncino per non correre rischi.

Era passata la mezzanotte ed erano in pochi ancora al bar. Gli schermi piatti sopra le luci mostravano le immagini dei pompieri al silo. Il tetto era crollato. Due battelli antincendio pompavano acqua sui resti carbonizzati, illuminati dai fari delle motovedette della polizia. Tante persone in tenuta ad alta visibilità si aggiravano ovunque.

Tenni stretta Lily mentre aspettavamo. Aveva visto gli schermi, e finalmente una lacrima le scese sul viso.

"Va tutto bene, Lily. Sei al sicuro. Tutte sono al sicuro.»

L'ascensore si aprì con un ping e salimmo al quinto piano.

Due letti gemelli, mobili in finto legno color noce, televisore, minibar: poteva essere una stanza qualsiasi di una catena di alberghi in tutto il mondo. Le lanciai della cioccolata e un succo di arancia. Lacerò l'involucro della tavoletta di Milka e iniziò a mangiare. Presi anche un pacchetto di anacardi per me. "Grazie, Nick.»

"Fatti un bel bagno. Anna ti darà dei vestiti per domani. Io non vado da nessuna parte.»

Fece come le avevo detto. Ripescai la chiave e la gettai sul letto.

"Lily?»

Sentii scorrere l'acqua mentre lei si affacciava alla porta.

"Io ti prometto che Anna si occuperà di te. Ti proteggerà. Tu capisci, vero, che cosa intendo?»

Annuì. "Sì, grazie.» Chiuse la porta.

Sedetti ai piedi del letto e ingurgitai i miei anacardi. Secondo il listino ognuna di quelle noccioline costava quasi un euro.

Le mandai giù con la lattina di Pepsi più costosa del mondo e feci zapping con il telecomando. L'incendio del silo era su tutti i canali locali e anche sulla CNN e su BBC News 24. Kate Singleton mostrava al mondo tutta la sua professionalità.

Bussarono alla porta. Controllai attraverso lo spioncino e aprii.

"Hai avuto problemi con il portiere, Nicholas?» Anna fece un cenno verso l'acqua che scorreva.

"Tutto a posto.»

Entrò e sedette accanto a me. Indicò lo schermo. "Perché?»

"Non lo so, ma quel silo è soltanto la punta dell'iceberg.»

 

 

28.

 

Raccontai ad Anna tutto dei Flynn e dei neonazisti, dei rivali moldavi e di Tresillian che aveva cambiato i piani e che voleva la morte delle ragazze. Poi le dissi di essere tornato alla casa sicura e di aver trovato Bradley che mi aspettava, di Angeles che era stata uccisa e dell'arrivo immediato della polizia.

"La polizia? E come hanno fatto...»

"Forse è stato Bradley, chissà cos'altro faceva in quella casa. Oppure i nazi. E chissenefrega? Ciò che mi fa incazzare di brutto è quello che è successo ad Angeles. Lei voleva proteggermi.» Rividi il suo timido sorriso e i tè fumanti con troppo zucchero. "è stata uccisa per questo, la sua morte è da attribuire a Tresillian, e naturalmente a Jules.»

Lei non riusciva a crederci. "Ma lui è un amico.»

"Credi? Anch'io l'ho sempre considerato tale, e non so cosa diavolo stia accadendo.»

Le espressi il pensiero che mi stava rodendo da quando Bradley aveva impugnato il fucile. "Tutti quelli che sono collegabili a Lily sono finiti all'altro mondo. Non può trattarsi di un semplice favore a un amico. è qualcosa di più grande, e Tresillian sta sistemando tutte le questioni in sospeso...»

Mi guardò. Capiva cosa volessi dire. Era troppo intelligente per non arrivarci.

"Già: se ancora non lo sa, scoprirà presto che anche tu sei coinvolta.»

Non rispose. Assimilava le informazioni.

Lily uscì dal bagno, pulita e profumata, con i capelli pettinati all'indietro. Si raggomitolò nel letto, nel suo mondo privato, gli occhi fissi allo schermo tremolante della TV.

Non potevo perdere tempo. "La Panda porta dritto dritto a Nick Smith. Lily è la chiave di tutto e sto cominciando a farmi un'idea del perché. Fino a quando avremo lei, loro non ci toccheranno. Devi portarla al sicuro da qualche parte, Anna. Ho bisogno di sapervi fuori pericolo.»

S'illuminò. "Conosco qualcuno a...»

Le posai la mano sulla bocca. "Fermati. Non voglio saperlo.» Era molto più sicuro per loro due. Se mi sbagliavo e Tresillian non la pensava come me, avrebbe voluto sapere dove si trovava Lily. Ma io non avrei mai potuto dirgli ciò che ignoravo, qualunque cosa mi avesse fatto.

Anna comprese. "E tu?»

"Io torno nel Regno Unito. Dove tutta questa merda ha avuto inizio.»

La TV passava e ripassava sempre lo stesso filmato dell'esplosione. Se non altro, per qualcuno era un giorno fortunato. "Potremmo andare via subito tutti e tre insieme.»

Scossi la testa. "Io devo tornare indietro. Se Lily è in salvo, Tresillian non può toccarci. Ha bisogno di lei. Devo sistemare alcune cose.» Le feci un sorriso sbilenco. "Poi potremo passare tutto il tempo che mi rimane a guardare le oche che volano sopra la Moscova.»

Eravamo in piedi a pochi centimetri di distanza.

Anna prese le mie mani fra le sue, non riusciva a parlare. Sembrava sul punto di crollare da un momento all'altro. Poi se le portò sul viso e le baciò. Mi guardò a lungo negli occhi.

Non so cosa vide, ma non rispose al mio sorriso.

 

 

29.

 

Presi dal minibar una lattina di Pepsi e la offrii a Lily. Scosse la testa. Era seduta ancora in accappatoio, sul bordo del letto, e guardava Anna che trafficava con il suo iPhone: aveva aperto Google Earth perché avevo bisogno di controllare la costa. Il canale principale lasciava la baia di Amsterdam in direzione nord-ovest, passando attraverso la foresta di container

di petrolio e gas che occupava tutta la zona industriale. Un sistema di chiuse governava il passaggio stesso delle imbarcazioni dal canale, a forma di ciminiera, al mare del Nord. Oltre le chiuse si stendeva una marina. Esattamente ciò che stavo cercando.

Le fotografie del porticciolo mostravano lunghi pontili pieni zeppi di barche a vela e panfili di lusso.

Anna prese le mani di Lily fra le sue, mormorando parole di conforto.

Indicai lo schermo. "è lì che voglio andare.»

"Ci vorrà circa un'ora per arrivare.»

"Puoi guardare quanto è lontana la costa inglese?»

Mi assicurai di avere con me il passaporto e la carta di credito a nome Smith. Sarebbero andati bene se mi avessero fermato per un controllo d'identità, ma non sarei riuscito a passare la dogana e i controlli dell'Immigrazione.

Infilai nella tasca dei jeans le quattrocento sterline che avevo portato.

Anna continuò a fare le sue magie con l'iPhone. "è a circa centocinquanta chilometri verso ovest. Arriverai da qualche parte lungo la costa tra il Norfolk e il Suffolk.»

Feci un sorriso sbilenco a Lily. "Andiamo, allora. Diamoci una mossa.»

"Dove?» chiese la ragazza, spaventata.

"Mi lascerete da qualche parte. Io vado a casa per un po', ma tornerò.»

Anna diede a Lily alcuni indumenti.

"Lily, io e te andremo per primi. Anna, ci incontriamo alla macchina.» La aiutai a mettere le ultime cose nella valigia.

Lily non aveva mosso un muscolo. "Cosa succede, Nick?» Le posai le mani sulle spalle e la guardai negli occhi. Mi era capitato un po' troppo spesso negli ultimi giorni. "Io vado a casa, ma per poco. Anna ti porterà al sicuro da qualche parte. Poi io vi raggiungo, ma prima devo tornare in Inghilterra, ci sono cose che devo fare per essere sicuro che tu possa stare bene. è chiaro?»

Annuì lentamente ma vidi che non era convinta.

"Via, andiamo alla macchina.» Cercai di usare un tono leggero. Piegai il braccio. "Ricorda, padre e figlia, come l'altra volta.»

Non rise.

Ci avviammo alla porta.

 

 

30.

 

Il viaggio durò più a lungo del previsto, ma il navigatore ci guidò senza intoppi in Kennemerboulevard e nessuno su una azzurra e bianca ci degnò anche solo di uno sguardo.

La strada era dritta come un righello e costruita in cima a una diga fatta di enormi pezzi di roccia; centinaia di barche di tutte le forme e dimensioni dondolavano in su e in giù nel mare, ormeggiate in modo ordinato lungo innumerevoli pontili in legno.

Nel punto in cui il canale si allargava, la marina si apriva in un porto per traghetti. Sopra una nave su cui stavano caricando auto e camion brillava un arco di luce accecante e, pur trovandomi a ottocento metri di distanza, potevo sentire il clangore delle porte del traghetto che venivano aperte e chiuse e i camion che rombavano su e giù per le rampe di acciaio.

Non aveva senso continuare in macchina. Per fare il mio lavoro dovevo andare a piedi. "Dove vuoi...»

Mentre Anna si fermava a lato della strada, mi voltai verso Lily. "Ci vediamo presto. Anna si prenderà cura di te.»

Il chiarore delle luci del traghetto brillò sulle lacrime che le riempivano gli occhi.

"Andrà tutto bene. Davvero. Tornerò presto.»

Fece un cenno con il capo, ma non mi credeva neppure un po'. Non potevo biasimarla. Neppure io ci credevo.

Mi rivolsi ad Anna. Ero piuttosto soddisfatto di me stesso. Avevo un piano. "Ho bisogno che tu metta tutta la storia per iscritto, il più presto possibile. L'intera vicenda dal tuo punto di vista, chiaro?»

Mi guardò a lungo. "Stai attento, Nicholas.»

"Certo. E, quando vi raggiungo, inserirò la mia parte. Non dimenticare: niente mail, butta il telefono, nessun dispositivo elettronico. Crea un profilo Facebook e chiamalo... Lily Vampire-Girl. Mi metterò in contatto con te con un numero in codice che è...»

Guardai Lily. "Hai vent'anni, vero?»

Annuì.

"Venti.»

Ci serviva qualcosa che fosse impossibile dimenticare. Il sistema era semplice. Anna avrebbe creato la pagina tramite Lena

o facendo casino con gli ISP in modo da non essere localizzabile. Io avrei aperto un account Gmail, mi sarei iscritto a Facebook e avrei cercato le pagine Vampire-Girl. Avrei inviato una mail alla più recente, quella con meno schifezze sopra, e avrei offerto la prima parte del numero in codice. A quel punto saremmo stati in contatto.

Anna si sporse e mi baciò su una guancia. Mi offrì un sorriso di incitamento. Aveva ragione. Gli addii si stavano prolungando troppo. "Ti restano quattro o cinque ore prima dell'alba...»

Lily s'infilò tra i sedili. "Grazie.» Un altro bacio sulla guancia.

Sorrisi un'ultima volta alla ragazza prima di scendere dall'auto.

Appena chiusi la portiera, Anna premette l'acceleratore. La Opel partì. Il vento del Nord mi sferzò il viso. Il G-Shock mi disse che erano appena passate le due. Di lì a quattro ore e mezzo, al massimo, sarebbe spuntata l'alba.

Avevo bisogno di qualcosa di veloce di cui poi mi sarei sbarazzato una volta giunto sulla costa inglese.

Entrare nel Regno Unito non sarebbe stato così difficile. I contrabbandieri lo fanno tutti i giorni. Durante la seconda guerra mondiale, tutti quelli della Resistenza che soggiornavano nella casa sicura di Bradley probabilmente salivano su piccoli battelli e procedevano con a bordo gli equipaggi degli aerei abbattuti e gli agenti del SOE. Non riuscivo a capire perché così tanti illegali rischiassero la vita appesi ai camion da Calais quando non dovevano fare altro che seguire il loro esempio.

Avevo fatto una gita simile con un piccolo Gemini quando ero di stanza con il reggimento in Belize. Aveva un motore fuoribordo da 25 cavalli e due pagaie in caso di guai.

La destinazione mia e di altri due compagni era San Pedro, sull'isola di Ambergris Caye, così lontana da essere invisibile dalla terraferma. Per navigare avevamo soltanto una comunissima cartina turistica in scala 1:50.000 e una bussola. San Pedro era un puntino in mezzo ai Caraibi; ci orientammo e partimmo.

Dopo alcune ore superammo una barca. Ci chiamarono e ci chiesero se andasse tutto bene. "Nessun problema.» Salutammo. Dovevamo avere l'aspetto di trafficanti di droga colombiani.

"Dove siete diretti?» si informò il comandante.

"A San Pedro.»

L'uomo aveva alzato le mani al cielo ed era sparito.

Per prima cosa, cercammo di trovare con la cartina e la bussola Silva un'altra isoletta delle Cayes. Da lì, ci orientammo e, quattro ore dopo, con un'unica tanica di carburante rimasta, raggiungemmo San Pedro per il nostro lungo fine settimana. Bei tempi.

Camminai lungo il molo di cemento, dove la luce dei lampioni e dei fari delle auto proiettava deboli ombre. Molte barche erano coperte da teloni, legate e chiuse per l'inverno. Quasi nessuna era attaccata alle scatole di plastica grigia che fornivano acqua potabile ed elettricità.

Era un gioco da ragazzi entrare in uno di quegli affari e farlo partire. Il problema era il carburante. Dovevo navigare per circa centocinquanta chilometri. Le imbarcazioni da diporto non andavano bene. I serbatoi non sarebbero stati pieni durante l'inverno. C'era un unico tipo di barca in un posto come questo che aveva sempre il pieno.

 

 

31.

 

Alla fine trovai ciò che cercavo. La guardia costiera aveva due RIB, enormi gommoni a scafo rigido di oltre dieci metri dotati di due fuoribordo Yamaha da 115 cavalli a testa. O per lo meno, io avevo deciso che fossero della guardia costiera. Avevano la scritta kustwacht ovunque, che mi sembrava quella giusta: emanava un'aria ufficiale, e di conseguenza apparteneva a un'organizzazione che richiedeva di riempire i serbatoi a fine giornata.

La base a terra della Kustwacht era un cubo prefabbricato dall'aspetto triste coperto da foglietti e avvisi. Per il momento

lo ignorai. Nessuna lama di luce in vista che indicasse la presenza di qualcuno all'interno.

Saltai sul primo RIB e sollevai le tavole di legno della pavimentazione, vicino ai motori. Vidi il tappo del serbatoio. Era chiuso, proprio come quelli delle auto. I due motori da 115 erano fissati allo scafo.

Osservai il quadro di controllo, che in sostanza non era altro che un timone con uno scudo di Perspex che proteggeva dal vento e dall'acqua. Non c'erano chiavi nascoste e neppure una bussola o un navigatore satellitare, soltanto un vano vuoto.

Scesi e raggiunsi il prefabbricato. Le finestre erano coperte da qualcosa che assomigliava a una rete da pollaio. Era fissata dall'esterno, quindi probabilmente non aveva la pretesa di impedire ai tipi come me di entrare. E comunque chi, sano di cervello, penserebbe di derubare una stazione di polizia o della guardia costiera, a meno che non si trovi proprio nella merda?

Non ci misi più di due minuti a strapparla via. La abbandonai appesa alla cornice e feci scivolare la finestra da una parte.

Mi sollevai fino ad avere lo stomaco sul davanzale e strisciai all'interno. Il posto puzzava di sigarette e gomma, come un garage. La luce che proveniva dall'esterno era sufficiente a non farmi inciampare contro qualcosa.

Oltre a una scrivania c'era una rastrelliera di tute arancioni in Gore-Tex allineate con ordine vicino alla porta, dotate di stivali, cappuccio in gomma e guanti che potevano essere attaccati e staccati dai polsini con delle cerniere. Le passai una a una fino a che trovai quella giusta per me, che chiusi fino allo stomaco con la cerniera.

Mi guardai intorno in cerca delle chiavi dei RIB. Non le avrei trovate in una ciotola di design, ma sarebbero state accanto a un registro che riportava il nome di chi era stato a bordo e per quanto tempo, quanto carburante era stato utilizzato e quel genere di informazioni. Devi firmare quando li prendi e quando li riconsegni.

Due contenitori in plastica con numero di serie erano nell'angolo a destra della scrivania. Ne aprii uno. Naturalmente i RIB avevano fatto il pieno, alle 19.00 di quella sera. Meno male che le scartoffie sono presenti ovunque. è il dio della contabilità a decretarlo. Entrambi i gommoni erano stati fuori per due ore, durante il giorno; uno era stato riempito con sessantotto litri, l'altro con cinquantadue. I serbatoi ne tenevano oltre cento. Potevano essere operativi per oltre cinque ore.

C'erano anche le chiavi in custodie impermeabili in gomma, per proteggerle dalle condizioni atmosferiche quando erano in mare. Osservai il portachiavi: un cordone a spirale giallo che agiva da pulsante di emergenza in caso di avaria o di incidente. Non riuscii a trovare una bussola, e lasciai perdere i navigatori satellitari. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era una grossa freccia elettronica che indicasse la mia posizione.

Uscii dalla porta. Saltai sul primo RIB che incontrai, scivolai fino ai comandi e inserii una chiave. Fortuna zero. Provai la seconda e i due Yamaha si accesero. La freccia della benzina scattò sul pieno. Una nube di fumo sgorgò dal tubo di scarico. Le eliche erano ancora basse nell'acqua, così per il momento non dovevo scoprire come regolarle. Liberai la fune di ormeggio, azionai la leva a destra del timone e puntai con delicatezza la prua verso il mare.

Abbandonai la protezione della diga. Il vento mi sferzò il viso. Chiusi la cerniera della tuta, alzai il cappuccio e indossai i guanti.

Dopo aver messo un po' di distanza tra me e la spiaggia, spostai la leva sul folle: il motore andava al minimo. Il gommone ondeggiò mentre mi spostavo a poppa a controllare le linee di alimentazione. Un motore da 115 cavalli era più che sufficiente per far arrivare l'affare nel Regno Unito. Due motori avrebbero consumato il doppio.

Girai il comando di distacco convinto che fosse del motore di sinistra, ma si spense quello di destra. Trovai il pulsante dei comandi idraulici e lo sollevai fuori dall'acqua. Non avevo bisogno di trascinare qualcosa inutilmente.

La priorità successiva era la rotta. Da seguire senza una bussola. I congegni di quel gommone per trovare la direzione erano troppo sofisticati. Quando ero uscito in mare, andavo più o meno in direzione ovest, quindi il nord doveva essere alla mia destra. Ma prima di continuare dovevo trovare la stella Polare, la guida naturale più precisa nell'emisfero Nord, che resta fissa, immobile esattamente sopra il Polo.

Per prima cosa scrutai il cielo in cerca del Carro, sette stelle raggruppate a forma di tegame con un lungo manico: bisogna tracciare una linea fra le due stelle che formano il lato più lontano dal manico, estendere il segmento verso l'alto per circa cinque volte la sua lunghezza e la stella che incontri, sola soletta, è la Polare.

Una volta trovata, non dovevo fare altro che continuare a tenerla sulla destra fino a quando raggiungevo la costa inglese. In quale punto non potevo predirlo.

Accelerai e la prua si sollevò. Il vento mi tirava il cappuccio. Sedetti al timone al riparo del parabrezza. Avrei oscillato a sinistra e a destra, perché il vento e il motore unico avrebbero reso impossibile la navigazione lineare. Ma non importava, non se continuavo verso ovest.

Rallentai fino a che la prua si abbassò e lo scafo galleggiò sulla superficie del mare.

Pensai a Robot, il mio amico del battaglione, non quello che avevo appeso al gancio dell'estintore. Eravamo di stanza a Gibilterra, e quindi per lui non era proprio semplice andare a vedere il Millwall il sabato. Gli venne un'idea. Un venerdì notte rubò un motoscafo dal porto. Secondo lui, se girava a destra e seguiva la costa, sarebbe arrivato in fretta in Francia. Da lì sarebbe bastato andare a sinistra per raggiungere lo stadio. Siccome era Robot, non aveva idea di quanto lontano dovesse andare. La barca terminò il carburante nel golfo di Biscaglia. Non arrivò mai a vedere la partita.

Cazzo, lo stavo facendo di nuovo...