Ore 8:20.

Pearce aprì il rubinetto dell'acqua fredda. L'acqua rimbalzò sullo smalto verde del lavello e lo spruzzò sull'addome. Girò la manopola in senso antiorario, dopodiché afferrò l'asciugamano che, appeso a un anello sotto il lavandino, penzolava a pochi centimetri dal pavimento in sughero del bagno.

Era blu con il bordo bianco, ed era un regalo di sua madre. «Cosa si regala a uno che è appena uscito di prigione? - aveva domandato. - Non sapevo cosa prenderti, perciò ti ho fatto questo». Nell'angolino in alto aveva ricamato una colomba in volo. L'aveva disegnata a mano libera, e che fosse una colomba Pearce lo sapeva solo perché gliel'aveva detto lei. Un giorno, mentre la madre era al lavoro, Pearce aveva preso il metro a nastro dalla cassetta degli attrezzi sotto il lavandino e aveva misurato l'apertura alare del volatile. Quelle sì che erano ali gigantesche. Undici virgola due volte la lunghezza del corpo, per l'esattezza. La testa dell'animale era piegata verso il cielo, il collo teso come un pollo che invoca il mangime.

Pearce appallottolò l'asciugamano nel pugno e lo strofinò sui peli umidi della pancia finché la pelle tra l'inguine e l'addome diventò rosea. Per fortuna l'asciugamano era ruvido. Lo piegò a metà e se lo mise sulle spalle.

Pearce riaprì il rubinetto, che sputacchiò qualche debole spruzzo nel lavandino prima che il getto si stabilizzasse. Tenne la mano sotto l'acqua, le dita piegate come artigli. A poco a poco il dorso della mano cominciò a fargli male, mentre il freddo gli penetrava la pelle e avvolgeva le ossa. Giunto al limite della sopportazione, ritrasse la mano e la sostituì con l'altra. Ce la tenne fino a farla pulsare.

Gli sembrava di aver lasciato l'ospedale da parecchio tempo.

Alle quattro e dieci del mattino, mentre camminava per Forrest Road, l'aria era ferma e il cielo sereno. Sul marciapiede si estendevano pozze di luce gialla, e lo strato di ghiaccio sulla strada pareva fatto di gesso. I semafori erano lì soltanto per lui.

Aveva male alle mani.

Un aereo gli passò basso sopra la testa. Alzò gli occhi e vide cinque luci bianche, di cui una lampeggiante, e un'unica luce rossa, anch'essa lampeggiante. Il motore emetteva due rumori distinti, un ronzio cupo e un sibilo acuto e più discreto. In breve tornò il silenzio.

Durante la lunga camminata verso casa, le interruzioni furono poche. Subito prima di Chambers Street udì un grido e il rumore di passi affrettati, ma girato l'angolo non vide nessuno. Più tardi, su South Bridge, gli passò a fianco un'auto con colpi di clacson e bambini che salutavano da un finestrino aperto. Più avanti ancora, una scatola di cartone appiattita faceva da parete al mucchio di stracci che grugniva sommessamente sulla soglia di un negozio abbandonato. Fuori da un altro negozio all'angolo, un taxi rigettò un cliente sbronzo sul marciapiede. Il tassista imprecò e l'ubriaco rispose per le rime. Molto più tardi, in una zona residenziale, incrociò una donna che attraversava la strada barcollando e brontolando, avvolta in un cappotto stretto che pareva una camicia di forza.

Mentre si avvicinava a casa, qualche sporadica luce faceva capolino dalle cucine e dai bagni dei più mattinieri. Un gatto bianco balzò giù da un davanzale e gli soffiò contro mentre correva a nascondersi sotto un'auto parcheggiata. Non aveva mai incontrato un gatto che lo sopportasse. Per quanto ne sapeva, le sue ascelle emettevano un odore sgradevole che solo quegli stronzetti erano in grado di percepire.

Il portone del condominio in cui abitava la madre non era chiuso a chiave. Un paio di settimane prima qualcuno lo aveva aperto con un calcio spaccando la serratura. Le luci delle scale rivelarono quattro mezzelune incise nella carne di entrambi i palmi dove le sue unghie avevano scavato. Allargò le dita per stendere la pelle.

Al primo piano un cane si mise ad abbaiare, probabilmente provocato dall'odore del gatto che Pearce aveva ancora addosso. I latrati cessarono solo quando si trovò davanti alla porta dell'appartamento a frugarsi nelle tasche in cerca delle chiavi. Un pezzo da dieci pence gli schizzò fuori da una tasca, cadde sul pavimento di pietra del pianerottolo e prese a rotolare in direzione delle scale. Pearce ci sbatté sopra lo stivale con un boato simile a un tuono. Al piano di sotto il cane si rimise ad abbaiare.

L'appartamento era buio e freddo.

La porta della camera di sua madre era aperta, il letto vuoto avvolto in un raggio di luna. Pearce andò alla finestra e tirò le tende.

In cucina prese una lattina di Stella dal frigorifero e la portò in soggiorno. Si tolse gli stivali e si stese sul divano, le ginocchia piegate, la testa appoggiata a una pila di cuscini. La birra aveva un gusto acidulo.

Dopo il secondo sorso tornò in cucina e versò il contenuto della lattina nel lavello. L'odore gli dava la nausea. Bevve dell'acqua dal rubinetto, si sciacquò la faccia e bevve un altro sorso.

Tornato in soggiorno, scelse un Cd dalla collezione della madre. I suoi dodici Cd erano impilati sul pavimento accanto allo stereo. Al buio non riusciva a capire quale disco avesse scelto, ma non faceva nessuna differenza. Tanto sua madre non li rimetteva mai nella custodia giusta. Aprì il contenitore e prelevò il disco.

Power. Modalità Cd. Play.

Pochi secondi dopo abbassò leggermente il volume con un sorriso sulle labbra. Burt Bacharach. Close to You.

Si coricò sul divano e rimase nel dormiveglia finché l'alba cominciò a infiammare il cielo del mattino.

Ore 8:21.

Pearce chiuse il rubinetto e si guardò allo specchio. Si sfregò il mento con il dorso della mano gelata. Doveva farsi la barba.

Non ora.

Esaminò il cellulare. A pezzi, ma ancora funzionante. Nessun messaggio. Diede un'occhiata all'orologio e chiamò Ailsa Lillie.

Ailsa farfugliò un «Pronto».

- Tutto bene? - le chiese.

- Chi parla? Pearce? Oh, Cristo. Dammi un minuto che mi sveglio. Cristo.

- Ti richiamo più tardi?

- No, lascia stare -. Sbadigliò. - Cristo. Ma che ore sono?

Pearce glielo disse. - Non avrei dovuto chiamarti così presto, - aggiunse.

- Non è presto. È che sono pigra da far schifo -. Sbadigliò ancora. - Allora, l'hai incontrato?

- Sì. Gli ho detto di non avvicinarsi mai più né a te, né a tua figlia.

- E lui?

- Ha detto che non lo farà.

- Tutto qui?

- Tutto qui.

- Cristo. Troppo facile. Tu gli credi?

- Ho buoni motivi per farlo. Diciamo che gli ho dato da pensare.

- Sono contenta che mi hai chiamata, Pearce. Anche se fosse notte fonda.

- E tu? Hai restituito la pistola?

Il suo tono di voce cambiò. - No, zero -. Emise un verso rabbioso, di gola. - Se vuoi saperlo, c'ho provato, ma Ben non c'era, e a quanto pare nessuno sapeva dove si fosse cacciato.

- Bene.

- I soldi te li… Cosa?

- Non è un problema.

- Credevo che…

Le banconote di Thompson gli ingrossavano la tasca posteriore dei jeans. - Il debito te lo paga il tuo ex. Fino all'ultimo penny.

- Non se ne parla neanche -. Ailsa alzò la voce. - Come hai fatto a convincerlo? L'unica volta che ho ottenuto qualcosa ci sono dovuta andare a letto.

Pearce si sentiva la gola secca. - Questa volta non devi fare nulla. Nemmeno un pompino.

- Non voglio niente da lui.

- Accettali. Sono soldi tuoi.

- Non li voglio i suoi soldi.

- Li ha dati a me. Pagherò io per te.

- Ho una dignità, Pearce.

- Ok, facciamo che li devi a me anziché a Cooper. Così come ti sembra?

- Già meglio.

- Ailsa, io… - Pearce chiuse gli occhi. Errore. Si ritrovò all'ufficio postale, davanti a lui la madre, il coltello in gola. Le ginocchia gli cedettero. Fece un passo in avanti per recuperare l'equilibro. «Smettila». Tentò di riaprire gli occhi. Non voleva rivedere la scena. Ma le palpebre erano pesantissime, e non c'era verso di smuoverle. Lo pervase il profumo dolce della madre. Si sentì la lingua impastata quando disse a Ailsa: - Ieri è successa una cosa.

- Con Pete?

- Qualcos'altro -. Udì il respiro della madre, vide la paura nei suoi occhi. Vide l'aggressore fuggire, la madre farsi avanti, lanciargli le braccia attorno alla vita e dirgli che stava bene, che non era successo nulla. Bugie. Nient'altro che bugie.

- Me lo dici o devo indovinare? - Un'altra pausa. Alla fine Ailsa disse: - Ormai sono sveglia, Pearce, ma se non hai voglia di parlare posso anche tornarmene a letto.

Nel preciso istante in cui sua madre era morta gli erano esplosi fuochi d'artificio nel cervello. Una giovane infermiera tentò di consolarlo. Ma chiamò la sicurezza dopo che Pearce ebbe lanciato una sedia contro il muro. Lui si scusò. Non le fece notare che quella cazzo di sedia avrebbe potuto lanciarla giù dalla finestra. E che poi avrebbe potuto lanciare giù anche l'infermiera e tutti quegli idioti della sicurezza. Lo lasciarono in pace per un po' e la rabbia si placò lentamente, mano a mano che gli fu chiaro quale fosse il suo compito. Non aveva mai avuto davvero scelta. Vide gli anni allungarsi per l'eternità. La sua vita era finita. Chissà quanto gli avrebbero dato, stavolta. Sua madre scosse il capo e lo accusò di non aver imparato nulla.

Gli occhi gli si aprirono di scatto. L'allucinazione svanì. Sua madre aveva torto: lui qualcosa aveva imparato. Forse gli ultimi dieci anni non gli avevano insegnato tanto, ma di un fatto era assolutamente certo. Questa volta non avrebbe passato l'intera mattina ad affilare un cacciavite.

Disse a Ailsa: - Mi serve il tuo aiuto.

Ore 9:15.

I soldi erano raccolti in mazzette da cento banconote ciascuna.

Robin passò il dito su una mazzetta di biglietti da dieci. Erano soffici e sbiaditi, usati al punto giusto. Accostò la mazzetta al naso e inspirò. Birra acida, mozziconi di sigaretta in portacenere colmi, la traccia persistente di un profumo economico, due del mattino, il barista che sembrava suo padre quando diceva: «Figlio mio, sei una sanguisuga», una donna di cui non conosceva il nome che gli si appoggiava alla spalla, alzava il capo, gli respirava sulla guancia, gli faceva il solletico con i capelli sul mento, gli sussurrava nell'orecchio, gli sussurrava il proprio nome, continuava a sussurrargli il proprio nome, mentre le sopracciglia le si annerivano e ingrossavano e contorcevano poi gli cadevano sul collo.

Si svegliò di soprassalto, grattandosi il collo affannosamente. Maledette sanguisughe. Erano sedici cazzo di anni che sognava sanguisughe. Sin da quando suo padre… Troppo veloce il respiro. Ah, fanculo papà. Perché non poteva sognare qualcos'altro, una volta tanto? Respiro profondo. Doveva mettere il sogno per iscritto finché lo ricordava? No, il suo attuale terapista non era interessato ai sogni. Alcuni lo erano, altri no. Questo sembrava più interessato alle sue prime esperienze sessuali. Respiro. Lento. Profondo.

«Primo orgasmo? A dieci anni, in piedi nella vasca da bagno. Le ginocchia mi cedono. Credo di essermi fatto male. Credi che venga a raccontartelo?»

Raccolse i soldi dal pavimento dove li aveva lasciati e li buttò sul tavolo. Si stiracchiò, cercò da fumare. Al diavolo il sesso. Non valeva la pena di esaltarsi tanto. Bum bum, che stronzate. L'accendino era quasi scarico, ma al terzo tentativo finalmente si accese. Contemplò i soldi attraverso la fiamma. Quattordici mazzette di pezzi da dieci, sei da venti, una sola da cinquanta. Niente male per un pazzo svitato. Al di sopra del tavolo vagavano lente volute di fumo. Spense l'accendino ed espirò dal naso mentre trentunomila sterline esentasse facevano sfoggio di sé sul tavolo davanti a lui.

Con Eddie e Carol fuori dai piedi, quei soldi erano tutti suoi.

Aveva un piano, un piano che poteva persino funzionare. Se lo beccavano, checcazzo, avrebbe chiesto l'infermità mentale. Di testimoni certo non ne mancavano.

Era stato su tutta la notte a bere caffè, fumare una sigaretta dopo l'altra, guardare la Tv con il volume a zero, ascoltare le notizie alla radio. Ogni tanto ricontava i soldi, scorrendo le banconote con dita che non smettevano di tremare. Si alzò diverse volte per andare a lavarsi la faccia. Si pulì le narici con le estremità di un quadrato di carta igienica, e dato che il tanfo non se n'era ancora andato si infilò due batuffoli di cotone nel naso. Infine si spalmò il dentifricio all'interno delle narici. Bruciava di brutto, ma non bastò a eliminare la puzza di lacca per capelli della cassiera.

Diede un'occhiata a Carol. Dormiva come una bambina, facendo qualche bel sogno su Eddie, poco ma sicuro.

Era stravaccato sul divano quando cominciò il radiogiornale delle cinque e trenta. Non era stanco. Rifletteva, cercava di concentrarsi, imbrigliato nel tentativo di prendere una decisione difficile. Dopo aver valutato i pro e i contro per quella che doveva essere come minimo la decima volta quella notte, giunse di nuovo alla conclusione che per Carol era finita. Doveva esserlo. Dopotutto, che cosa aveva da perdere ormai? Gli rispose lo speaker, che con estremo distacco lesse: «La donna accoltellata durante la rapina a un ufficio postale di Edimburgo è morta ieri notte in seguito a una ferita alla gola. La signora Hilda Pearce… »

Due parole gli riecheggiarono in testa. «E morta».

Decine di sanguisughe profumate gli si attaccarono alla faccia. Barcollò, i muscoli dello stomaco che gli si attorcigliavano. Le sanguisughe gli strisciarono in gola, sgusciarono giù per l'esofago, si infilarono nei polmoni soffocandolo con il profumo di Hilda Pearce. Non riusciva a respirare. Il cuore gli martellava nel petto. Era stordito, nauseato, atterrito. Aveva paura? Davvero? Sì, si stava cagando addosso.

Hilda Pearce lo aveva proprio fregato. Ormai non poteva più tornare indietro.

Nessun dubbio, dunque. Nessuna smentita. Non era stata colpa sua, ma che importanza aveva? Incidente o no, era un assassino.

Lo speaker lo confermò: «Sull'omicidio è stata aperta un'inchiesta».

Un assassino. Aveva la pancia rigonfia di lumaconi neri e profumati.

Si precipitò in bagno e vomitò nella tazza per alcuni minuti. Lo stomaco gli si stringeva a ogni conato, e gli occhi gli lacrimavano dal dolore. Svuotato lo stomaco, vomitò bile, tremando dalla testa ai piedi. Poi appoggiò al muro la fronte madida di sudore e si strinse con le proprie braccia. Era come se gli avessero annodato l'intestino.

Aveva la lingua coperta di bile, e ogni volta che deglutiva sentiva minuscole sfere di fuoco ustionargli la gola. E quelle due parole continuavano a martellargli in testa come un secondo battito cardiaco.

«È morta».

All'improvviso si accorse di sentire un dolore alla testa nel punto in cui era appoggiata al muro. Si raddrizzò di scatto. Forse si era addormentato per qualche minuto. Ma no, non poteva essere. Non con tutta l'adrenalina che gli scorreva nelle vene. Non era stanco. Neanche un po'. L'orologio faceva le sette e venti. Era passata un'ora e cinquanta minuti dal radiogiornale.

Si alzò in piedi e aprì la doccia. Se non si era addormentato, dov'era finito quel lasso di tempo? Oh, Dio. Forse stava accadendo di nuovo. Doveva aver dormito, non fosse altro perché non c'era altra spiegazione. Cominciò a svestirsi goffamente. Entrò nella doccia e chiuse la porta, dopodiché restò immobile sotto il getto d'acqua, il capo chino e le mani strette al petto, mentre spilli roventi gli si conficcavano nella nuca. L'odore si era fatto più intenso. Si spruzzò del sapone sul palmo di una mano e si insaponò. Si fece uno shampoo. Si sciacquò.

Uscito dalla doccia si lavò i denti. Si fece la barba. Si tappezzò le narici col dopobarba. Un bruciore pazzesco.

Ore 9:16.

- Che vuoi? - Ailsa Lillie teneva la porta aperta con una mano. Con l'altra si copriva l'occhio pesto.

Pearce ignorò la domanda. - Ti sei tinta i capelli -. Quel giorno Ailsa aveva i capelli castano scuro con una sfumatura rossastra. Il giorno prima, gli sembrava di ricordare, erano completamente grigi.

- Medaglia d'oro per lo spirito di osservazione -. La bocca le si irrigidì.

- Intendo dire, - spiegò Pearce, - che così mi piacciono. Dimostri dieci anni di meno.

- Cristo, allora prima sembravo una vecchia -. Indossava un paio di jeans sbiaditi e un top bordeaux con le spalline. Era scalza. Un abbigliamento non proprio invernale, pensò Pearce. Si guardò le braccia scoperte. «Senti chi parla». - Mi vuoi dire che succede o no? disse Ailsa.

Nell'oltrepassare la soglia, il suo braccio sfiorò quello di lei. Pearce non disse nulla.

Ailsa ripeté la domanda allargando gli occhi. Poi si fregò il braccio nel punto in cui si erano toccati.

Pearce non riuscì a guardarla negli occhi per un bel po'. Abbassò lo sguardo. Merda. Dritto in mezzo alle tette. E indovina un po'? Non portava il reggiseno. Pearce alzò lo sguardo e scoprì due crepe sul soffitto che, incrociandosi, formavano una X frastagliata. Sentì la mano di lei scaldargli il bicipite.

Ailsa tolse la mano di scatto quando Pearce abbassò nuovamente il capo. - Tua figlia come sta?

- Becky sta bene, - rispose Ailsa spostandosi rapida lungo l'anticamera. Si voltò. - Ha ancora una voce da schifo e non riesce a parlare più di tanto, ma sta migliorando. Le ho detto di te. Mi ha detto di ringraziarti.

- È ancora in ospedale?

- È a Glasgow, da mia sorella. Là sta più al sicuro.

- Non avevo capito. Pensavo fosse ancora…

- È fuori da un paio di giorni. L'hanno tenuta lì solo per una notte. I letti d'ospedale sono merce preziosa.

- Giusto. Forse un giorno la conoscerò.

- Forse, - disse Ailsa.

Pearce rubò un'ultima occhiata al soffitto e si mosse verso di lei. Ailsa fece dietrofront e lui la seguì fino in soggiorno. Gli stivali lo facevano sentire impacciato, temeva di calpestarle le dita. Ailsa si accomodò sul divano e Pearce le si sedette accanto. Lei lo guardò, le punte dei piedi convergenti, gli alluci che si toccavano, le unghie rosse fiammanti.

Qualcosa di pesante gli cresceva nel petto. Tossì con il pugno davanti alla bocca. «Basta che le chiedi se può prestarti la pistola. Non c'è bisogno che sappia altro». - Si tratta di mia mamma, - disse. Tossì ancora. - Ha avuto un incidente.

Il viso di Ailsa si irrigidì. La sua mano scattò dal grembo al polso. - È… grave?

Pearce si appoggiò allo schienale e fissò la parete di fronte. Sopra il camino, chiuso con assi di legno, era appeso un quadro. La tela era dominata da decine di ovali, alcuni bombati in varie tonalità di rosso, altri sottili in tonalità di verde. Numerose linee curve nere tracciate a casaccio davano l'impressione che qualcuno vi avesse aggiunto una sfilza di sopracciglia. Mentre Ailsa gli tamburellava con i polpastrelli sul dorso di una mano, Pearce le raccontò quanto era successo.

Ailsa non lo interruppe nemmeno una volta. - Mi dispiace davvero, Pearce. Cristo, è terribile. Immagino che non sappiano chi…

Pearce mantenne lo sguardo fisso sul dipinto. Aveva la bocca talmente asciutta che la lingua cominciava a screpolarsi. C'era qualcosa in lui che stava per esplodere. Deglutì.

- Guardami, - disse Ailsa. Gli strinse la mano e gliela agitò in su e in giù. - Se c'è qualcosa che posso fare…

Pearce deglutì ancora una volta, liberando delicatamente la mano dalla presa. Dopodiché si voltò piano verso di lei.

- Tirati su, - disse Ailsa con gli occhi che le scintillavano come pietre di giada tirate a lucido.

Pearce scosse il capo. - Non ho nessun motivo per tirarmi su -. La sua voce si fece più sottile. - Sai, credevo che mi sarei sentito triste -. Fece una pausa. - Eravamo molto legati -. Unì le mani sul ventre. - Ma non è così.

- Vedrai che succederà. -Dici?

- Te lo assicuro, - disse Ailsa. - Forse ci vorrà un po' di tempo, ma vedrai che succederà.

- Ho aspettato dieci anni. Non ho… - Strinse i pugni. - Voglio dire, mia madre… Dovrei essere disperato, ma non lo sono. Sono furioso, quello sì. E un po' stanco, e affamato come non mai. Ma, - distese le dita, - niente di eccezionale.

- È normale come reazione.

- Davvero?

Ailsa sorrise, e Pearce si rese conto di quanto fossero bianchi i suoi denti. - Cosa ti va di mangiare?

- Non stare a disturbarti.

- Nessun disturbo. Non ho ancora fatto colazione. Pearce si alzò. - Ti porto fuori da qualche parte.

Dove vuoi tu. Offre Pete Thompson.

- Siediti, - disse Ailsa, e Pearce si lasciò cadere sul divano. - Da Pete non accetto un soldo. Allora, cosa ti preparo? Uova, bacon, salsiccia? - Pearce annuì. - Fagioli lessi? - Pearce annuì ancora.

- Posso fare qualcosa? - domandò, mentre Ailsa si allontanava saltellando sugli avampiedi.

- Vieni con me in cucina, se vuoi -. Si fermò sulla porta con un ginocchio piegato. - A tenermi compagnia.

Ore 9:29.

L'odore di Hilda Pearce era ancora lì, ora misto a una putrescenza stomachevole, come se il tanfo dei sacchi dell'immondizia neri ammucchiati sul marciapiede di sotto fosse filtrato attraverso le sottili fessure tra le assi dei ponteggi installati dagli operai.

Quando si fu calmato un po', Robin si allontanò dalla finestra. Colpi di pistola penetrarono la parete: il vicino sordo si era appena messo a guardare il primo film di cow-boy della giornata. Robin diede un'occhiata all'orologio. «Quasi, tesoro. Ci siamo quasi».

Carol era uscita sul presto dicendo di voler prendere una boccata d'aria, fare una passeggiata. Quella zoccola. Era certamente salita su un taxi e via, dritta verso casa di Eddie, a togliersi i vestiti prima ancora di arrivare alla porta. Credeva che non lo sapesse?

Robin tirò fuori una sigaretta e cominciò a infilare le banconote in una valigia di pelle. Doveva portare i soldi con sé. Nel caso in cui l'occasione non si fosse presentata, era importante che tutto procedesse normalmente. «I soldi sono qui. Che motivo c'è di perdere il collo? Controllo. Perdere il controllo». Chiuse la valigia e la portò in anticamera. Il gancio al quale era solitamente appeso il suo giubbotto preferito era vuoto. L'aveva gettato nell'immondizia la sera prima, insieme alla borsa sportiva.

Il soprabito nero lungo fino al ginocchio, indossato solo un paio di volte, puzzava ancora di nuovo. Se lo infilò e allacciò i bottoni sul davanti. Tornò in bagno, tolse il tappo al lavandino e fece defluire l'acqua color cremisi. Esaminò il coltello. La lama luccicava di goccioline d'acqua. Sembrava pulito. O per lo meno si vedeva che qualcuno aveva cercato di pulirlo. Difficilmente sarebbe passato inosservato a un esame della Scientifica, ma che importava? Lo strofinò con un asciugamano, poi asciugò l'umidità residua usando un paio di fazzoletti.

Di nuovo in soggiorno, infilò il coltello nel fodero, e prima di aprire la porta d'ingresso lo depositò nella tasca del soprabito. Ora le mani gli tremavano un po' meno, ma scendendo le scale di corsa sentì le gambe ancora deboli.

Uscì. Il cielo era coperto di nuvole di bambagia imbrattate. Gettò la valigia sul sedile posteriore della macchina e inclinò lo specchietto retrovisore. Perché mai? Non ce n'era alcun bisogno, visto che lo specchietto era esattamente come l'aveva lasciato lui. Carol non si era neanche avvicinata all'auto, perciò non c'era alcun cazzo di motivo valido per regolare quello specchietto di merda. Perdere il collo? Doveva tenere duro. Fece un respiro profondo. «Tienilo a distanza».

A meno di due metri dal cofano, quattro piccioni beccavano per terra. Quando Robin accese il motore, tre di loro volarono via. Mandò il motore su di giri e il piccione rimasto fece su e giù con la testa, agitò brevemente le ali e per un istante sembrò sul punto di zampettare in avanti, ma non si mosse, non volendo rinunciare allo spuntino che gli era stato servito accanto al marciapiede.

Robin scese dall'auto e fece qualche passo verso l'animale. - Devi andartene di qui, - disse. - Cos'è? Vuoi farla finita?

Il piccione scrollò il capo e spiccò il volo, sbattendo appena le ali. Senza troppa fatica si andò a posare su un lampione non molto distante e reclinò la testa.

Robin tornò alla Clio e si accartocciò sul sedile. Il soprabito nuovo era piuttosto pesante. Si sentiva le braccia goffe, come trascinate verso il basso da una zavorra. Il tessuto gli dava prurito ai polsi. «Devi farlo». Batté le mani sul volante. «Devi farlo, fallo, fallo». Partì. Perdere il collo? Sarebbe stato un bel lapsus.

Del viaggio verso casa di Eddie non ricordava nulla. Si era trovato lì all'improvviso, a procedere a passo d'uomo lungo Polwarth Gardens in cerca di un parcheggio. Come al solito la scelta non era ampia, e il fatto che non volesse sostare troppo vicino all'appartamento non facilitava certo le cose. Finalmente trovò un posto largo abbastanza per la Clio in fondo alla strada. Parcheggiò in retromarcia e spense il motore. Accasciandosi sul sedile riusciva a scorgere l'appartamento di Eddie al secondo piano da una certa angolazione. Piegandosi in avanti poteva vedere la porta d'ingresso del palazzo, pitturata di un rosso vivo. In quel momento Carol era di sopra. A scoparsi Eddie.

Robin strinse forte il coltello nella tasca. Ne era davvero capace?

Sul marciapiede opposto, una giovane donna si voltò a richiamare un bambino rimasto indietro a sguazzare in una pozzanghera. Il piccolo chinò il capo e avanzò strisciando i piedi. La donna stette ad aspettare. Quando fu vicino lo afferrò per un braccio e lo scrollò. Lui non reagì. Lei gli diede un ceffone. Ancora nessuna reazione. Lo rimproverò e gli diede un altro ceffone, più forte di prima. Il bambino si mise a strillare.

Un autobus sopraggiunse rumoroso e si fermò in fondo alla via. Non scese nessuno. L'unica a salire fu una ragazza magrolina con i pantaloni a zampa d'elefante.

Una pioggerella leggera cominciò a punteggiare il parabrezza. Sciami di auto ronzanti gli passavano a fianco. La madre e il bambino scomparvero in un'edicola all'angolo. Robin trasse il coltello dal fodero e prese a sfregarsi la lama sui peli sottili del dorso della mano.

Si, ne era capace.

Quando risollevò lo sguardo vide Carol in piedi di fronte all'ingresso. Che furbizia. Sapevano bene entrambi quanto Robin fosse puntuale. Carol aveva agito con un tempismo perfetto. Se non avesse saputo la verità, avrebbe giurato che fosse appena arrivata.

Ore 9:47.

In cucina faceva caldo e aleggiava un odore di salsicce fritte.

«Chiedile la pistola». Pearce finì la quarta fetta di pane con la marmellata e disse: - Basta così. Non ce la faccio più.

Ailsa versò un'altra tazza di caffè. Mentre era piegata in avanti, a Pearce cadde l'occhio sulla scollatura. «Oh, cavolo. Piantala di fissarle le tette». Pearce sistemò il piatto di lato, insieme agli altri già impilati, e continuò a spostare coltelli e forchette finché Ailsa non si rimise a sedere. «Chiedile la pistola». Ailsa sedeva a lato del tavolino. Quando accavallò le gambe, il suo piede finì per penzolare a pochi centimetri dallo stinco di lui.

Pearce versò un po' di latte dal cartone e bevve un sorso di caffè. - Mi serve la pistola, - disse.

- Non dire stupidate.

- Dammi la pistola, Ailsa.

- Senti, Pearce, lo so che…

- Se non mi dai la tua, me ne procuro una da qualche altra parte.

- Non è tanto facile.

- Tu l'hai trovata senza problemi.

- Ho un passato sporco. Frequentavo gente poco raccomandabile.

- E io chi sono? Un santo?

- Io non so chi sei tu -. Si scostò i capelli appena tinti da un occhio. - A cosa ti serve?

Pearce bevve un altro sorso. La fissò, sostenendone lo sguardo. Sembrava davvero molto più giovane. - Ad ammazzare una persona.

- Per l'amor del cielo -. Ailsa distolse lo sguardo, la lingua incastrata tra le labbra appena distaccate. Sbatté le palpebre, poi ritrasse la lingua. - Ma che cazzate dici? E perché?

- C'è bisogno di chiederlo? - Pearce afferrò la tazza con entrambe le mani, poi strinse, immaginandola frantumarsi come un teschio in una morsa.

- Lascia che se ne occupi la Polizia.

- Ammettiamo che Thompson si fosse spinto oltre -. Pearce allentò la pressione sulla tazza, la sollevò e bevve il caffè rimasto. - Che avesse ucciso Rebecca. Che cosa avresti fatto?

- Non riesco a immaginarlo, Pearce.

- Saresti stata lì a girarti i pollici mentre Thompson se la rideva? Seduta lì a non fare niente mentre la Polizia faceva finta di dare la caccia all'assassino di tua figlia? Pensi davvero che gliene freghi qualcosa? - Fece una pausa. - La pistola ce l'hai. Sei a metà strada. Ti mancano solo le munizioni. Se Thompson avesse ucciso Rebecca avresti trovato il modo di procurarti qualche cazzo di proiettile, giusto? - Ailsa non rispose, così Pearce ripeté: - Giusto?

Ailsa annuì lentamente.

- Dammi una mano, Ailsa.

- Oh, Dio, Pearce.

- Facciamo così: io comincio a prendere la pistola, - disse. - Se puoi darmi anche un nome o un numero di telefono per le munizioni, te ne sono grato.

Ailsa cascò in avanti come con il collo spezzato. - Ben non dà il numero di telefono a nessuno.

- Così si chiama? Ben? Ben cosa?

- Non so altro. Comunque non credo sia il suo vero nome.

- Dove posso trovarlo?

Ailsa sollevò il capo. Aveva gli occhi chiusi. - Gli dirò quello che cerchi.

Pearce disse: - Quando?

Ailsa aprì gli occhi. - Passami il cellulare.

Lui glielo porse.

- E una cattiva idea -. Cominciò a fare il numero.

- Finirai in galera. O peggio -. Premette con forza l'ultimo numero e portò il telefono all'orecchio. - Alice? - C'era una falsa allegria nella sua voce. - Sì, bene. Joe-Bob è lì?

Pearce portò i piatti al lavello.

- Aha. Allora riprovo tra una ventina di minuti.

Pearce aprì il rubinetto e saggiò la temperatura dell'acqua con il pollice. - Vuoi davvero farmi credere che a Edimburgo esiste qualcuno che si chiama Joe-Bob?

- Come fai a dire che ho chiamato un numero di Edimburgo? - disse Ailsa adagiando il telefono sul tavolo.

- Ma certo, - disse Pearce. - Dimenticavo. Glasgow è famosa per i suoi Joe-Bob.

- Joe-Bob abita a Haddington, se proprio vuoi saperlo. Ed è un soprannome. Odia la musica country -. Si mosse verso di lui. - E no, non ho idea di quale sia il nome vero.

Pearce mise il tappo al lavello. - Joe-Bob? - ripeté spruzzando uno strato abbondante di detersivo sui piatti.

- Giuro su Dio -. Ailsa era accanto a lui, in piedi, il sedere appoggiato a quello che sembrava il cassetto delle posate.

- E da dove salta fuori?

- Amico di Ben. Ci organizza lui le cose.

- Perché non possiamo organizzarcele noi da soli? - chiese Pearce chiudendo il rubinetto.

- Ben non lavora così.

- Cos'è, parla solo tramite interprete? - Pearce raccolse uno dei piatti e lo pulì da una striscia di salsa di pomodoro.

- Ben vende armi, - disse Ailsa incrociando le braccia. - Logico che stia attento a parlare.

Pearce sciacquò il piatto e lo ripose nello scolapiatti. - Come lo conosci questo tizio? - Lei volse lo sguardo al pavimento. - Scusami, - disse Pearce immergendo nuovamente le mani nella saponata. - Non sono cose che mi riguardano.

Ailsa si passò una mano sul viso. Con la punta delle dita tracciò la curva di un sopracciglio. - Joe-Bob era il mio pusher.

Alcuni schizzi d'acqua raggiunsero il pavimento di linoleum quando Pearce afferrò Ailsa per un polso. Aveva le dita scivolose. Le bolle di sapone gli scoppiettarono sul dorso della mano. L'acqua gli scese verso il gomito dandogli prurito all'avambraccio. Ailsa strillò e con uno strattone liberò la mano.

- Che hai? - Strinse i pugni. - Be'? Vuoi vedermi i segni, dico bene? - Allargò le dita e congiunse le braccia, mostrandone la parte interna pallida. Poi tornò a stringere i pugni. - Allora?

Pearce le esaminò le vene. Sembravano normali.

- Non vedo niente.

- Non ti vengono i segni se ti fumi l'eroina, coglione. Pearce fece un cenno col capo. - Ti sei mai bucata? Ailsa scosse la testa.

- Mai avuto la tentazione?

- Certo che sì, - rispose Ailsa con lo sguardo fisso sul pavimento. - Anche se vedevo quello che succedeva ai miei amici -. Alzò la testa. - Cristo, che vuoi ancora?

- Adesso sei pulita?

- Secondo te?

- Hai detto che Joe-Bob era il tuo pusher. Può voler dire che hai smesso di drogarti, ma pure che ne hai trovato un altro.

- Non voglio più parlarne.

Pearce fece scendere l'acqua nello scarico.

- Mi hai chiesto come ho conosciuto Joe-Bob, - disse Ailsa. - Ora lo sai, e spero che sia soddisfatto.

Pearce fece per cercare un asciugamano.

Lei lo osservò per un po', poi infilò la mano sotto il piano della cucina, tirò fuori uno strofinaccio e glielo lanciò. - Mi sembravi un tipo gentile.

Pearce si asciugò le mani, piegò in due lo straccio, lo piegò una seconda volta e lo posò sul piano accanto al lavello. - Cioè saresti più contenta se non me ne fregasse niente di cosa ti infili nelle vene?

- Non sono cazzi che ti riguardano.

- Giusto.

- E comunque te l'ho detto, non mi sono mai bucata -. Fece alcuni passi verso il tavolo e si mise seduta. - Non me ne sono neanche mai fumata troppa, di eroina. Joe-Bob trattava anche il temgesic. Mi facevo di quello.

Tutto quello che Pearce sapeva sul temgesic proveniva da due fonti. In un esame tossicologico effettuato durante il suo periodo di reclusione a Barlinnie, il due per cento della popolazione carceraria era risultato positivo al temgesic. Voleva dire ben l'1,5 per cento in più rispetto alla cocaina. Anche sua sorella aveva preso il temgesic più di una volta per tirare avanti fino al buco successivo. Le sue fonti di informazione erano entrambe troppo personali per poterne parlare con una donna appena conosciuta. No che non lo erano. In un modo o nell'altro, Ailsa sarebbe venuta a sapere del suo passato, prima o poi. Se non glielo raccontava lui, lo avrebbe letto da qualche parte, spiattellato su tutti i giornali. Per nulla al mondo la stampa si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di far un mucchio soldi a suon di titoloni su un avanzo di galera. Be', per dirla con le stesse nobili parole di Ailsa, non erano cazzi che la riguardavano. Si sforzò di corrugare la fronte.

- Pillole, - spiegò Ailsa. - Buprenorfina. Morfina sintetica. In pratica un surrogato dell'eroina, con una forte euforia come effetto collaterale. Joe-Bob ne aveva sempre perché glielo fornivano i tossici che lo prendevano con la ricetta per disintossicarsi dall'eroina. Ovviamente non ha mai funzionato. Il temgesic era diventato una specie di moneta. Merce di scambio per bucarsi.

- E tu compravi 'ste pillole da Joe-Bob?

- Per un po' sì.

- Ma ora non più.

- Ti sembro una tossicomane? Poi Joe-Bob ha anche smesso di spacciare.

- Fatto carriera?

Ailsa annuì. - Assistente di Ben. Pearce raccolse il cellulare e glielo porse. - Provi a richiamarlo?

Ore 9:56.

Eddie chiuse la porta del bagno con un piede. Si allacciò la cintura mentre attraversava il breve corridoio, e aprì la porta del soggiorno. Sinatra cantava LA. Is My Lady. Eddie si unì al canto, ma si interruppe appena vide la pistola sul tavolo. La portò via con un guizzo, urtando la borsetta di Carol che roteò, si rovesciò e cadde sul pavimento. Eddie disse: - Che ci fa qui la mia pistola?

Il soggiorno era ampio, con il soffitto alto. Lungo la parete opposta c'era un divano vuoto, con sedie da regista blu coordinate ai due capi di un tappeto orientale. Verso la finestra, le assi di legno con venature nere del parquet scintillavano alla luce di due lampade da tavolo ornate di nappine in stile art déco. La fiamma del fornello tremolò per lo spostamento d'aria provocato dal passaggio di Eddie.

Carol gli dava la schiena. Aprì le pesanti tende verdi e stette a guardare fuori dalla finestra, facendo un tiro interminabile dalla sigaretta.

Eddie alzò la voce. - Ehi, sto parlando con te.

Carol si girò appena e sollevò le sopracciglia. - Sta per mettersi a piovere -. Raccolse dal pavimento un portacenere di vetro e lo appoggiò sul davanzale.

- Carol, che cavolo ci fa qui la mia pistola?

Carol si tolse qualcosa da sopra la gonna con la mano che teneva la sigaretta. Eddie si avvicinò e fu inondato da un fumo grigioazzurro. Ripeté il nome di lei e ribadì la domanda.

Il seno le si gonfiò e sollevò quando tirò un'altra lunga boccata. Scrollò la sigaretta nel portacenere, espellendo volute di fumo dal naso.

Eddie si mosse con passo deciso, la afferrò per il braccio e le puntò la pistola alla testa. - Per quale motivo, - scandì, - era sul tavolo?

Carol aveva gli occhi freddi come sassi. - Eddie, lasciami il braccio.

- Credi che non la voglia usare? - Tolse la sicura.

- Rispondi alla domanda.

- Ho fatto la bambina cattiva? - Inclinò la testa facendogli due occhioni innocenti.

Eddie affondò le dita nel braccio. - Dimmi che cosa hai fatto con la pistola.

- Me la sono infilata nelle mutandine, - disse Carol.

- Non è quello che vorresti anche tu? Me la sono strofinata tra le gambe. Mi ci sono strusciata, bagnata, eccitata -. Si passò la lingua sul labbro superiore. - Senti qua, - disse poi staccandogli la mano dal braccio e guidandola verso il basso.

- Non abbiamo tempo, - disse Eddie. - Robin sarà qui a momenti.

Lei lo baciò sul collo spingendogli la mano giù per la gonna. - Ma adesso non c'è.

- Aspetta -. Eddie reinserì la sicura alla pistola, dopodiché la ripose sul davanzale accanto al portacenere mentre Carol continuava a stringergli la mano, giunta ora all'altezza della coscia, sotto la gonna.

All'inizio di tutto Carol aveva detto: «Non voglio mai più fare sesso». Eddie si era azzardato a pensare che Robin fosse un amante del tutto insensibile. Più avanti Carol aveva messo a tacere quell'ipotesi affermando: «Quando ho un orgasmo, provo solo rabbia».

Lui la guardò e si domandò che cosa avesse provocato quel cambiamento emotivo in lei. Stringerle il braccio? Puntarle la pistola? Era forse il suo modo di reagire a una minaccia fisica? Eccitarsi? Di certo sembrava così. Questa era nuova. Nuova e non per forza spiacevole.

Non avrebbe mai immaginato che sarebbe andata in quel modo. In realtà, per la maggior parte del tempo aveva pensato che non sarebbe mai accaduto, e adesso che stava per succedere faceva fatica a credere ai suoi stessi sensi. Ma a quanto pareva si, stava per, stavano per…

Dapprima avvertì una sorta di formicolio. Poi un lieve senso di calore, un dolore ardente che si fece presto intenso. Lanciò un urlo. Aveva il dorso della mano in fiamme. Cercò di muoverla ma lei strinse più forte. Guardò in basso, fra le gambe di lei. Si era tirata su la gonna. La osservò con stupore spegnergli la sigaretta sulla mano. Lei buttò indietro la testa e proruppe in una risata. Lui, urlante, riuscì a liberare la mano con uno strattone, e il mozzicone spento cadde sul pavimento. Carol fece qualche passo indietro barcollando.

- Cristo -. Era talmente sconcertato da non riuscire a fare altro che fissarla. La mano gli pulsava di dolore, e scrollarla non migliorava le cose. - Cristo -. Si voltò e si avviò verso la cucina. Arrivato davanti alla porta fece dietrofront e tornò da lei. - Non capisco, disse.

Carol era ancora di spalle, la fronte appoggiata al vetro.

- Perché l'hai fatto?

Carol si mise ad ancheggiare, alzò le braccia sopra la testa e appoggiò i palmi alla finestra. Sinatra cantava in tono sommesso su una base funky dei primi anni Ottanta con chitarra e sintetizzatore.

Eddie raccolse la pistola dal davanzale dietro le natiche volteggianti di Carol. Notò che aveva gli occhi chiusi. Solo Carol poteva guardare fuori da una finestra con gli occhi chiusi. Non che ci fosse nulla da vedere. Di fronte, appartamenti deserti. Sotto, in un giardino interno circondato da case popolari, corde gialle per stendere i panni, vuote, appese tra quattro aste. L'unica vista decente era in camera da letto. Lanciò un'ultima occhiata a Carol, poi infilò la pistola nella cintura e andò in cucina.

L'acqua fredda lenì il dolore, ma come tolse la mano dal flusso, il calore pungente ritornò quasi subito. La rimise sotto il rubinetto e ce la lasciò mentre rifletteva su come comportarsi riguardo a Carol.

Era imprevedibile, ostile, violenta. Il che si sarebbe anche potuto accettare se ogni tanto ci fosse scappata una bella scopata. Ma, se andava bene, gliela faceva solo annusare. A letto, quelle rare volte, dormiva dalla sua parte, senza mai toccarlo, come fosse un altro uomo costretto dalle circostanze a condividere il letto con lui.

Doveva dirle che era finita. E in fretta. A pensarci bene, perché aspettare? Glielo avrebbe detto subito, in quel preciso momento, prima di cambiare idea. «Non ne voglio sapere, Carol. Sei fuori come un balcone».

Chiuse il rubinetto e cercò di asciugarsi la mano con lo strofinaccio. La pelle bruciacchiata protestò quando fece pressione. Gettò il panno sul piano della cucina e fletté le dita. «È finita. Ne ho abbastanza delle tue stronzate. Guarda cosa m'hai fatto alla mano. Guarda qua. E finita. No, non discutere. È finita».

- Come va la mano? - Carol lo aveva seguito. Lo cinse con le braccia all'altezza della vita e intrecciò le dita dalle unghie smaltate di blu pochi millimetri al di sopra dell'inguine.

- Fa un male cane.

- Ti spalmo la crema.

- C'è qualcosa che…

- Quello che provo per te… - Carol sciolse le mani e lo tirò per un braccio. Faccia a faccia, Eddie notò che le si erano annebbiati gli occhi. - A volte mi spaventa -. Gli teneva la mano ferita nella sua. - A volte agisco senza pensare -. Se la portò alle labbra e la baciò nel punto in cui l'aveva bruciata. - Mi perdoni?

Eddie sbatté le palpebre. Il calore delle labbra aveva acuito il dolore alla mano. Un dolore intenso. La prese tra le braccia e la strinse al petto.

Lei si rannicchiò nel suo abbraccio sfiorandogli il collo con le labbra, e disse: - Credo che Robin abbia capito tutto.

Ore 10:06.

Pearce disse: - Allora?

- Joe-Bob dice che per le munizioni non ci sono problemi. Ci vediamo a pranzo, a meno che non richiami lui per annullare.

- Ci vediamo?

- E me che conosce, vuole che venga anch'io.

- Va bene. Ma dobbiamo incontrare per forza 'sto Joe-Bob? - disse Pearce. - Perché non Ben?

- Ce l'hai con Joe-Bob, per caso?

- Ce l'ho sempre avuta con gli spacciatori.

- E dura. Ben non potrà esserci -. Ailsa si esaminò il dorso di una mano. - Non si sente molto bene. Ieri sera qualcuno ha pensato bene di sbattergli la testa contro un tubo d'acciaio -. Ruotò la mano e si guardò le linee sul palmo. - Perciò o Joe-Bob, o niente.

Ore 10:18.

Pearce stava per uscire e raggiungere Cooper quando gli squillò il cellulare. Istintivamente pensò: mamma. Poi si ricordò che non c'era più, accoltellata da quel figlio di puttana col passamontagna. Strinse il pugno, sentì il sangue di lei scorrergli tra le dita, e per non tremare dovette appoggiare i gomiti sul tavolo.

Ailsa gli passò il telefono.

Pearce lo afferrò con fin troppa veemenza. - Pronto.

Silenzio.

- Pronto -. Nessuna risposta. Non era in vena di giocare. Riattaccò. Ailsa lo fissava. Lui si strinse nelle spalle. Il telefono squillò di nuovo. - Parla, - disse.

- Non riattaccare.

Qualcosa di sottile e affilato e incandescente lo trafisse allo stomaco.

- Sono io. Julie.

La troia che lo aveva incastrato. La zoccola che se l'era squagliata con l'anello di fidanzamento da mille sterline. Ma c'era di più. Si era portata via anche il suo orgoglio. Pearce restò in silenzio. Il dolore allo stomaco si era fatto insopportabile.

- Pearce? Sei ancora lì? - Sospirò. - Ascolta, volevo soltanto… ehm… Ho sentito alla radio che, ecco, sì, di tua mamma. E volevo, ecco, vista la situazione…

Muovendo solo le labbra Ailsa chiese: - Chi è? Pearce respirava con la bocca distorta in una smorfia. - E la troietta che m'ha derubato, - disse.

- Perché l'ha fatto?

Pearce inspirò. - Perché è una vacca da due soldi.

- Pearce, testa di cazzo, sto cercando di…

- Chiudi il becco.

- Con chi parli?

- Non tu, Ailsa, scusa.

- Chi è Ailsa?

- Un'amica. Vuoi parlarci?

Pearce porse il telefono a Ailsa, poi si mise a camminare su e giù per la cucina mentre Ailsa e Julie si presentavano. A poco a poco, lo stomaco si calmò. Ailsa non parlava molto, piuttosto ascoltava, ogni tanto aggrottava le sopracciglia, annuiva, scrollava il capo. Pearce si fermò accanto al tavolo e tese una mano per avere il telefono. Senza dire una parola, Ailsa glielo restituì.

Julie stava dicendo: - …perché cioè, come ho già detto, dubito addirittura che a quello sfigato vada ancora in tiro.

- Finiscila, - disse Pearce. - Non provare a…

- Oh, ancora tu, cazzo moscio.

- Vai a farti fottere.

- Ti piacerebbe, eh?

- Dove sono i miei soldi?

- Cristo, Pearce, dacci un taglio. Non li rivedrai mai più i tuoi soldi. Ce li ho io. Be', a dire il vero li ho già spesi quasi tutti. Mi hai anche dato lo scontrino, coglione. Vuoi sapere che cosa mi sono comprata?

- Non avresti dovuto farlo.

- Allora? Vuoi sapere che regalini mi sono fatta? Sì o no?

Un'altra fitta gli scavò l'intestino. Urlò nel telefono. - Mia madre è morta e tu sei ancora viva, brutta puttana troia schifosa di merda vaffanculo! Non può essere andata così. Non può essere così!

- Non l'ho uccisa io. Non prendertela con me.

Ailsa gli strappò di mano il telefono e parlò nel microfono. - Lascialo in pace -. Spense il cellulare e lo ripose sul tavolo. - Pearce?

- Merda -. Pearce si strofinò la fronte con il dorso di una mano.

Ailsa attese un istante prima di chiedere: - Chi era quella troia-puttana-merda-cazzo-vaffanculo o come l'hai chiamata tu?

Pearce scosse la testa. - Un errore.

- Ce ne sono tanti?

- Non di recente, - rispose Pearce abbandonandosi sulla sedia più vicina e lasciando cadere la testa. Il dolore pungente allo stomaco aveva ceduto il posto a un lento pulsare. - Mia madre ogni tanto ci teneva a ricordarmi che ero uno stupidone buono a nulla -. Gli bruciavano gli occhi, gli scoppiava la testa e aveva bisogno di riposo. Si massaggiò le tempie. - Riguardo a Julie aveva assolutamente ragione.

Avvertì la mano calda di Ailsa sul braccio, appena sotto il polso. - Vuoi andare a letto? - gli domandò. Pearce aveva la gola secca, e con voce rotta disse:

- Non c'è tempo.

Lei lo guardò dritto negli occhi. Dopo un po' incrociò le braccia appoggiando le mani sui bicipiti. - Intendevo dire…

- So bene quello che intendevi dire -. Con un dito, Pearce spinse la base del cellulare, che ruotò. Spinse più forte, e il telefono fece un giro completo. Poi lo fece ruotare nella direzione opposta. Quando alzò lo sguardo, Ailsa lo stava ancora fissando. Pearce tornò a contemplare il cellulare e con l'unghia ricalcò la crepa sul telaio.

- Ci sono ancora un sacco di cose da fare, - aggiunse.

- Certo.

- Devo portare i soldi a Cooper.

- Giusto.

- Prima dell'appuntamento a pranzo con Joe-Bob.

- Aha -. Ailsa posò i gomiti sul tavolo e si chinò in avanti, appoggiando il mento nelle mani a coppa. - Faresti bene a schiacciare un pisolino. Sembri esausto.

- Io non schiaccio pisolini. Ailsa si drizzò. - Allora dormi.

- Quando mi addormento, - disse Pearce, - mi addormento sul serio. Non mi sveglio più.

- Ti sveglio io.

Pearce adocchiò l'orologio. - Devo sbrigarmi -. Si avviò alla porta.

- Vuoi portarti la pistola?

Pearce si voltò. - A che scopo? Zero munizioni fino a oggi pomeriggio. Tienimela al sicuro tu -. Fece altri due passi in direzione della porta.

- Pearce?

Lui si fermò. Questa volta restò con la faccia rivolta alla soglia stringendo la maniglia. - Che c'è?

- Secondo te, Pete Thompson è sparito per sempre?

Pearce lasciò la maniglia. - Sei ancora preoccupata?

- Quando ci sei qui tu mi sento tranquilla. Ma so che appena esci dalla porta ricominciano i dubbi.

- Credo proprio che abbia recepito il messaggio, disse Pearce. - Ma passerò a trovarlo un'altra volta, se vuoi. Tanto per essere sicuri.

Ore 10:36.

Con le mani piantate nelle tasche del soprabito camminò lungo il viottolo che conduceva alla porta rossa, appariva tranquillo a chiunque lo osservasse.

I citofoni erano disposti su due colonne da sei. Estrasse la mano destra dalla tasca e premette il citofono che diceva «Soutar».

- Sei tu? - La voce suonò familiare, ma era distorta dall'altoparlante. Restò in attesa. Dopo un po' udì il cicalino e aprì la porta. Una volta dentro la guardò chiudersi alle sue spalle.

Nella tromba delle scale, una luce fioca conferiva alle pareti una tonalità marrone merda. L'aria era impregnata di un odore opprimente di ammoniaca. Si avviò per le scale di pietra. Erano umidicce. Sul pianerottolo del primo piano c'era uno spazzolone abbandonato in un secchio e appoggiato al muro. Alla ringhiera era legata una bicicletta. Al secondo piano la luce era un po' meglio. Guardando in alto riusciva a malapena a scorgere un piccolo lucernario ovale. L'odore sembrava meno intenso lassù. O forse ci aveva solo fatto l'abitudine.

Si fermò davanti alla porta di E. Soutar. La targhetta di ottone luccicò in un raro raggio di sole. Si morse il labbro per la trepidazione. Si sfilò i guanti e se li cacciò in tasca, dopodiché suonò il campanello.

La porta si aprì pochi secondi dopo.

- Dove sono i soldi? - L'uomo che gli aveva fatto la domanda era biondo, sotto la trentina. Aveva il colletto della camicia bianca slacciato, le maniche rimboccate e la mano sinistra bendata. La bocca gli rimase aperta anche quando ebbe finito di parlare.

- Signor Soutar? - Quell'uomo aveva un non so che di familiare. - C'è… Sono venuto per… C'è… c'è Robin?

- Robin? - La ragazza apparve alle spalle di Soutar.

- Sì, sto cercando Robin Greaves.

- Non dire stronzate. Dove sono i soldi?

Diede un'occhiata a Soutar. Sembrò più vecchio di cinque o sei anni quando strinse gli occhi azzurro pallido. - Quali soldi?

- Oh, merda, - disse la ragazza. - Oh, merda. Oh, porcaccia merda. Come ti chiami?

- Don, - disse lui con un sorriso.

- Oh, Cristo d'un Dio! Ne avevamo proprio bisogno.

- Zitto, Eddie.

- E adesso che cazzo facciamo?

- Taci. Sto cercando di pensare.

- Ti prego, Carol, non dirmi che è sbroccato un'altra volta!

- Vuoi chiudere quella cazzo di bocca? Così non fai che complicare le cose.

- Volete che me ne vada? - chiese Don. - Se adesso non è il momento adatto…

Carol scosse il capo. - Dove sono i soldi, Don?

Don si strinse nelle spalle. Quella specie di interrogatorio cominciava a dargli fastidio. - Non voglio più rispondere a tutte queste domande. Me ne vado.

- Resta.

- Magari un'altra volta.

La ragazza disse: - Eddie, non farlo andare via.

Accadde così in fretta che Don non ebbe il tempo di reagire. In qualche modo Eddie gli era già alle spalle con un braccio intorno al collo mentre con l'altro gli aveva bloccato un polso dietro la schiena. La porta si chiuse con uno schianto. Carol corse in soggiorno. Don batté la mano libera sull'avambraccio che lo stava strangolando. Eddie gli spinse il braccio ancora più in su. La mano fasciata non sembrava impacciarlo più di tanto. Il fiato caldo di Eddie gli faceva il solletico dietro il collo.

- Questo è proprio un gran bel tempismo di merda, - disse Eddie spostando su di lui tutto il peso del corpo.

Attraverso la porta aperta, mentre Eddie lo spingeva verso di lei, Don notò che Carol si era messa in posa alla finestra con le mani sui fianchi e il viso inespressivo. Con aria indifferente fece sbucare una sigaretta dal pacchetto sbattendolo sul davanzale della finestra. La accese e risucchiò subito la nuvola di fumo che stava per sfuggirle dalla bocca.

Era piccola di statura e chiara di carnagione, e il modo in cui fumava lo eccitava. Gli bastò uno sguardo per capire che di una così si sarebbe anche potuto innamorare.

Eddie lo spintonò, e lui cadde atterrandole ai piedi.

- E adesso che ne facciamo di te? - disse lei.

- Hai idea di come fare? - disse Eddie. - Io no di sicuro.

Don si sollevò mettendosi seduto. - Di che soldi parlate? Non ne so niente.

- Zitto, tu.

- Sì, vedi di tacere.

Don si grattò un polso. - Come volete, ragazzi.

La ragazza si allontanò facendo un passo verso il centro della stanza. Si chinò, raccolse una borsetta blu scuro dal pavimento e la posò sul tavolino. - Ti chiami Donald, giusto?

- Puoi chiamarmi Don, se ti va.

Eddie portò le mani dietro la schiena e prese a dimenarsi come in preda a un terribile prurito. Contrasse il viso. Aveva i denti storti e la mandibola leggermente arretrata. Quando le sue mani riapparvero, una delle due impugnava una pistola. La puntò su Don. - Tu ti chiami Robin, demente rincoglionito che non sei altro -. La pistola vibrò minacciosa.

Don sentì delle goccioline di sudore scendergli giù per la schiena e irritargli la pelle. Quell'Eddie aveva un caratteraccio.

Carol disse: - Puoi abbassare le mani.

Don le appoggiò al pavimento lungo i fianchi.

- Eddie, chiedigli del malloppo.

- Perché io?

- Per darti qualcosa a cui pensare. E togli quel dito dal grilletto.

- Non tentarmi, - disse Eddie. - Don, dove sono i soldi?

- Ma quali soldi? Non ne so niente. Quante volte ve lo devo dire?

Carol disse: - Ma sì che lo sai dove sono. Pensaci. Dove li ha messi Robin?

Don disse: - Santo cielo…

Eddie agitò l'arma e gridò: - Dove cazzo sono?

- Non lo so -. E a un tratto ricordò perché si trovava lì. - Io ero venuto qui per fare qualche domanda alla signora Wren sulle sue esperienze con alcuni farmaci su prescrizione.

- Ah, davvero? - disse Eddie. - Credevo stessi cercando Robin.

- Infatti. Sono sposati, no?

- Non fare il furbo. Carol, c'è niente che tu possa fare?

- È senza speranza, - rispose Carol.

- Provaci. Magari trovi uno spiraglio.

Carol domandò a Don: - Perché io? Perché Robin?

- Siete sulla lista della nostra azienda.

- Come hai avuto i nostri nomi?

- Royal Midlothian Hospital. Dai dati relativi al vostro ricovero. Ma non si preoccupi. Le informazioni sono riservate.

- Come hai fatto a trovarmi?

- Ieri ho parlato con Robin. Ha detto che vi avrei trovato qui entrambi.

Eddie si stava mordicchiando il labbro inferiore. Smise un istante per domandare: - Quali farmaci?

Don cercò di ricordarne i nomi. Si rivide in mano i flaconcini in modo abbastanza distinto da leggere le etichette. - Sulpiride. Mellaril. Stiamo studiando quelli che definiamo effetti paradossali.

Eddie disse: - Che roba è?

- Diciamo così quando un farmaco produce effetti contrari a quelli per cui è stato creato.

Carol disse: - Così non andiamo da nessuna parte.

Eddie abbassò il braccio armato. - La strizza potrebbe farlo tornare in sé -. Sollevò di nuovo l'arma e disse: - Parla.

- Non capisco cosa volete che vi racconti, - disse Don. - Vi ho già spiegato.

Carol disse: - Per favore, diccelo.

Don la guardò. - Io non ne so un cazzo, di 'sti soldi -. Si mise a cercare il portafoglio. - Posso mostrarvi il mio biglietto da visita.

Eddie piegò indietro la testa e disse: - Merda. Carol, mi sa che fa sul serio.

- Sì, - disse Carol. - Non c'è dubbio.

Eddie fece un altro tentativo. - Li hai forse lasciati in macchina?

Quel bastardo invadente non voleva darsi per vinto. - Pensi che sia stupido, Eddie? - Don si era stufato. Decise di dare a Eddie qualcosa a cui pensare. - Li ho lasciati a casa, i soldi.

- Carol, te l'avevo detto che era meglio se li portavi qua tu -. Eddie fece un passo verso Don e gli porse la pistola. - Non avresti dovuto perderli di vista neppure un secondo.

- Ma stava bene, prima.

Don smise di frugarsi nelle tasche. Era una specie di offerta di pace? Forse Eddie voleva far vedere a Don che la pistola era scarica, per dimostrargli che non era mai stato realmente in pericolo. Che era tutto un gioco. Eddie ruotò l'arma di centottanta gradi, tenendola per la canna. Sollevò il braccio. Don ebbe un brivido non appena gli balenò in mente un'interpretazione più realistica della situazione. Eddie non gli stava affatto porgendo la pistola. Don allungò una mano per tentare di afferrare l'arma, ma era troppo tardi. Il calcio della pistola lo colpì un centimetro circa a sinistra della sommità del cranio. Vide tutto rosso, poi viola. Gli rombarono le orecchie ed emise un grugnito. Il secondo colpo lo raggiunse un po' più sul davanti. La fronte gli esplose in una luce bianca. Cadde di faccia, e l'ultima cosa che ricordò fu il sapore salmastro del pavimento.

Ore 10:40.

Con schiere di eleganti palazzi signorili in stile georgiano, o condomini che si spacciavano per tali, eretti secondo uno schema a scacchiera, la New Town si estendeva all'ombra della Old Town a nord di Princes Street Gardens. Perdersi sembrava impossibile, ma la prima volta che Pearce aveva cercato South Broughton Place, era stato costretto a telefonare a Cooper per farsi dare indicazioni. La via non era riportata sulla cartina del centro.

«È una specie di continuazione di Union Street, gli aveva detto Cooper. - Veramente ci sarebbe da cambiargli il nome in Cooper Street. Per tre quinti è tutta roba mia. Be', come via non è che sia enorme. Ma comunque. Anche il sessanta per cento di una via piccola, coi prezzi della New Town, è pur sempre un gran bel gruzzoletto». Poi si era fermato, in attesa che Pearce gli chiedesse i particolari. Ma a Pearce il patrimonio personale dello strozzino non interessava minimamente, perciò era rimasto in silenzio. Per nulla scoraggiato, Cooper aveva detto: «Milioni, se vuoi saperlo, caro mio. Milioni».

Pearce arrivò in fondo alla collina. Il terreno proseguiva in pianura e la strada si allargava. South Broughton Place era sulla sinistra. Le porte erano numerate dall'uno al cinque.

Un uomo anziano, armato di cesoie, se ne stava in fondo al suo giardino. Salutò Pearce con un cenno al suo passaggio. Due numeri civici più avanti, Pearce aprì il cancello, si lasciò alle spalle un'aiola soffocata dalle erbacce e si avvicinò a uno stabile in pietra arenaria grigio argento. Prima di suonare il campanello si sincerò di avere ancora in tasca le banconote di Thompson.

I soldi erano solo un pretesto. In realtà era venuto per ottenere informazioni.

Sentì la voce di Cooper: - Chi è?

- Pearce.

Una pausa. - Non si può dire che t'aspettassi, ma sali pure.

Si udì il cicalino. Pearce aprì la porta con uno spintone ed entrò.

Cooper abitava al pianterreno, in fondo. La targhetta d'argento sulla porta era delle dimensioni di un computer portatile. Pearce stava per bussare quando si accorse che la porta era accostata. La spalancò, allungò la testa e disse: - Salve -. Non rispose nessuno, così entrò e chiuse la porta. Diede un'occhiata nel corridoio. Da qualche parte, nell'appartamento, qualcuno cantava una ninna nanna. Piuttosto intonato, anche se un po' gutturale. Pearce disse: - Signor Cooper? - Silenzio. Si mosse nella direzione dalla quale proveniva la voce e trovò lo strozzino nella cameretta di un neonato. Pearce bussò alla porta.

Cooper alzò lo sguardo e chiuse la bocca di scatto.

- La porta era aperta, - disse Pearce.

- Te l'ho lasciata apposta -. Cooper aveva i capelli arruffati e il mento punteggiato da una barbetta ispida. Tra le braccia stringeva un neonato con gli occhi chiusi. Notò lo sguardo di Pearce fisso sul piccolo e disse: - Sally è uscita.

Pearce non aveva mai sentito quel nome. - Peccato non averla incontrata.

- La conosci?

- Mai avuto il piacere.

- Probabilmente sei l'unico -. Cooper borbottò qualcosa che Pearce non capì.

- Come dice?

- Sedici anni -. Cooper strascicò i piedi inciabattati sul tappeto. - 'Sta puttanella, - disse sedendosi ai piedi del letto. - Crede di sapere tutto lei -. Gli brillarono gli occhi. - Come tutti a quell'età, no?

Pearce appoggiò una spalla a un armadio in mogano. - Non sapevo che avesse una figlia.

- Infatti non ce l'ho -. Cooper corrugò la fronte. Sally è la madre di 'sto moccioso, - disse inclinando leggermente il piccolo per mostrarlo a Pearce. - Mio figlio, - aggiunse cullandolo tra le braccia. - Gary.

- Temo di avere appena fatto una gaffe.

Cooper storse il viso e liquidò il problema con un gesto. - Ma chi vuoi che se ne freghi? Ti capita mai di sentirti vecchio, Pearce?

Pearce si grattò il mento con il dorso della mano. - A volte sì.

- Hai mai scopato una sedicenne?

- Solo quando avevo quindici anni.

- Ha la pelle più tesa di quella di un tamburo. Impressionante. Ma adesso che il pulcino è uscito, è diversa.

- Davvero?

- Lo vuoi un consiglio? Non ne vale la pena. Ti fa sentire un rudere.

- Grazie per la dritta.

- Una pelle tesa che…

- Quanto ha Gary?

- Eh? - Cooper aggrottò le sopracciglia. - Quasi quattro mesi.

- Sembra tranquillo -. Pearce spostò il peso del corpo da un piede all'altro, staccando la spalla dall'armadio e appoggiando la schiena al muro.

- Dorme, - disse Cooper trascinandosi verso il lettino incastrato in un angolo della stanza. Mise il figlio sotto le coperte e gliele rimboccò per bene. - Voglio il meglio per lui. Ecco perché gli ho dato un nome famoso -. Gli diede un bacio sulla fronte e aggiunse: - Gary Cooper. Così parte già avvantaggiato, eh?

Pearce disse: - Non me ne aveva mai parlato.

- Non mi piace parlarne in pubblico -. Cooper si avviò verso la porta. - La paternità è roba da finocchi, giusto?

Pearce non commentò. Impossibile discutere su una considerazione del genere. Seguì Cooper lungo il corridoio fino in soggiorno.

Cooper disse: - Bevi qualcosa?

Pearce scrollò il capo.

- Come posso esserti utile? - Cooper indicò un enorme divano avvolto in alcuni teli fin troppo sgargianti.

Pearce immaginò che il dito teso fosse un invito a sedersi. Si tolse il rotolo di banconote dalla tasca posteriore dei jeans e si mise seduto. - Le ho portato un po' di soldi.

- Mi stupisci.

Pearce si fece vento con le banconote. - Perché?

- Tua madre è deceduta ieri notte, ma tu oggi sei qui coi miei soldi, - spiegò Cooper. - Questa sì che è professionalità. Lo apprezzo molto.

- Allora ha sentito?

- Io sento tutto, lo sai -. Sedendosi, Cooper fece sibilare la sedia in cuoio verde oliva. - Quanti me ne hai portati?

- Non sono tutti per lei.

- Non lo sono mai. È triste, ma così è la vita.

Pearce contò trecento sterline e posò le banconote sul tavolino di vetro di fronte a sé. - Ailsa Lillie. Per intero -. Pensò al vecchio con le calze. L'uomo che tempo addietro era piaciuto a sua mamma. - Cant, disse: e contò il suo debito. - Per intero -. Quanto rimaneva bastava a pagare Joe-Bob per le munizioni. Cooper non si era mosso di un centimetro. Pearce disse: - Vuole contarli?

- Cosa credi? Che non mi fido di te? - Cooper appoggiò una gamba sul bracciolo della sedia. La ciabatta gli penzolava dal piede. - Hai fatto un buon lavoro.

- Non si dimentichi le mie commissioni.

- Quant'è? Centosessanta? Ne hai ancora di strada da fare.

- Salderò il mio debito -. Pearce si infilò in tasca il denaro rimasto.

- Non ne dubito.

- Signor Cooper -. Pearce chiuse la mano destra a pugno e strinse forte. - Devo chiederle un favore.

Cooper sorrise. - Vuoi un altro prestito?

- Niente del genere.

- Allora cosa?

- Io so che lei sta sempre in campana -. Pearce deglutì. - Non succede quasi niente senza che lei lo venga a sapere -. Strinse ancora più forte il pugno. - Per caso è al corrente di qualcosa, qualsiasi cosa, riguardo all'uomo che ha ucciso mia madre?

- Mi piacerebbe -. Cooper guardò il soffitto. - Vorrei davvero poterti aiutare. Ma per quanto ne so, fai prima a chiedermi che misura di reggiseno porta la regina -. Cooper carpì con lo sguardo gli occhi di Pearce. - Vuoi sapere cosa penso?

Pearce non ebbe il coraggio di parlare. Annuì.

- E gente nuova. Questo è un gruppo che non ha mai lavorato a Edimburgo prima d'ora. Almeno non prima dell'ultimo paio di rapine -. Fece qualche movimento circolare con il piede, poi prese a farlo ballonzolare su e giù. - Non ha lavorato neanche a Glasgow, Liverpool, Manchester o Newcastle. L'avesse fatto, lo saprei. Nessun membro della banda ha mai avuto a che fare con qualcuna delle mie conoscenze -. Il suo piede si fermò. - Neppure la Polizia ha idea di dove cercare. Pearce strappò un batuffolo rosso da uno dei copridivano. - Cosa mi sta dicendo esattamente?

- Che non lo troverai.

Pearce arrotolò il batuffolo tra le dita. - Se dovesse scoprire qualcosa me lo farà almeno sapere?

- Ma certo, - disse Cooper. - Perché non ti prendi qualche giorno di riposo, eh? - Tolse la gamba dal bracciolo della sedia e posò il piede sul tappeto. - Sarai sconvolto. Poi ci sarà il funerale e tutto -. Si alzò. - Che ne dici, figliolo?

Pearce esaminò il batuffolo in equilibrio sul dito indice. Un attimo dopo lo lanciò in aria con un movimento fulmineo del pollice. Atterrò dall'altra parte del tavolino. - È gentile da parte sua, - disse alzandosi in piedi.

- Sicuro che non ti va di fermarti un minuto a bere qualcosa?

Pearce rispose: - Ho un appuntamento in un centro massaggi.

Ore 10:42.

- È dentro -. Dalla macchina, Kennedy aveva visto Robin Greaves attraversare la strada e passeggiare lungo il viottolo che conduceva alla porta rossa. Da pochi minuti Edward Soutar era uscito da quella stessa porta. - Devo aspettare qui?

- Sì. Richiamami quando…

- Aspetta. Dobbiamo parlare.

Kennedy udì il boss schiarirsi la gola. - Di cosa?

- Lo sai benissimo.

- Se lo sapessi non te lo chiederei.

- Merda -. Kennedy schioccò le labbra. - D'accordo, cominciamo. Per quale motivo non abbiamo contattato la Polizia?

Il capo rimase un po' in silenzio. - Dobbiamo proprio parlarne al telefono?

Kennedy tamburellò con le dita della mano sinistra sul volante. - Se vuoi torno in ufficio.

- Resta dove sei.

- Rispondi alla domanda.

- Senti, non sono fatti tuoi.

- Ma li hai fatti diventare tuoi.

- Che vuoi dire?

- Hai dato a quel tipo… come si chiama?… Quello a cui hanno accoltellato la madre…

- Come faccio a saperlo?

- Era sui giornali. Pears? Pearce?

- Pearce.

- Esatto. Gordon Pearce. Ti torna in mente?

- Ho da fare, Kennedy. Dove vuoi arrivare con 'sta storia?

- Gli hai dato un biglietto da visita.

- E allora?

- Che motivo potresti avere per dargli il tuo biglietto da visita?

- Non sono tenuto a rispondere.

- Allora per te va bene se chiamo la Polizia e dico che siamo in possesso di informazioni attendibili sulla banda che ha rapinato l'ufficio postale?

- Non ti ringrazieranno. E comunque non sono fatti che ti riguardano.

- E allora che cosa ci faccio qui a pedinare Robin Greaves? Che ci faccio davanti all'appartamento di Soutar? E perché hai dato quel biglietto a Pearce?

- Non ti pago per fare domande.

- Se è per questo non mi paghi per niente. Quand'è stata l'ultima volta? Vediamo un po'… Due mesi fa.

- Ti pago per eseguire degli ordini.

- I tuoi ordini puoi anche prenderli, avvolgerli nella carta regalo con le renne di Babbo Natale e infilarteli su per il…

- Stai per essere licenziato. Non sai quanto ci sei vicino, Kennedy, ancora un centimetro e sei…

- Ok -. Il cuore gli batteva a mille. Riattaccò. Trasse un respiro profondo e restò in attesa. Quando pochi secondi dopo il telefono squillò di nuovo, Kennedy disse: - Considero moralmente disgustoso ciò che hai intenzione di fare e ritengo sia mio dovere di cittadino informare le autorità dei tuoi propositi.

- Non lo farai.

- Mettimi alla prova.

- Be', diglielo pure. Tanto non puoi sapere che intenzioni abbia.

Kennedy disse: - Pearce ti contatterà. Se non lo farà lui, probabilmente lo farai tu. Non è poi tanto difficile per uno del mestiere -. Il capo ascoltava in silenzio. - In un modo o nell'altro farai sapere a Pearce che hai il nome dell'assassino di sua madre. Come sto andando fin qui?

- Non puoi provare nulla.

- Non è necessario. Mi basta raccontare tutto alla Polizia per rovinarti i piani.

- Continua. Quali sarebbero i miei piani?

- Vendere l'informazione a Pearce.

- Quello è appena uscito di prigione. Sta scritto sullo «Scotsman» di oggi, anche se non dice perché era dentro. Non ha lavoro né il becco di un quattrino.

- Come fai a ricordarti tutti questi particolari inutili se non sapevi neanche come si chiamava?

- Ci sono cose che restano impresse.

- Sì, vedo.

- Lascia perdere.

- Allora che faccio, vado avanti?

- E ridicolo. Ok, sto al gioco. Dove li troverebbe, Pearce, i soldi per pagare?

- A parte il fatto che Pearce potrebbe avere ereditato qualcosa, c'è anche la questione della refurtiva.

- Stai forse insinuando che…

- Proprio così -. Kennedy si sentì stringere la gola, ma riuscì a mantenere la voce ferma. - In cambio del nome e dell'indirizzo di Greaves, Pearce dovrà trovare il malloppo e consegnartelo.

Il capo scoppiò in una risata che sembrò forzata.

- Ammettiamo, tanto per parlare, ammettiamo che ci stia. Perché dovrei farlo? Io non ho bisogno di soldi.

- E invece sì, ne hai bisogno eccome.

- Gli affari vanno a gonfie vele.

- Gli affari vanno di merda e lo sai benissimo. Se vanno così bene, per quale motivo non mi hai pagato il mese scorso?

- Te l'ho detto. Un problema di liquidità temporaneo.

- Temporaneo 'sto paio di coglioni. E il distributore di bibite? Perché non c'è più? Temporaneo pure quello, immagino.

- Non andrai alla Polizia, vero? Kennedy non rispose.

- Ok. Porca puttana. Quanto è profondo il tuo disgusto morale?

- Fammi un'offerta.

- Venti per cento.

- Più profondo.

- Trenta.

- Ancora oppresso dalla colpa.

- Quaranta?

- Continua.

- Quarantacinque?

- Dai, dai, ce la puoi fare.

- Cinquanta, bastardo.

- Ora sì che sono in pace con me stesso. Col cinquanta per cento posso conviverci.

- Bastardo.

- Me l'hai già detto. Ah, ancora una cosa.

- Bastardo.

- Voglio esserci anch'io quando lo vedi.

- E perché mai?

- Abbiamo detto che facciamo fifty-fifty, giusto?

- Giusto.

- Be', ci tengo a sapere la cifra del cinquanta per cento che mi spetta.

Ore 10:44.

- Bentornato -. Carol si allontanò dalla finestra. Dal giardino saliva un cinguettio sommesso.

Robin era disorientato. Si era addormentato e risvegliato con un tremendo mal di testa. - Dov'è finito Eddie?

Carol gli raccontò tutto quello che era successo, dal momento in cui era arrivato Don fino al punto in cui Eddie lo aveva messo Ko con il calcio della pistola.

Robin si mise una mano sulla testa e se ne pentì subito.

- Eddie ha preso le tue chiavi. È andato a vedere se hai lasciato i soldi in casa -. Carol si sedette sul divano e tirò fuori il pacchetto di sigarette. Ne offrì una a Robin, che accettò. Gliel'accese, poi accese la sua.

Robin disse: - E così Eddie ti ha lasciato qui da sola…

- Teoricamente m'ha lasciato qui con Don.

- E ti sentivi al sicuro?

- Era svenuto.

- Non per molto.

- Eddie mi ha lasciato la pistola.

- Dov'è?

- Segreto -. Mimò una pistola con le dita e la puntò su Robin. - Gli ho promesso che non ci avrei giocato. A meno che non ne fossi costretta. Bang, bang -. Si soffiò sulla punta dell'indice. - Addio, Don.

Robin borbottò: - Non posso credere che Eddie ti abbia lasciata da sola. Non sa che Don può essere molto pericoloso?

- Lui non voleva -. Carol gli appoggiò una mano sulla gamba. - L'ho dovuto convincere io.

- Scusami, - disse Robin tamburellando con le dita sul dorso di una mano, - ma devo andare in bagno.

- Robin -. Carol andò a prendere un portacenere e tornò a sedersi, posandogli nuovamente la mano sulla gamba. - Hai idea di cosa ti stia succedendo?

La sua determinazione era quasi svanita. Sentì la coscia bruciare sotto il calore della mano di Carol. Lei è sopra di lui, sul viso arrossato una smorfia di libidine. Gocce di sudore tra i seni nudi. Geme di piacere mentre lui scivola dentro di lei. Storce la bocca in un ghigno e urla: «Eddie».

- Devo andare, - disse Robin alzandosi in piedi. Lei non lo fermò.

Robin chiuse la porta del soggiorno, raggiunse il bagno, aprì la porta, la richiuse adagio e si infilò furtivamente in camera da letto. C'erano alcuni vestiti di Eddie appesi allo schienale di una sedia. Un paio di pantaloni neri, una camicia bianca, una calza. Si avvicinò al letto in punta di piedi. Sul piumone era adagiata una camicia da notte. Robin la raccolse, ma non la riconobbe. Profumava di lavanderia, ma dell'odore di Carol neanche l'ombra. Tirò il piumone e cercò qualche possibile macchia. Lenzuola candide. Difficile valutare. Rimise a posto il piumone. Solo uno dei cuscini aveva il segno della testa. Il bicchiere accanto al piccolo lavabo conteneva due spazzolini da denti. Uno blu, uno viola.

Si chinò in avanti e annusò i due cuscini uno dopo l'altro. Piegò la camicia da notte e la ripose sul cuscino di sinistra. Pensò di aver percepito una leggerissima traccia di White Musk. Era fradicio in viso. Procedette fino al comò sul quale, in una ciotola stracolma di ogni accessorio femminile, c'era una foto di Carol che, non ancora trentenne, indossava un vestito nero scollato, occhiali da sole e grandi orecchini d'oro ad anello, aveva le unghie corte e senza smalto, e non sorrideva. Si domandò chi avesse fatto quella foto. La girò a faccia in giù. Uno specchietto ovale regolabile fissato a una base in legno rifletteva parte del letto, un comodino, i pantaloni di Eddie, la giacca di Eddie, la calza di Eddie, e una sedia con una manica della camicia di Eddie che penzolava dallo schienale.

Le corte lame delle forbici fendettero lentamente il cotone. Il continuo aprire e chiudere le dita gli provocò un dolore sordo. Quando ebbe finito, la mano gli pulsava e il dolore cominciava a dargli sui nervi. Ripose le forbici nella ciotola. Con le dita ancora indolenzite fece un nodo al centro della manica di camicia appena recisa. La tirò alle estremità: la stoffa sembrava resistente. Rilassò le dita, le chiuse a pugno, le rilassò e le chiuse a pugno. Si immaginò già alle spalle di lei, la manica avvolta intorno al collo, il nodo che le schiacciava la trachea. Immaginò di sentirla tossire e sputacchiare, cadere all'indietro nel disperato tentativo di respirare. Si asciugò il viso col polsino della manica di Eddie, la arrotolò e se la infilò in tasca.

Si era preoccupato inutilmente.

Quando Robin tornò in soggiorno, Carol era in piedi davanti al bow-window con lo sguardo fisso sul caseggiato di fronte. Aveva messo su un Cd. Si comportava come se quella fosse casa sua. Aveva il capo chino e muoveva le anche a ritmo di musica. Louis Jordan cantava There Ain't Nobody Here but Us Chickens.

Robin frugò nella tasca in cerca della striscia di stoffa. Il sudore gli imperlò la fronte, si raffreddò e cominciò a dargli prurito mentre avanzava piano oltre la libreria, oltre il punto in cui, in teoria, era caduto il corpo privo di coscienza di Don, oltre la parte di pavimento occupata dal tappeto e fin sulle tavole scoperte del parquet, che scricchiolarono nel preciso istante in cui ci mise sopra un piede.

Ma Carol non si accorse di nulla. Stava sempre con la testa abbassata e la muoveva da una parte all'altra seguendo la musica.

Robin spostò il peso del corpo e si fece avanti avvolgendo nel frattempo le due estremità della manica intorno alle nocche. Un altro passo. Il cotone era teso al punto da poter respingere persino un proiettile. Non poteva farlo. Non aveva il coraggio di ucciderla. Carol era lì, a poco più di un metro ormai. Piegò il ginocchio sinistro, e l'orlo della gonna si sollevò sulla destra. Robin avanzò a piccoli passi, con un rumore assordante nelle orecchie a sovrastare quello dello stereo. Più vicino. Ancora più vicino. Riusciva a sentire il calore del suo corpo.

Il cuore gli martellava nel petto. Udì ancora una volta le parole dello speaker di quella mattina: «…è morta». E morta.

Robin le avvolse quel laccio improvvisato intorno al collo. Nel preciso istante in cui la manica di camicia la toccò, Carol emise un grido. L'istinto la fece balzare in avanti, lontano dall'aggressore. La sua pelle esalò una scia di White Musk.

Carol gracchiò: - Robin -. Scattò nuovamente in avanti ma rimase con un piede a mezz'aria, trattenuta dal marito. - Aiuto. Robin.

Robin fece scorrere il polsino della manica sull'altra estremità per poi infilarlo nello spazio sottostante, come stesse allacciando le stringhe di una scarpa. Card urlò. Robin tirò le estremità tanto forte da farsi incendiare i muscoli delle braccia. La trascinò all'indietro, le dita bianche per la pressione sulla stoffa. Il dolore al polso destro si fece insostenibile, e Robin dovette lottare per non cedere.

- So tutto di voi due, - le disse all'orecchio. Carol si fermò per un istante. Poi dalla gola le uscì un grugnito sommesso e balzò ancora in avanti. Con un movimento rapido, Robin cambiò presa. Almeno per il momento, il dolore si attenuò. - Stai ferma, per piacere, - disse mentre le schiacciava la gola. Il dolore tornò a farsi sentire, la vista gli si annebbiò e gli occhi cominciarono a lacrimare.

Carol lottò ancora per un po', ma questa volta in silenzio, le urla ormai strozzate sul nascere. Alla fine cadde sulle ginocchia.

Robin tirò ancora più forte, gridando per il dolore che gli lacerava le dita. Carol si era portata le mani alla gola, ma dando ripetuti strattoni da una parte e dall'altra, senza sosta, Robin la costrinse a cedere. Tra le urla, fece un ultimo sforzo per farla stare ferma. Le braccia le ciondolavano lungo i fianchi come quelle di un pupazzo. Lui non mollava. Ogni muscolo, ogni tendine, ogni nervo del braccio destro era in fiamme. Ma lui non mollava. Le braccia di Carol smisero di muoversi. Robin aspettò. Aspettò ancora. Infine lasciò la presa. Carol cadde in avanti sbattendo la testa sul pavimento.

Finalmente era immobile. Tutto finito.

Reggendosi a stento sulle gambe barcollò verso il lettore Cd e lo spense. Nel silenzio disse: - Che cosa ho fatto?

Nessuno rispose.

Robin sedette sul pavimento, a massaggiarsi le dita con lo sguardo fisso sul cadavere. C'era ancora una cosa che doveva fare, ma al momento non ricordava quale fosse. Dopo un po' smise di sfregarsi le dita. Non serviva a niente. Si trascinò verso di lei e la toccò dietro il ginocchio. Fece scivolare la mano su per la gamba e con le dita le accarezzò la carne nuda sulla coscia. Era fredda. La pelle sembrava argilla umida. Si alzò, la scavalcò con un piede e le infilò le mani sotto la pancia. Dio mio, quanto pesava. Era come se qualcuno le avesse riempito di cemento la minuscola ossatura. Robin doveva portare la maggior parte del peso con la sinistra, perché la destra gli faceva troppo male. Con il respiro pesante e la mano destra come guida, riuscì a girarla sulla schiena.

Carol aveva sbattuto la fronte sul pavimento con violenza. Intorno alla tempia sinistra e sotto il sopracciglio si era già formato un certo gonfiore. Una specie di tettoia sull'occhio chiuso. Del sangue le si era coagulato nella narice sinistra, e la punta della lingua le sporgeva in mezzo alle labbra azzurro pallido.

Strangolarla era stata la parte più facile.

Robin le sfilò la camicetta dalla gonna e cominciò a sbottonarla. Sentiva un formicolio alle dita, come se la mano si stesse riscaldando dopo essere stata immersa a fondo nella neve. Le strappò la camicetta facendo saltare via i bottoni che atterrarono sul tappeto e andarono a piroettare sul parquet. Una peluria biondo rame le copriva il ventre pallido. Con il solletico alle dita le lisciò i peli sottili, poi, dalla tasca, estrasse il coltello.

Robin fece un'incisione minuscola sopra l'ombelico, cercando di sopprimere il dolore alle dita mentre faceva penetrare la lama nella pelle. Tagliò ancora. Una goccia di sangue. Appena un graffio. Un altro taglio. Non profondo. Una linea sottile, scura e ondulata.

La mano gli tremava. Il coltello finì sul pavimento. Piegandosi sul ventre di lei, Robin posò le labbra sul primo dei tre tagli. Le sue lacrime le grondarono sulla pancia. Era di importanza vitale che finisse ciò che aveva cominciato. Si guardò le mani, esaminandosi le dita da pianista, lunghe e affusolate. Non ci riusciva. Quelle inutili mani che l'avevano strangolata non erano capaci di mutilarne il corpo.

Robin le ricoprì il ventre con la camicetta. La Polizia poteva interpretarla come voleva. «È morta. Carol è morta. Mi senti?» La voce gli urlava addosso: «Tua moglie è morta. Che hai fatto?» Robin la guardò e fu certo di vederne l'addome sollevarsi sotto la camicetta. Stava accadendo di nuovo. Il terrore si impossessò di lui. Cominciò a soffocare oppresso dal profumo di Hilda Pearce. Sentì le sanguisughe attaccarglisi dentro i polmoni. Si mise a correre verso la porta. Doveva andare via. Subito.

Ma non ci riuscì.

Ore 10:53.

Era evidente che Cooper non sarebbe stato di grande aiuto. Se anche sapeva qualcosa, non glielo avrebbe detto in ogni caso. Ma Pearce non si preoccupò più di tanto. Non ancora. D'altronde, dopo dieci anni a Barlinnie, di conoscenze utili ne aveva parecchie. Dopo la visita a Pete Thompson si sarebbe messo in contatto con J-Laing o Big Dune McNeil. Se c'era qualcosa riguardo alla malavita di Edimburgo di cui quei due erano all'oscuro, be', molto probabilmente non era ancora successo.

Dietro il banco della reception del centro massaggi, Culobasso appariva fuori luogo tanto quanto la prima volta. L'ometto offrì a Pearce il suo miglior ghigno e disse: - Ancora tu.

Pearce gli passò davanti ignorandolo.

- Ehi! - Culobasso balzò dalla sedia. - Ehi! Dove vai? - Le sue mani tozze cercarono il telefono.

Pearce procedette a grandi passi lungo il corridoio e aprì la porta dell'ufficio di Thompson.

- Fermati -. Culobasso si scagliò in avanti e lo afferrò per un braccio. Pearce si voltò di scatto, con una mano stretta a pugno. L'ometto mollò la presa e fece un passo indietro. - Ehi, - ripeté con i muscoli della guancia in tensione.

Seduto coi piedi sulla scrivania di Thompson, e vestito esattamente come il giorno prima, c'era Tony. Piegò appena una gamba e con il tacco di una scarpa lucida lasciò una riga sulla superficie della scrivania. Accanto al telefono si ergeva una pila di fogli. Tony parlò nel microfono: - Sì, ti devo lasciare -. Sollevò la mano sinistra e fece cenno a Pearce di venire avanti. - Ci sentiamo più tardi, - disse, e ripose la cornetta.

Pearce si avvicinò. Culobasso lo seguì, lagnandosi con Tony: - Mi è passato davanti come un razzo. Io gli ho detto di fermarsi.

Pearce gettò un'occhiata ai monitor. Gli schermi spenti lasciavano intuire che qualcuno si era dimenticato di accenderli. O che qualcuno aveva deciso di spegnerli. Pearce si domandò se le ragazze sapessero di non essere più sotto sorveglianza. Concedere favori sessuali in cambio di denaro doveva essere brutto già senza sapere di essere costantemente osservati. D'altro canto, però, la consapevolezza che ogni loro mossa era tenuta d'occhio forse le confortava un po'. Probabilmente si sarebbero sentite in pericolo sapendo che non c'era nessuno a vegliare su di loro. O forse la loro vita era talmente triste che, in un modo o nell'altro, non gliene importava più di tanto.

Riflesso in uno degli schermi grigio chiaro, Pearce vide Tony incrociare le braccia.

- Non preoccuparti, - disse Tony a Culobasso. La giacca che indossava sembrava di due misure più piccola. Forse gli stava bene quando aveva quattordici anni.

- Non mi ha dato ascolto -. L'omino fece su e giù con la testa come un giocattolo a carica manuale. - Gliel'ho detto di fermarsi.

- Non preoccuparti.

- E invece mi preoccupo. Guardi cosa ha fatto a Mr. Thompson -. Culobasso squadrò Pearce e fendette l'aria con un dito. - Tu, - disse arricciando le labbra pallide.

Pearce si girò verso di lui e tagliò corto: - Vaffanculo.

L'omino lasciò cadere la mano sul fianco. Respirava rapidamente, la testa che gli faceva ancora su e giù. Lanciò un'occhiata a Tony, che ricambiò lo sguardo appoggiandosi allo schienale della sedia di Pete Thompson. Quindi Culobasso guardò Pearce. Pearce guardò Tony e fece un ghigno. Tony ricambiò il ghigno. Culobasso fece dietrofront e con passo sostenuto uscì dalla porta, sbattendola dietro di sé.

Pearce disse: - 'Giorno.

Tony tolse i piedi da sopra la scrivania. - Prendi una sedia -. Il palmo della mano destra smerigliava la sinistra con movimenti circolari.

Pearce si mise seduto senza dire una parola.

Tony batté le mani, le tenne unite, poi le separò. Un secondo dopo strinse la destra a pugno e cominciò a sfregarsi le nocche contro il palmo della sinistra. - Come posso aiutarti?

- Dov'è il tuo capo?

Tony disse: - Ho letto di tua madre sul giornale -. Alzò gli occhi e aggiunse: - Mi dispiace.

- Grazie, - disse Pearce. - Allora, dov'è?

Tony si alzò lentamente. - Il signor Thompson ha deciso di lasciare.

- Lasciare il lavoro?

- Esatto -. Tony raccolse una penna dalla scrivania e le tolse il cappuccio.

- Spiegati meglio.

Tony si strinse nelle spalle.

- Mi sembra strano.

Tony disse: - Sì? - Rimise il cappuccio alla penna e la posò sulla scrivania.

- Non me l'aspettavo.

Tony piegò le spalle in avanti e fece un sospiro. - Mi sembra giusto precisare che c'è voluta una piccola opera di convincimento.

- Da parte tua?

- Diciamo che l'ho spinto nella giusta direzione. Ieri sera. L'ho aiutato a capire come stavano le cose -. Con un calcio, Tony allontanò la sedia dalla scrivania e tornò a sedersi. - Non sapevo se quello che avevi fatto tu gli fosse bastato. Dovevo esserne sicuro.

- Ora lo sei?

- Sì -. Tony si guardò le nocche, poi tornò a fissare Pearce. - Il signor Thompson è stufo di Edimburgo. Gli è venuta una gran voglia di viaggiare. Stasera gli dò una mano a fare le valigie.

- Dov'è diretto?

Tony raccolse nuovamente la penna e prese un foglio di carta dalla pila accanto al telefono. - Quando l'ho lasciato non aveva ancora deciso. Ma sa quello che deve fare.

Pearce sollevò le sopracciglia.

- Può andarsene dove vuole -. Tony si mise a scarabocchiare sul foglio. - Basta che si tenga a più di cinquanta chilometri da Edimburgo.

Pearce disse: - E casa sua?

- Non è un problema, l'affitta.

- E il lavoro?

- Si è licenziato per problemi di salute -. Tony si sistemò il bavero della giacca. - Hai davanti a te il manager provvisorio -. Si aggiustò una manica. - Fino a prossimo avviso.

- Congratulazioni, - disse Pearce, e si alzò in piedi.

Tony diede un colpo di tosse nel pugno chiuso. - Mi dispiace doverlo dire, ma vedi, per come stanno le cose, Thompson non ha più il becco di un quattrino, quindi ho dovuto prestargliene un po'.

- Come mai?

- Glieli hai fregati tu.

- Stai dicendo che un tipo come Thompson non ha da parte neanche un soldo?

- Non gli credevo nemmeno io, ma ha insistito. Questione d'orgoglio, credo. Gli ho allungato un centone tanto per convincerlo a sparire.

- Mi sembra giusto, - disse Pearce. - Allora facciamo a metà, se cinquanta ti vanno bene.

- Per me va bene.

Pearce infilò la mano nella tasca posteriore. Tony cambiò discorso. - Come sta Ailsa?

- Bene.

- E Becky?

- Meglio -. Pearce si sentì improvvisamente a disagio.

- Che brava ragazza.

- Non l'ho ancora conosciuta. Vive a Glasgow, con la zia.

- Oh, vero. Bene -. Tony distese le dita.

Nel tirare fuori i soldi dalla tasca dei pantaloni, Pearce fece cadere qualcos'altro. Tentò di afferrarlo al volo prima che raggiungesse il pavimento, ma mancò la presa. Si chinò e raccolse il biglietto da visita che l'uomo col naso bendato gli aveva consegnato il giorno prima fuori dall'ufficio postale. Il biglietto era atterrato a faccia in giù. Quattro parole, scritte con l'inchiostro blu sul retro, mandarono il battito di Pearce a mille. Ebbe un capogiro, e per un attimo credette di svenire. Si sorresse alla scrivania. Quel messaggio voleva dire ciò che pensava lui? Recuperò l'equilibrio e lesse ancora. Non poteva significare altro. Poteva riferirsi solo all'assassino di sua madre. L'uomo col naso bendato aveva scritto: SO COME SI CHIAMA.

Ore 10:55.

Mi arrampico nell'oscurità. Scivolo giù. Scivolo…

Dove sono? Ok. Rifletti. Santo cielo. Male all'anca. Sdraiato a terra. Superficie dura. Pavimento. Luci distanti. Tremolanti. Forza. Spingi. Troppo pesante. Troppo buio. Scivolo…

Mi pugnalano. Luci intense mi trafiggono. Mi infilzano il cervello. Vedo sfocato. Scivolo…

Musica nel buio. Membra pesanti. Voci. Pericolo. Silenzio. Fai silenzio. Cranio intessuto di dolore. Ho bisogno di urlare. Non posso. Ritmo. Segui il ritmo del dolore. Respiraci insieme. Non muoverti. Non devono sapere che sono sveglio. Ascolta il canto. Ascolta la voce che dice: «Aiuto. Robin».

Palpebre. Otturatori. Apri. Fotografia. Luce, luce, luce. Chiudi. Non muoverti, NO. Respira. Ancora. Apri. Clic. Chiudi. Non Eddie. Robin non è Eddie. Eddie non è Robin. Robin è… Sì. Un cappio. Intorno al collo di Carol Wren. Carol, la moglie. Eddie, l'amante. Fai due più due. Ce li ho. Ho il loro segreto. Grazie, Robin.

Sbatté nuovamente le palpebre. Si sentiva come fosse finito con la testa contro un muro di mattoni, avesse fatto un passo indietro e dato un'altra testata contro il muro. Lasciò chiudersi le palpebre. C'era davvero da credere a quanto aveva appena visto?

Altre parole. Qualcosa su Eddie. Suppliche. Poi, distintamente, Robin che diceva: - Stai ferma, per piacere -. Don socchiuse gli occhi. Robin la stava strangolando. Qualcosa si spezzò. Pavimento, rotula, cranio? Don non sapeva. Poi, un respiro affannoso. Dopo un po', passi che si allontanavano. La musica cessò. Un formicolio allo scroto. Forse adesso Robin voleva strangolare anche lui.

Robin disse: - Che cosa ho fatto?

Don voleva rispondergli. Un rumore attutito di passi scivolò sul pavimento in direzione di Don. Robin accarezzò una gamba a Carol Wren. Si scusò. Ma di cosa? Di quello che stava per fare?

Molto più di un semplice omicidio, evidentemente.

Robin si mise in piedi sopra Carol e la girò sulla schiena, grugnendo per lo sforzo. Le strappò la camicetta. Sfilò un coltello da caccia da un fodero di cuoio e cominciò a tagliarle il ventre. Non così. Non stava facendo che piccoli graffi. La lama doveva penetrare. Doveva entrare in profondità, tanto da rendere necessarie entrambe le mani per incidere ogni tratto delle quattro lettere. Don voleva proprio dirglielo. Anzi, fargli vedere come si faceva. Saltare fuori e…

Don sentì un ronzio nella testa. Un sussulto nel braccio. Era tutto così emozionante.

Robin rovinò tutto crollando sul corpo di Carol Wren in lacrime.

«Che delusione, Robin. Eddie l'avrebbe fatto. Eddie l'avrebbe fatto a regola d'arte. Glielo leggevi negli occhi mentre mi colpiva con la pistola. Brama. Piacere. Lui sì che ha stoffa».

Quando Robin si voltò, Don chiuse gli occhi. Mantenne la calma, e sentì che Robin gli posava il coltello sul palmo della mano. Sempre calmo, avvertì che Robin gli chiudeva le dita intorno al manico e gli dava una pacca amichevole sulla mano. Ora, con il coltello saldo nel pugno, Don valutò la possibilità di sfregiare la faccia a quell'essere patetico, ma Robin si era già dileguato.

Nei timpani di Don rimbombò un tuono. Una coltre di nausea lo ricoprì facendolo crollare sul pavimento. Martellate sul cranio, il cervello stretto in una morsa. Merda.

Dopo un po' si sollevò da terra, si mise a quattro zampe e si fiondò da Carol, ignorando il dolore che gli pulsava in tutto il corpo come una corrente elettrica di intensità crescente. Le scostò la camicetta dall'addome, rivelando tre tagli superficiali. Linee rosse ondulate che le scendevano in direzione del pelo pubico. Robin non aveva fatto molta strada con le lettere. La L era completa, benché appena visibile e decisamente troppo piccola. Della O aveva inciso solo un semicerchio. Ma la O doveva essere rettangolare. Era troppo difficile tracciare un ovale alla giusta profondità. Le linee dritte erano molto più facili. Specialmente se…

Carol Wren tossì.

All'inizio pensò di esserselo immaginato, ma, mentre la fissava, il petto le si sollevò, e tossì ancora. Si irrigidì in tutto il corpo. Il suo respiro era un sibilo. Don sgombrò la mente. Si trascinò dietro di lei e afferrò le due estremità della corda ancora legata intorno al collo. Gli occhi di Carol si spalancarono e lo guardarono, confusi e terrorizzati, le pupille che schizzavano da una parte all'altra. Carol aprì la bocca per urlare. Don tirò con tutta la sua forza. Le troncò il grido in gola. Lei sbatté i talloni sul pavimento. Perse una scarpa. I suoi occhi lo implorarono di smettere.

Don si fermò solo quando il laccio le fu penetrato nel collo tanto in profondità che in alcuni punti il bianco della stoffa non si vedeva quasi più.

Carol Wren aveva gli occhi fuori dalle orbite. Iniettati di sangue. E non lo imploravano più.

Don le sollevò la testa dal grembo e la posò delicatamente sul pavimento. Si alzò in piedi, si sfilò il soprabito, si tolse le scarpe e le calze. Adesso era morta. Probabile che di sangue addosso non ne avesse molto, ma la prudenza non era mai troppa. Non voleva rischiare di tornarsene a casa con i vestiti sporchi. A piedi nudi sul parquet aveva freddo, perciò tornò sul tappeto dove si sfilò il maglione. Dopodiché si tolse anche camicia e pantaloni. Quasi libero. Nessuno che potesse vedergli le cicatrici. Infilò i pollici sotto l'elastico delle mutande. Si fermò. Assurdo pensare di potersi spogliare nudo. Ritrasse i pollici. Davvero assurdo. Il fatto che fosse morta non contava nulla. Di fatto lei era lì.

Don le allargò leggermente le gambe, vi si inginocchiò in mezzo e le aprì la camicetta.

Lui sì che era capace di farlo. Appoggiò la punta del coltello sul primo dei segni fatti da Robin. Spinse con entrambe le mani e la lama affondò nell'addome. Trascinò il coltello verso di sé per una decina di centimetri. Quando estrasse la lama, la pelle si chiuse all'istante sul taglio. Reintrodusse il coltello e prese a scuoterlo leggermente da una parte all'altra per tutta la lunghezza dell'incisione Questa volta, quando tolse la lama, i margini ben definiti della ferita rimasero a una distanza di un millimetro circa. Soddisfatto, Don si apprestò a incidere il piede della L, con la bocca dischiusa per la concentrazione.

Ore 10:55.

Pearce compose il numero sul biglietto da visita camminando a grandi passi lungo il marciapiede.

- Eye Witness Investigations, - disse una voce familiare. - Come posso aiutarla?

Pearce si mise in fila alla fermata dell'autobus. - Chi parla?

- Eye Witness Investigations, come ho già detto.

- Sei il tipo col naso sfasciato?

La risposta giunse con un leggero ritardo: - Con chi parlo?

- Il biglietto, - disse Pearce. - L'hai scritto sul biglietto -. Istintivamente lo girò. - Che sai come si chiama.

-Ah.

- Chi è?

- Ah. Bene.

- Me lo vuoi dire?

- Be', magari non al telefono.

Pearce lanciò un'occhiata alla mezza dozzina di corpi stipati sotto la pensilina. Nessuno di loro mostrava il minimo interesse per la sua conversazione e, in ogni caso, il traffico quasi costante del vicino incrocio avrebbe impedito a chiunque di ascoltare. Ma forse l'investigatore aveva ugualmente ragione. Il telefono poteva essere sotto controllo, non si sa mai.

- Vengo nel tuo ufficio, - disse Pearce. Rigirò il biglietto e lesse l'indirizzo. Non era lontano. Forse una mezz'oretta a piedi. - Sarò lì tra dieci o quindici minuti, - aggiunse, e riattaccò senza attendere risposta. Se l'orario non andava bene, pazienza, una volta arrivato là lo avrebbe fatto andare bene lui.

Gettando uno sguardo lungo il tratto di strada che proseguiva in direzione di Meadowbank, non vide traccia di autobus in arrivo. Se c'era da aspettare troppo, poteva chiamare un taxi. Anche di taxi nemmeno l'ombra, ovviamente. Poteva sempre rubare una macchina. O una bici. Però doveva fare attenzione a non farsi beccare, altrimenti sarebbe finito di nuovo in galera. Dio, ma cosa gli passava per la testa? Non poteva correre rischi simili. Era stanco e confuso. Continuava a pensare alla madre, se la sentiva tra le braccia, vedeva il sangue che le sgorgava dal corpo, il viso pallido, le labbra asciutte, il respiro flebile.

Pearce non credeva in Dio. Non credeva nella vita eterna. Non credeva nell'immortalità dell'anima. Non aveva nulla che potesse aiutarlo a farsene una ragione. Era morta, come Muriel. Qualsiasi cosa ciò significasse. Non ne aveva idea. La morte era una cosa che capitava agli altri. Non poteva permettersi di pensarci su troppo, perciò fece scattare l'interruttore in testa e annientò ogni pensiero. Chiuse gli occhi e vide la madre in ambulanza, con un'espressione sul viso che non aveva mai visto prima né avrebbe voluto rivedere mai più, neppure nella sua immaginazione. Riaprì gli occhi. In galera ne aveva viste abbastanza di cose per capire che l'impazienza porta soltanto errori e rimorsi. I delinquenti che agivano d'impulso erano quelli che si facevano beccare più facilmente, e lui non voleva farsi beccare perché se l'avessero beccato poi non ci sarebbe stato più nessuno a vendicare la morte della madre e lui dove sarebbe andato a finire? Rubare un'auto? Che idea del cazzo.

Un altro flash del suo viso in ambulanza. Sentì il ghiaccio nelle ossa. «Fa' qualcosa».

Un'occhiata rapida all'orario degli autobus e scoprì che il 5 sarebbe passato quattro minuti dopo. Poteva aspettare. «Pianifica. Pensa in anticipo».

Il biglietto da visita. Il fatto che appartenesse a un investigatore privato dava un certo credito all'affermazione scritta sul retro. Era lecito dare per scontato che un detective privato fosse a parte di qualcosa che gli altri, Polizia compresa, non sapevano. Giusto? Ok, magari non lo si poteva dare proprio per scontato, ma bisognava riconoscere che era una possibilità. Merda. Voleva che l'investigatore gli desse un nome. Voleva che fosse il nome dell'assassino di sua madre. Lo desiderava con tutto se stesso. Ma come aveva fatto l'investigatore a ottenere quell'informazione? E se c'era riuscito davvero, da che fonte proveniva? Quanto era attendibile? Con che mezzi avrebbe convinto Pearce che quello era il nome esatto?

Be', pensò Pearce salendo sull'autobus, l'avrebbe scoperto molto presto.

Pearce prese posto al piano superiore e dal finestrino osservò lo spicchio di salita che, sulla sinistra, si estendeva lungo tutto Royal Terrace. Una manciata di panchine di legno, una delle quali rovesciata, lo aiutavano a spacciarsi per un parco. Un uomo alto, con i pantaloni del vestito infilati in un paio di stivali di gomma verdi, procedeva zigzagando per evitare i tratti fangosi pur avendo gli stivali già lerci. Più avanti, con le orecchie tese e la coda alzata, un collie si fermò un istante prima di dileguarsi tra gli alberi.

Il cellulare squillò mentre l'autobus svoltava in Leith Walk. Pearce rispose pensando che fosse l'investigatore. Non era lui.

Ailsa disse: - Perché non me l'hai detto?

- Detto cosa? - Lei non rispose, quindi Pearce ripeté la domanda.

- Lo sai, - disse Ailsa.

- So cosa? Di che parli?

- Cristo -. Ailsa fece una pausa. - Che sei stato in prigione. Perché non me l'hai detto?

Pearce disse: - Non è cosa di cui vado fiero -. Suonò il campanello, e nella parte anteriore dell'autobus si accese l'insegna luminosa «Fermata prenotata». Un uomo alto, calvo, con un vestito marrone trasandato si trascinò a fatica verso le scale, le braccia ferme lungo i fianchi come fosse fasciato.

- Credi che mi faccia piacere leggerlo sui giornali?

- Che cosa dicono?

- Che sei appena uscito di prigione. -Altro?

- Dopo dieci anni.

- Dicono il perché?

- Zero. Infatti me lo stavo chiedendo. Cos'hai fatto, Pearce?

- Non è il momento.

- Devo indovinare? Vediamo. Dieci anni -. La testa pelata dell'uomo alto scomparì giù per le scale. - E un bel po'. Dev'essere qualcosa di serio. Conoscendoti direi che non è frode commerciale, perciò voto per rapina a mano armata o omicidio -. Ailsa aspettò un momento. Poi, dato che Pearce stava zitto, aggiunse: -Allora?

- Non è così semplice.

- Questo è poco ma sicuro.

- Smettila, Ailsa. Non fare del sarcasmo.

- Non fare… Oh, Gesù -. Riattaccò.

Pearce si strusciò il mento con le nocche per un po', e notò che l'autobus si era fermato davanti a un negozio di abiti da sposa. Una donna grassa salì le scale trafelata, la testa conica che spuntava da un giaccone rosa e le spesse lenti che le ingigantivano gli occhi color nocciola. Quando l'autobus riprese a muoversi a singhiozzo, la donna barcollò in avanti, l'orlo dei pantaloni rossi che sfregava contro la punta delle larghe scarpe da ginnastica arancione brillante, e si andò a sedere. Si girò e, stringendo in grembo la borsetta di un giallo spento, guardò Pearce. Lui la fissò dritta negli occhi finché lei, borbottando qualcosa, volse lo sguardo altrove.

Pearce compose il numero di Ailsa, che non rispose. Provò di nuovo. Niente. Lasciò un breve messaggio sulla segreteria dicendo che avrebbe richiamato più tardi.

L'autobus stava per giungere a South Bridge quando gli squillò di nuovo il cellulare.

Lei disse: - Sono incazzata. Sono proprio incazzata. Non posso…

Pearce disse: - Ho ammazzato una persona.

La voce di lei cambiò. - Cosa? Come? Chi? Voglio dire, perché?

- E davvero così urgente? Te lo spiego quando ci vediamo.

Ailsa restò in silenzio. Alla fine disse: - Non so. Questa storia cambia un po' le cose -. Soffiò forte nel microfono. - Mi sentivo al sicuro con te prima di venire a sapere tutto questo. Ora non ne ho più la certezza. E stato un incidente?

- Non ti danno dieci anni per un incidente.

- Immaginavo -. Respirava forte nel microfono. - Deve aver fatto qualcosa di terribile per averti spinto a ucciderlo.

Pearce non disse nulla. - Allora?

- Era responsabile per la morte di mia sorella -. Il donnone abbigliato in modo vistoso si voltò e tornò a fissarlo. - Sono sull'autobus, - disse Pearce. - Adesso non posso parlare. Ti spiego un'altra volta, ok?

Il silenzio che seguì sembrò durare in eterno. Finalmente Ailsa disse: - Solo una cosa. Sei pericoloso?

Per un momento Pearce ponderò la domanda, poi disse: - E quello che spero.

- Voglio dire, dovrei aver paura di te?

- O hai paura di me o non ce l'hai.

- Non ce l'ho. Ma forse dovrei.

- Sei tu che devi deciderlo -. Stavolta fu lui a riattaccare.

La grassona gonfiò le guance. Aveva l'aspetto di un neonato troppo cresciuto. Quando si fu sgonfiata in viso disse: - Prenderà freddo. Farebbe bene a mettersi una giacca -. Poi si girò dall'altra parte e guardò fuori dal finestrino.

L'autobus incrociò High Street e raggiunse South Bridge, costeggiato da negozi. All'inizio di Nicolson Street, apparve sulla destra uno dei molti edifici eretti nel periodo in cui Pearce si trovava in carcere. Anni prima, sua madre gli aveva mandato una cartolina del nuovo teatro. Mentre lui era in prigione, si era assunta il compito di mantenerlo in contatto con il mondo esterno (che, per lei, coincideva con Edimburgo). Difficile dimenticare la caratteristica facciata a vetri del Festival Theatre. Aveva un aspetto inconsistente, fragile. Dietro le vetrate, piccoli gruppi di persone sedevano ai tavoli del caffè del pianterreno. Mangiavano e bevevano, parlavano e ridevano. Sereni, spensierati, soddisfatti. Ignari del dolore di perdere una sorella, di perdere la madre, di non essere riuscito a proteggere né l'una, né l'altra. Pearce avrebbe voluto saltare giù dall'autobus e scagliare un paio di mattoni contro il vetro, addosso a quei bastardi col sorriso sulle labbra, gettare un po' di orrore in quelle vite comode, mandare in frantumi la fragile membrana che separava la gioia dal dolore.

Pearce digrignò i denti, strinse i pugni. Quando chiuse gli occhi, vide divampare strisce di luce arancione. Forse aveva ragione Ailsa. Forse doveva avere paura di lui. Tutte le donne che gli giravano intorno sembravano avere l'abitudine di morire.

Riaprì gli occhi, che lentamente si abituarono alla violenta luce invernale. La grassona se n'era andata, e due adolescenti avevano preso il suo posto. Discutevano ad alta voce su una compagna di nome Suzie, che, a quanto pareva, aveva due belle bocce e non era per niente male. Pearce venne a sapere che Suzie aveva proprio bisogno di una bella trapanata, espressione che Pearce non aveva mai sentito prima d'allora ma il cui significato gli fu subito chiarissimo. Quello un po' più piccolo dei due si chiese se c'era il rischio di prendere l'Aids o qualcosa del genere, ma si disse d'accordo con il compagno quando questo sostenne che, a ogni modo, ne sarebbe valsa la pena.

Pearce si alzò e si avviò giù per la scala. Davanti alle doppie porte c'erano una madre e una figlia, quest'ultima intenta a prendere a tallonate un gradino con gli stivali rossi. Pearce si fermò dietro di loro ad aspettare, le braccia conserte. L'autobus frenò, Pearce vacillò verso destra e fu costretto a mettere un piede avanti. Si aggrappò al sostegno proprio sopra la testa della piccola. Lei si voltò e gli fece un sorrisino, poi si mise a saltellare sul posto e a battere le mani guantate. Mentre i freni sibilavano la udì esultare: - Andiamo da papà!

La madre volse lo sguardo a Pearce. Mentre si girava, Pearce notò quanto fossero sottili i suoi capelli, la fronte solcata da linee profonde. Sorrise, le labbra le affondarono nel viso e gli occhi blu scuro scintillarono. Disse alla bambina: - Spero solo che non si sia dimenticato, tesoro.

Si aprirono le porte, e la madre seguì la figlia giù dall'autobus. Pearce le raggiunse sul marciapiede e le osservò allontanarsi mano nella mano, la bambina che saltellava davanti e trascinava la madre. Girarono l'angolo scomparendo alla vista.

Pearce si avviò a grandi passi nella direzione opposta.

La porta rosa gli ricordò la visita del giorno prima a casa di Cant. Come l'investigatore privato, anche il vecchio compagno di scuola di sua madre aveva la porta rosa. Pearce si sentì inspiegabilmente triste. Avvertì una pressione crescente dietro gli occhi e per un attimo pensò di poter scoppiare in lacrime. Fece scattare l'interruttore nella testa. Ci volle un po', ma a poco a poco la tristezza passò.

Suonò il citofono e la porta si aprì subito con uno scatto.

L'ufficio si trovava al piano superiore. Una targhetta di ottone appesa a una porta bianca portava la scritta «Eye Witness Investigations». Bussò una volta, girò la maniglia ed entrò. Uno schedario e una scrivania occupavano mezzo pavimento. L'uomo che aveva incontrato il giorno prima sedeva dietro la scrivania con il naso ancora protetto da una benda e lividi scuri intorno agli occhi. Un uomo molto più giovane era seduto sul davanzale di una finestrella, le mani sotto le natiche a fargli da cuscino.

L'uomo col naso fasciato si alzò e tese la mano.

- Gray -. Sorrise, indicò il pavimento e disse: - Grigio, come la moquette.

- Sai già chi sono io -. Pearce si avvicinò e gli strinse la mano. - Spero che le informazioni che hai da darmi siano migliori delle tue battute.

Gray ritrasse la mano, e il suo sorriso svanì. L'altro tipo si staccò dalla finestra e si presentò.

- Kennedy.

Pearce disse: - Chi di voi due stronzi vuole dirmi chi ha ucciso mia madre?

- Non è così semplice, - disse Gray. - Perché non si siede?

Pearce rimase in piedi. - Hai detto che lo sapevi. Lo sguardo di Gray si spostò da Pearce a Kennedy, per poi tornare su Pearce. - Si sieda, la prego.

- Dammi quel nome.

- Quanto è disposto a spendere? - Un accenno di sorriso si insinuò sul volto di Gray.

Pearce lo guardò dritto negli occhi. - Dovresti fare attenzione, qualcuno potrebbe darti una bella randellata su quel naso che ti ritrovi.

Il sorriso sparì. Gray disse: - Le vendiamo l'informazione.

- A un prezzo onesto, - si intromise Kennedy. Durante lo scambio tra Pearce e Gray, Kennedy era tornato alla finestra, le mani nuovamente infilate sotto le chiappe.

Pearce disse: - Sono al verde. Gray disse: - Possiamo aiutarla a procurare il denaro.

- I soldi non mi interessano, - ribatté Pearce. - E se invece ti facessi sputare l'informazione a suon di cazzotti?

Kennedy si inserì di nuovo: - Chiameremmo la Polizia e finirebbe in galera prima ancora di poter affilare il cacciavite.

- Vedo che avete fatto i compiti, - disse Pearce. - Sono sbalordito. Ma la Polizia dovrebbe prima riuscire a prendermi.

- Possiamo dirgli dove è diretto, - disse Kennedy.

- Sarà dura una volta persi i sensi.

- Prima o poi ci risvegliamo.

- Non se siete morti.

- Non ci ammazzerà.

- Sembrate fiduciosi.

- Apra bene le orecchie -. Gray si appoggiò allo schienale della sedia. - Non facciamo gli stupidi, - disse posando i gomiti sulla scrivania e unendo i polpastrelli. - Ora si accomodi.

Tenendo gli occhi sempre fissi su quelli di Gray, Pearce trasse la sedia da sotto la scrivania e si mise seduto.

Gray disse: - Grazie, signor Pearce.

- Si figuri, signor Gray dei miei coglioni -. Così dicendo Pearce afferrò la cravatta dell'investigatore e con uno strattone lo tirò a sé. Una vaschetta di plastica ruzzolò giù dalla scrivania spargendo qua e là sulla moquette grigia tutta una serie di documenti, alcuni scritti a mano, altri stampati. Con la coda dell'occhio Pearce vide Kennedy strisciare verso di lui. Pearce disse: - Tu resta dove sei -. Kennedy si fermò all'altezza della scrivania. - Non ho tempo per i giochetti -. Pearce lo avvicinò con un altro strattone. Non fosse stato per la fasciatura, i loro nasi si sarebbero toccati. Gray tremava, e con lui tremava il doppio mento appena accennato. Si aggrappò al braccio di Pearce.

- Non darmi dello stupido, - disse Pearce. - E adesso dimmi quel nome prima che perda le staffe.

Kennedy disse: - L'uomo che ha ucciso sua madre se l'è squagliata con un sacco di soldi.

Con lo sguardo sempre fisso su Gray, Pearce rispose: - E allora?

Kennedy continuò: - Li ha ancora con sé.

- Quindi?

- Li vogliamo.

- Andateveli a prendere.

- Lo consideri un favore.

- In che senso?

- Noi le diamo il nome, lei in cambio ci procura i soldi.

- Cioè dovrei recuperare i soldi che lui ha rubato all'ufficio postale e consegnarli a voi?

- Esatto.

- Perché dovrei?

- Noi quel nome possiamo darlo a lei, ma possiamo anche darlo alla Polizia. E se lo diamo alla Polizia…

- Lei è fottuto, - se ne uscì Gray, e tossì. - Sto soffocando, mi lasci andare.

Pearce fece scattare il polso verso il basso. La faccia di Gray rimbalzò sulla superficie della scrivania e riemerse con gli occhi sbarrati dallo sgomento e una macchia rossa che cominciava a fiorirgli sulla benda.

Senza mollare la cravatta, Pearce intimò: - Chiudi il becco.

Kennedy deglutì. Poi a voce bassa domandò: - Lei cosa propone?

Pearce disse: - Datemi quel nome.

Gray disse: - Non se ne parla.

Pearce lo mandò a sbattere un'altra volta contro il tavolo.

Tra i gemiti di Gray, Kennedy disse: - Robin Greaves.

Strappandosi le bende dal naso Gray sbottò: - Ma cosa dici, idiota…

Pearce lo interruppe: - Te l'avevo detto di chiudere il becco.

Gray si coprì il volto con le mani.

- Il malloppo era in una borsa sportiva blu, - spiegò Kennedy. - Deve averla vista anche lei nell'ufficio postale. Mi risulta che l'abbia trasferito in una valigia di pelle marrone.

- L'indirizzo qual è? - domandò Pearce. Kennedy glielo diede.

Gray emise un gemito, poi disse: - Adesso non abbiamo più nulla per contrattare.

Pearce lo squadrò. - Non l'avevate neanche prima -. Lasciò andare la cravatta di Gray e si alzò. - Quanto è attendibile l'informazione?

- Al cento per cento. Il giorno della rapina l'ho pedinato da casa sua fino all'ufficio postale.

- A me interessa solo Greaves, - disse Pearce. Non i soldi.

Gray farfugliò: - Che vuol dire? - Tentò di alzarsi pure lui, ma cadde all'indietro sulla sedia. - Ah, il naso, non può immaginare quanto cazzo mi fa male.

Pearce disse: - Potrebbe sempre farti ancora più male.

Ore 11:21.

Si era perso un paio di minuti. Una piccola vittoria per Robin, che adesso si era ritirato, era di nuovo sparito là dove Don non poteva toccarlo. Don attraversò la stanza con passo felpato e mise piede in corridoio. La porta sulla sinistra conduceva in cucina. Don passò oltre e provò quella successiva. Voilà. Si infilò nel bagno, la testa che gli scoppiava.

Aveva sangue rappreso sulle dita. Pose le mani sotto il rubinetto, prese una saponetta e si lavò. Il sangue schiumò e scese a mulinello nello scarico del lavandino. Si esaminò attentamente le mani dopo essersele sciacquate in abbondanza. Erano pulite.

Ignorando le cicatrici si analizzò il corpo seminudo. Non sembravano esserci tracce di sangue. Verificò allo specchio, stupito di quanto il dolore alla testa gli avesse sbiancato le labbra. Di macchie di sangue, però, nemmeno l'ombra. Bene così. Ah, ma stava gocciolando sul pavimento. Doveva asciugarsi le mani. Appesi a una sbarra di metallo c'erano due asciugamani. No, usare il suo asciugamano sarebbe stato disgustoso, come condividere lo spazzolino da denti. Aveva la bocca inondata di saliva. Deglutì. Meglio. Non sarebbe soffocato. Srotolò un mucchio di carta igienica, lo avvolse su se stesso e ci si asciugò le mani. Gettò la carta fradicia nel gabinetto e tirò l'acqua. Sulla manopola rimase un'impronta netta.

«Guardale». Passando davanti allo specchio si voltò. «Guardale». Cicatrici ipertrofiche. «Guarda». Riccioli rossi di pelle ispessita gli serpeggiavano sul petto. «Più in basso». Segni lividi impressi sul ventre. Una L, una O, una V.

«Basta così».

Don tornò in soggiorno. Carol giaceva supina con la sua parola incisa nell'addome e il coltello affondato nell'ombelico. Don rovistò nella tasca del soprabito e tirò fuori i guanti. Un po' tardi. Le sue impronte digitali erano già ovunque. Ma le avrebbe cancellate prima di andarsene.

Togliendo il laccio dal collo di Carol, Don notò per la prima volta il polsino e si rese conto di averla strangolata con una manica di camicia. Chi l'avrebbe mai detto che una manica di camicia potesse trasformarsi in un'arma letale? Spiegò la stoffa e cominciò a strofinarci il manico del coltello, quando il telefono squillò. Si fermò e rimase con gli occhi fissi sul telefono.

Carol parlò, la segreteria telefonica trasmise un breve messaggio. Subito dopo, la voce di Eddie: - Rispondi, Carol. Ti prego. Carol. Ci sei? Rispondi al telefono -. Ci fu silenzio per alcuni secondi. - Carol, rispondi a 'sto cazzo di telefono!

Don tornò sui suoi passi. Pulì la maniglia della porta. Pulì quella dall'altra parte. Pulì i rubinetti del bagno, la manopola dello sciacquone, la maniglia interna e quella esterna della porta. Provò a pensare a cos'altro potesse aver toccato. Una volta in soggiorno prese a rivestirsi. Mentre si infilava i pantaloni ebbe l'impressione che mancasse qualcosa. Si tastò la tasca, poi ci cacciò dentro la mano. Il portafoglio era sparito. E anche le chiavi. Il bastardo se li era fregati. Gli aveva lasciato solo un po' di moneta.

Non ci voleva una laurea per capire da dove stesse chiamando Eddie. Sembrava angosciato, poverino. Ebbene, che fare adesso? Grazie a Eddie non poteva tornarsene a casa. Non poteva restare dov'era. Non poteva andare alla Polizia. Aveva bisogno di un posto dove nascondersi, dove escogitare qualcosa. La testa gli faceva male come un dente rotto. Si sfilò i guanti e si abbottonò la camicia. Calzò le scarpe, poi si rimise i guanti. Aveva bisogno di parlare con Robin. Ok. Robin credeva di avere ucciso Carol. Ok. Robin non sapeva che Don fosse al corrente della sua visita. Di conseguenza Robin avrebbe supposto che Don, al suo risveglio, avrebbe pensato che fosse stato Eddie a uccidere Carol facendo cadere i sospetti su di lui. Perciò, logicamente, se Don fosse fuggito avrebbe accusato Eddie di averlo incastrato. Cioè, se fosse andato alla Polizia. «Quando mi sono svegliato era già morta. Lo giuro. Non so come le mie impronte siano finite sul coltello». Aveva bisogno di soldi. Era rimasto senza bancomat e senza carta di credito. Tutto grazie a Eddie. Se voleva sopravvivere, doveva trovare del denaro, e per quanto ne sapeva, Robin ne era strapieno. Ecco un altro buon motivo per trovarlo. Potevano darsi una mano a vicenda.

Lo choc per essersi svegliato accanto a quella che a prima vista era una donna morta, il violento mal di testa dovuto al colpo subito: più che sufficiente per mandare in tilt qualsiasi cervello sano. Poteva usarla come scusa. Robin avrebbe approvato. Del tutto comprensibile che Don fosse un po' confuso. Poi, quando Don gli avrebbe spiegato il piano escogitato da Eddie per incastrarlo, Robin non sarebbe riuscito a negargli aiuto senza ammettere di essere l'assassino. Sarebbe stato al sicuro, o almeno così avrebbe pensato. Nessun motivo di sospettare Don, che avrebbe così potuto controllare ogni mossa di Eddie da casa di Robin, al riparo da ogni pericolo. Una volta scoperto dov'era nascosto il malloppo, avrebbe deciso che cosa farsene di quei due buffoni.

Ragazzi, che bello essere tornati a comandare.

Il suono del citofono interruppe i suoi pensieri. Rimase immobile. Poco dopo suonò ancora: forte. Ancora: urgente. Ancora: insistente. Trascorsero alcuni lenti secondi di silenzio. Don udì il suono del citofono provenire da un appartamento vicino, seguito dal lontano ronzio di apertura della porta di sotto. Udì un rumore di passi sulle scale. Un echeggiare di voci.

I passi si interruppero davanti dalla porta. Qualcuno bussò. Don restò immobile. Un'altra bussata. Don guardò Carol. Pallida e intagliata. Com'era bella. Ma tornando alla porta, era forse Eddie? Poteva essere già arrivato? No, non ne avrebbe avuto il tempo materiale. «Non muoverti. Non fare rumore. Chiunque sia, penserà che non c'è nessuno in casa e se ne andrà».

Una voce disse: - Aprite -. Poi, dopo una pausa: - Polizia.

Merda.

Ore 11:26.

Fanculo anche al traffico. Avrebbe fatto prima a piedi.

Eddie diede uno strattone alla leva del cambio e accelerò. La mano gli pulsava ancora nel punto in cui la bella puttana fuori di testa gli aveva spento addosso la sigaretta. «Ti prego, fa' che stia bene. Ti prego». Non aveva risposto al telefono. Era preoccupato. Lei gli aveva detto che Don era pericoloso ma lui l'aveva lasciata da sola con lui. Che testa di cazzo. Tirò fuori il cellulare e fece un altro tentativo. Forza. Niente da fare. Gettò il telefono sul sedile del passeggero e svoltò l'angolo. Sperava che non le fosse successo niente. Che poi non era nemmeno riuscito a trovarli quei maledetti soldi.