Ipotizzai come avere la meglio sul muro e come entrare nel bersaglio, annotando su un post-it mentale una serie di cose che mi sarebbero servite. Alcune avrebbe dovuto procurarmele Otto, perché a me sarebbe stato impossibile, visto il poco tempo a disposizione. Se Otto non fosse stato in grado, il piano B prevedeva che mi fasciassi la fronte con una bandana da kamikaze e mi scagliassi a tutta velocità contro i cancelli, ululando terrificanti minacce. Era davvero l'unica possibilità, perché ogni azione diversa dal piano T come Tanto esplosivo, sarebbe risultata inutile. Il resto dell'equipaggiamento me lo sarei procurato da solo, in modo da avere la garanzia che fosse esattamente quello che volevo. Detestavo dipendere da altre persone, ma quando si è nel Ciad...

Il freddo stava avendo la meglio e ormai cominciavo a congelare. Per quella notte avevo visto quanto bastava. Mi alzai prestando molta attenzione a non uscire dal solco delle ruote, e controllai che non mi fosse caduto niente. Era solo un'abitudine, ma molto utile. Quindi ispezionai meticolosamente la neve da entrambi i lati del solco, pronto a intervenire. Ci fosse stato qualche segno da coprire, avrei dovuto raccogliere della neve intorno alla macchina e portarla lì. Raccoglierla sul posto, con il risultato di aggiungere impronte a impronte, non avrebbe avuto senso.

Quando arrivai alla Lada mi ero un po' riscaldato. Purtroppo la prima cosa che dovetti fare una volta sollevato il cofano fu togliermi la giacca e avvolgerla intorno al motorino d'avviamento. Non volevo che i nuovi amici di Tom mi sentissero prendere a martellate il motore. Tolsi i fogli di giornale dai tergicristallo sul parabrezza e m'infilai al posto di guida molto più in fretta della prima volta, ormai sapevo maneggiare la serratura. Il motore si accese al terzo tentativo. Con il motore al minimo mi avviai, questa volta senza passare davanti al bersaglio. Per tornare alla strada principale per Narva feci una serie di svolte e cambiai spesso rotta. Un paio di volte mi persi, ma alla fine la trovai e potei rientrare nel girone della morte.

34

Parcheggiai nuovamente nel piazzale vicino al confine. Secondo il Re Leone erano le 21.24. Andare direttamente a casa di Otto sarebbe stato un'imprudenza. Dovevo prima controllare che Falegname non fosse in zona. Altrimenti avrei dovuto passare la notte in attesa che se ne andasse.

Chiusi la macchina e puntai in direzione del baar, mani nelle tasche, testa bassa. Quando raggiunsi il capanno mezzo bruciato vidi che la BMW non c'era, e che erano rimaste parcheggiate soltanto due delle auto, coperte da una spessa coltre di ghiaccio.

Mancava uno dei Cherokee. Cosa voleva dire? Merda, non potevo permettermi il lusso di perdere tempo. Quale sarebbe stato il momento migliore per entrare nella casa? Si trattava di sfidare la sorte e tentare. L'importante era mettere insieme l'attrezzatura e ricevere i soldi nel più breve tempo possibile.

Schiacciai il pulsante e rimasi in attesa. Nessuna risposta. Schiacciai ancora. Rispose una gracchiante voce maschile, non la stessa di prima, ma altrettanto rauca. Ormai conoscevo il sistema e anche un po' di russo. «Vosjem'. Vosjem'.»

La scarica statica s'interruppe. Sapevo che dovevo aspettare, e anche che dovevo spostarmi per far aprire il portone. Sentii quasi subito le serrature scattare dall'interno.

La porta si aprì e vidi Otto, sempre con la sua felpa rossa. Mentre apriva la grata, scrutò la zona parcheggio.

«Le mie ruote?»

Entrai e attesi che richiudesse. Continuava a ispezionare nervosamente con gli occhi il lato parcheggio.

«La macchina sta bene. Il tizio della BMW è tornato?»

Si strinse nelle spalle e iniziai a salire le scale dietro di lui.

«Ci servono carta e penna, Otto.»

«Ma che ne è della mia macchina?»

Entrammo nella stanza al terzo piano e ancora non gli avevo risposto. Senza luce naturale la stanza della TV era ancora più buia, ma con lo stesso odore, impregnata com'era di fumo di sigaretta. Non c'era nessuno. Non era cambiato niente, tranne che, accanto al mazzo di carte sul tavolo, c'era una lampada che spandeva una luce fioca sulla bottiglia di Johnny Walker quasi vuota. Tre portacenere erano ricolmi di cicche di sigaretta che strabordavano sul tavolo un tempo molto lucido. La TV era ancora accesa, e diffondeva qualche barlume di luce nell'altro lato della stanza. Attraverso una cortina di neve scorsi Kirk Douglas che faceva il cowboy. L'audio era molto basso; il dialogo si percepiva a malapena.

«Lì, Nick. Sul tavolo.»

Indicò un mucchietto di biro da quattro soldi e dei fogli di carta rigata in formato A4, sparpagliati in mezzo al casino. Alcuni avevano dei numeri scritti sopra.

Mi sedetti e buttai giù una lista, chiedendomi se quei numeri si riferissero ai punteggi del gioco o alle registrazioni degli affari conclusi in giornata.

Otto mi mise una sedia di fronte. «Dai, su, non scherziamo, dov'è la macchina, amico?»

«Un po' più giù.»

Scrutò la mia espressione. «Tutto a posto?»

«Sì, sì. Lasciami finire.» Volevo fare la lista e portare via i coglioni il più in fretta possibile. «Dove sono gli altri?»

Agitò le mani come un ballerino di break dance in avanzamento rapido. «Affari, amico, affari.»

Terminai di scrivere e spinsi il foglio nella sua direzione. Non cambiò espressione. Mi aspettavo che emettesse qualche suono attraverso i denti, ma l'unica domanda che fece fu: «Otto chili?»

«Sì, otto chili.» Di certo non erano gli stessi chili della roba cui era abituato.

«Otto chili di cosa, Nikolai?» Abbassò le spalle e il viso gli si rabbuiò. Era evidente che non aveva capito una parola di quanto avevo scritto tranne 8 kg. Aveva imparato a parlare inglese dalla TV, ma non sapeva leggerlo. Forse avrebbe dovuto passare più tempo a guardare Sesame Street e un po' meno NYPDBlue.

«Facciamo che io dico quello che mi serve e tu lo scrivi, va bene?» Non volevo metterlo in imbarazzo, e poi qualsiasi cosa pur di fare in fretta.

Adesso che avevamo trovato una via di uscita, sorrise. «Molto figo, tu parli io scrivo.»

A metà dettatura dovetti fermarmi per spiegare che cos'era un detonatore. Pochi minuti dopo si fermò. Impugnava la penna come i bambini piccoli, e quando la lingua fu rientrata in bocca, assunse un'aria molto soddisfatta di sé.

«Okay. Molto figo.» Si alzò contemplando la sua opera d'arte. Si sentiva molto importante. «Aspetta qui, Nikolai, amico.» Sparì attraverso la porta vicino al caminetto.

Qualche secondo dopo mi giunse una voce molto più vecchia che scoppiava a ridere. Non sapevo se fosse un buon segno. Evitai di guardare chi c'era; se a prendere la decisione era la voce più vecchia, spiarlo non sarebbe servito a nulla, se non a fargli girare le palle e rendere la mia vita ancora più incasinata di quanto già non fosse.

Sentii un rumore di passi sulle scale, accompagnato da sprazzi di conversazione secca e aggressiva che cresceva di tono man mano che salivano. Dissi a me stesso di non preoccuparmi, anche se il mio cuore prese a battere più forte mentre cercavo di capire se nel gruppo c'era Falegname.

Anche quando le voci si fecero distinte non riuscii a capire se erano incazzati o se quello era semplicemente il loro modo di parlare.

La porta si spalancò e guardai i Bravi Ragazzi entrare uno alla volta, pronti ad afferrare la bottiglia di Johnny Walker e sbatterla sulla testa di qualcuno.

Falegname non c'era. Erano gli stessi giocatori della mattina. Si tolsero i giacconi di pelle e i berretti. Il più vecchio, che aveva un sacchetto, tenne in testa il suo affare cosacco di pelliccia.

Rimasi dove mi trovavo. Il cuore mi batteva ancora più in fretta per il sollievo. Appallottolai la prima lista e me la infilai in tasca.

Attraversarono la stanza senza il minimo cenno di saluto. Solo il più vecchio, quello con il colbacco di pelliccia, sbraitò qualcosa e con la mano mi fece capire di allontanarmi dal tavolo e portare via il culo dalla sua sedia. Mi alzai e mi spostai. Non me ne fregava un cazzo, ero lì per altre cose, non per fare il duro.

Dalla finestra osservai il traffico in coda alla frontiera. Adesso che i fari accesi distribuivano nella zona un chiarore biancastro, sembrava sempre di più la scena di un film. Non avrei potuto dire la stessa cosa sull'illuminazione del lato del fiume dove mi trovavo io.

Adesso tutti e quattro erano seduti al tavolo. Si scolarono quello che restava del whisky e cominciarono a calmarsi. Continuarono a parlare, coprendo la sparatoria a basso volume che Kirk stava vincendo dall'altro lato della stanza. Il più vecchio tirò fuori dal sacchetto pacchi di salsicce e pane di segale e li buttò sul tavolo. Gli altri cominciarono ad aprire le confezioni di salsicce e a strappare pezzi di pane.

Li osservai. Mi venne fame ma immaginai di non essere nell'elenco degli invitati.

Dato che le teste facevano dei cenni e lanciavano rapide occhiate nella mia direzione, fu chiaro che l'argomento della conversazione ero io. Uno dei ragazzi disse qualcosa e mi guardarono tutti. Dopo quella che doveva essere una battuta ci furono delle risatine. Poi l'atmosfera tornò seria e tutti ripresero a mangiare.

Continuai a far finta di guardare dalla finestra e di non essermi accorto di quello che avveniva alle mie spalle.

Sentii il rumore di una sedia che veniva spostata sul pavimento di legno, poi il rimbombo di passi di uno di loro che si avvicinava. Mi voltai e sorrisi al vecchio con il colbacco, guardandolo alla luce della TV che lo illuminò quando passò davanti allo schermo. Mi era di fronte, ma continuava a parlare agli altri, e aveva un'espressione estremamente seria. Non era un altro scherzo. Sollevò l'indice e avvicinandosi me lo puntò contro, come per dare più forza a qualsiasi cosa stesse farfugliando. Guardai a terra in segno di sottomissione e mi voltai leggermente verso la finestra.

Quando fu a meno di una trentina di centimetri cominciò a colpirmi la schiena e a urlarmi nelle orecchie. Mi voltai e lo guardai, confuso e spaventato, poi abbassai lo sguardo, come avrebbe fatto Tom. Puzzava di aglio e alcol e continuava a spingere e a parlare sputacchiando. Alcuni pezzetti di salsiccia mi colpirono il volto. La sua faccia, una maschera di rughe con la barba di un giorno, adesso si trovava a pochi centimetri dalla mia, e la pelliccia del berretto mi sfiorava la fronte. Mi urlò di nuovo rabbiosamente contro.

Decisi di non reagire. Non mi spostai né mi pulii dalla schifezza che avevo in faccia per non alimentare l'ostilità. Mi limitai a rimanere fermo, lasciando che continuasse, come facevo a scuola quando gli insegnanti diventavano violenti. Non era una situazione che mi facesse paura; sapevo che nel giro di poco si sarebbero stancati e avrebbero lasciato perdere, per cui lasciamoli divertirsi, così poi ce ne possiamo andare a casa. Uno degli atteggiamenti che mi avevano incasinato la vita.

Spostai la mano sinistra verso la finestra per mantenere l'equilibrio. Adesso mi stavano arrivando colpi a quattro dita. Dopo ogni stoccata il mio corpo si piegava all'indietro.

Guardai di traverso, riuscii a vedere gli altri tre al tavolo, le sigarette che brillavano nella penombra. Lo spettacolo di cabaret era di loro gradimento.

Le urla e il fiato puzzolente proseguirono.

Cercai di mostrarmi molto spaventato e balbettai: «Sono qui per Otto...V-v-v-osjem'».

Mi fece il verso: «V-v-v-osjem'». Si voltò verso il tavolo, mimò il gesto d'iniettarsi qualcosa nel braccio e scoppiò a ridere insieme con gli altri tre.

Si rigirò e mi diede l'ultima spinta verso la finestra. La incassai e recuperai l'equilibrio mentre lui tornava alle sue salsicce all'aglio. Mentre fingeva di sniffare una dose dal dito indice, con l'accompagnamento di altre risate, era evidente che parlava di me. Lasciamoglielo credere. L'esibizione era finita. Ma Otto dove cazzo era andato?

Ripresi a guardare fuori dalla finestra, pulendomi con molta calma la faccia dalla porcheria che si era appiccicata sopra. Le tavole del pavimento ricominciarono a risuonare di passi che venivano verso di me. Stava tornando per il bis.

Mi si avvicinò di nuovo e mi diede una spinta con entrambe le mani. Mi stava prendendo per il culo. Si divertiva un casino. Forse si stava liberando di qualche frustrazione. Gli altri ridevano mentre indietreggiavo sotto i colpi, cercando di sostenermi alla cornice della finestra, sempre senza opporre resistenza, guardando con aria da scemo il pavimento, per avere un aspetto ancor meno minaccioso.

A ogni colpo si faceva più cattivo e a quel punto cominciai a incazzarmi. Dopo un colpo particolarmente forte barcollai verso la TV. Mi seguì, i colpi adesso inframmezzati da sberle sulla nuca. Continuavo a tenere la testa bassa, non volevo che mi leggesse negli occhi quello che stavo realmente pensando. Continuava a ripetere la stessa parola, senza sosta, poi iniziò a indicare i miei stivali. Voleva i miei soldi e i miei Timberland? I soldi potevo capirlo, ma gli stivali?

La situazione stava andando fuori controllo. Se avevo capito bene e se mi avesse tolto gli stivali, avrebbe avuto molto più di quanto poteva immaginare. Non potevo permettere che accadesse.

Alzai le mani in segno di resa. «Stop! Stop! Stop!»

Si fermò, in attesa del contante.

Infilai lentamente una mano nella tasca interna della giacca e tirai fuori la mia polizza di assicurazione, ancora dentro la sua protezione. Guardò il preservativo e poi me, strizzando gli occhi. Sciolsi il nodo e infilai due dita all'interno.

Mi abbaiò contro una domanda, poi, urlando qualcosa rivolto agli altri, afferrò il preservativo ed estrasse con violenza il contenuto.

Srotolò il sottile pezzo di carta, quasi strappandolo, si voltò verso il tavolo e lo sventolò come se fosse stata la sorpresa di un cotillon natalizio.

Si piegò per ricevere luce da Kirk in groppa al suo cavallo e spinse il biglietto davanti allo schermo. Come cominciò a leggere, la risata andò affievolendosi. Poi cessò del tutto. Qualsiasi cosa dicesse il biglietto, stava facendo il suo effetto.

Si avvicinò agli altri, borbottando con aria sconvolta: «Ignaty. Ignaty».

Non avevo idea di quello che voleva dire, ma francamente me ne sbattevo. Tutti lo lessero e su tutti sembrò avere l'identico effetto. Voltarono lentamente la testa e mi fissarono. Unii le mani di fronte a me, per non avere un'aria minacciosa. Che la polizza avesse funzionato era buono, ma forse adesso avrei dovuto fare i conti per avergli fatto perdere la faccia. C'è gente che quando accadono cose del genere ha questo cazzo di problema e continua a colpire per ritorsione, senza curarsi delle possibili conseguenze, solo perché il suo orgoglio è stato ferito. Non potevo permettermi di buttare benzina sul fuoco assumendo un'aria strafottente, non ero ancora fuori dai guai. Mi avvicinai al tavolo, con aria rispettosa, tesi la mano sinistra, facendo attenzione che non spuntasse il Re Leone. Non avrebbe aiutato a migliorare la mia reputazione. Indicai il pezzo di carta. «Prego.»

Forse non conosceva la parola, ma comprese perfettamente quello che volevo. Me lo porse, detestando ogni secondo che impiegava a compiere quel gesto. Io lo piegai con cura e lo rimisi in tasca. Non era il momento di infilarlo nel preservativo. «Grazie.» Chinai appena la testa e, con il cuore che andava a mille come se stessi infilando a forza petrolio greggio nelle arterie, mi voltai e tornai verso la TV.

Mi sedetti nel modo più disinvolto che mi riuscì sulla sedia davanti allo schermo e guardai Kirk che domava il selvaggio West, sporgendomi in avanti per riuscire ad ascoltare quello che accadeva nel deserto. Il miei battiti cardiaci erano più forti della TV.

Una volta che fossi stato lontano avrebbero ripreso a urlare, ma per il momento alle mie spalle si udivano solo mormorii indistinti. Dove cazzo era Otto? Non volevo voltarmi né guardare in direzioni diverse dallo schermo. Sedevo come un bambino che, all'ora di andare a letto, pensa di non essere visto se rimane immobile e concentrato.

Continuarono a borbottare, mentre il collo della bottiglia batteva sui bicchieri per aiutarli a inghiottire la rabbia. Tenevo gli occhi sullo schermo e le orecchie su di loro.

Cinque minuti dopo, esattamente quando Kirk si trovava sul punto di salvare la ragazza, Otto rientrò nella stanza lottando per chiudere la lampo del giaccone di finta pelle. Non capii quello che stava dicendo ma capii che ce ne stavamo andando. Bisbigliai una preghiera silenziosa di ringraziamento, mi alzai e cercai di non mostrare troppo il mio sollievo.

Otto andò verso la porta e io, passando vicino al tavolo, gratificai i quattro di un inchino rispettoso prima di seguirlo per le scale alla velocità del suono.

35

Quando scorse la sua adorata Lada nel parcheggio pieno di traffico, Otto diventò un orsacchiotto felice.

«Adesso dove si va, Vosjem'?»

«Un isolato.» Aveva già aperto il cofano della Lada.

«Un isolato?»

«Sì, cioè, un appartamento.»

Al motorino d'avviamento venne ricordato il suo ruolo con un paio di colpi metallici.

Alla fine la Lada si mise in moto e Otto uscì dal parcheggio. Svoltò a destra, verso l'incrocio a rotonda. Davanti alle porte dei komfort baar, sotto i neon, stazionavano tizi giganteschi che controllavano il commercio notturno. Sulla rotonda girò a sinistra, in direzione opposta al fiume, e passammo davanti ad altri locali e camion parcheggiati.

Le luci dei bar andarono scemando e il buio ebbe il sopravvento. Adesso la strada era fiancheggiata da condomini e piccole fabbriche, inframmezzate da piloni e carcasse cadenti di edifici in muratura.

Dopo un'aspra lotta con due camion che cercavano di superarsi inondandoci di ghiaccio e neve, svoltammo a sinistra senza mettere la freccia, e poi ancora in una strada stretta con abitazioni sulla sinistra e un alto muro sulla destra.

Otto accostò bruscamente la Lada e saltò fuori. «Aspettami qui, amico.»

Schivò l'immancabile gamba di un pilone e puntò all'ingresso principale di uno degli edifici. Si fermò, controllò il numero e sollevò il pollice, poi tornò per chiudere a chiave la Lada. Uscii e aspettai.

M'infilai in un corridoio freddo, male illuminato e così stretto che sarebbe bastato allargare le braccia per toccare contemporaneamente i due muri opposti. Al di là della parete si sentiva un rumore di macchinari forte e continuo. La puzza di cavolo bollito era fortissima. I muri erano dipinti di blu, tranne nei punti in cui si erano staccati grossi pezzi d'intonaco. Nessuno si era preso la briga di pulire. Le porte degli appartamenti, un'unica lastra metallica con tre serrature e uno spioncino, erano così piccole che per entrare ci si doveva abbassare.

Aspettammo l'ascensore accanto a file di cassette della posta in legno. Molti sportelli erano stati scardinati, altri erano semplicemente aperti. Mi sarei sentito più tranquillo a passeggiare in una prigione sudamericana.

Il muro accanto all'ascensore era ricoperto da una quantità di avvisi e cartelli scritti a mano in russo. Per lo meno, mentre in sottofondo si udiva il gemito della cabina all'interno del condotto, avevo qualcosa da guardare.

Il marchingegno si fermò con un sussulto e le porte si aprirono. Entrammo in una scatola di alluminio. In ogni possibile punto di contatto con stivali e scarponi, il rivestimento era ammaccato. A quella di cavolo si sostituì la puzza di urina. Otto premette il tasto del quarto piano e partimmo ondeggiando verso l'alto. Ogni mezzo metro l'ascensore si bloccava, come se non si ricordasse la destinazione, e poi ripartiva. Non so come, raggiungemmo il quarto piano e le porte si aprirono su un buio quasi totale. Lo lasciai uscire per primo. Voltò a sinistra, inciampò, e quando lo raggiunsi capii il motivo: sul pavimento stava rannicchiato un ragazzino.

Le porte si richiusero fragorosamente e la poca luce diminuì ulteriormente. Mi accucciai per esaminare il piccolo corpo infagottato da due o tre maglioni malamente lavorati ai ferri. Vicino alla testa c'erano due sacchetti di patatine vuoti, e tra le narici e le labbra pendeva uno spesso strato di muco secco. Respirava e non sembrava ferito, ma anche alla luce incerta della lampadina al soffitto era evidente che stava di merda. La pelle intorno alla bocca era coperta da una selva di foruncoli e dalle labbra colava un filo di saliva. Doveva avere la stessa età di Kelly. Me la ricordai di colpo e fui investito da un'ondata di emozione. Finché c'ero io non le sarebbe successo niente del genere. Finché c'ero io... mi sembrò di vedere l'espressione della dottoressa Hughes.

Otto osservò il ragazzo con assoluto disinteresse. Diede un calcio ai sacchetti vuoti, si voltò e riprese a camminare. Spostai il piccolo lontano dall'uscita dell'ascensore e lo seguii.

Svoltammo a sinistra in un lungo corridoio. Otto tirò fuori dal giubbotto un mazzo di chiavi canticchiando un motivo rap. Giungemmo alla porta in fondo e dopo qualche tentativo di scoprire quale fosse la chiave giusta riuscì ad aprire. Poi cercò a tastoni l'interruttore della luce.

L'ambiente nel quale entrammo non era, senza possibilità di errore, quello da cui proveniva la puzza di cavolo. Si avvertiva l'odore forte di casse di legno e di olio per armi, un odore che avrei riconosciuto ovunque. Se l'aroma di madeleine appena sfornate riportava l'infanzia alla mente di Proust, questo riportava me al primo giorno nell'esercito, anno 1976, quando ero un ragazzo-soldato. Meglio le madeleine.

L'immancabile monolampadina illuminava un minuscolo ingresso, non più di due metri quadrati, sul quale davano due porte. Otto prese quella di sinistra e io gli andai dietro, dopo essermi richiuso la porta di entrata alle spalle e aver girato tutti i chiavistelli.

Dal soffitto pendeva un lampadario che avrebbe rappresentato l'orgoglio di ogni famiglia degli anni '60. Delle quattro lampadine che conteneva ne funzionava una sola. La piccola stanza era piena di casse di legno, scatole di cartone cerato e materiale esplosivo sciolto, il tutto con scritte in cirillico. L'aspetto generale era molto Ciad, un Ciad con data di scadenza pericolosamente passata da un pezzo.

Vicino a me c'era una pila di casse di legno con maniglie di corda. Sollevai un coperchio e riconobbi immediatamente gli oggetti a forma di padella color verde spento. Con un ghigno che gli andava da un orecchio all'altro, Otto fece il rumore di un'esplosione agitando le mani nell'aria. Sapeva anche lui che si trattava di mine terrestri. «Visto, amico, ti ho procurato quello che volevi. Soddisfatto o rimborsato, giusto?»

Mi limitai ad annuire continuando a guardarmi intorno. Per terra c'era una gran quantità di altra attrezzatura avvolta in carta oleata militare. In giro c'erano cartoni impilati uno sull'altro che l'umidità aveva fatto crollare rovesciando il contenuto sul pavimento. In un angolo era ammonticchiata una mezza dozzina di detonatori elettrici, tubi di alluminio della grandezza di una sigaretta fumata per un quarto con due fili d'argento lunghi una trentina di centimetri che uscivano dal fondo. I due cavetti d'argento erano sciolti, non attorcigliati insieme, il che era piuttosto pericoloso: significava che erano pronti a funzionare come antenne in presenza di una qualsiasi forma di elettricità - onde radio, ad esempio, o energia di un telefono portatile - e quindi a esplodere, probabilmente insieme con il resto della merda lì intorno. Quel posto era un incubo. Come se ai russi non importasse un cazzo di dove fosse finita tutta quella roba all'inizio degli anni '90.

Sollevai i detonatori, uno per volta, e avvolsi insieme i cavetti per chiudere il circuito. Quindi feci un giro fra il resto della roba, e aprii altri cartoni. Otto mi imitò, forse per farmi capire che anche lui sapeva il fatto suo o forse solo per curiosità. Lo presi per un braccio e scossi la testa. Non volevo che giocasse con queste cose. Non mi sarebbe dispiaciuto uscire di lì con tutti i miei pezzi in ordine e senza che lui ci lasciasse qualche altro dito.

Ci rimase male, così una volta finito di sistemare i detonatori e dopo averli messi in un cartone per munizioni vuoto, tirai fuori la polizza per dargli qualcosa da fare. «Che cosa dice Vosjem'?» Immaginavo che la sua lingua sapesse leggerla.

Mentre si spostava sotto la luce, individuai della miccia verde scuro. Non era nelle solite bobine da duecento metri come avrei preferito; sembravano essercene due metri qua e altri dieci metri là e alla fine scovai una bobina usata solo in parte che conteneva ancora ottanta o novanta metri di miccia. Potevano bastare.

Trasportai la bobina da una parte e cominciai a controllare le altre stanze. Fu piuttosto semplice perché avevano tutte più o meno la dimensione di uno sgabuzzino per le scope; c'era un cucinino-bagnetto-piccolo-cesso e una camera da letto ancora più piccola. Cercavo esplosivo al plastico, ma non ce n'era. L'unico esplosivo al plastico era contenuto nelle mine anticarro, e di quelle ce n'erano abbastanza da garantirmi il T come Tanto.

Tornai alla stanza principale e da un cartone aperto ne sollevai una. Erano del tipo TM40 o 46, mai che riuscissi a ricordare come si chiamava una e come si chiamava l'altra; però sapevo che una era fatta di metallo e l'altra di plastica. Queste erano del tipo in metallo, con un diametro di circa trenta centimetri e un peso di una decina di chili, di cui oltre la metà era esplosivo al plastico. Avevano la forma dei vecchi scaldini da letto in ottone, come quelli che si trovano appesi alle pietre del camino accanto ai finimenti per i cavalli, nei pub di campagna. Al posto del manico di scopa, avevano una maniglia di metallo staccabile, simile a quelle laterali delle gavette.

Sarebbe stata una bella rottura di coglioni far uscire l'esplosivo al plastico da questi aggeggi, ma cos'altro potevo aspettarmi?

Appoggiai le mine sul pavimento e provai a svitare il tappo, al centro della parte superiore. Prima di posizionarla l'unica cosa che si doveva fare era sostituire il tappo con un congegno per la detonazione, di solito costituito da spoletta e detonatore, poi allontanarsi di parecchio e aspettare un carro armato.

Quando finalmente riuscii a smuoverla, scrostando anni di sporcizia che avevano formato una specie di sigillo, mi resi subito conto che si trattava di materiale d'ordinanza molto vecchio. L'odore di marzapane mi colpì le narici. L'esplosivo verdastro era andato fuori moda di recente. Funzionava ancora, il suo mestiere sapeva ancora farlo, e tuttavia la nitroglicerina faceva saltare non soltanto i carri armati ma anche la testa e la pelle di chiunque la manipolasse. A trattarla in un luogo chiuso ti garantivi un mal di testa fortissimo e un dolore intollerabile se ti finiva per sbaglio su una ferita. Stavo già prendendo abbastanza aspirine per non doverci aggiungere anche questo.

Otto era molto eccitato. «Ehi, Nikolai, questo foglio è davvero figo.»

«Che cosa dice?»

«Prima di tutto, lui si chiama Ignaty. Poi dice che tu sei un suo uomo. Che tutto quello di cui hai bisogno deve esserti dato. Ti protegge, amico.» Mi guardò. «Poi va giù più pesante. Dice: 'Se non aiuti il mio amico, ti uccido la moglie; e dopo che avrai pianto per due settimane, ti ucciderò i figli. Due settimane più tardi, ucciderò te'. Questa è merda bella spessa, amico.»

«E chi è Ignaty?» N

Scrollò le spalle. «È il tuo uomo, dico bene?»

No, non lo era, era l'uomo di Val. I giocatori di carte avevano riconosciuto con certezza il nome, su questo non c'era il minimo dubbio. Ripresi la polizza dalle mani di Otto e la infilai nella tasca della giacca. Adesso capii a cosa si riferiva Liv quando aveva detto che quelle subite da Tom rendevano le minacce degli inglesi roba da scolaretti. Nessuna meraviglia, quindi, che avesse tenuto la bocca chiusa e avesse fatto quello che doveva.

Portammo insieme diverse casse fino alla macchina, oltrepassando il bambino che giaceva sempre dove l'avevo spostato io. Dopo l'ultimo viaggio Otto richiuse la porta dell'appartamento e ci fermammo accanto alla Lada con il ronzio della fabbrica in sottofondo. Lui sarebbe andato a piedi perché voleva passare a trovare un amico.

Lo salutai, e dentro di me provai pena per lui. Come tutto il resto in quel Paese, anche lui ce l'aveva nel culo.

«Grazie tante, amico, un paio di giorni e ti riporto la macchina.»

Gli strinsi la mano gelida e afferrai la maniglia della portiera mentre lui si allontanava.

Poi mi urlò dietro. «Ehi, Nikolai», il tono della voce aveva perso un po' di baldanza. «Potrei... posso venire in Inghilterra con te?»

Non mi voltai, volevo solo andarmene per la mia strada. «Perché?»

«Potrei lavorare per te. Il mio inglese è forte.»

Sentii che si stava avvicinando. «Lasciami venire con te, amico. Sarà molto figo. Voglio venire in Inghilterra e da lì andare in America.»

«Sai una cosa? Ne riparliamo non appena torno, d'accordo?»

«Quando?»

«Te l'ho detto, tra due giorni.»

Mi strinse di nuovo la mano con tutte le dita che gli restavano. «Figo, ci vediamo presto, Nikolai. Sarà molto figo. Venderò la macchina, e... e mi comprerò dei vestiti nuovi.»

Mentre mi salutava era come se ballasse lungo la strada, tutto preso a immaginare la sua nuova vita. Io nel frattempo prendevo a martellate il motorino d'avviamento. Poi feci una mezza inversione e tornai alla strada principale, oltrepassando Otto.

Avevo fatto un centinaio di metri quando fermai l'auto e inserii la retromarcia. Cazzo, non potevo farlo.

Indietreggiai abbassando il finestrino. Otto si sbracciò con un gran sorriso. «Che succede, amico?»

«Mi dispiace, Vosjem', non posso portarti, mi corressi, anzi non voglio portarti in Inghilterra.»

Il viso e le spalle crollarono. «Perché no, amico? Perché no? Amico, hai appena detto...»

Mi sentii un pezzo di merda. «Non ti farebbero entrare. Sei russo. Hai bisogno del visto e tutto il resto. E anche se ti facessero passare, non puoi stare con me. Non ho una casa e non ho un lavoro da offrirti. Mi dispiace, ma non posso e non voglio farlo. Questo è quanto, amico. Ti porterò la macchina tra due giorni.»

Era tutto. Tirai su il finestrino e puntai di nuovo verso il centro della città. Da lì avrei saputo dov'ero e mi sarebbe stato più facile imboccare la Narva-Tallinn.

Potevo mentirgli, ma ricordavo bene tutte le gite che i miei genitori mi avevano promesso da bambino, e tutti i regali che dovevo ricevere, le magnifiche vacanze che avrei dovuto fare e tutto il merdosissimo resto che non era mai arrivato. Lo dicevano solo per farmi star buono. Non avrei mai potuto permettere che Otto andasse su di giri, che bruciasse i ponti dietro di sé, e tutto per niente. Aveva ragione Liv: a volte è meglio sbattere in faccia alle persone la cruda verità.

In paese ritrovai i miei punti di riferimento e puntai verso ovest. La mia destinazione era una camera d'albergo in cui dedicarmi alla preparazione del materiale che avero nel baule.

Continuava a dispiacermi per Otto; non tanto per averlo scaricato, era la cosa giusta da fare, ne ero convinto, ma per il futuro che lo aspettava. Merda totale.

Apparve una stazione di servizio, identica a quella di Tallinn, molto blu e molto pulita, splendente e fuori posto come una navicella spaziale. Mi fermai e feci il pieno. Parcheggiai a lato dell'edificio, e andai a pagare. I due benzinai erano convinti di essere in presenza del primo contrabbandiere della serata.

Ero l'unico cliente. Nel negozio un piccolo settore era dedicato agli accessori per auto; il resto era occupato da birre, cioccolata e carne. Presi cinque cavi da rimorchio, tutti quelli che c'erano, gli otto rotoli di nastro isolante nero in esposizione, e un attrezzo multiuso che probabilmente si sarebbe rotto la seconda volta che lo usavo. Per ultimo, presi una torcia con due set di pile e due di quelle piccole rettangolari con i contatti in cima. Non riuscii a pensare ad altro che potesse servirmi, se non ancora cioccolata, carne e un paio di lattine di aranciata frizzante.

Il ragazzo cui pagai il conto aveva più foruncoli all'esterno del cranio che cellule cerebrali all'interno. Era tutto intento a calcolare il resto, anche se il registratore di cassa lo riportava scritto. Alla fine mi porse i sacchetti; feci capire che ne volevo ancora. «Ancora? Ancora?»

Furono necessari alcuni secondi di mimo e l'aggiunta di un paio di monete, ma alla fine uscii con una mezza dozzina di sacchetti.

Era l'ora di cioccolata e carne. Sedetti in macchina con il motore acceso e mi riempii la bocca guardando la strada. Sul lato opposto, da un cartellone pubblicitario che occupava tutta la parete di un edificio, Mr Bean mi sorrideva con un'espressione da mormone e mi magnificava le meraviglie delle pellicole Fuji mentre i camion mi sfrecciavano davanti. Non riuscivo a prendermela, anch'io avevo fretta di lasciare la città.

Mangiai tutto quello che avevo comprato, e con un po' di nausea mi ricongiunsi al caos della strada. Ero diretto a Voka, una città della costa settentrionale tra Narva e Kohtla-Järve, dove avrei preparato l'occorrente per l'attacco dell'indomani pomeriggio. Avevo scelto Voka solo perché mi piaceva il nome, e anche perché, dal momento che si trovava sulla costa, pensavo ci fossero maggiori possibilità di trovare una stanza.

36

Voka si rivelò esattamente come mi aspettavo, una piccola stazione climatica attraversata da un'unica strada principale. Durante il periodo sovietico doveva essere stata una località alla moda, ma da quello che potevo vedere alla luce dei fari e dei pochi lampioni funzionanti, adesso aveva un aspetto stanco e decaduto, l'equivalente estone di una di quelle località marittime d'epoca vittoriana che avevano raggiunto la data di scadenza negli anni 70, quando tutti presero a volare a Benidorm, in Spagna. All'epoca in cui i russi avevano fatto fagotto, qualche anno prima, anche Voka era scaduta e il suo tempo era finito. In giro non c'era nessuno. Probabilmente se ne stavano tutti incollati davanti alla televisione, a guardare un altro film di Kirk Douglas.

Percorsi a bassa andatura la costa, con il Baltico sulla sinistra e la macchina che sbandava per il vento che veniva dal mare. Le finestre illuminate nei palazzi alla mia destra non erano molte, solo l'occasionale bagliore di qualche TV.

Alla fine trovai un hotelli vista mare. A una prima occhiata, più che un alberghetto mi era sembrato un condominio di quattro piani. Poi avevo visto la piccola insegna intermittente sulla sinistra della porta a doppi vetri. Chiusi la Lada mentre le onde s'infrangevano sulla spiaggia alle mie spalle, di qualsisai tipo fosse, e il vento m'investiva il giaccone e i capelli.

L'illuminazione della hall rischiò di accecarmi. Era come entrare in uno studio televisivo, e faceva quasi altrettanto caldo. Da qualche parte un televisore blaterava in russo. Ormai riuscivo a cogliere abbastanza bene le intonazioni.

Il suono proveniva da un punto davanti a me. Percorsi il corridoio finché non ne individuai la fonte. Alla base di una rampa di scale, incastonata nel muro all'altezza del petto, c'era una finestra scorrevole. Dietro la finestra sedeva una donna anziana, incollata allo schermo di un vecchio apparecchio in bianco e nero.

Prima di riuscire ad attirare la sua attenzione ebbi tutto il tempo di studiarla. Indossava pantofole e pesanti calzettoni di lana, un grosso cardigan nero, uno sgargiante vestito a fiori e un cappello di lana fatto all'uncinetto.

Guardava la TV e prendeva cucchiaiate di minestra grumosa da una scodella che aveva l'aspetto di una grossa insalatiera. La televisione aveva per antenna una gruccia per abiti, cosa che da queste parti sembrava la regola. Mi fece venire in mente quando ero costretto a ballare intorno alla stanza con un'antenna in mano in modo che il mio patrigno potesse guardare le corse dei cavalli. Forse è per questo che non avevo mai seguito Blue Peter.

Alla fine si accorse di me, ma non si preoccupò di salutare e neppure di chiedermi cosa volevo. Sorrisi e indicai educatamente un pezzo di carta appeso al vetro che doveva essere il listino prezzi.

«Posso avere una stanza per piacere?» Chiesi con il mio miglior accento australiano. Mi stavo affezionando all'imitazione di Crocodile Dundee. Ma con lei era sprecata.

Dalla scala in legno provenne uno scalpiccio seguito dall'apparizione di una coppia. Entrambi portavano lunghi cappottoni. Lui era un tipo piccolo e magro intorno alla cinquantina, con un principio di calvizie sul cocuzzolo e il resto dei capelli neri lisciato all'indietro con la brillantina, secondo l'acconciatura che gli europei dell'Est, vai a capire perché, considerano il massimo, e un paio di baffoni spioventi. Mi oltrepassarono senza degnare né me né la vecchia di una seconda occhiata. Notai che la donna era come minimo di vent'anni più giovane di Crapa Pelata, e puzzava meno. L'odore di lui nessun deodorante avrebbe mai potuto sconfiggerlo.

La vecchia mi porse un asciugamano della grandezza di un tovagliolino da tè e un paio di lenzuola che un giorno erano state bianche. Borbottò qualcosa, sollevò in aria prima un dito e poi due. Forse mi stava chiedendo quante notti. Alzai un dito solo.

Annuì e scrisse dei numeri che immaginai fossero il prezzo. Centocinquanta EEK per notte, circa dieci dollari. Un affare. Non stavo nella pelle all'idea di vedere la stanza. Le allungai i soldi e lei posò la chiave, attaccata a una tavoletta di circa dieci centimetri, larga otto e spessa quattro, sopra le banconote e tornò alla sua minestra e alla sua TV. Non sarebbe stata lei a insegnarmi come si dice «buona giornata» in estone.

Salii le scale e trovai la stanza numero 4. Era più grande di quanto non avessi immaginato, ma decisamente dozzinale. C'erano un armadio in truciolato coperto di formica scura, tre coperte pelose appoggiate sul materasso macchiato, due vecchi cuscini sporchi di saliva. Fui sorpreso di trovare nell'angolo un piccolo frigo. Mi accorsi che non era in funzione, ma evidentemente bastava per guadagnare una stelletta in più da parte del Centro turistico estone. Accanto, appoggiata sopra un tavolino di formica, una TV stile anni '70, anch'essa scollegata. La moquette, di quella molto resistente, da uffici, era bicolore, marrone scuro ed ex panna. La carta da parati era piena di bolle e macchie di umido che facevano cornice al disegno. Ma il pezzo forte era un divanetto d'angolo con un tavolino basso fornito di un largo portacenere triangolare di vetro spesso, che sarebbe stato l'orgoglio di ogni pub. La copertura del divano era molto macchiata e il tavolo aveva bruciature di sigaretta su tutto il bordo. La stanza era fredda ed era evidente che riscaldarla era a discrezione del cliente.

A destra della porta c'era il bagno. Lo avrei controllato dopo. Per prima cosa mi piegai su uno dei due caloriferi elettrici. Era un affare piccolo e quadrato a tre elementi, accanto al letto. Inserii la spina, feci scattare l'interruttore e gli elementi iniziarono a scaldarsi, riempiendo l'aria dell'odore acre della polvere che brucia.

Il secondo calorifero, più vicino alla finestra, era un modello più elaborato e decorativo, con due elementi allungati e, sopra di essi, un finto ciocco di plastica nero su sfondo rosso. Non ne vedevo uno da quando avevo sette anni, in casa di mia zia. Attaccai anche questo e rimasi incantato a guardare le lampadine rosse che si accendevano dietro la plastica e il disco del fondale che ruotava per completare l'effetto fiamma. Quasi meglio della televisione.

Andai in bagno. Alle pareti e sul pavimento, piastrelle in maggioranza marroni, ma anche alcune rosse e blu, che avevano sostituito quelle rotte ai tempi in cui quelle rotte si sostituivano ancora. Evidentemente negli ultimi anni la politica della direzione era cambiata.

Sul muro sopra la vasca c'era un'altra stufetta elettrica a due elementi, oltre che un vetusto scaldabagno a gas di forma ovale con la fiamma d'accensione bene in vista, da cui partiva un lungo rubinetto girevole d'acciaio con il quale si poteva riempire sia la vasca sia il lavandino. Mi aspettavo il peggio, ma quando girai la manopola la fiammella si trasformò in una fiammata, accompagnata dal giusto sonoro. Provai invidia. Ne volevo uno anche a casa mia. L'acqua diventò immediatamente bollente e questa era una buona notizia: presto me ne sarebbe servita molta. Chiusi il rubinetto e tornai in camera, dove le stufe stavano cominciando a produrre il loro effetto. Spostai le tende e guardai in direzione del mare. Non vidi niente, solo neve che volteggiava alla luce della finestra.

Richiusi le tende e andai a scaricare la macchina. Per prima cosa presi una scatola di cartone con due mine e gli acquisti fatti alla stazione di servizio. Mentre andavo avanti e indietro, la vecchia non sollevò mai lo sguardo: o sapeva bene che era meglio non impicciarsi degli affari dei clienti o era davvero molto presa dal telefilm di Batman, una serie degli anni '60 doppiata in russo.

Di ritorno in camera, aprii l'acqua nella vasca, riducendo il flusso a un filo. Con l'aiuto di un cacciavite dell'attrezzo multiuso, lavorai sui tappi delle due mine. Tolto il primo, l'odore dell'esplosivo al plastico verde mi assalì all'istante.

Tenni ciascuna mina sotto il flusso finché non furono piene d'acqua bollente, poi le deposi sul fondo della vasca in modo che l'acqua le ricoprisse interamente. Tornai alla macchina e ne presi altre due. Erano pesanti e non volevo che me ne cadesse una, con il casino che sarebbe seguito. Per portare tutto al piano di sopra mi ci vollero tre viaggi. All'ultimo giro, presi un altro giornale dal sedile posteriore e lo usai per coprire il parabrezza.

Continuai a togliere i tappi alle mine finché tutte e sei non furono nella vasca, in due strati sovrapposti. In tutto erano trentadue chili di esplosivo.

L'esplosivo sciolto veniva iniettato dentro le custodie verde militare in fase di fabbricazione e lasciato indurire fino ad assumere un aspetto di plastica quasi solida; prima di riuscire a estrarlo avrei dovuto attendere che l'acqua calda lo ammorbidisse un po'.

Tornai in camera e accesi la televisione in tempo per vedere Batman e Robin legati insieme in una gigantesca tazza da caffè. Una voce mi comunicò in americano che avrei dovuto attendere una settimana per vedere l'episodio successivo, quindi una voce russa aggiunse che non gliene fotteva un cazzo di niente di quello che succedeva.

Sollevai la bobina della miccia che assomigliava in tutto e per tutto alla corda per stendere i panni. Solo che, sotto il rivestimento di plastica, non c'era corda ma esplosivo. Con questo avrei fatto entrare in azione le due cariche che avevo intenzione di costruire con l'esplosivo al plastico, una volta che lo avessi estratto dalle mine. Con il Leatherman eliminai i primi trenta centimetri dov'era probabile che le condizioni climatiche e/o l'età avessero intaccato l'esplosivo interno. La contaminazione comunque non sarebbe dovuta arrivare oltre i primi quindici centimetri. Appoggiai la bobina accanto al letto dalla parte della finestra; da adesso in avanti avrei messo lì solo le cose pronte. Più tardi mi avrebbe preso la stanchezza e in questo modo avrei limitato la possibilità di confusione.

Senza essere annunciato, apparve sullo schermo Charlie's Angels. Mi augurai che fosse la serie con Cheryl Ladd.

Farrah Fawcett non era mai stata il mio tipo, quando ero bambino. Partì la monocorde traduzione in russo e tornai nel bagno. Il livello dell'acqua era ancora basso e il filo d'acqua bollente continuava a uscire.

Era il momento di controllare le batterie. Normali pile rettangolari con gli attacchi per i poli negativo e positivo sulla sommità, quelle che normalmente vengono usate per i giocattoli o le radioline portatili. Una di quelle si sarebbe trasformata nel congegno di accensione, erogando la carica elettrica che avrebbe attraversato il cavo, una volta che me lo fossi procurato. Il cavo avrebbe innescato il detonatore, il detonatore avrebbe acceso la miccia e la miccia avrebbe fatto esplodere le cariche. Tutto questo se la potenza della pila fosse stata sufficiente per superare la resistenza del cavo e del detonatore. Si attacca il cavo alla lampadina di una torcia: se si accende quando fai passare corrente nel cavo, vuol dire che hai la potenza necessaria per l'esplosione.

Ormai faceva abbastanza caldo per togliermi il giaccone. Presi dalla tasca interna la polizza di assicurazione; aveva l'aria un po' malconcia, così la piegai bene, cercai il preservativo, la misi dentro e la infilai nel taschino degli spiccioli sul davanti dei jeans.

A quel punto tolsi la spina alla lampada vicino al letto e tagliai il cavo vicino alla base. Mi ritrovai con un metro e mezzo di filo elettrico, non abbastanza. Avevo bisogno di trovarmi vicino all'esplosione, ma un metro e mezzo era una distanza da suicidio. Il filo del frigorifero mi regalò un ulteriore metro e mezzo.

La vasca doveva essere piena. Andai a controllare nel preciso momento in cui le Charlie's Angels, vestite come vecchiette, ma ugualmente piene di fascino e senza un capello fuori posto, stavano per infiltrarsi in un ospizio per una qualche missione segreta.

Tutte le mine erano ricoperte d'acqua calda, per cui chiusi il rubinetto. Non riuscii a trovare uno spazzolino da cesso, però c'era uno sturalavandini. Usai il manico per saggiare la consistenza dell'esplosivo al plastico. Era ancora duro.

Dei passi nel corridoio mi segnalarono che l'albergo aveva nuovi ospiti. Qualche risolino femminile e alcune parole lascive in russo provenienti da una voce maschile, poi udii sbattere la porta della stanza accanto alla mia.

Allungato sul letto a guardare le Charlie's Angels che liberavano il mondo dal male, unii i due pezzi di cavo con il nastro isolante.

Tre metri di cavo elettrico non erano ancora sufficienti. Il problema era che non avrei saputo quanto me ne serviva finché non fossi stato sul posto, e se dovevo sbagliare, meglio sbagliare in eccesso. Mi sarebbe piaciuto averne almeno un centinaio di metri, ma dove andarlo a trovare a quell'ora? L'indomani sarebbe stato troppo tardi, non avrei avuto abbastanza tempo per cazzeggiare in cerca di un negozio che lo vendesse. Dovevo arrangiarmi con quello che avevo, per cui era arrivato il momento di salutare Cheryl. Le prese erano abbastanza lontane e il cavo della TV piuttosto lungo, e alla fine, in totale, potei contare su cinque metri e mezzo di cavo.

Spenta la televisione, cominciai a seguire la storia d'amore trasmessa nell'altra stanza. Ci fu un'abbondanza di «ooh» e di «aah», qualche risatina e un po' di sberle sulla pelle nuda. Del doppiaggio non avevo bisogno.

Unii l'ultimo pezzo di filo usando il sistema a coda di maiale della Western Union. Gli operai cinesi lo usavano per riparare le linee del telegrafo abbattute nel Far West; si tratta fondamentalmente di un nodo piano, con le code all'estremità rivoltate insieme. Non solo garantisce la conduzione, ma rende anche altamente improbabile che la giuntura si stacchi.

I tre tronconi di cavo elettrico erano tutti di grandezza e di metalli differenti, ma l'unica cosa che m'importava era che conducessero energia. Avvolsi i fili di rame di un'estremità alla base della lampadina della torcia e li fissai con il nastro isolante. Ormai si trattava solo di chiudere il circuito fissando i fili di acciaio dell'altra estremità del cavo ai contatti della pila... e voilà, la lampadina si accese.

Ripetei la sequenza con l'altra pila e funzionò anche quella, almeno per il momento. Se sul posto dell'azione non avessero funzionato né l'una né l'altra e quindi non avessi ottenuto la detonazione, sarei passato al piano B. Avrei tirato fuori la bandana.

Staccai i fili dalla lampadina, collegai i due fili di rame, poi quelli d'acciaio dall'altra parte e li misi a terra contro il retro del frigorifero. Avrebbe scaricato i cavi da eventuale energia residua; l'ultima cosa che volevo era collegarli al detonatore e ottenere un'esplosione immediata. Non sarebbe stata una gran giornata di lavoro.

La matassa di cavo elettrico andò a raggiungere la bobina della miccia sul lato del letto verso la finestra e sistemai le pile sopra il televisore. Mai tenere i dispositivi d'innesco vicino ai detonatori o al resto dell'equipaggiamento: l'elemento imprevisto che può fregarti è sempre in agguato, e io non volevo correre nessun rischio. L'unico momento in cui tutti i pezzi devono stare vicini è quando sei sul punto di far brillare le cariche. Lezione che un paio di ragazzi dell'ala dura dell'IRA all'inizio degli anni '80 avevano imparato nel modo più violento.

Nella stanza accanto l'avanspettacolo era finito e adesso ci stavano dando dentro come si deve. I casi erano due: o la ragazza provava davvero piacere oppure puntava all'Oscar. Intanto il letto cercava in tutti i modi di entrare nel mio bagno.

Quando controllai le mine, l'acqua della vasca era increspata per le vibrazioni che provenivano dal muro. Prima di tirare fuori l'esplosivo al plastico dovevo aspettare ancora e per usare il tempo al meglio presi un pezzetto di carta igienica, m'infilai il giaccone e uscii nel corridoio. La scopata raggiunse il suo acme mentre posizionavo una strisciolina di carta igienica sul cardine basso, richiudendoci poi la porta sopra e controllando che spuntasse quel tanto da poter essere vista. Nell'altra stanza era sceso il silenzio. Lasciai i miei vicini alle loro sigarette e a Charlie's Angels e andai verso le scale.

La vecchia era sempre incollata alla TV. Tolsi il giornale dal parabrezza della Lada e l'aria fredda mi artigliò i polmoni. Il motore rispose controvoglia alle mie martellate, ma alla fine si accese. Sapevo come si sentiva.

37

Perlustrai lentamente la città alla ricerca di quello che mi serviva per costruire le cariche esplosive. Nel frattempo inghiottii altre quattro aspirine per combattere il mal di testa che mi era venuto a giocare con le mine.

Individuai una fila di cassonetti della spazzatura dietro una piccola schiera di negozi, mi fermai e setacciai vecchi pezzi di cartone da imballaggio, lattine e stracci. Non c'era nulla che mi potesse essere utile, tranne un pallet mezzo rotto appoggiato al muro. Tre assi, di circa un metro, finirono nel baule della macchina, mentre un cane chiuso in un negozio abbaiava tutta la sua frustrazione per il fatto di non potermi saltare addosso. Un pezzo mi sarebbe stato utile a scavalcare il muro, gli altri due a puntellare le cariche sul bersaglio.

Quando lasciai la zona in cerca di altro materiale, le luci erano spente e le tende tirate. Mi spostai in mezzo alla nebbia che saliva dal mare. Dopo dieci minuti passati a perlustrare la città fantasma, scorsi un edificio che valeva la pena vedere da vicino. All'esterno era ammucchiata della spazzatura, ma era la struttura in sé che m'incuriosiva.

Risultò essere un rifugio antiaereo, costruito ai tempi in cui si aspettavano che arrivassero da un momento all'altro i tremendi bombardieri B-52 dello Zio Sam a riempirli di confetti. Una scala di cemento scendeva sotto il pianterreno fino a una porta metallica chiusa con un lucchetto. La scala era piena di spazzatura portata dal vento e di oggetti più pesanti che erano stati scaricati dall'alto, e fu là in mezzo che trovai degli imballaggi in polistirolo. Scelsi due pezzi, di circa un metro quadrato l'uno. Gli angoli erano sollevati rispetto alla parte centrale, sagomata secondo la forma di quello che doveva proteggere; qua e là c'erano degli avvallamenti, fatti per risparmiare sul materiale e rendere più solida la struttura. Adesso avevo le basi per le cariche. Mi venne in mente quando avevo dovuto costruirmi delle mine antiuomo usando confezioni per il gelato prima di partire per l'Iraq, durante la guerra del Golfo.

L'ultima cosa che mi serviva era un mattone e in un posto del genere non sarei dovuto andare lontano per trovarne uno.

Tornai in albergo. La vecchia aveva disertato dalla sua postazione e in TV stava passando una specie di talk show russo, con il conduttore e i suoi ospiti che parlavano fra loro, l'aria molto triste. L'impressione era che fossero lì per decidere chi doveva suicidarsi per primo.

Salii le scale con il bottino sottobraccio, contento di aver trovato tutto quello che mi serviva per l'attacco. Non dovevo procurarmi altro.

La vecchia era appena uscita dalla camera a fianco alla mia e stava percorrendo il corridoio dalla parte opposta, tenendo fra le braccia delle lenzuola sgualcite. Probabilmente la stanza era affittata a ore e la stava riordinando dopo l'ultimo evento.

Con il flebile mormorio del talk show in lontananza, controllai il segnale che avevo piazzato. Era al suo posto. Aprii la porta e aspettai che il caldo mi avvolgesse.

Feci un passo dentro la stanza e capii immediatamente che qualcosa non quadrava. Le fiamme finte non danzavano sul muro. Quando ero uscito sì.

Lasciai cadere la roba che stavo trasportando. Il mattone sbatté sulla moquette e cercai di arretrare nel corridoio. Per qualche tempo fu l'ultimo movimento che feci, se si eccettua il fatto che provai a spostarmi strisciando sul pavimento. Ma beccai un colpo nelle reni che mi ricacciò a terra. Era il classico momento da stringi-i-denti-e-stattene-rannicchiato. Non c'era il tempo per respirare. Fui girato malamente e la canna di un'arma mi si schiacciò sulla faccia. Sentii il giaccone che si sollevava e una mano che mi perquisiva.

Riuscii nuovamente a raggomitolarmi, fingendo di essere mezzo morto. Poi rischiai e aprii gli occhi. Sopra di me torreggiava il più vecchio dei Bravi Ragazzi, con il suo berretto di pelliccia argentea e il cappotto di pelle nera.

Vidi anche un secondo paio di gambe, di qualcuno altrettanto vestito di nero. Adesso i due uomini mi stavano ai lati, bisbigliando animatamente e indicando la testa di cazzo stesa sul pavimento.

Li lasciai alla loro discussione e cercai di sfruttare al meglio il momento, provando a fare dei respiri profondi. Scoprii di non riuscirci. Troppo doloroso. Dovevo accontentarmi di brevi respiri ansanti, per ridurre al minimo il dolore allo stomaco.

Poi alzai lo sguardo e vidi Falegname. I nostri occhi s'incrociarono e lui mi sputò addosso. Non ero spaventato, ero solo depresso perché tutto questo stava succedendo proprio a me. Depresso a un punto tale che non avevo neanche voglia di togliermi lo sputo dalla faccia. Me ne stavo lì, e quasi non m'importava. Come aveva fatto Falegname a scoprire dov'ero? 'Fanculo, non me ne fregava un cazzo. Due individui decisamente stronzi mi avevano sbattuto per terra e non avevo idea se sarei mai stato in grado di uscire vivo da quella stanza.

Mi tirarono per le ascelle, uno per parte, e mi appoggiarono alla sponda del letto. Incrociai le braccia e mi piegai in modo da avvicinare la testa alle gambe. Volevo sembrare un uomo fuori uso, quello che non costituisce una minaccia per nessuno.

Le cose andarono diversamente. Beccai un colpo sulla parte destra della faccia che mi rovesciò sul letto. Non dovevo più fingere, mi aveva fatto male davvero.

Mi raggomitolai su un fianco, pronto a riceverne ancora. Il dolore mi straziava il corpo e un fuoco d'artificio di stelline fece del suo meglio per farmi perdere i sensi. Stavo per svenire, ma non potevo permettermelo. Compii ogni sforzo per tenere gli occhi aperti. Stavo di merda, ma sapevo che dovevo reagire o sarei morto.

Da qualche parte, sullo sfondo, i due uomini continuavano a parlare, a litigare forse, non ero in grado di stabilirlo. Rimasi immobile, respirando a scatti. Avevo gli occhi aperti e tossivo sangue sulla coperta pelosa.

La mascella scricchiolava. Controllai con la lingua e scoprii che uno dei molari si muoveva senza provocare dolore. Sul lato destro della faccia si stava diffondendo una sensazione di gonfiore anestetizzato. Come se fossi appena uscito da una seduta con un dentista psicopatico.

Avevo la testa sul letto, allo stesso livello e in linea retta con il tavolino basso. La mia vista annebbiata si bloccò sull'enorme portacenere di vetro.

Spostai la mia attenzione su Falegname e sul vecchio. Non avevano smesso di questionare neanche quando una coppia era passata davanti alla porta aperta, diretta in fondo al corridoio. Il vecchio aveva la pistola in mano, Falegname nella fondina a tracolla, che vidi quando appoggiò le mani sui fianchi e il giaccone aperto gli si spostò di lato. M'indicavano tutti e due. Probabilmente Falegname stava spiegando chi ero, o per lo meno che cosa avevo fatto.

Riuscii a capire come mi aveva colpito il vecchio. Avrebbe potuto benissimo farlo con le mani, a giudicare dalla loro grandezza, ma aveva optato per un oggetto cilindrico di pelle che aveva la forma di un grande pene finto, e che probabilmente era pieno di cuscinetti a sfera.

I due distavano un paio di metri da me, il portacenere un metro soltanto. Sembravano sempre più interessati alla loro discussione che a me. Ma non c'era dubbio: nel giro di poco avrebbero raggiunto la decisione su come uccidermi. Se Falegname aveva voce in capitolo, probabilmente con grande lentezza.

Dovevo agire, ma sapevo di aver bisogno ancora di un paio di secondi per recuperare. Ero ancora fuori fase. Dovevo suddividere l'azione in fasi, altrimenti avrei fatto casino e mi avrebbero ucciso.

Guardai di soppiatto il grosso pezzo di vetro che avrebbe potuto salvarmi la vita. Inspirai profondamente e scattai dal letto. Caricai a testa bassa le due figure in nero che avevo davanti. Mi sarebbe bastato far perdere loro l'equilibrio per un paio di secondi. Proiettai le braccia in avanti e mi avventai come un bulldozer contro i due pezzi di pelle nera. Poi, senza curarmi degli effetti ottenuti, girai la testa verso il portacenere. Un rantolo provenne alle mie spalle. Li sentii sbattere entrambi contro il muro.

Con gli occhi fissi sul pezzo di vetro sul tavolo, feci perno sulle gambe e mi slanciai in avanti. Udii delle grida soffocate. Non erano importanti come il portacenere. Se loro recuperavano troppo in fretta, o se la mia azione fosse stata troppo lenta, non lo avrei mai saputo.

Abbassai con violenza il palmo della mano come se volessi schiacciare una mosca e afferrai il portacenere. Avevo ancora il corpo voltato verso il tavolo, e i due si trovavano alle mie spalle. Ruotai il volto e mi concentrai sulla testa del vecchio, adesso senza cappello. Il mio corpo si voltò e feci tre grandi passi verso di lui, impugnando il vetro in aria come un coltello.

Mi accostai, ignorando Falegname che mi si avvicinava da destra. Quello che volevo era il vecchio, era lui che aveva la pistola in mano.

Sul suo volto non c'erano né sorpresa né paura, solo rabbia. Si scostò dal muro e sollevò l'arma.

Non gli staccai gli occhi dalla faccia. Feci ruotare il portacenere verso il basso e lo colpii appena sotto lo zigomo. La pelle gli si accartocciò sotto l'occhio, poi si strappò. Cadde con un urlo. Mentre cadeva, il suo corpo mi colpì le gambe. La Fase tre era terminata.

Più che vederla, sentii che l'ombra nera sulla mia destra mi era quasi addosso.

Non c'era una Fase quattro. Da adesso in avanti s'improvvisava. Senza preoccuparmi di guardarlo, attaccai selvaggiamente Falegname. Il vetro gli martellò contro il cranio due volte, entrambe con una forza tale che al momento del contatto il braccio mi rimbalzò all'indietro.

Gli montai sul torace e continuai a picchiarlo sulla testa. Una specie di retropensiero mi disse che stavo perdendo la ragione, ma non riuscii a fermarmi. Continuavo a pensare a come aveva continuato a sparare alla donna nell'ascensore e a quei bastardi che avevano distrutto la vita di Kelly sterminando la sua famiglia a Washington.

Per tre volte udii il suono di qualcosa che si sbriciolava, che andava in pezzi. Il suo cranio si aprì.

Sollevai la mano, pronto a colpire ancora, ma mi fermai. Era abbastanza. Dalle ferite sulla testa sgorgava un sangue marrone e spesso. Aveva perso l'uso degli occhi, che adesso erano fissi, le pupille dilatate. Il sangue fluiva sulla moquette che s'inzuppava come carta assorbente.

Ero ancora seduto a cavalcioni sopra di lui e gli posai le mani sul torace. Non ero contento di aver perso il controllo. Per sopravvivere a volte occorre eccedere. Ma perdere completamente il controllo non mi piaceva affatto.

Mi voltai a controllare l'altro. Il cazzo finto e la pistola erano sul pavimento. Anche lui era accovacciato per terra e si teneva il berretto premuto contro la guancia come se fosse una medicazione, lamentandosi fra sé. Le gambe si agitavano per inerzia sulla moquette.

Mi alzai lentamente e diedi un calcio alle armi. La pistola sembrava una 38 special a canna corta, del tipo usato dai gangster americani negli anni '30.

Gli abbassai il cappotto fino a metà braccia e lo trascinai nel bagno, passando sul corpo di Falegname. Il cappello impregnato di sangue rimase dov'era. Adesso sapevo perché lo portava sempre: soltanto qualche ciuffetto di peli gli copriva la testa.

Continuava a lamentarsi e con ogni probabilità si sentiva molto depresso, ma era vivo e questo costituiva una minaccia. Sotto lo sforzo per trascinarlo mossi la mascella e provai una fitta dolorosa, ma per lo meno il battito del mio cuore si stava stabilizzando. Non c'erano alternative, doveva morire. Non ne ero contento, ma non potevo lasciarlo lì, e in vita, quando l'indomani sarei partito per l'attacco alla base dei Maliskia. Avrebbe potuto mandare a puttane tutto quello che ero venuto a fare.

Lo lasciai andare e lui sbatté sulle piastrelle del pavimento del bagno. Aprii il rubinetto dell'acqua calda e lo scaldabagno entrò in funzione.

Adesso ero in grado di valutare bene l'entità della ferita. Un solco di due centimetri gli scavava la guancia, abbastanza largo da poterci infilare due dita dentro. Al di sotto della poltiglia di carne e sangue s'intravedeva il bianco dell'osso dello zigomo.

Fra un gemito e l'altro gli controllai il portafoglio: conteneva le solite cose. Di interessante c'erano solo i soldi, russi ed estoni; li infilai in tasca e tornai in camera.

Scavalcai ancora Falegname e afferrai la 38 e una coperta.

Alzai il cane e armai la pistola. Quando fosse giunto il momento di premere il grilletto, non volevo che il cane dovesse rientrare completamente prima di scattare in avanti ed esplodere il colpo; avrebbe potuto incagliarsi nella coperta.

Tornai in bagno e, evitando di guardarlo in faccia, infilai senza tante cerimonie la canna nella coperta e gliela appoggiai sulla testa, poi avvolsi l'arma con la pelliccia sintetica e sparai.

Ci fu un colpo sordo e poi un crac quando il proiettile, dopo avergli perforato la testa, sbriciolò la piastrella sottostante. Lasciai andare la coperta che ricadde a coprirgli la faccia e rimasi in ascolto. Dall'esterno nessuna reazione alla detonazione; quello era il tipo di posto dove non si pongono troppe domande, anche se ci fosse stata una sparatoria nella porta a fianco. Le uniche cose che i miei sensi registrarono furono il rumore dello scaldabagno e la puzza di nylon bruciato. Chiusi il rubinetto e lo scaldabagno si fermò, poi tornai in camera. Scovai il portafoglio di Falegname e m'infilai nei jeans anche i suoi soldi. La pistola era ancora nella fondina, ma non del tutto. Mi resi conto di come ero stato fortunato. Ancora una frazione di secondo e sarebbe stata tutta un'altra storia. La pistola era una Makarov, la copia russa della Walther PPK usata da James Bond, efficace solo a distanza ravvicinata, per protezione personale, perfetta se qualcuno cercava di farti il culo in un komfort baar. A distanza maggiore sarebbe stato più efficace tirargliela addosso. Per questo, in certi ambienti, la chiamano «pistola da discoteca». Decisi di tenere quella. L'impugnatura della versione russa era un po' tozza, ed era difficile mantenere una presa salda per chi, come me, aveva le mani piccole, ma era più utile della 38 special.

Il sangue di Falegname stava inzuppando la moquette. Tolsi un'altra coperta dal letto e gliela schiacciai sulla testa nel tentativo di attenuare il flusso, in modo che non filtrasse di sotto. Alla fine avvolsi la testa nella coperta.

Aprii la porta che dava sul corridoio, guardai a destra e a sinistra, poi controllai il segnale rivelatore ancora al suo posto. Perché non aveva funzionato? Perché non aveva cambiato posizione? Ebbi subito la risposta: era incollato al braghettone della porta. La striscia di gommapiuma antispiffero dovevano avercela messa ancor prima d'inventarla; gli anni l'avevano resa marrone e appiccicosa. Ne avevo imparata un'altra. I segnali rivelatori non vanno d'accordo con la gommapiuma antispiffero.

Accesi la stufa, mi rimboccai le maniche e iniziai a lavorare.

38

Per non bruciarmi le mani usai di nuovo il manico dello sturalavandini. Lo infilai nell'apertura di una mina per farla uscir fuori, poi la voltai a testa in giù e lasciai scorrere l'acqua.

La trasportai così fino in camera calpestando, nel percorso, il cappello del vecchio. A differenza della moquette e della coperta, non si era molto imbevuto di sangue, il che voleva dire che probabilmente la pelliccia era vera e impermeabile.

Posai la mina sul tavolino basso, poi attraversai la stanza per aprire la finestra; l'aria salmastra e fredda entrò all'istante. Sentii il rumore delle onde che s'infrangevano dall'altro lato della strada.

L'esplosivo, in precedenza più o meno della consistenza della plastica, era diventato sufficientemente morbido da poter essere estratto e manipolato. Iniziai a raccoglierlo. Prima di cominciare, avevo infilato un sacchetto di plastica su ciascuna mano per proteggerle dal contatto con la nitro, che avrebbe potuto entrare in circolazione nel sangue attraverso qualche taglio o per assorbimento diretto. Non mi avrebbe ucciso - negli ospedali usano la nitroglicerina sui soggetti colpiti da infarto -, ma mi avrebbe fatto venire uno stramaledetto mal di testa.

Quando ebbi finito la stanza puzzava di marzapane, e sul tavolo di fronte a me c'erano quattro chili di una roba simile a blocchi di plastilina verde. Raffreddandosi, l'esplosivo si era un po' indurito, ma sapevo che lavorandolo con le mani sarebbe tornato morbido. All'interno della mina ne era rimasto ancora quasi un chilo, ma così indurito e incrostato alle pareti che decisi di finirla lì.

Lo lavorai come per impastare del pane. I sacchetti che mi coprivano le mani frusciavano; tenevo la testa di lato, così che i fumi non mi arrivassero in modo troppo diretto. Ma anche così avevo vertigini e nausea, forse però era conseguenza del modo in cui Falegname e il vecchio mi avevano accolto al mio rientro.

Arrivai a farne tre palle, più o meno della stessa grandezza, levigate e malleabili. A quel punto tolsi la gomma dallo sturalavandini e usai il manico come un mattarello per spianare l'impasto. L'odore del marzapane mi ricordava il Natale, quando da bambino buttavo la glassa esterna e mi tuffavo nella roba gialla di sotto.

Mentre io giocavo alla mamma, la stanza a fianco stava per trasformarsi di nuovo in un nido d'amore. Ci fu un rumore di chiavi, la porta venne aperta e richiusa, poi sentii delle voci, ma questi non erano futili preliminari erotici, questa era roba seria, pesante.

Continuai con il mattarello mentre la puttana dispiegava tutto il suo repertorio di gemiti e sospiri. Nessuna risatina, sembrava più un'opera lirica. L'uomo grugniva e i colpi ritmati iniziarono quasi subito. Povera ragazza, non le aveva dato neppure il tempo di appoggiare il sacchetto di patatine che stava sgranocchiando.

Quando la pasta raggiunse un'altezza di circa mezzo centimetro e la larghezza di una pizza media, usai il raschietto del ghiaccio per tagliarla a strisce larghe cinque centimetri. Da ogni base ne ottenni sei. Poi scavalcai di nuovo la testa avvolta nella coperta impregnata di sangue, tornai in bagno e aprii il rubinetto per aggiungere acqua calda nella vasca.

Gli occhi del vecchio erano fissi, l'espressione sbalordita. Lo ignorai e provai l'acqua come quando si deve fare il bagno a un bambino. Avrei voluto potermi fermare lì, dove il rumore dello scaldabagno copriva il duetto della stanza a fianco, ma dovevo occuparmi delle cinque mine restanti. Lasciai scorrere l'acqua e tornai in camera con un altro pezzo di equipaggiamento militare sovietico che sgocciolava appeso al solito manico.

Avevo freddo, e cominciò a colarmi il naso. Mi asciugai con cautela sulla manica della giacca avendo cura che il marzapane non entrasse in contatto diretto con la pelle nuda. Tornai a sedermi con il plastico-in-scatola e iniziai a cavarlo fuori.

Quando viene fatto detonare, l'esplosivo al plastico si decompone quasi all'istante. Fino a quel momento i suoi componenti sono innocui e impermeabili. Ci sono tipi di esplosivo al plastico cui si può anche dar fuoco senza che esplodano; l'unico effetto che hanno è di far bollire più in fretta il caffè. Ma quando viene fatto detonare, sprigiona un colpo conosciuto come brisance, capace di frantumare anche materiali forti come l'acciaio.

Avevo ancora quattro mine da svuotare, e morivo di sete, ma dubitavo che ci fosse il servizio in camera, non del tipo che desideravo io, comunque. Continuai il lavoro, estrarre, impastare, spianare, tagliare a strisce di cinque centimetri, con l'accompagnamento dell'orso della porta accanto, ormai sul punto di raggiungere il grugnito finale. Mi augurai che seguisse un periodo di letargo.

Dopo circa un'ora, quando il plastico era tutto ridotto a strisce, aprii la lama del Leatherman e l'appoggiai sulla barra bollente dello scaldabagno. Quindi posai il primo pezzo di polistirolo sul letto, la base verso il basso. Falegname rompeva i coglioni. Mi ero stufato di doverlo continuamente scavalcare, così lo presi per i piedi e lo trascinai più vicino alla porta. Nello spostamento la testa scivolò fuori dalla coperta e sbatté sulla moquette con un tonfo sordo. Risistemai la coperta fradicia intorno al cranio e mi pulii le mani sul suo maglione nero a collo alto.

Usando l'asciugamano come un guanto da forno, presi il Leatherman incandescente dal fuoco ed eliminai dalla parte superiore del pannello i piccoli blocchi, le protuberanze e gli angoli sagomati. Ne rimase un riquadro di circa un metro, da una parte piatto e dall'altro lato reso abbastanza uniforme. Poi, con la lama calda, tracciai un canale, di circa cinque centimetri di larghezza, lungo tutto il perimetro del quadrato a circa otto centimetri dal bordo. L'odore del polistirolo fuso era ancora più acuto del marzapane.

Con la lama del coltello inclinata iniziai a scolpire all'interno del canale delle V rovesciate. Alla fine avevo creato una specie di trincea tutt'intorno al quadrato e, all'interno di questa, quattro barre di Toblerone con le punte rivolte verso l'alto. Le strisce di esplosivo sarebbero state posizionate lungo tutte le barre del Toblerone, e una volta completata la carica a forma di cornice, a contatto con il bersaglio sarebbe andata la parte piatta.

Per far crollare un ponte non basta appenderci grandi candelotti di dinamite. Per ottenere l'abbattimento di qualsiasi cosa s'intenda distruggere, cemento, mattoni o acciaio, con il minimo di esplosivo al plastico e il massimo dell'effetto, bisogna incanalare la brisance, sfruttando l'effetto Munroe. L'angolo di trenta gradi sulla punta del Toblerone rivolta verso il bersaglio garantisce che il grosso della forza di detonazione affluisca verso la base della cioccolata immaginaria e prosegua. Se il Toblerone fosse stato di rame, la forza di penetrazione sarebbe stata ancora maggiore e avrebbe potuto ridurre in briciole diversi centimetri di acciaio. La detonazione avrebbe liquefatto anche il rame e il metallo fuso sarebbe stato scagliato in avanti, aumentando l'impatto contro il bersaglio. Non avevo rame, ma polistirolo, e tuttavia c'era abbastanza esplosivo al plastico per ottenere comunque l'effetto desiderato.

Il mal di testa alla nitro divenne veramente intollerabile. Buttai giù altre quattro aspirine. Me ne rimanevano solo quattro.

Tornai alle mie incisioni. Attraverso il corridoio mi arrivò il rumore di un litigio fra due uomini. Alle loro voci si unì quasi subito quella di una donna che tentava di calmarli.

La porta di fronte alla mia venne aperta e richiusa e poi calò il silenzio. Attesi che partissero i soliti rumori, ma tutto quello che mi arrivò furono altri litigi. Adesso anche la donna portava il suo piccolo contributo.

Quando finii d'intagliare il Toblerone tutt'intorno al polistirolo, la base dei triangoli si trovava a un paio di centimetri da quella del pannello. Quello era il punto di resistenza che avrebbe fornito all'effetto Munroe lo spazio per convogliare la forza sufficiente ad abbattere il muro del bersaglio.

A quel punto mi rimaneva soltanto da posare l'esplosivo per tutta la lunghezza ai lati del Toblerone e sopra le cuspidi e assicurarmi che le strisce fossero ben amalgamate insieme, senza interruzioni, in modo da formare un'unica grande carica. Infilai di nuovo i sacchetti di plastica per proteggermi le mani e iniziai a schiacciare, modellare, chiudere, come se stessi plasmando della pasta. Nella stanza di fronte la discussione a tre voci continuava. Meglio così: era piacevole avere dei vicini che parlavano, invece di grugnire e sbatacchiare il letto da ogni parte.

Quando il Toblerone fu coperto da due strati di esplosivo al plastico, presi un tratto di corda per detonazione e lo tagliai in due pezzi, uno di circa un metro di lunghezza e l'altro di un metro e mezzo. A una delle estremità di ciascun pezzo feci due nodi e li conficcai nell'esplosivo al plastico sopra il Toblerone, ai due lati opposti del quadrato. Per mantenerli in posizione, schiacciai altri due pezzetti di esplosivo sopra i nodi, in modo che questi risultassero completamente immersi nella carica.

Avevo posizionato la miccia in due punti diversi perché volevo far sì che la detonazione si sprigionasse simultaneamente in due direzioni, moltiplicando la potenza della carica. Per esserne più sicuro, legai strettamente con il nastro adesivo, a una distanza di circa quindici centimetri, le due corde di detonazione, in modo che dalla legatura alla carica la lunghezza fosse la stessa. Dalla legatura pendeva il mezzo metro extra della sezione più lunga che prendeva il nome di corda di detonazione. L'onda d'urto partiva dalla corda di detonazione e, una volta raggiunta la congiunzione, avrebbe fatto detonare anche la seconda sezione, quella più corta, della corda di detonazione. Le due onde d'urto a quel punto avrebbero viaggiato dirette verso la carica alla stessa velocità e per un percorso identico, e avrebbero raggiunto il Toblerone nel medesimo istante. L'effetto Munroe avrebbe orientato la forza di detonazione verso la base del Toblerone, raccogliendo energia durante l'attraversamento del polistirolo, prima di andare a cozzare contro il bersaglio. Se tutto andava bene, mi sarei ritrovato con un buco di un metro quadrato nel muro della casa-bersaglio.

Stavo ancora lavorando con il nastro adesivo per fissare il Toblerone al polistirolo quando due voci maschili, ubriache e sghignazzanti, salirono le scale, oltrepassarono la mia porta ed entrarono nella stanza dall'altro lato del bagno.

Dovevo ancora preparare la seconda carica, così appoggiai di nuovo il coltello sulla fiamma, mentre i miei nuovi vicini ridevano, scherzavano e guardavano la TV a volume molto alto. Se non altro copriva le voci degli altri tre che continuavano a discutere nella stanza opposta.

Impiegai trenta minuti per terminare la seconda carica, fatta con l'accompagnamento di una commedia americana, naturalmente doppiata. Preferivo le battute in russo.

Per trasportarle più facilmente misi le due cariche l'una contro l'altra con le punte del Toblerone a contatto, e la corda di detonazione infilata in mezzo. Legai i due pezzi insieme utilizzando una delle corde da traino e poi feci scivolare sotto la fune due delle assi del pallet che avevo preso dietro il negozio. Fissai anche la bobina della miccia che non avevo ancora usato, passando la fune nel foro centrale e assicurandola bene. Tutto quello che mi sarebbe servito sul luogo dell'azione era ormai allestito, e aveva l'aspetto di uno zaino da boy-scout molto mal fatto.

Avevo ancora un paio di lavoretti da fare prima di essere pronto a uscire di lì. Presi le due funi da traino che restavano e le annodai insieme, ottenendo un'unica fune di circa trenta metri di lunghezza. Poi feci altri nodi, in modo da averne uno ogni metro. Quindi ne legai un capo alla corda che teneva unite le cariche.

Infine presi la terza asse di legno. Era di nuovo il momento di utilizzare le tecniche dell'MI9: tutt'intorno a un'estremità, a circa sette centimetri dalla sommità, incisi una scanalatura intorno alla quale assicurai il capo libero della corda che passava intorno alle cariche. Tenendo il mattone contro la parte dell'asse su cui non c'era la corda, in modo che il lato più lungo fosse parallelo alla tavola, li avvolsi entrambi con l'asciugamano e li fermai con chilometri di nastro adesivo. Adesso l'attrezzatura era pronta.

Il Re Leone m'informò che erano le 3.28. In teoria ancora troppo presto per andare, ma non sapevo chi altri fosse a conoscenza del fatto che Falegname e il vecchio erano venuti a trovarmi. I tre ripresero a litigare, adesso probabilmente sul pagamento. Presi le cariche, avvolte in una coperta, e andai alla macchina.

39

Sabato 18 dicembre 1999

Mi diressi verso Tallinn percorrendo la strada principale nella più totale oscurità pomeridiana; svoltai a destra in direzione di Pussi, attraversai un'altra volta i binari e puntai al bersaglio, oltrepassando le tristi baracche dove la gente era rintanata per l'inverno.

Nelle dodici ore trascorse da quando avevo lasciato l'albergo avevo fatto dei lunghi giri, fermandomi solo un paio di volte per fare il pieno di benzina. Qualsiasi cosa pur di far andare il riscaldamento.

Uscendo avevo pagato alla vecchia un altro paio di notti, così, molto probabilmente, non sarebbe andata a controllare la stanza.

Lungo la strada erano allineati banchetti coperti da tende che avevano l'aspetto di stazioni di servizio in miniatura. Il vapore che fuoriusciva dagli sfiatatoi li rendeva simili alle cucine dei campi profughi. Quando mi fermai a comprare caffè e brioche, mi fu molto d'aiuto avere la bocca gonfia e lividi ben visibili, perché potevo farmi capire solo borbottando e facendo dei gesti. Il problema venne quando provai a mangiare e a bere; il dente mi stava uccidendo e da quelle parti non vendevano Brufen. Le mie ultime quattro aspirine erano finite ore prima.

Avevo addosso l'arma di Falegname e la 38 special era nel cassetto del cruscotto. Nessuna delle due aveva colpi di riserva.

Scivolai lentamente lungo la stradina e i fari illuminarono sulla mia sinistra il muro di cemento del bersaglio. Nulla sembrava cambiato; ancora niente luci né movimenti; i cancelli erano ancora chiusi. Parcheggiai nello stesso viottolo della volta prima, spensi il motore e rimasi seduto per qualche minuto mentre l'auto si raffreddava in fretta. Ripassai il piano un'ultima volta. Non ci misi molto, perché non era davvero un gran piano.

Mi costrinsi a uscire al freddo. Questa volta indossavo i guanti e il berretto di pelliccia sporco di sangue del vecchio. Coprii con un giornale il parabrezza dal lato del guidatore e tirai fuori dal baule le cariche di esplosivo. Le due funi che le legavano erano molto pratiche per portare l'attrezzatura sulle spalle. Per ultimo nascosi le chiavi della macchina sotto la ruota posteriore destra. Se i Maliskia mi avessero catturato, in caso di fuga avrei almeno avuto le chiavi. E avrei potuto dirlo a Tom, se fossi riuscito a mettermi in contatto con lui. Avrebbe avuto anche lui una possibilità di fuga, se non fossi riuscito ad arrivare alla macchina.

Non lo avrei ucciso. Glielo dovevo, per quello che aveva fatto in Finlandia, vicino alla recinzione. E poi non volevo avere sulla coscienza la sua morte, come non volevo avere sulla coscienza la malattia di Kelly. All'inizio avevo attribuito il mio cambiamento d'idea al fatto che ci tenevo a salvare la mia pelle più di quella di Tom. Lui era l'unico in grado di riferire come era andata a Lynn, se tutta la faccenda si fosse conclusa alla cazzo di cane. E perché mai avrebbe dovuto andare bene? Fino a quel momento era andato tutto in vacca. Poi, però, ero stato costretto ad ammettere con me stesso che avevo cominciato ad affezionarmi a quel bastardo con il muso da criceto. Forse non era il tipo di persona con cui di solito facevo amicizia, e certamente non saremmo mai usciti a bere un caffè insieme la mattina, ma era a posto, e aveva bisogno di uno stacco almeno quanto ne avevo bisogno io. Avevo giocherellato con quell'idea fin da quando mi trovavo nella stanza d'albergo a Helsinki. Per questo avevo portato con me il suo passaporto, per essere libero di decidere.

Faceva il solito freddo, ma camminando sollevai i paraorecchie del mio nuovo berretto per poter sentire meglio. Arrivai all'altezza dell'hangar con la ciminiera. Ancora non sentivo nessun rumore dai due edifici dietro il muro. Raggiunsi il vialetto che portava all'enorme cancellata metallica, svoltai e feci qualche passo nella sua direzione. Poi mi fermai in ascolto. Sapevo che un rumore c'era e avvertii in lontananza quello del generatore. Oltre a questo, nient'altro.

Provai a spingere, ma i cancelli non erano aperti. Provai la porticina che si trovava nell'anta di destra, ma anche questa era chiusa. Non che avessi sperato che fosse così facile, ma mi sarei sentito un emerito deficiente se avessi fatto la fatica di arrampicarmi sopra il muro quando avrei potuto entrare dalla porta principale.

Mi sdraiai nel solco delle ruote di destra, le cariche dietro di me, e appoggiai l'occhio alla fessura. Da questo lato del cancello nulla era cambiato. Nessuna luce a pianoterra, e l'edificio più grande, quello sulla destra, sempre tutto buio. Non riuscivo a stabilire se fosse un fatto positivo o negativo; non che importasse molto: comunque sarei piombato là in mezzo e avrei distrutto ogni cosa e, se tutto andava bene, avrei trovato Tom.

Di nuovo in piedi, con lo zaino da boy-scout di nuovo in spalla, tornai in direzione della macchina, ma a poco meno di cento metri oltre l'hangar svoltai a sinistra, fuori dalla strada e nella neve alta. La mia intenzione era di camminare nei campi, voltare a sinistra e raggiungere l'hangar dal retro. Non potevo fare a meno di lasciare una traccia nella neve, ma per lo meno potevo tentare di lasciarla fuori della vista dalla strada.

La neve aveva un sottile strato di ghiaccio e una profondità che variava dall'altezza del polpaccio a quella della coscia. Posavo il piede e, dopo una resistenza iniziale, il peso del corpo mi faceva sprofondare. Nei punti più profondi mi sentivo come un rompighiaccio del Baltico.

Avanzai a fatica, i jeans ormai fradici e le gambe quasi congelate. Per fortuna non c'erano molte nuvole e la mia visione notturna si stava adattando alla luce delle stelle.

Il retro dell'hangar mi apparve indistinto di fronte e m'infilai all'interno. Il pavimento era in cemento e la struttura d'acciaio faceva da sostegno a quello che sembrava essere fibrocemento ondulato. Mi spostai lentamente, prestando la massima attenzione al muro del bersaglio, e dopo circa venti passi cominciai a distinguere la sagoma di una porta. Quando raggiunsi la parete di fondo dell'hangar, mi fermai in ascolto. Nessun suono, solo il lieve gemito del vento.

Attraversai i cinque o sei metri di neve tra i due edifici e non appena raggiunta la porta mi resi conto che non sarei stato contento. Il metallo era più vecchio di quello dei cancelli frontali, e si sfogliava per la ruggine. Ma la porta in sé era solida, senza cardini o serrature in vista. Provai a spingere, ma non ottenni il minimo movimento. Mi diressi verso destra costeggiando il muro, allontanandomi di altri quindici metri dalla strada. Con un po' di fortuna, adesso dovevo trovarmi in corrispondenza della parte frontale dell'edificio più grande, al di là del muro.

Posai le cariche a terra e sciolsi la fune legata alla tavola con il mattone dall'altro capo. Cominciai a far roteare un metro di corda come un lanciatore di martello, poi, nel momento di massima spinta verso l'alto, la lasciai andare, in modo che la tavola superasse il muro.

Non mi avrebbero mai ammesso ai Giochi delle Highlands. Ricadde tutto ai miei piedi. Mentre stavo sbrogliando la corda per un altro lancio, dei fari illuminarono il muro del bersaglio.

Mi lasciai cadere sulle ginocchia, pronto a seppellirmi nella neve. Poi mi resi conto che in ginocchio ero già sepolto nella neve.

Le luci aumentarono d'intensità, poi scomparvero per mezzo secondo, quando l'auto finì in un avvallamento della strada illuminando il cielo prima di tornare a livello. Avvicinandosi, l'auto illuminava l'interno dell'hangar e i battenti d'acciaio proiettavano delle ombre in movimento.

Il possente borbottio di un grosso diesel m'informò che a muoversi nella mia direzione era un trattore. Tirai un sospiro di sollievo: se i Maliskia fossero venuti per me, dubito che avrebbero usato un Massey Ferguson.

Il rumore s'intensificò e la luce dei fari si fece ancora più intensa, finché il trattore di colpo non si materializzò nello spazio fra il muro del bersaglio e l'hangar. Sembrava il residuato di un collettivo sovietico e a bordo si scorgevano le sagome di molte più persone di quante ne potesse trasportare. Forse la squadra locale di sperimentazione dei pub faceva un salto al Falce e Martello per un paio di pinte di vodka.

La luce e il rumore diminuirono gradualmente e io ripresi il mio lavoro. Mi ci vollero altri due tentativi, ma alla fine riuscii a far volare la tavola oltre il muro. Stringevo saldamente fra le mani la parte zavorrata. Quando la tavola terminò il suo volo, la fune si tese. Probabilmente stava dondolando a circa un metro, un metro e mezzo da terra. Con delicatezza iniziai a tirare all'indietro, in attesa del momento di resistenza dal quale avrei capito che la tavola aveva agganciato il bordo della sommità del muro. Il funzionamento del dispositivo era semplice: il contrappeso del mattone ancorava la parte superiore della tavola a un muro angolato. Motivo per cui il perimetro delle prigioni è di forma ovale e la sommità delle pareti è di metallo arrotondato: per non fornire alcun possibile aggancio. L'MI9 aveva colpito ancora.

Mantenni la fune in tensione, quasi in attesa che da un momento all'altro la tavola mi rimbalzasse di nuovo sopra la testa. Poi a poco a poco lasciai che sostenesse il peso di tutto il corpo. La corda di nylon si allungò protestando, ma tenne bene. Con i piedi contro la parete, utilizzando come puntelli per i piedi i fori nel muro e i nodi che avevo fatto, iniziai ad arrampicare.

La cima non era distante, e mi issai a sedere sulla sommità del muro, spesso circa un metro. L'edificio più grande impediva la visuale dell'edificio-bersaglio alle sue spalle; vedevo soltanto le luci delle finestre che illuminavano la neve davanti. Il ronzio del generatore in sottofondo era costante.

Mi girai sullo stomaco verso il lato dal quale ero salito. Dalla parete si staccarono neve e ghiaccio. Con le gambe a penzoloni dal lato del bersaglio cominciai a sollevare con grande cautela le cariche lungo il muro. Non era il rumore a preoccuparmi, volevo soltanto che non si danneggiassero. Quando le ebbi recuperate, mi girai nuovamente su me stesso e cominciai a lasciarle scivolare dalla parte del bersaglio. A quel punto mi rimaneva solo da spostare la tavola dalla parte opposta in modo da invertire il procedimento di salita.

Tenni la corda in tensione, e mi lasciai lentamente calare, avvolgendo la corda al piede destro, finché non ebbi i fianchi sul bordo del muro. Poi mi affidai alla corda e scesi il più veloce possibile.

Appesantii le cariche coprendole di neve in modo che il peso della tavola non le facesse rimbalzare dall'altra parte. Era importante che la fune rimanesse in posizione mentre mi dedicavo a una veloce ricognizione; era la mia unica via di fuga.

Adesso che ero a terra il ronzio del generatore era più forte, più che sufficiente a coprire lo scricchiolio dei miei passi sulla neve vergine e sul ghiaccio. Mi spostai verso la porta arrugginita. Estrassi la torcia dalla tasca e la accesi. Un fascio di luce non più grande di un pungiglione: avevo coperto la superficie riflettente con il nastro adesivo.

Avevo del lavoro da sbrigare sulla porta. Penetrare in un bersaglio è importante, ma lo è altrettanto essere in grado di uscirne. Fossero girate male le cose, per non trovarmi nella merda fino al collo dovevo organizzare una via di fuga migliore dell'arrampicata alla fune. Lavoravo con la torcia in bocca: la porta era chiusa da un grosso catenaccio, lungo sessanta centimetri, posizionato al centro, coperto di ruggine e con l'aria di non essere stato aperto da anni. Iniziai a fare pressione sulla leva con entrambe le mani, spostandolo su e giù e contemporaneamente tirandolo all'indietro. Facevo piccoli progressi e alla fine cedette. Tirai il cancello verso di me di qualche centimetro per avere la conferma che si sarebbe aperto, poi lo richiusi. Fatto, mi fermai in ascolto: nessun rumore tranne il generatore.

Adesso che avevo una via di fuga alternativa, non c'era nessun motivo per rischiare che la corda venisse scoperta, così la slegai e la lasciai ricadere.

Misi le cariche in spalla e avanzai scricchiolando sulla neve lungo il fronte dell'edificio più grande, cercando di tenermi il più possibile accostato per ridurre al minimo le impronte. Adesso potevo vedere che era fatto di mattoni coperti di gesso colorato piuttosto vecchi. Se la casa-bersaglio era costruita con lo stesso materiale, non sarebbe stato difficile riuscire a fare breccia.

Raggiunsi l'ampia apertura e il rumore del generatore aumentò. Vidi una grande quantità di tracce di pneumatici che andavano tutte nella stessa direzione. Entrai e mi spostai subito sulla destra, in modo che la mia sagoma non si proiettasse nell'entrata. M'immobilizzai nel buio, in ascolto del generatore in fondo a sinistra. Lì faceva più caldo, ma sapevo che era solo più riparato.

Tolsi la torcia di tasca e strappai il nastro adesivo, continuando però a tenere due dita sopra la lente per avere un controllo sulla luce. Un veloce flash all'interno mi mostrò tre veicoli: un furgone Mercedes, con il muso in avanti, e due giardinette posteggiate con differenti angolazioni e con il muso verso l'interno. Il pavimento era in cemento, coperto da anni di forniture di fango ghiacciato, pezzi di legno e vecchie casse.

La luce della torcia era troppo debole per illuminare il generatore, ma con trenta passi lo raggiunsi. Il macchinario aveva un piedistallo di circa mezzo metro di cemento nuovo che lo sollevava dalla merda. Al di là di questo c'era il serbatoio del carburante, un grande cilindro di plastica pesante posato su blocchi di calcestruzzo. Vederlo mi diede un'idea che avrei utilizzato in seguito.

Dal generatore sporgeva un cavo elettrico del diametro di sei centimetri buoni. Il cavo attraversava il muro in un punto dal quale erano stati tolti due o tre mattoni e proseguiva verso la casa-bersaglio.

Posai l'attrezzatura dietro il generatore, spensi la torcia, tornai verso la porta e uscii.

Seguii le numerose impronte lasciate fra quell'edificio e il bersaglio e mi diressi verso il portone principale, a circa quindici metri di distanza. Direttamente di fronte a me vidi il triangolo d'ombra che partiva da sotto il davanzale della finestra del pianterreno e si allungava per un metro nella neve, dove la luce colpiva terra.

Controllai che la pistola fosse al suo posto nella tasca del giaccone. Se ne avessi avuto bisogno avrei potuto togliermi il guanto con i denti e sparare senza problemi. Prima di superare il paio di metri che separavano i due edifici, cercai il punto in cui il cavo che usciva dal granaio entrava nella casa-bersaglio. Vidi moltissime impronte che dal sentiero dove mi trovavo si diramavano in direzione dei due edifici e anche verso il retro della casa-bersaglio. Era evidente che andavano avanti e indietro in continuazione.

Mi abbassai e camminando radente al muro raggiunsi la prima finestra. Il vetro sopra di me era protetto da sbarre di ferro. Una televisione era accesa. L'audio era in inglese e non impiegai molto a riconoscere il canale, era MTV. Di minuto in minuto tutto si faceva più bizzarro.

Con la schiena contro il muro, guardai e ascoltai. La luce sopra di me filtrava attraverso tendine gialle a fiori, ma la stoffa era troppo spessa per vedere attraverso. Non riuscii a sentire persone parlare, solo Ricky Martin che cantava. Appoggiai l'orecchio alla parete e ascoltai ancora. Non dovetti sforzarmi molto. Una voce dal pesante accento slavo si unì improvvisamente al coro nell'intento di offrire il suo contributo al vecchio Ricky.

40

La casa-bersaglio era fatta di una struttura di cemento inframmezzata di mattoni rossi forati e con i fianchi dentellati, o così mi parve. Chiunque l'avesse costruita non aveva mai sentito parlare di filo a piombo, e troppi inverni rigidi avevano lasciato il segno sui mattoni; avevano un aspetto friabile, proprio come quello che avevo legato alla tavola di legno.

Mentre Ricky Martin si avvicinava al finale, salii i due gradini di cemento che conducevano al portone. Aveva lo stesso tipo di chiusura del baar di Narva, solo alla rovescia, la griglia di metallo all'esterno e la porta di legno arretrata di circa quindici centimetri. Dovevo scoprire se era chiusa a chiave. Non era il punto di entrata che avevo scelto, ma nel caso le cariche non avessero funzionato, avrei avuto un'ulteriore possibilità. E, cosa ancora più importante, se all'interno avessi avuto dei problemi, mi sarebbe rimasta una via di fuga alternativa.

La griglia non era chiusa a chiave. La spostai piano all'indietro di un paio di centimetri e non fece nessun rumore, allora la tirai verso di me di circa cinque centimetri, spinsi indietro di un paio e tirai un altro po', continuando a controllare il cigolio e ad aprirla gradualmente. Poco dopo la griglia era aperta quel tanto che mi consentiva d'infilare il braccio e provare la maniglia. Nessun rumore, se non il generatore e MTV. Spinsi la maniglia verso il basso e provai a spingere. Chiusa a chiave.

Rimasi fermo in ascolto, con la speranza di sentire la voce di Tom. Stavano friggendo qualcosa e l'odore s'insinuava sotto la porta. Dal piano di sopra, confuso con il suono della televisione, provenne un grido, ma non si trattava della voce di Tom.

Poi mi resi conto che non era un grido, ma qualcuno che cercava di cantare. Il mio amico imitatore di Ricky Martin stava scendendo le scale.

Mi spostai dalla soglia, mi tolsi il guanto con i denti e afferrai la pistola. Se fosse uscito, avrei scavalcato il suo cadavere e avrei fatto irruzione all'interno a una tale velocità e con tanta improvvisa ferocia da far paura a me stesso.

La voce raggiunse il pianterreno e aumentò d'intensità. Un coro di altre voci echeggiò dal retro, forse in russo. Non c'era ombra di dubbio: gli stavano dicendo di chiudere quella fogna.

Ormai era nel corridoio, molto vicino alla porta, e urlava di rimando alle altre voci, come minimo due, nella stanza della TV. Scherzavano, tutto lì.

Il cantante rientrò nella stanza e il programma di MTV scese a un livello di sonoro più basso, perché la porta venne chiusa.

Mi riavvicinai alla porta e tesi l'orecchio. Nessun rumore, se non la musica. Misi via la pistola, e chiusi lentamente la griglia seguendo la stessa procedura con cui l'avevo aperta.

Scesi i gradini e seguii il tracciato per allontanarmi dalla facciata passando sotto il triangolo di oscurità della finestra di sinistra. Anche con l'orecchio appoggiato sul muro freddo e umido non riuscivo a sentire nessun suono all'interno. Dietro le sbarre il vapore appannava i vetri. Forse la cucina.

Raggiunsi l'angolo e girai. Su quel lato nessuna finestra, ma innumerevoli impronte nella neve che portavano al retro. Quello che si vedeva distintamente, anche con questa luce, era il grande disco di un'antenna satellitare, lievemente verso sinistra dell'edificio e orientato verso l'alto a circa quarantacinque gradi. Mi sembrò di vivere un flashback del quartier generale Microsoft e pregai che l'NSA non arrivasse a completare la storia. In fondo non mi dispiacque averlo visto. Quel disco era l'unica conferma che avevo di essere davvero accanto al bersaglio.

Avanzai contando i passi per prepararmi alla posa delle cariche. Diciassette passi di circa un metro mi portarono sul retro.

Una volta sull'angolo il generatore aumentò di un paio di decibel. A entrambe le finestre del secondo piano era accesa la luce, appena sufficiente a gettare un bagliore sopra i due amichetti dell'antenna satellitare. I tre dischi avevano tutti più o meno la stessa dimensione di quelli del quartier generale Microsoft, ma erano fatti di solida plastica e non a rete. Erano orientati verso il cielo con differenti direzioni. Non erano dischi statici piantati nel terreno, ma montati su aste, con sacchetti di sabbia coperti di neve appoggiati contro i sostegni per mantenerli in posizione. Come quelli finlandesi, anche questi erano privi di neve e di ghiaccio, e la zona che avevano intorno era stata molto calpestata. Oltre, forse quaranta metri più avanti, c'era il muro di recinzione.

Svoltai l'angolo e mi resi conto che a pianterreno, nascoste nel cono d'ombra prodotto dalle finestre superiori, c'erano altre due finestre non illuminate. Tutte e quattro riprendevano la simmetria della facciata anteriore.

Per arrivare alla prima finestra mi ci vollero cinque passi, il che portava a ventidue il totale fino a quel momento. Mi accucciai accanto a tre grossi cavi di alimentazione delle antenne satellitari, che uscivano dalla neve e scomparivano in un buco nel muro direttamente sotto la prima finestra del pianoterra. Il solco intorno ai cavi era chiuso, in modo approssimativo, con del cemento.

Anche le finestre del pianterreno da questo lato erano munite di sbarre. Adesso riuscivo a vedere uno spiraglio di luce intorno alla cornice mentre ci stavo accucciato sotto. Sollevai gli occhi fino al davanzale e vidi che il vetro era oscurato con delle assi dall'interno.

Sentii un rumore continuo che proveniva dall'altra parte delle tavole, un suono acuto ed elettrico, diverso da quello del diesel che pulsava nell'altro edificio. Nessuna voce umana, ma sapevo che da qualche parte dovevano essere. Non avrei mai pensato che mi sarei trovato nella situazione di desiderare ardentemente di sentire la voce di Tom che chiedeva una tazza di tè alle erbe - «Il mio corpo è un tempio, hai presente, Nick?» - ma non avvenne.

Oltrepassati i cavi, per arrivare alla finestra successiva, mi ci vollero altri nove passi, lenti e prudenti, da aggiungere agli altri ventidue. Presto avrei saputo quanti metri di miccia dovevo tagliare dalla bobina.

Anche quella finestra era oscurata, ma da lì filtrava un po' più di luce. Due assi di compensato di circa mezzo centimetro che dovevano essere a contatto con il vetro lasciavano un fessura nell'angolo di destra.

Mi trasformai in Houdini e sistemai la testa in modo da avere una buona visuale, il berretto che fungeva da isolante per la testa premuta contro le sbarre. Riuscii a scorgere un bagliore molto forte, al di sotto del quale vidi un banco con cinque o sei schermi di PC in plastica grigia di cui vedevo la parte posteriore e le griglie di raffreddamento nere di polvere. A giudicare da quello che riuscivo a vedere, la parte posteriore dell'edificio era composta da un'unica grande stanza.

Spostai la testa nel tentativo di avere una visuale migliore e tutto all'interno si fece buio. Un corpo mi oscurava la vista. Lo vidi chinarsi in avanti sulle braccia e muovere lateralmente la testa, intento a controllare i vari schermi che aveva di fronte, a non più di mezzo metro da me. Doveva essere sui trentacinque anni, capelli biondi e corti su una testa quadrata, e indossava un maglione a collo alto con un disegno di cui ogni madre sarebbe andata fiera. Sorrise, poi annuì a se stesso mentre si voltava verso la fessura. Adesso si trovava a non più di trenta centimetri da me e stava rispondendo a una voce rapida e aggressiva che parlava russo. Guardò in basso. Qualsiasi cosa stesse guardando sembrava renderlo felice. Forse era arrivato Tom con dei regali per loro e avevano Echelon. Se le cose stavano così, non sarebbe stato per molto.

Sollevò un foglio stampato A4 e lo sventolò verso chi si trovava dietro di lui, chiunque fosse, poi si spostò più indietro, fuori dal mio campo visivo. Probabilmente era il menù del pranzo di Natale del Comando spaziale e navale dei sistemi di guerra a San Diego. Davano l'impressione di conoscere tutto quello che succedeva da quelle parti.

Adesso sapevo dove si trovava la roba da distruggere, mi restava soltanto da trovare Tom. Per quindici minuti attesi altri movimenti, con l'occhio fisso nel buco, ma non accadde niente. Cominciavo ad avere molto freddo e le dita dei piedi erano intorpidite. Il Re Leone mi disse che erano solo le 17.49; avrebbe fatto molto più freddo.

Mi spostai all'altro angolo del bersaglio, in direzione del generatore. Altri cinque passi, il che portava a un totale di trentasei. Felicità: la miccia che avevo bastava.

Voltai a destra e mi avviai verso il corridoio fra i due edifici, scavalcando i cavi del generatore immersi nella neve. Come per i cavi dei satelliti, era stato praticato un buco attraverso il muro della casa-bersaglio per farli passare, e il buco era stato coperto con qualche manciata di cemento. Rientrato nell'edificio del generatore, iniziai a preparare l'attrezzatura. La prima cosa che controllai era se avevo ancora le pile nella tasca interna: in addestramento l'errore più grave era perdere il controllo del congegno d'innesco, primo a pari merito con la pistola appoggiata a una distanza superiore a quella del braccio. Le avevo tenute accanto al corpo, perché il freddo non le scaricasse; dovevano funzionare senza problemi.

Non avevo bisogno di luce per srotolare la corda di detonazione perché sapevo quello che stavo facendo, ma il rumore del generatore avrebbe coperto eventuali movimenti di persone in entrata, per cui dovevo lavorare senza smettere di guardare l'ingresso. Bloccai la bobina fra i piedi, afferrai la parte sciolta nella mano destra e sporsi il braccio in fuori; con la sinistra infilai la miccia sotto l'ascella. Ripetei il gesto per trentasei volte, più cinque che mi sarebbero servite per fare quello che dovevo sul muro dal lato opposto del bersaglio. Ne aggiunsi un altro paio per mettermi al vento, poi tagliai con il Leatherman scurito. La posai per terra, vicino alle cariche. L'avrei definita la linea principale, e sarebbe stata usata per propagare l'onda esplosiva a tutte le cariche allo stesso tempo per mezzo delle rispettive corde di detonazione.

Il passo successivo da compiere era il piccolo lampo di genio che mi era venuto vedendo il serbatoio del carburante. Avevo in mente la più spettacolare esplosione mai verificatasi fuori da Hollywood. Lo scoppio del serbatoio non sarebbe stato l'esplosione più produttiva del mondo, ma l'effetto sarebbe stato fenomenale.

Salii i gradini del serbatoio con la corda di detonazione in mano, srotolandola lentamente dalla bobina. Sollevai il coperchio e la luce della torcia illuminò la superficie brillante del liquido che riempiva tre quarti del bidone cilindrico. Feci un doppio nodo all'estremità della corda e tirai fuori dalla giacca uno dei sacchetti di plastica della stazione di servizio. Dentro c'era l'esplosivo al plastico avanzato, due chili circa, che ogni uomo d'azione con un po' di sale in zucca si porta sempre appresso per riempire buchi o riparare le cariche. Ne staccai una metà e cominciai a lavorarla per ammorbidirla. All'aperto l'odore non era così terribile.

Quando fu sufficientemente ammorbidita, la premetti intorno al doppio nodo, assicurandomi che penetrasse bene negli spazi fra le connessioni, e in ultimo avvolsi tutto con il nastro adesivo per fermare il plastico.

Calai la boccia di esplosivo al plastico dentro il serbatoio reggendola per la corda di detonazione e fermandomi quando arrivò a dondolare a cinque o sei centimetri sopra la superficie del carburante. Basta un nanosecondo perché il carburante si vaporizzi dopo un'esplosione, ma quando esplode, l'effetto è vesuviano. Se avessi fallito nel lavoro, avrei comunque dato l'impressione di essermi prodotto in una grande prestazione. Val non avrebbe potuto dubitare della mia parola dal momento che quella palla di fuoco sarebbe stata visibile, molto probabilmente, anche da Mosca.

Fissai con il nastro adesivo la miccia a un lato del serbatoio, quindi ridiscesi la scaletta e srotolai con attenzione il resto della corda, spostandomi verso il buco nel muro. Volevo tagliare un pezzo abbastanza lungo da raggiungere, una volta posato, la casa-bersaglio. Nove bracciate mi avrebbero messo al riparo. Tagliai, quindi iniziai a far scorrere l'estremità della miccia attraverso il buco nel muro.

In quel momento la luce di una torcia lampeggiò nel corridoio fra i due edifici. Il generatore m'impediva di sentire. Tirai rapidamente indietro il cavo e m'immobilizzai. L'unica cosa che muovevo erano gli occhi, in tragitto continuo tra il buco nella parete e l'ingresso, in attesa di cogliere un movimento da una delle due direzioni.

Il fascio di luce che controllava il cavo del generatore illuminò un paio di stivali di gomma lucida e un paio di stivali normali. Quello che mi preoccupava era l'AK che pendeva sul fianco dell'uomo dagli stivali di gomma, il cui ampio mirino all'estremità della canna si trovava a livello delle ginocchia.

Continuarono in direzione del retro e non li vidi più. Non parlavano, o se parlavano non riuscii a sentire a causa del generatore. Non sentii neppure i passi nella neve.

Dovevano aver fatto qualcosa con le antenne satellitari. Aspettai, non potevo fare altro. Non sarei uscito finché non avessi avuto la certezza che erano rientrati in casa.

Rimasi sdraiato nel fango ghiacciato e attesi il loro ritorno, gli occhi che si muovevano in continuazione tra le fessure nel muro. Il freddo fece presto a penetrarmi dentro i vestiti, anestetizzandomi la pelle. I sei o sette minuti che ci vollero prima di vedere la torcia tornare tremolando sulla neve non passarono per niente veloci.

Allungai il collo per vedere meglio e osservai le sagome svanire dietro l'angolo. Rischiai il congelamento ma restai in attesa per qualche altro minuto, nel caso avessero dimenticato qualcosa o avessero combinato qualche casino e fossero tornati per rimediare.

Durante l'attesa ebbi un altro colpo di genio. Quando alla fine mi alzai di nuovo in piedi, mi avvicinai alle auto e sgonfiai tutti i pneumatici. La palla di fuoco avrebbe dovuto provvedere anche ai veicoli e garantirmi che fossero inutilizzabili per un inseguimento, ma giocare sul sicuro non guastava.

Mentre l'aria usciva sibilando e i bordi dei cerchioni sprofondavano nel fango congelato, sorrisi fra me e me come uno scemo. Osservai il buco nel muro per controllare la luce della torcia. Avevo di nuovo otto anni, ed ero accucciato accanto alla macchina del mio patrigno.

Tornai all'attrezzatura e ricominciai a far scorrere la corda di detonazione. Poi tagliai parecchie strisce di nastro adesivo lunghe venti centimetri e me le attaccai su entrambi gli avambracci. Per ultimo mi misi sulle spalle il pacco con le cariche, afferrai la linea principale, la arrotolai nella mano sinistra e tornai al freddo.

41

Mi diressi verso il corridoio tra gli edifici. Davanti a me la fioca luce che proveniva dalla casa si spandeva ancora sulla neve.

Percorso lo spazio divisorio, mi spostai verso il retro. Scavalcai il cavo del generatore e controllai che la miccia detonante fosse ancora nel buco, al suo posto per quando più tardi sarei tornato, poi proseguii verso l'angolo. La posizione dei dischi era mutata in modo evidente.

Volevo dare un'ultima occhiata fra le tavole per vedere se riuscivo a beccare Tom. Forse sarei stato fortunato; per tutto c'è una prima volta.

Angolai molto la testa e sbirciai all'interno senza riuscire a vedere nessun movimento.

Superai i cavi delle antenne satellitari e puntai verso l'altro angolo, poi mi voltai e contai tre passi in direzione della facciata del bersaglio. A quel punto mi accucciai e appoggiai le cariche e la miccia nella neve. La stanza dei computer era esattamente dietro quel muro. I venti minuti successivi li avrei passati a mettermi e togliermi i guanti per posizionare le cariche.

Sciolsi il nodo della corda che teneva unite le cariche, e piazzai uno dei quadrati contro il muro, la base del Toblerone di fronte al bersaglio e la corda di detonazione verso di me. Quindi conficcai l'estremità di una delle tavole di legno dentro la neve, molto angolata, in modo che mantenesse il quadrato di polistirolo in posizione contro il muro.

Controllai la carica con la torcia e mi accorsi che in un piccolo punto l'esplosivo al plastico si era staccato. Con ogni probabilità l'esplosivo al plastico sarebbe brillato ugualmente, dato che la fessura era meno di un millimetro e mezzo, ma perché rischiare?

Manipolai con i guanti un pezzetto di esplosivo al plastico finché non si ammorbidì, poi ne strappai un po' e lo premetti dove dovevo. Dopo un ultimo controllo, spensi la torcia e mi spostai verso il disco più vicino, dove presi uno dei pesanti sacchetti di sabbia ricoperto di ghiaccio e lo piazzai a metà del muro, sopra l'estremità libera della miccia. Poi iniziai a sistemare quest'ultima lungo tutta la lunghezza necessaria a raggiungere la carica. Il peso del sacchetto consentiva di tirare leggermente la miccia detonante in modo che non si formassero nodi o attorcigliamenti. L'onda esplosiva avrebbe avuto via libera verso la corda di detonazione.

Raggiunsi la carica puntellata al muro e mi tolsi i guanti. Strappai una delle strisce di nastro adesivo dal braccio, e iniziai a unire insieme la corda di detonazione con la linea principale, il più stretto possibile. Feci tutto come da manuale, fissando la linea principale dopo trenta centimetri di corda di detonazione in caso che parte dell'esplosivo fosse caduta dall'estremità esposta. La legatura aveva una larghezza di dieci centimetri, per assicurare che il contatto fra le due garantisse all'onda esplosiva di spostarsi lungo la linea principale fino alla coda di detonazione. Per poi proseguire naturalmente il viaggio verso la carica.

Da una finestra al piano di sopra, oltre l'angolo, ci fu uno scoppio improvviso di musica che si fermò di colpo, com'era iniziata. Istintivamente mi accucciai e attraverso la finestra sul retro sentii delle voci che urlavano. Come minimo vi erano altre tre voci che urlavano e ridevano.

Mi riportò alla realtà. L'operazione tecnica di piazzare una carica ti estranea sempre dalla realtà. Forse perché ha bisogno di notevole concentrazione, dato che non c'è una seconda opportunità. Ecco perché di solito si fa in modo che chi deve fare operazioni del genere possa lavorare in pace e concentrarsi. Ma non era un lusso di cui godevo quella sera.

Presi in prestito un altro sacchetto di sabbia dalla base delle antenne paraboliche e lo piazzai sopra la linea principale, dal lato della corda di detonazione. Non volevo tirare troppo e rovinare il lavoro di collegamento appena fatto, mentre sollevavo la seconda carica. Iniziai a srotolare la linea principale sopra i cavi dei satellitari verso il corridoio fra gli edifici.

Qualcuno stava rompendo i coglioni sparando a tutto volume la colonna sonora di Armageddon degli Aerosmith, che a un tratto smise di colpo sopra la mia testa provocando ancora più urla dalla stanza dei computer. Quando arrivai all'angolo successivo, le pesanti voci con accento slavo del piano di sopra ringhiarono ancora e la musica riecheggiò a tutto volume.

M'inginocchiai nel passaggio e sistemai la seconda carica sull'altro lato della casa-bersaglio, in modo che le due cariche si trovassero l'una di fronte all'altra. Quando l'ebbi puntellata e controllata, iniziai a collegare la corda di detonazione alla linea principale. La musica risalì a palla per un paio di secondi, poi si calmò. Dal pianoterra provennero altre urla. Quelli della stanza dei computer cominciavano a incazzarsi sul serio. Calcolai che all'interno della casa ci fosse un minimo di cinque persone.

Controllai un'ultima volta la carica; sembrava tutto a posto. Demolire può apparire un'arte oscura, ma in realtà l'unica cosa da capire è come funziona l'esplosivo e successivamente imparare il centinaio di norme che ne regolano l'uso. Quel giorno ne avevo infrante parecchie, ma che cazzo, non avevo scelta.

Mi spostai vicino al buco del cavo del generatore e con cautela tirai fuori la miccia che andava al serbatoio del carburante e la collegai alla linea principale con il nastro adesivo, come avevo fatto con gli altri due.

Gli Aerosmith continuavano a fare del loro meglio per dare fastidio a quelli della stanza dei computer. Era un ottimo gioco, e sperai che li tenesse occupati ancora per un paio di minuti. Pensai a Tom e mi augurai che non si trovasse troppo vicino a uno dei due muri.

Rimisi i guanti e tirai la linea principale, per i pochi metri che restavano, verso la facciata. Non mi restava che applicare il detonatore elettrico, già collegato alla miccia, quindi portare il cavo dietro l'angolo e infine accucciarmi sotto la finestra prima che la merda e tutto il resto nell'edificio saltassero per aria.

Ero un po' preoccupato per la quantità di elettricità presente nel luogo e per i suoi possibili effetti sul cavo del detonatore. Stavo per allentare le due parti del filo che dovevo collegare alla pila, e che, una volta sciolti, sarebbero diventati potenziali antenne, come i detonatori nell'appartamento di Narva. I manuali dicevano che quest'operazione andava fatta a un chilometro di distanza, o almeno molto ben protetti. Non credo che starmene nascosto dietro l'angolo al riparo di qualche mattone fosse quanto intendevano i manuali.

La linea principale si fermava a circa sei o sette passi dall'angolo della casa. Bene, almeno il cavo elettrico sarebbe stato lungo abbastanza da permettermi di restare ben sotto la finestra.

Tirai con calma la borchia a pressione che teneva bloccato il ferretto della cerniera della giacca per estrarre il cavo elettrico. Il volume della musica cambiò ancora. Veniva verso l'esterno. Poi sentii il rumore della griglia che qualcuno stava aprendo e il portone che sbatteva.

Non avevo tempo per pensare, potevo solo agire. Mi tolsi i guanti con i denti, infilai la mano nella giacca ed estrassi la Makarov. Con il pollice destro tolsi la sicura e mi spostai verso l'angolo, respirando a fondo.

Non lo sentivo, non li sentivo ancora, ma chiunque fossero, dovevo essere pronto alla lotta.

Ancora tre passi all'angolo.

Davanti c'era una torcia. Mi fermai, e spostai il pollice sulla sicura per assicurarmi che fosse aperta correttamente.

Un secondo dopo apparve un corpo, diretto verso di me. Stava guardando verso il basso, la luce della torcia faceva brillare la neve. Illuminò la canna dell'arma.

Non potevo dargli il tempo di pensare. Gli saltai addosso e lo afferrai al collo con il braccio sinistro, premendogli nel contempo la Makarov sullo stomaco, con molta violenza. Lo afferrai per la vita con le gambe, e mentre cadevamo insieme premetti il grilletto, augurandomi che i due corpi che coprivano l'arma ne avrebbero attutito il rumore. Non fu esattamente così. Ne venne fuori un lavoro rumoroso.

Saltai in piedi e mi precipitai sul davanti della casa, mettendo a fuoco solo l'angolo successivo, diretto all'altro capo della linea principale, abbandonando un russo che si contorceva nella neve.

Spostai all'indietro il carrello per espellere quello che era rimasto all'interno e inserire un altro colpo in canna, nell'eventualità che essendo stati così vicini quando avevo fatto fuoco il carrello non avesse potuto scorrere bene e non si fosse ricaricato.

Provai le stesse sensazioni che avevo sempre da bambino quando scappavo spaventato. Mi avvicinai all'entrata principale e mi frugai freneticamente con la sinistra nelle tasche per prendere il cavo elettrico e il detonatore.

La porta si aprì, MTV urlava ancora, e un corpo, troppo minuto per essere Tom, apparve. La griglia era già aperta.

«Gory? Gory?»

Sollevai l'arma e feci fuoco in movimento. Non potevo mancarlo.

Ci fu un urlo e un proiettile colpì la griglia con un rumore stridulo.

Proseguii veloce, svoltai l'angolo e mi tuffai testa in avanti verso il sacchetto di sabbia. Lasciai cadere la pistola e tastai alla ricerca della linea principale sotto il sacchetto di sabbia. Non guardai se arrivava qualcuno. Non avevo tempo.

Le urla dell'uomo ferito echeggiavano in tutto il complesso. Cercai di calmarmi e rallentai i miei frenetici movimenti. Misi il detonatore sulla linea principale e li collegai entrambi con il nastro adesivo, non stretto come avrei voluto, ma vaffanculo.

Tirai fuori la batteria e aprii con i denti le due parti del cavo elettrico. Poi mi lasciai crollare al suolo, aprii la bocca e seppellii la testa nella neve mentre spingevo i due capi nei contatti.

Meno di un battito cardiaco dopo, il detonatore scoppiò e innescò la linea principale. L'onda esplosiva si propagò per tutta la lunghezza, incontrò la prima corda di detonazione e poi quella che portava al serbatoio del carburante. Poi arrivò anche alla seconda corda di detonazione.

Le due cariche brillarono virtualmente insieme e le onde esplosive che ne risultarono s'incontrarono al centro della stanza a una velocità combinata di sedicimila metri al secondo.

42

Tutto il mio mondo sussultò, vibrò, tremò. Era come trovarsi all'interno di una gigantesca campana alla quale era stato impresso un colpo potentissimo.

L'aria mi venne risucchiata dai polmoni e una vampata d'aria calda mi sommerse. Tutt'intorno al complesso neve e ghiaccio schizzarono verso l'alto per un buon mezzo metro. Le orecchie mi rimbombarono. Polvere di mattoni, neve e schegge di vetro rotto mi piovvero addosso. Poi l'onda dell'esplosione rimbalzò contro lo spesso muro perimetrale e tornò indietro.

Strisciai in avanti all'angolo della casa-bersaglio, e osservai, come ipnotizzato, un'enorme palla di fuoco che sfrecciava sibilando dall'ingresso dell'edificio del generatore e si alzava alta nel cielo. Un fumo denso e nero mescolato con brillanti lingue di fuoco arancione che bruciavano come la fiamma di un pozzo petrolifero. L'intera zona era inondata di luce e il calore rischiava di ustionarmi la faccia.

Pezzi di mattone, vetro e qualsiasi altro tipo di materiale scagliati verso il cielo iniziarono a ricadere con un fragore assordante. Mi misi in ginocchio e mi protessi la testa con le braccia. In teoria si dovrebbe guardare avanti per prepararsi a qualsiasi evenienza, ma che cazzo, preferivo pensare a me e restare attaccato al muro. Tanto non sarei riuscito comunque a vedere niente. La tormenta di sabbia e mattoni rossi era arrivata, e ricopriva tutto; si trattava solo di restare fermi e aspettare che il fall out smettesse di pioverti addosso. Cominciai a tossire come un fumatore accanito.

Liberai a turno le narici, poi tentai di equalizzare la pressione nelle orecchie. Una fitta acuta e pungente mi attraversò le chiappe. L'onda d'urto che mi era passata sopra doveva avermi investito il culo. Per lo meno non aveva colpito faccia e coglioni. Controllai se c'era del sangue, ma le dita erano bagnate solo dall'acqua dei jeans fradici di neve.

Era tempo di alzarsi e tornare a cercare la pistola che avevo abbandonato da qualche parte nella neve. Tastai in giro con le mani, il culo in agonia, come se mi avessero impalato. Trovai la Makarov vicino al sacco di sabbia e controllai la camera di scoppio. Circondato dal rumore infernale del carburante che bruciava, mi avviai con passo malfermo verso il portone principale.

Nei locali del generatore ci fu una seconda esplosione, forse il serbatoio di una delle auto che si era trovato sulla linea del fuoco. Per qualche secondo le fiamme lampeggiarono, ancora più intense e ancora più alte.

L'uomo nel corridoio non urlava più, ma era ancora vivo. Si teneva lo stomaco, completamente raggomitolato su se stesso. Mi avvicinai a quel corpo attraversato dai fremiti, presi il suo AK e lo scagliai verso il cancello, fuori dalla sua portata. All'interno della casa non ne avrei avuto bisogno.

Quando le due onde d'urto si erano incontrate nella stanza dei computer, avevano sicuramente spazzato via tutto. La forza si sarebbe incanalata verso le linee di minore resistenza per fuggire dai varchi dell'edificio: finestre e porte. Sprigionandosi lungo il corridoio, doveva aver travolto qualsiasi cosa lungo il suo percorso. L'amico di MTV non aveva un bell'aspetto. Alcuni brandelli del suo corpo erano stesi sulla griglia come strisce di carne appese in una sala da affumicazione. Il resto era sparso nella neve. Quando un corpo umano brucia ha lo stesso odore del maiale rosolato, ma, quando scoppia in quel modo, è come entrare in una macelleria dopo una settimana senza corrente elettrica.

La torcia non serviva granché nel corridoio; rifletteva solamente il muro di polvere, un po' come i fari nella nebbia fitta. Avanzai incerto, inciampando su mattoni e macerie alla ricerca di un passaggio sulla destra che mi portasse nella stanza della TV.

Trovai la porta, o per meglio dire trovai dov'era stata la porta. Entrai, i piedi si scontrarono contro pezzi di mobili, poi contro quello che restava della televisione e giganteschi mucchi di mattoni. Continuavo a tossire merda, ed ero l'unico a farlo. Non sentivo nessun movimento, nessun lamento angosciato.

Inciampai sopra un grosso fagotto sul pavimento, accesi la torcia e mi chinai per guardare. Il corpo giaceva su un fianco, bruciacchiato, con il viso rivolto dalla parte opposta alla mia. Lo voltai verso di me e illuminai il viso coperto di polvere. Non era Tom. Chiunque fosse stato quell'uomo sulla ventina, adesso non lo era più. La pelle era staccata dalla testa come un'arancia sbucciata a metà e il sangue che aveva perso si era mescolato alla polvere e sembrava stucco fresco e rosso.

Avanzai ancora per la stanza, inciampando e muovendomi come un cieco alla ricerca di altri corpi. Ne trovai altri due, ma nessuno dei due era Tom. Non potevo certo mettermi a gridare, qualcuno avrebbe potuto rispondermi con qualcosa di diverso dalla voce.

Cercai di entrare nella stanza di fronte, la cucina, ma la porta era bloccata. Decisi di controllare prima i posti più facili e quindi salii di sopra. Non mi preoccupai della stanza del computer: anche se lì ci fossero stati dei corpi, non sarebbero stati riconoscibili. In altre circostanze mi sarei preso qualche secondo per contemplare con calma la mia opera; in molti campi ero una povera merda, ma per quanto riguardava le demolizioni potevano darmi una laurea.

Andai dritto verso le scale. Tenevo la mano sinistra appoggiata al muro, e provavo ogni gradino prima di caricarci sopra tutto il peso. Ancora una volta mi pulii le narici e sputai la polvere che avevo in gola compensando di nuovo la pressione per attenuare il ronzio nelle orecchie.

Non appena raggiunsi l'ultimo gradino sentii per un attimo un debole lamento; non avrei saputo dire da dove provenisse. Andai subito verso sinistra, la parte che avevo più vicino. Trovai a tastoni una porta e la spinsi. Non si mosse più di qualche centimetro. Spinsi più forte, riuscii a infilare dentro un piede e sentii che dall'altra parte c'era un corpo che ne impediva l'apertura. Sgusciai dentro e controllai. Un altro povero cristo sui vent'anni che chiamava la mamma.