Ore 10:23.

Quattro mesi e ventidue giorni dopo aver smesso di prendere i farmaci, Robin Greaves trascinò la sedia da sotto la scrivania e si sedette di fronte all'investigatore privato.

Di tempo ne era passato parecchio, ma tutto sembrava ancora normale.

Mentre l'investigatore era intento a scartabellare tra una pila di fogli appena estratti da una vaschetta di plastica, Robin diede un'occhiata all'ufficio. Non ci mise molto. Una scrivania, le sedie su cui stavano seduti, uno schedario, e una semplice moquette grigia con un'infossatura rettangolare a sinistra della porta (doveva esserci stato un mobile pesante lì, una volta), tutto qui. In un angolo della parete, alle spalle dell'investigatore, era appeso un attestato in cornice, mentre dal soffitto penzolava una lampadina. L'unica fonte di luce naturale era una minuscola finestrella sulla destra.

Bene, pensò Robin, eccolo lì. Sul punto di scoprire la verità, finalmente. Non era forse quello che voleva?

Con le mani nascoste sotto la scrivania prese a battere il Concerto Italiano di Bach tamburellando con le dita sulle cosce. L'investigatore lo squadrò per un secondo o due, poi tornò a occuparsi di cose serie, esaminando le sue carte.

Robin ebbe un sussulto quando una fitta al polso gli paralizzò per un momento le dita. Passato il dolore, intrecciò le mani e se le schiacciò tra le ginocchia. Fece un respiro profondo. Per quanto desiderasse conoscere la verità, una parte di lui avrebbe preferito non sapere.

L'investigatore tossì. Dopo un po' tossì ancora e cominciò a riporre i fogli di carta, uno per uno, nella vaschetta dalla quale, solo pochi attimi prima, li aveva presi. Quando ebbe finito si alzò adagio, come avesse le ginocchia arrugginite, e si avvicinò ai tre cassetti dello schedario grigio, stipato in un angolo della stanza. Diede uno strattone al cassetto centrale, che però non si mosse. Allora aprì quello superiore, armeggiò con un gancio su un lato, lo richiuse e fece un nuovo tentativo con quello centrale. Questa volta si aprì.

Si mise a sfogliare decine di cartelle verdi, cercando le informazioni che Robin gli aveva richiesto, con la lingua che gli guizzava fuori e dentro le labbra increspate.

Robin si alzò in piedi. - Le spiace se fumo?

- Sì.

Robin si strinse nelle spalle, poi fece qualche passo verso la finestra. Una scala antincendio spezzava la vista sul muro di ciottoli a poco più di un metro di distanza. Non certo il miglior panorama di Edimburgo. Picchiettò le dita sul vetro e restò ad ascoltare quel suono sordo, chiedendosi perché fosse così diverso dal tintinnio che il vetro fa quando si rompe. - Ci metterà molto? - chiese.

- Solo un secondo.

Robin infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e piegò le ginocchia. Con la testa chinata all'indietro quel tanto che bastava per essere scomodo, riusciva a scorgere un pezzetto di cielo grigio. Tornò lentamente alla sedia, tolse le mani dalle tasche e con il dorso si strofinò l'occhio sinistro. Stette seduto a osservare l'investigatore per un po', immobile. Poi da fuori giunse un grido soffocato: un corvo si era posato sul corrimano delle scale antincendio. Si trascinò verso sinistra, poi si fermò. Fece altri due passi, e si fermò di nuovo. Guardò Robin dritto negli occhi, aprì il becco e gracchiò.

Se stava cercando di dirgli qualcosa, era tempo perso.

L'investigatore sbatté il cassetto e si girò stringendo una busta bianca tra il pollice e l'indice come fosse un fazzoletto sporco. La lanciò sulla scrivania.

Robin ci mise sopra il palmo della mano e ce lo lasciò mentre, con lo sguardo volto alla finestra, vide il corvo spiccare il volo.

- Avanti, - disse l'investigatore. - L'apra.

La busta non era sigillata. Robin vi introdusse le dita e ne trasse una manciata di fotografie.

- Voleva delle prove, - disse l'investigatore accomodandosi.

Robin rimase in silenzio. Voleva davvero quelle prove? Voleva davvero sapere? La pelle sugli zigomi gli pizzicava come fosse rimasta troppo tempo al sole.

Prove. Fotografie. Non riusciva a guardare. Non voleva vedere.

«Non guardare. Non farlo. No! Oh, merda, ormai l'hai fatto».

La prima foto. Una coppia che entra in un taxi. Di per sé non provava nulla. Fece un lungo respiro. Magari stavano solo uscendo a bere qualcosa, da amici. Il fatto che la mano di lui fosse sul gomito di lei era, be'… c'era il rischio di trarre troppe conclusioni da un dettaglio del tutto innocente.

Era la prima volta che Robin faceva visita alla Eye Witness Investigations. Non conosceva il nome dell'investigatore privato né glielo avrebbe mai chiesto. Non gli importava. L'unico contatto precedente con l'investigatore era stato al telefono.

Robin aveva detto: - Voglio che tenga d'occhio una persona.

L'investigatore aveva risposto: - Posso chiederle il perché?

- Voglio scoprire se… vede qualcuno -. Robin esitò per un attimo. - Lo può fare?

- Certo.

- Quanto mi costerà?

- Trecento al giorno.

- Se mi fornisce le prove entro settantadue ore gliene do millecinquecento. Vuole un anticipo?

- Non è necessario, - disse l'investigatore. - Mi lasci solo nome e numero di telefono.

- Mi chiamo Robin Greaves. Ma preferisco che non mi telefoni. La contatterò io.

- Aspetti, prendo nota -. L'investigatore fece una breve pausa, poi disse: - Come si chiama la donna?

Un rumore di spari penetrò le sottili pareti del soggiorno di Robin. Sarebbe balzato in piedi dallo spavento se non avesse ormai fatto il callo all'abitudine dell'anziano vicino di casa di guardare film western in Tv con il volume al massimo. Dio, quanto era difficile. Alla fine parlò. - Carol, - disse. - È mia moglie -. E diede all'investigatore l'indirizzo di casa.

Entro settantadue ore, gli aveva detto. Non poteva lamentarsi. Stava ottenendo il servizio che aveva richiesto.

Sbatté la foto sulla scrivania, a faccia in giù. Aveva le mani sudate. Nella foto successiva, il fotografo li aveva colti di spalle, mano nella mano.

- Mi dispiace, - disse l'investigatore.

Chi si credeva di essere? E perché cazzo era dispiaciuto? Quando prese in mano la terza foto, Robin si accorse che le mani gli tremavano. Si vedeva una coppia all'ingresso di un locale notturno. La foto seguente li ritraeva sorridenti, all'uscita dal locale. Nella quinta, Eddie la cingeva con un braccio. Nella sesta, Carol teneva le dita infilate nella tasca posteriore dei pantaloni di lui. C'erano dieci foto in tutto. Le ultime quattro mostravano la stessa scena: sua moglie e il suo caro amico Eddie sull'uscio dell'appartamento di lui, stretti l'un l'altra al collo, al petto, ai fianchi, le braccia di lui intorno al corpo di lei, gli occhi di lei chiusi.

Robin nascose le foto nella busta.

- Contento? - L'investigatore tossì di nuovo. - Forse non è la parola adatta. Soddisfatto?

Contento? Soddisfatto? Chi era quel pagliaccio? Il campo visivo di Robin cominciò a punteggiarsi di chiazze nere.

L'investigatore lo fissava con un ghigno.

Robin immaginò di scavalcare la scrivania, sferrare un pugno sul naso a quel bastardo, poi fare un passo indietro e osservarlo sanguinare. Immaginò l'uomo ferito alzarsi barcollante, lagnarsi dietro la mano appoggiata al naso quasi certamente spezzato, il colletto della camicia ormai ridotto a una fascia rossa intorno alla gola. Robin tirò fuori il portafoglio e contò millecinquecento sterline in pezzi da cinquanta, gli ultimi soldi che aveva, prelevati dalla banca meno di un'ora prima. Si piegò in avanti.

L'investigatore balzò all'indietro lanciando un urlo. Allontanò la mano dal volto e disegnò un arco rosso scuro sulla pallida carta da parati alle sue spalle. Si appoggiò al muro, sbuffò, si sputò in mano. Spalancò la bocca e strinse i denti macchiati di sangue. Sbatté più volte le palpebre, poi, con voce fievole e impastata, disse: - E questo perché?

Robin fece qualche respiro corto. Depositò le banconote nella vaschetta di plastica sulla scrivania. Si sentiva i polmoni pieni di sabbia. Frugò nella tasca del giubbotto e vi trovò le sigarette e l'accendino usa e getta. Se ne posò una sul labbro inferiore. Era stato lui a colpire quel pover'uomo? No di sicuro. Ma nella stanza non c'era nessun altro, e l'investigatore non si era certo picchiato da solo, o sì? Robin accese la sigaretta. - Mi scusi, - disse alla figura accovacciata riponendo in tasca le sigarette e l'accendino e afferrando la busta. - Non so perché.

Dovette andarsene in quello stesso istante. Chissà cosa sarebbe accaduto se fosse rimasto.

Ore 10:25.

L'inverno scozzese era troppo rigido per girare a torso nudo. Ecco perché Pearce indossava una T-shirt. I pugni chiusi, distesi e ancora chiusi. I muscoli dell'avambraccio fremettero sotto la pelle d'oca. Batté le mani una contro l'altra.

Chi avrebbe voluto vivere in uno di quei casermoni? Erano passati più di dieci anni dall'ultima volta in cui si era avventurato in quella zona. Wester Hailes, frutto di un progetto residenziale circa dieci chilometri a ovest della città, era un parcheggio per ragazze madri, anziani, disoccupati, barboni, prostitute, studenti, stranieri, squilibrati, ex galeotti, tossici e assistenti sociali lesbiche. Gli appartamenti erano pieni di umidità. Il riscaldamento non funzionava. Anche l'impianto idraulico dava dei problemi. E gli ascensori si rompevano di continuo.

Dieci anni addietro, Wester Hailes era il quartiere dei drogati di Edimburgo. I tossicodipendenti di tutta la città si trovavano lì per scambiarsi le siringhe nelle decine e decine di appartamenti abbandonati.

Come aveva detto la sorella di Pearce, «da lassù c'è una vista da paura. Così mentre ti fai il viaggio ti godi pure il panorama. A sud c'è il Pentland. Hai mai visto le cime innevate sotto eroina? E dall'altra parte certe volte vedo i piloni del Railway Bridge che si agitano come le mie vene dopo che mi sono fatta una pera».

L'ultima volta che era stato lì era arrivato troppo tardi. Una siringa era adagiata lungo il battiscopa a breve distanza dal braccio di sua sorella. Lei era distesa supina, senza vestiti addosso, davanti agli occhi solo le crepe sul soffitto. Era morta da due giorni.

Forse le cose erano cambiate, come dicevano tutti, anche se per convincerlo ci voleva ben più di una semplice riverniciatura. Al livello della strada gli edifici a più piani gli chiudevano l'orizzonte. Si sentiva circondato, in gabbia. Si sfregò le mani sui jeans.

Un carrello della spesa rovesciato teneva aperta la porta del palazzo che stava cercando.

- Ehi!

Pearce allungò il collo. All'ultimo piano, un ragazzino in felpa grigia con cappuccio si era sporto dal balcone e agitava un braccio. Stringeva in mano qualcosa. Senza preavviso, lasciò la presa. Pearce fece un passo in là. L'oggetto raggiunse il suolo a circa mezzo metro da dove Pearce si trovava prima, rimbalzò e rotolò un poco fino a fermarsi. Una siringa. La plastica trasparente rotta in mezzo, lo stantuffo spinto fino in fondo, l'ago spezzato in seguito alla caduta. Spinse via il carrello e si chinò per entrare. E meno male che le cose erano cambiate.

Scala a sinistra. Su per i gradini a tutta velocità. A perdifiato. «Muriel!» Ascensore subito davanti, la porta che gli sbadigliava in faccia. Petto in tensione, polmoni in fiamme, entrò nell'ascensore, inghiottito dalla sua bocca graffiata e di un colore grigio acciaio. La porta si chiuse con un rumore metallico che gli fece spuntare il sudore sulla fronte. L'aria stantia gli riempì le narici. La mano gli tremava quando premette il pulsante per l'ottavo piano.

Era arrivato troppo tardi. «Smettila». Non era riuscito a proteggerla. «Dimentica. Ormai è morta. Non mi sono preso cura di lei. Finiscila. Pensa a qualcos'altro. Concentrati sul lavoro da fare. Fai quello per cui sei qui. Concentrati sul vecchio».

Il vecchio si chiamava Willie Cant ed era stato compagno di classe della madre di Pearce. Si erano anche baciati, una volta, così gli aveva raccontato sua madre. Lei gli aveva chiesto di non essere troppo duro con l'uomo. Pearce si guardò le punte d'acciaio degli stivali marrone chiaro. Potevano fare molto male. Non avrebbe usato i piedi, allora. Con un brontolio l'ascensore si fermò e le porte si aprirono a fatica.

Due ragazzini si pararono davanti a Pearce bloccandogli la strada. Avevano quindici o sedici anni. Quello con la felpa grigia e il cappuccio gli puntò un coltello.

Pearce non fece una piega e disse: - Sparite.

La mano del giovane era incerta. Guardò l'amico e fece un ghigno. Aveva i denti gialli.

Pearce fece un passo di lato e i due fecero altrettanto. - Toglietevi di mezzo, - disse Pearce.

- Dov'è la festa? Siamo invitati?

Gli occhi di Pearce sondarono quelli del ragazzo. Castano scuro. Nessun bagliore. Molti movimenti. Il silenzio si prolungò. Dopo un po', quello senza il coltello parlò, e la voce fece trasalire Pearce. Era la voce di una ragazza.

- Andiamo via, Ross, - disse. - Questo tipo è strano.

Gli occhi di Pearce guizzarono sul profilo del suo maglioncino marrone, poi tornarono su Ross. - Da' retta alla tua ragazza, - disse.

Lei si era già mossa, e tirava Ross per la manica. Aveva i capelli corti come Pearce.

Ross si passò la lingua sul labbro inferiore, adagio, con cura, come si trattasse di un rossetto costoso. Sotto, da qualche parte, un cane si mise ad abbaiare. Ross abbassò il braccio e ritrasse la lingua d'un colpo. - La prossima volta, - disse ostentando sicurezza, e fece dietrofront.

Pearce li osservò scomparire su per le scale di pietra. La ragazza gridò qualcosa che non riuscì a capire, e un riso forzato rimbombò tra le pareti. Il nome di Cant, scritto a mano, era attaccato con il nastro adesivo in cima alla porta d'ingresso verniciata di un rosa chiassoso. Pearce sentì gli angoli della bocca che gli si contraevano. Infilò un'unghia sotto una bolla di vernice scoppiata che si staccò come pelle cotta.

Picchiò sulla porta con il dorso della mano. - Apri -. Aspettò un minuto, osservando la lancetta dei secondi del suo orologio da polso completare un giro prima di battere nuovamente alla porta. Poi attese un altro minuto esatto. - Ultima possibilità, Cant.

Dall'altra parte rispose una voce tranquilla: - Che vuoi?

«Ok, vediamo. Voglio restituire a Cooper le mille sterline che gli devo. E voglio un altro posto di lavoro per la mamma. Di questi tempi non c'è da star sicuri a lavorare lì». Rivolgendosi a Cant disse: - Credo che tu lo sappia.

L'uomo gemette: - No che non lo so.

- Apri.

Dopo un momento, Cant borbottò: - Non voglio farti male.

- Molto gentile da parte tua, - disse Pearce. - Adesso apri la porta.

Silenzio.

- Aprila.

La voce del vecchio squillò: - Levati dalle palle.

Seguendo il consiglio di Joe Hope, Pearce tentò un approccio diverso. - Mia madre si ricorda di te, - disse pigiando l'orecchio alla porta. - Hilda Pearce. Quando vi frequentavate si chiamava Hilda Larbert. Andavate a scuola insieme. Ricordi?

Una breve pausa. Poi: - Che hai intenzione di fare?

- Apri la porta. Dobbiamo parlare.

- Dimmi cos'hai intenzione di fare.

- Mi stai facendo innervosire. Apri la porta, Cant -. Attese qualche attimo. - Ce la puoi fare.

- Digli che avrà i soldi domani stesso.

- Non discuto di affari da dietro una porta chiusa.

- Domani, promesso.

Pearce fece un respiro profondo. Al diavolo i consigli di Joe Hope. Che ne sapeva lui? Non era altro che uno dei tanti delinquenti assoldati da Cooper. Pearce fece scattare un interruttore nella testa e subito le parole gli esplosero dalla bocca come proiettili da una mitragliatrice. - Se non apri immediatamente 'sta cazzo di porta, brutto pezzo di merda, non so cosa ti può succedere ma stai certo che non rispondo delle mie azioni, sono stato chiaro, mi hai capito o devo rispiegarti tutto da capo? - Attese un momento, fece un passo indietro, mirò a destra della maniglia e sferrò un calcio alla porta colpendola con il tacco. Lo stivale trapassò il legno e vi rimase incastrato. Pearce saltellò un paio di volte per recuperare l'equilibrio. Quando estrasse il piede, le schegge gli lasciarono i segni sullo stivale.

Infilò una mano in tasca e prese un paio di guanti chirurgici, che gli aderirono come un nuovo strato di pelle. Fece scivolare la mano guantata attraverso il buco e a tentoni cercò la chiave. Le sue dita accarezzarono il buco vuoto della serratura, slittarono verso l'alto e ruotarono la maniglia sulla Yale. Chiuso a chiave. Girò la levetta verso il basso e riprovò. La porta si aprì, ma solo della lunghezza consentita dalla catenella. Quindi si appoggiò con tutto il peso del corpo fino a strappare la catenella dal muro.

L'appartamento di Cant puzzava di vomito rappreso. Come Pearce mise piede in casa del vecchio, una nuvola di polvere si alzò dalla moquette che rivestiva il pavimento dell'anticamera. Sulla parete di sinistra c'erano chiazze color caffè. Su quella di destra mensole. Due mensole. Su ognuna di esse una pianta morta.

L'uomo non c'era.

Ma da qualche parte doveva essere. Pearce percorse l'anticamera fino in fondo. La porta di fronte a lui era chiusa. Ce n'era un'altra, accostata, sulla sinistra. La colpì con un calcio.

Attaccato al muro c'era un letto singolo. Pearce sollevò la trapunta e vi guardò sotto. Il pavimento era coperto da decine di calze, tutte identiche, grigie con strisce parallele di rombi rossi. Posò la trapunta e con due brevi passi raggiunse l'armadio. Maniglie di ottone. Il legno scuro sfregiato in vari punti. Aprì entrambe le ante. Vuoto, fatta eccezione per una gruccia solitaria e altre calze. Richiudendosi, l'anta di destra scricchiolò.

I suoi occhi sondarono la stanza un'ultima volta. Si voltò, tornò in anticamera e afferrò la maniglia dell'altra porta. Si udì uno scatto e l'uscio si spalancò cigolando.

Cant era spalle al muro nell'angolo opposto del soggiorno, e oscillava leggermente con il busto. Il vecchio non alzò lo sguardo. Pearce diede un'occhiata critica a un'asse del pavimento non verniciata. Il passaggio dal soggiorno alla cucina era indicato soltanto da un pezzo di linoleum sbrindellato. Scosse la testa. Le superfici della cucina erano ricoperte di sporcizia. Accanto al lavello una pila di piatti sporchi, altri immersi in un'acqua sudicia. Era probabilmente nel cassetto aperto di fianco al lavandino che l'uomo aveva trovato il coltello per pane che ora stringeva al petto.

Pearce non sarebbe mai vissuto in quel modo. Avrebbe preferito morire. Si domandò che cosa avesse trovato sua madre in quel Cant. Be', coi bambini non si sa mai. L'avrebbe baciato ugualmente a scuola se avesse saputo in quale stato pietoso sarebbe finito? Probabile. La mamma aveva un cuore d'oro. Da sempre. Aveva capito persino il motivo per cui dovette far fuori Priestley.

- Cinquanta sterline, - disse con lo sguardo fisso sul vecchio.

Le labbra di Cant si muovevano. Stava brontolando qualcosa. Forse pregava. Come servisse a qualcosa.

- La scadenza era ieri, - continuò Pearce.

Cant si fermò un momento, poi ricominciò a dondolare e brontolare.

Pearce si mosse verso di lui.

- Fermo lì, - strillò Cant. Le dita ossute strinsero il manico del coltello, le nocche pallide, la pelle tesa sul dorso della mano. Le spalle si sollevavano a ogni disperata boccata d'aria. - Non ti avvicinare, bastardo -. Si pulì il naso con il polso. I suoi occhi incontrarono per un attimo quelli di Pearce, poi si abbassarono a fissare il pavimento.

- Per come la vedo io, - disse Pearce, - ti sto facendo un favore. Verrai curato in ospedale. Pasti gratuiti. Zero bollette. E quando sarai fuori avrai risparmiato quanto basta per ripagare Cooper.

- Oh, no, - disse il vecchio, gemendo. Cadde sulle ginocchia. - Vattene -. Lasciò cadere il coltello. - Per favore -. Gli occhi serrati, rotolò su un fianco e portò le ginocchia al petto.

Pearce raccolse il coltello. Andò in cucina e lo ripose nel cassetto aperto, che richiuse subito dopo. Sbadigliò, e tornando verso Cant con la mano a conchetta davanti alla bocca, disse: - Scusa -. Poi con la punta del piede pungolò il braccio scheletrico dell'uomo.

Il vecchio spalancò gli occhi. Ritrasse il braccio di scatto e se lo infilò tra le gambe. Le ciglia scure vibrarono. Uno spesso filo di bava gli andava dall'angolo della bocca al pavimento.

- Ti concedo altre ventiquattro ore, - disse Pearce. - Ma cinquanta sterline non basteranno -. Si passò il massiccio dito sul mento compiacendosi di quel suono ruvido. - Sei in ritardo con un pagamento, e sono dieci sterline di penale. Altre dieci sterline per il mio tempo. Gli interessi fanno altre dieci. E facciamo altre venti per non aver spaccato niente. Quanto fa? Cento?

Cant alzò lo sguardo. Tirò su col naso e si sollevò su un gomito. - Sei un bravo ragazzo, - disse.

Pearce annuì e gettò un'ultima occhiata alle calze di Cant. Grigie, coi rombi rossi.

Ore 10:44.

- Merda -. Kennedy teneva due bicchieri di caffè, uno per mano, e gli stava suonando il telefono. Proprio davanti a lui, residuo del passato vulcanico di Edimburgo, Salisbury Crags formava un muro frastagliato abbastanza alto da oscurare l'imponente collina di Arthur's Seat. La sola vista gli faceva venire le vertigini. Cercò un posto dove appoggiare i bicchieri di carta. - Merda, - ripeté. Se solo il distributore di bibite non fosse stato rioccupato. Si chinò e li posò a terra.

Trasse il cellulare dalla tasca aspettandosi che riagganciassero proprio mentre stava per rispondere. - Kennedy, - disse.

Si sbagliava. Dall'altro capo del filo: - Dove sei?

Era una voce familiare, benché stranamente nasale. Domandò: - Sei tu, capo?

- Certo che sono io. Dove cavolo sei?

- Qui sotto, dall'altra parte della strada.

- Sta per lasciare l'edificio.

- Chi? Hai fatto in tempo a buscarti un raffreddore mentre venivo a prendere il caffè? O forse hai una molletta al naso. Oh, Dio. Non dirmi che hai iniziato a fare nuoto sincronizzato?

- Sta' zitto e ascolta.

- Se me lo chiedi tanto gentilmente.

- Sul metro e ottanta. Capelli corti, castano scuro. Giubbotto imbottito nero. Lo vedi?

In occasione del cambio di gestione avvenuto qualche mese prima, la drogheria sotto l'ufficio aveva partorito una tettoia sul marciapiede. Due stufette a muro evitavano che le casse di verdura congelassero. L'offerta speciale del giorno era sui cavoli: due al prezzo di uno. Kennedy non riusciva neanche a mangiarne uno prima che andasse a male, figurarsi due. Aveva lo stesso problema con il pane. Persino le pagnotte più piccole erano troppo grandi. A dire il vero, metà del cibo che comprava finiva col diventare secco o ammuffire. Magari fosse stato possibile acquistare le fette di pane una per una. O a coppie, per farsi un panino. Forse era ora di comprare un freezer.

Ma prima doveva essere pagato. Oppure trovarsi un nuovo lavoro. Di questo ne aveva quasi fin sopra i capelli. Dio, che noia.

Di nuovo la voce del capo: - Lo vedi o no?

A sinistra della drogheria, sei gradini stretti conducevano a una porta rosa salmone. Era chiusa. - No -. Mentre parlava, la porta si aprì. - Aspetta. Eccolo, credo. Pantaloni verde scuro?

- Esatto. Non riattaccare. Entra in macchina e seguilo.

-E il caffè?

- Mettitelo nel culo.

- Lo farei, ma troppo caldo non mi piace.

- Non fare l'idiota. E adesso muoviti, cazzo.

Kennedy lasciò i due caffè sul marciapiede e attraversò la strada. - Sta entrando in macchina. Vuoi la targa?

- Dammela.

Gliela dettò. Poi domandò: - Chi è?

- Robin Greaves.

- Non è un cliente?

- Lo era.

La Renault Clio verde metallizzato di Robin Greaves si allontanò dal marciapiede con uno stridere di gomme.

- È andato. Ci sentiamo fra un minuto -. Kennedy mollò il telefono sul sedile del passeggero. Fece passare un paio di auto, poi si accodò a una Nissan Micra color argento. Lasciò una mano sul volante, con l'altra acchiappò il telefono e disse: - Sbaglio o la moglie di Greaves era coinvolta in qualche scappatella?

- Esatto -. Il capo tirò su col naso. - Gli ho mostrato le foto.

- Come l'ha presa?

- Mi ha rotto il naso.

- Porca puttana! - Kennedy si morse il labbro e ridacchiò in silenzio. Poi si schiarì la voce e disse: - Rotto? Davvero?

- Davvero -. Dopo una pausa, il capo aggiunse: - E prendo atto della tua solidarietà.

Cercava solidarietà? Kennedy disse: - Cazzo, capo, mi dispiace veramente un casino.

- Non fare lo stronzo, Kennedy.

Per qualche secondo nessuno dei due aprì bocca. Finalmente il capo ruppe il silenzio. - Chiamami quando arriva a destinazione.

- Non dovresti andare all'ospedale a farti mettere a posto il naso?

- Io resto qui. E… Kennedy? I tuoi consigli di merda tienteli per te.

Cadde la linea.

Robin Greaves condusse Kennedy in direzione della città attraverso un traffico poco intenso, poi puntò a est, giù per Leith Street. A Greenside c'erano lavori in corso. Dell'edificio in costruzione avevano finito solo l'ossatura, che era già arrugginita. Sul quotidiano del giorno prima, un cronista era dell'idea che i sessanta schermi messi a disposizione dagli otto cinema esistenti a Edimburgo dovessero bastare per una città con meno di mezzo milione di abitanti. Costruire un nuovo multisala a Greenside era, secondo il giornalista, un vergognoso spreco di denaro. Kennedy non l'avrebbe forse messa giù così dura, ma era d'accordo che fosse qualcosa di eccessivo. Stranamente, però, quella testa di cazzo aveva proseguito lamentando che Edimburgo aveva il doppio delle librerie rispetto a Glasgow. Il che dava un taglio completamente diverso all'intero articolo. Kennedy aveva scaraventato il giornale nel cestino: il giornalista era evidentemente della costa occidentale, quindi ciò che diceva non poteva essere che pura immondizia.

Greaves lasciò Leith Walk, seguito da Kennedy a due auto di distanza. Parcheggiò in Iona Street, uscì dalla macchina ed entrò nel palazzo di un caseggiato sul quale le impalcature si erano estese a rettangoli come edera, con un certo senso della geometria. Kennedy era sbalordito. I ponteggiatori avevano fatto un gran bel lavoro. L'altezza non era invece il suo forte. Un mese prima, imbiancando il soffitto, era quasi caduto dalla scala.

Trovato un posto per l'auto, chiamò il capo. - Come va il naso?

- Dov'è Greaves?

Sbirciando tra le impalcature, Kennedy lesse ad alta voce il numero sulla porta.

- Ah, è tornato al nido, - disse il capo.

- Avrei dovuto arrivarci da solo. Si capiva dal mazzo di chiavi -. Dall'altra parte nessuna risposta. - Che cosa vuoi che faccia?

Il capo disse: - Sto pensando.

Con il telefono ancora all'orecchio Kennedy uscì dalla macchina, attraversò la strada e raggiunse la porta in cui Greaves si era dileguato. - Sei ancora lì? - chiese.

- Sì.

Sul muro a sinistra dell'ingresso c'era una fila di pulsanti, e accanto a ogni pulsante, protetto da uno strato di plastica trasparente, c'era un nome. Il sesto partendo dall'alto, tra Hewitt e Law, era Greaves. Kennedy disse: - A quanto pare il nostro uomo abita al secondo piano. Vuoi che passi a fargli un saluto?

- Per adesso non farti vedere. E tienilo d'occhio finché non mi rifaccio vivo.

- E se si allontana?

- Seguilo.

Ore 10:57.

Da due mesi Pearce abitava nella stanza degli ospiti di sua madre. Non era un granché, ma era pur sempre casa sua, e sempre molto meglio rispetto a quello cui era abituato negli ultimi dieci anni.

Una sera, rilassandosi con una lattina di Tennants e ascoltando il Cd di Burt Bacharach della madre, le aveva raccontato di Julie. C'era voluto parecchio coraggio.

Lei disse: - Come hai fatto a essere tanto stupido?

- Smettila, mamma -. La guardò, lasciò cadere le braccia e non aggiunse nulla.

La madre fece un grosso sospiro, poi disse: - Vieni qui, stupidone. E bello averti di nuovo con me.

Conosceva Julie da due settimane. Col senno di poi, può darsi che fosse troppo presto per fidanzarsi, e sua madre, senza dubbio, la pensava così. Ma in quel momento pareva una buona idea. Si può essere più ingenui? Non aveva mai avuto fortuna con le donne. Vuoi che ci fidanziamo, Pearce? Niente di meglio da fare il sabato mattina. Sì, Julie, ma dove sta l'inghippo? Julie voleva un anello con brillante, e da Jenners ne aveva visto uno che le piaceva. Se lui avesse procurato i soldi, lei glieli avrebbe restituiti il lunedì, alla riapertura delle banche.

- Non voglio che sia tu a pagarti l'anello, - disse lui.

- Ma io sì. E insisto anche. Che poi, tu nemmeno te lo puoi permettere.

Non ci pensò su neanche un secondo. - Hai ragione, - ammise. - Quei soldi non ce li ho.

- E quel tuo amico, Cooper?

- Cooper non è mio amico. Non voglio favori da lui.

- Hai paura? - chiese sfiorandogli il braccio nudo.

Pearce andò da Cooper, prese in prestito mille sterline e comprò l'anello per Julie. Si salutarono dopo pranzo, verso l'una e mezzo, e quella fu l'ultima volta che la vide. Si erano dati appuntamento per la sera stessa, ma lei non si era fatta vedere. Provò a chiamarla, ma aveva il cellulare spento. Le lasciò un messaggio. Poco dopo si recò all'indirizzo che gli aveva dato, una bifamiliare a Gilmerton. Il padrone di casa gli disse di non averla mai vista né sentita. Pearce la descrisse: piccola, magra, gracilina, capelli neri, carnagione chiara. Il padrone di casa scosse la testa. Pearce volle appurare che l'indirizzo fosse giusto, l'uomo confermò e chiuse la porta. Pearce provò di nuovo sul cellulare e lasciò un altro messaggio.

La domenica tornò a quell'indirizzo. Questa volta il padrone di casa non fu tanto disponibile. Quando Pearce gli chiese se poteva dare un'occhiata in giro rispose di no, così Pearce lo spinse via e si mise a cercare Julie. Il televisore nel soggiorno andava a tutto volume. Per il resto, l'appartamento era vuoto. Sul fornello in cucina c'era un pentolino di minestra che sobbolliva. Pearce setacciò le camere al piano di sopra. Di Julie nemmeno l'ombra. Avrebbe guardato anche sotto i letti, ma si sentiva già abbastanza stupido. C'era ancora un posto da controllare. Bussò alla porta del bagno, nessuno rispose, e lui entrò. Tirò la tendina della doccia per vedere se si era nascosta lì dietro. Ma non c'era.

Si scusò con il padrone di casa per l'intrusione e promise che non sarebbe tornato.

Per una settimana continuò a rimandare l'incontro con Cooper. A quel punto, ogni residua speranza di una miracolosa ricomparsa di Julie era ormai svanita, insieme all'anello di fidanzamento da mille sterline. Sapeva bene che, se avesse aspettato ancora, Cooper lo avrebbe mandato a cercare, perciò andò da lui e gli raccontò l'accaduto.

- Ti sei fatto fregare, - disse Cooper. - Da una ragazzina, eh? - Scosse il capo. - Hai perso il tocco, eh, Pearce? Colpa della galera? - Arricciò le labbra. - E adesso che hai in mente?

- Pensavo che, forse, potrei saldare il debito con qualche lavoretto.

- Fammici pensare su, - tagliò corto Cooper indicandogli la porta.

Due giorni dopo Pearce ricevette una chiamata. Era Cooper: - Le cose stanno così. Al momento il tuo debito è di duemila sterline.

- Avevamo detto milleduecento.

- Stiamo trattando un compromesso. Vuoi metterti a discutere con me o preferisci sentire come puoi salvarti le gambe?

Pearce disse: - Continui pure.

- Già non hai rispettato la scadenza, e ora mi stai dicendo che la ragazza, la tua garanzia, se l'è squagliata con l'anello, che era la tua unica proprietà. Quindi la tua situazione finanziaria è cambiata. Di conseguenza ho rivisto il nostro accordo iniziale, e alla luce di tutto ciò adesso me ne devi duemila. Comunque sono disposto a farti pagare col lavoro. Non è carino da parte mia?

- Quanto mi paga?

- Cosa?

- Voglio sapere quanto mi ci vorrà per saldare tutto il debito.

- Questo dipende da te. Non siamo al Burger King. Non ti pago a ore, così come non ti pago quei cazzo di contributi e così come nessuno di noi paga un centesimo di tasse.

- Allora come la ripago?

- A provvigione. Guadagni il venti per cento di quello che recuperi. Dedurrò le somme dal tuo debito. Perciò più soldi riesci a sfilare ai miei clienti, più contenti, e più ricchi, saremo entrambi.

- Nessuno di loro, dei suoi clienti intendo dire, ha il becco d'un quattrino, signor Cooper.

- È incredibile come riescano quasi sempre a trovarli, i soldi.

- Merda.

- Tu credi? È evidente che usiamo dizionari diversi. Tommy Gregg, quello sì che era merda.

Tutti sapevano di Tommy. Aveva fatto il gradasso dicendo in giro di non avere paura di Cooper. Una notte, Cooper fece visita all'appartamento di Tommy insieme a uno dei suoi tirapiedi armato di macinacaffè. Adesso Tommy girava zoppo.

- Non ci saranno altre offerte, - disse Cooper. - E la mia è un'offerta generosa, e non trattabile. Difficile a credersi, ma Tommy si riteneva un duro -. Ridacchiò. - Guardalo adesso, Pearce. Se gli dicessi di succhiarmi il cazzo, quello storpio schifoso senza le dita dei piedi sarebbe già in ginocchio con la lingua fuori come una troia da cento sterline all'ora prima ancora che mi tiri giù la cerniera. Non vorrai fare la stessa fine, no? - Fece una breve pausa. - Allora, che cosa rispondi?

Pearce disse: - Ok, - e Cooper gli diede appuntamento per il giorno dopo. Uno dei suoi uomini gli avrebbe detto cosa fare.

Quando Pearce lo spiegò alla madre, lei disse: - Non farlo. Te li presto io i soldi.

- E dove le trovi duemila sterline? - chiese lui.

- Potrei prenderle in prestito da Cooper.

- Appunto, mamma.

Pearce tirò fuori dalla tasca la lista che gli aveva dato Cooper. Quattro nomi, quattro indirizzi, quattro debiti. Il primo della lista non era in casa. Cant era il secondo. La donna, una certa Ailsa Lillie, era la numero tre. Il suo debito con Cooper era di trecento sterline. Pearce si domandò quante ne avesse prese in prestito. Già lo odiava, quel lavoro. Controllò il numero civico, ripiegò il foglietto e se lo rimise in tasca.

Sulla Easter Road le auto facevano lo slalom serpeggiando tra piazzole di sosta e isole spartitraffico. Gli autobus avanzavano a singhiozzo nel traffico, infilandosi nei pochi spazi in direzione della fermata o delle strisce pedonali successive. Pearce si inserì a sua volta in un piccolo spazio che si era creato tra le persone in fila davanti al bancomat, e quasi pestò la coda di un cane legato all'edicola accanto. Appena il traffico lo consentì, attraversò la strada.

Il palazzo di Ailsa Lillie si trovava accanto a un bookmaker. Il muro esterno era nero di fuliggine e fumi di scarico. Il portone era aperto, ma preferì suonare ugualmente il citofono. Un po' di educazione non avrebbe certo guastato.

Ore 10:58.

Eccoli di nuovo. Bang. Bang. Sempre 'sti bang.

Robin non riusciva a starsene in casa seduto a far niente, non con quel putiferio che lo stava facendo impazzire. Era da almeno una settima che il vicino, quasi completamente sordo, si sparava un film di John Wayne dopo l'altro con il volume al massimo. Robin di solito si vendicava con il Cd di un quartetto d'archi dell'ultimo Beethoven, o qualcosa che avesse una sezione ottoni predominante - Janáček era ottimo - oppure un'opera barocca a volume tanto alto da far tremare le finestre. Spesso ci cantava sopra a squarciagola. Ma non quel giorno. Quel giorno era diverso.

Ancora due ore. Era teso. Non poteva starsene rinchiuso. Doveva uscire.

Come non fosse abbastanza deprimente essere tornato a fare l'inquilino, il nuovo appartamento non era bello come il precedente. Non avevano più la cucina separata, per esempio, e nelle rare occasioni in cui lui o Carol cucinavano, l'odore impregnava i mobili del salotto. Il divano puzzava per giorni e giorni di pesce o carne o pancetta affumicata. Sul pavimento c'era un tappeto in stile nonnina, a fiori rosa e lilla. Il pianoforte era stato spostato una volta di troppo e andava decisamente accordato. Ma non aveva importanza, perché non lo suonava quasi mai. Cinque minuti ogni tanto, magari una volta a settimana, quando il dolore gli dava un po' di tregua. Forse un tempo il suo Robinson verticale era stato uno strumento musicale, ma ormai, più che altro, faceva parte dell'arredamento.

Se aveva intenzione di uscire doveva andare a prendere la borsa.

In camera da letto, un'orribile carta da parati a righe ricopriva tre delle pareti. Malgrado l'illusione di profondità data dagli armadi riprodotti negli specchi della quarta parete, la stanza appariva piena zeppa. Sul cassettone, incastrato nello spazio fra il letto e la porta, c'erano dodici foto di Carol in cornice. Mentre si guardava allo specchio le scaraventò tutte sul pavimento con un ampio gesto del braccio.

Come poteva fargli una cosa simile? Non riusciva a credere che si fosse lasciata toccare da Eddie.

Osservando i propri movimenti allo specchio, mosse la mano destra lentamente, come sott'acqua. Stava dirigendo, ovvio. Chi lo chiedeva? Sì, sarebbe andato avanti come se niente fosse. Un'orchestra. Che altro? Avrebbe fatto finta di non sapere. Alzandosi sulle punte dei piedi per un'immaginaria battuta in levare, prese a scandire un tempo più spedito. La sua mano fendeva l'aria. Dopo alcune battute, puntò deciso il pollice e l'indice della mano sinistra, chiusi in circolo, alla sezione degli ottoni. Lasciò cadere le braccia sui fianchi e scosse la testa. - Di nuovo in ritardo, - disse. - Non ci siamo proprio.

Altrimenti rischiava di rovinare tutto. E si trattava di una questione personale. Niente a che vedere con il lavoro. L'indomani avrebbe fatto ancora in tempo a decidere il da farsi. Prima si sarebbe occupato di Carol, poi avrebbe fatto i conti con Eddie.

La borsa era sepolta sotto un mucchio di panni sporchi. La riesumò e se la mise a tracolla. Se Eddie avesse saputo che cosa stava per fare, gli sarebbe venuto un colpo. Al pensiero, Robin ridacchiò tra sé.

Fuori, la temperatura era di poco sopra lo zero. Ma c'era secco e non avrebbe camminato molto. Tanto meglio, dato che non poteva correre il rischio di prendere la macchina. Passò sotto la tettoia di pali e assi messa in piedi dopo l'incidente avvenuto circa un mese prima, quando l'architrave di una finestra staccatasi dal terzo piano aveva colpito un passante alla nuca. Qualche giorno dopo erano arrivati gli operai che avevano ricoperto di ponteggi mezzo edificio. Da quella volta non si erano più fatti vedere.

Incrociò la signora Henderson, un'anziana che viveva nel suo stesso palazzo, in un appartamento al pianterreno. La signora tirava un carrello per la spesa con disegno scozzese. Passandole accanto, Robin disse: - Buongiorno -. Lei lo squadrò da dietro gli occhiali spessi, e gli fece un cenno col capo coperto da un groviglio di capelli bianchi.

Robin girò l'angolo e, attraversando la strada, sentì un formicolio sul dorso della mano. Si domandò in che condizioni fosse il naso dell'investigatore.

 

Il centro dell'affollato ufficio postale era occupato da due espositori che obbligavano le file a disporsi lungo le pareti. Altri scaffali, carichi di opuscoli, si estendevano per tutta la lunghezza del muro accanto. Dall'altra parte, dietro un vetro antirapina (si chiamavano così, almeno stando a quanto diceva Eddie), due cassiere servivano i clienti senza la benché minima dose di fretta. Robin scrutò quella grassa, che pareva sulla sessantina. La pelle flaccida le dondolava sotto il mento mentre parlava alla collega.

Arrivato il suo turno, disse: - Un francobollo per posta prioritaria, grazie.

La lacca per capelli dell'impiegata lo prese alla gola facendolo tossire prima ancora che riuscisse a mettersi la mano davanti alla bocca.

- Poi, be', non dovrei dirlo, - disse la cassiera strappando un francobollo da un quaderno. Robin spinse una moneta da cinquanta pence attraverso la fessura in fondo al vetro. - Ma ci potrebbero essere dei guai, - continuò lei, prelevando il resto dalle pile di monete ordinatamente inserite in una cassetta foderata di velluto. Le dita tozze fecero scivolare le monete verso di lui.

- Ci vediamo più tardi, - disse Robin. Solo allora ebbe la sua attenzione.

- Come ha detto, scusi?

Lui le sorrise e raccolse il resto.

- La conosco?

- Non ancora, - disse lui, e se ne andò. Ma l'avrebbe conosciuto molto presto.

Ore 10:59.

Ailsa Lillie aprì il portone senza dire una parola. Quando Pearce bussò, la porta di casa si schiuse. C'era la catenella.

- Chi è? - La donna aveva una voce grave, che veniva dal profondo della gola. Non era di Edimburgo. Il suo accento aveva una cadenza tipica del Nordest.

- Posso entrare? - domandò Pearce sorridendo alla porzione di faccia apparsa fra la porta e lo stipite. Era come se qualcuno le avesse infilato la testa in un sacco di farina. Aveva i capelli grigi e il viso pallido, a parte un livido violaceo sopra l'occhio.

- Perché? - Scosse la testa. Sembrava sulla quarantina.

Lui abbassò la voce. - Hai un debito con un mio amico.

- Chi?

- Lo sai chi, Ailsa. Fammi entrare.

- Sembri una brava persona, - disse lei. - Ma non sono in grado di giudicare il carattere della gente. Per quanto ne so, potresti essere un serial killer.

- Devi trecento sterline al signor Cooper. Ti pare che un serial killer possa sapere una cosa del genere? Pearce esitò un momento, poi proseguì: - Voglio solo che ci mettiamo d'accordo su una qualche forma di pagamento accettabile per entrambe le parti.

La donna abbassò gli occhi. Senza rialzarli, disse: - Per entrambe le parti?

Lui annuì con un lento cenno del capo. La porta si chiuse. Pochi secondi dopo si riaprì del tutto e furono l'uno di fronte all'altra.

- Chiudi la porta quando entri -. Fece dietrofront e si allontanò a passi silenziosi sul pavimento coperto dalla moquette. - La stanza da letto è da questa parte.

- Aspetta -. Pearce entrò e chiuse adagio la porta. Lei lo ignorò. La vide scomparire in camera. Si muoveva come fosse molto più giovane. Pearce reinserì la catenella. - Ailsa, - disse. - Signorina Lillie -. Dopo un po' la seguì.

Era stesa bocconi sul letto ancora disfatto, la gamba destra che penzolava oltre il bordo. Strusciava le dita dei piedi sullo scendiletto rosso sbiadito, dall'orlo consumato.

- Ailsa.

- Continui a ripetere il mio nome.

- Sto cercando di dirti…

- Come ti chiami?

- Non ha importanza.

- Mi piacerebbe saperlo -. Si girò su un fianco voltandosi verso di lui, le braccia tese sopra la testa. - Oh, per favore, concedimi almeno questo. Dopotutto…

- Pearce, - disse lui.

- Sei proprio una brava persona -. Gli occhi verdi le brillavano. - Siediti accanto a me, Pearce.

Pearce fece qualche passo in direzione del letto e si mise seduto.

- Come vuoi farlo? - domandò Ailsa.

- Che ti è successo? - disse Pearce allungando un braccio. Le sue dita erano a pochi centimetri dal viso di Ailsa, quando questa si scostò.

Ailsa rise, ma non c'era buonumore nel suono stridulo che le uscì dalla gola.

- Cosa ti sei fatta in faccia?

La donna borbottò qualcosa nel cuscino.

- Non ti sento, - disse Pearce piegandosi in avanti.

- Che te ne frega? - Ailsa si drizzò di scatto e gli puntò una pistola, tenendola come se le stesse ustionando il palmo. Tremava come una foglia.

- Se mi spari, Cooper manderà qualcun altro -. Allungò una mano. - Qualcuno meno bravo di me.

- Sei un po' scemo, Pearce? - Serrò l'altra mano intorno a quella che già stringeva l'arma e tentò di rendere salda la mira. - Se ti ammazzo, - spiegò, - finisco in prigione. Cooper sarà l'ultimo dei miei problemi. Starò al sicuro.

- Forse non sono così scemo come pensi. Perché non mi racconti come sono andate le cose? - disse. - I soldi che hai preso in prestito da Cooper erano per comprare la pistola, dico bene? - Lo sguardo di Ailsa ebbe un tremito, e lui proseguì: - Scommetto che l'hai comprata con in mente una certa persona. Ho indovinato? E magari quella certa persona è la stessa che ti prende a cazzotti. Come sto andando?

Ailsa storse le labbra. - Non male, - disse.

- E forse lui? - Pearce indicò la foto incorniciata e appesa al muro sopra la testa della donna. Lei annuì senza voltarsi. - Tuo marito? - domandò Pearce, e subito dopo notò che le dita strette intorno all'arma erano prive di gioielli. Avevano smesso di tremare, ma le nocche erano bianche come ossa. - Solo il tuo ragazzo? - disse. - Perché non lo molli?

Ailsa fece un'altra risata, e fu come se qualcuno le avesse avvolto la laringe nella carta vetrata. Poi disse:

- C'ho provato.

Pearce alzò le sopracciglia. - E sei tornata indietro?

- Non gli piaceva l'idea.

- Chi se ne frega di cosa gli piace e cosa no?

- Magari fosse così facile, Pearce -. Deglutì e abbassò le mani. - Finché riguardava solo me, finché non toccava nessun altro, ero pronta ad affrontarlo fino in fondo.

Con delicatezza, Pearce le staccò un dito dalla pistola.

- Questo non è niente -. Ailsa disgiunse le mani e l'arma scivolò sul letto. Poi si sfiorò l'occhio ferito e continuò: - In confronto a quello che ha fatto a Becky.

- Tua sorella? - Pearce raccolse la pistola. Era più pesante di quanto avesse immaginato.

Ailsa Lillie scosse il capo. Gli occhi le scintillarono.

- Rebecca è mia figlia.

Pearce esaminò l'arma. Nichel, pensò. Sul calcio era incisa la scritta «Cccp». - Quanti anni ha?

- Diciotto -. E dopo una pausa aggiunse: - Grande abbastanza.

- Per cosa?

- Uno zigomo fratturato e la mascella rotta.

- Non vive qui?

- Stai scherzando? Becky se n'è andata di casa a sedici anni -. Sorrise e disse: - Fa la parrucchiera.

- È lui il padre?

- No, grazie al cielo.

- È scarica, - disse Pearce mostrandole il caricatore.

- Cristo, come se non lo sapessi. Pearce rimontò il caricatore.

- Dopo aver pagato la pistola, - disse Ailsa, - non avevo più i soldi per i proiettili. Non sapevo che una scatola di munizioni costasse quasi la metà di una pistola.

- Ci fanno un bel ricarico -. La guardò negli occhi e si mise a ridere. Lei fece altrettanto, e gli sembrò sincera. - Come si chiama il tuo ragazzo? - domandò Pearce.

- Perché vuoi saperlo?

- Sei nei guai, Ailsa. Se vuoi uscirne, fai come ti dico io. Dimmi come si chiama e dove posso trovarlo.

Lei glielo disse. - È un tipo pericoloso, - aggiunse.

- Starò attento, - disse Pearce restituendole la pistola. - Riportala a chiunque te l'abbia venduta e chiedi indietro i soldi. Non li otterrai tutti, quindi cerca di spuntare almeno la metà. È una quota ragionevole. Quanto basta per essere utile a te ma non troppo da far perdere la faccia a lui. Lo troverà un buon affare se gli fai presente che può sempre rivendere la pistola. Farai come ho detto?

Ailsa annuì.

Pearce si alzò in piedi. - Torno domani a prendere i soldi.

Lei lo afferrò per una mano. - Che intenzioni hai?

Pearce si strinse nelle spalle. - Fare due chiacchiere col tuo ragazzo. Dirgli che è finita. Che non vuoi più rivederlo -. Sfilò le dita da quelle di lei e si grattò il mento.

- La ucciderà, - disse Ailsa prendendogli di nuovo la mano. - Ucciderà Becky.

- Non ha nulla da temere.

Ailsa non credette a quelle parole. Corrugò la fronte e arricciò gli angoli della bocca.

- Ti prometto, - disse Pearce, - che non lo rivedrete mai più, né tu né tua figlia.

La fronte di Ailsa tornò a rilassarsi, tanto da farla apparire quasi graziosa. - Ho un debito con il tuo capo. Perché fai tutto questo? Perché mi aiuti? Cosa sei, una specie di vigilante?

- Ricordi cosa ho detto? - La guardò dall'alto in basso. - Che ero qui per discutere una forma di pagamento accettabile per entrambe le parti? Ecco, è proprio quello che abbiamo fatto. Non ho mai avuto intenzione di… - Fece un gesto circolare con la mano. - Insomma, quella roba lì. Questi sono solo affari: tu sei un investimento, e io ti proteggo come proteggerei qualsiasi altro investimento.

Ailsa gli puntò di nuovo la pistola addosso, chiuse l'occhio gonfio e disse: - Dovrei spararti solo per le palle che racconti.

Pearce le diede la schiena. - So dov'è la porta.

- Ehi, - disse Ailsa. - C'è un tizio grande e grosso che lavora con Pete. Si chiama Tony. E una brava persona anche lui. Proprio come te. Fagli un saluto da parte mia.

Ore 11:15.

- Non ora, mamma -. Pearce riattaccò e spense il cellulare.

- Ah, le mamme.

La voce maschile gli parve un fatto strano, anche se non sapeva bene il perché. Non che riuscisse a trovare un buon motivo per cui alla reception di una sauna dovesse esserci per forza una donna, ma chissà perché lo dava per scontato. Forse quel tipo, di secondo lavoro, faceva la guardia giurata. Pearce alzò gli occhi. Come non detto: di guardie giurate sotto il metro e cinquanta se ne vedevano ben poche. Dietro il bancone a semicerchio, la faccia di Culobasso era un fascio di nervi. - Dov'è Pete? - chiese Pearce.

- Pete? - Culobasso tese la bocca, la rilassò e la tese di nuovo. Difficile dire se si fosse appena pestato un piede o se fosse sul punto di scoppiare in una risata isterica.

- Quanti Pete ci lavorano qui? Culobasso alzò le spalle.

- C'è qualche ragazza che si chiama Pete? Culobasso arricciò le labbra.

- Thompson, - disse Pearce con gli occhi chiusi. Thompson, - ripeté. Poi aprì gli occhi e lo fissò. - Vorrei parlare con Pete Thompson.

- Ah -. La testa di Culobasso prese a ballonzolare.

- Il signor Thompson -. Serrò le labbra, strinse le mascelle e disse: - Ha un appuntamento? - Pearce restò in silenzio, e l'ometto continuò a fare di sì con la testa.

- Per parlare con il signor Thompson ci vuole un appuntamento.

Pearce attaccò il cellulare alla cintura. Sentì contrarsi un muscolo della guancia.

- Un appuntamento -. La testa di Culobasso faceva su e giù a gran velocità.

- Attento alla testa, - disse Pearce. - Se la scuoti ancora un po', va a finire che si stacca.

Culobasso si fece bianco in volto e sollevò le sopracciglia. Con la testa ora immobile alzò la cornetta del telefono, spinse qualche pulsante e disse: - Tony, qua c'è uno che fa lo spiritoso -. Lasciò cadere il ricevitore, che rimbalzò dal supporto e andò a finire sul bancone. Culobasso brontolò qualcosa mentre la cornetta rovesciata mugugnava il segnale di linea libera. Quando fece per raccoglierla, si spalancò una porta in fondo al corridoio e saltò fuori un uomo grande e grosso dalle braccia possenti.

L'omone guardò Pearce in cagnesco, fregandosi le nocche di una mano contro il palmo dell'altra mentre avanzava a passi pesanti lungo il breve corridoio. - Posso esserti utile? - Era molto più alto di Pearce. E anche molto più largo. La giacca gli strangolava le braccia. Si fermò a circa un metro di distanza e si aggiustò la cravatta. Naso piatto. Orecchie a cavolfiore. Niente in comune con la foto del ragazzo di Ailsa.

- Tu devi essere Tony, - disse Pearce. - Piacere di conoscerti.

- Chi sono io non ha importanza. Chi sei tu, piuttosto?

- Sto cercando Pete.

- Non ti ho chiesto chi stai cercando. Ti ho chiesto chi sei.

- Cinque minuti. Non di più.

Tony cambiò mano e continuò a fregarsi le nocche come per affilarle contro la mola del palmo aperto. - Pete non vuole vederti.

Pearce fletté le dita. - Temo di dover insistere.

Tony ridacchiò. - Ok, - disse. - Insisti pure.

Pearce disse: - Fai body building, giusto?

- Certo.

- Significa che se resto fermo mi sollevi come niente.

Tony lo soppesò con uno sguardo. - Con una mano sola.

- Bene, - disse Pearce. - Ecco il tuo problema.

Tony spostò il peso da un piede all'altro. Dopo una pausa disse: - E cioè?

- Non ho intenzione di restare fermo.

Tony sospirò. - Allora, visto che fai tanto il duro, perché non provi a superarmi?

- E quello che farò, - disse Pearce. - Ma prima c'è una cosa che devo chiederti. Vedi, sono un po' perplesso -. Afferrò il bordo del banco con entrambe le mani. - Pete non sa neanche chi sono, giusto? - Lasciò la presa e si voltò. - Allora come cazzo fa a dire di non volermi vedere?

- Non sono fatti miei.

- Cinque minuti -. Pearce sbatté un pugno sul banco.

- Lascia stare i mobili.

- Cinque minuti, - ripeté Pearce dando un altro pugno sul banco.

- Sei sordo? - Tony guardò Pearce dritto negli occhi. - O sei solo ritardato?

- Ma pensa, oggi mi danno tutti dello scemo. Me l'ha detto anche Ailsa Lillie.

- Conosci Ailsa? - Gli occhi di Tony si socchiusero.

- È per lei che sono qui.

- Perché non l'hai detto subito?

- Mi stavo divertendo, - confessò Pearce. - In realtà ho un messaggio per Pete da parte di Ailsa.

- Riferisco io.

- Devo darglielo di persona.

Tony scosse la testa e smise di fregarsi le mani. Si voltò e tornò sui suoi passi. La porta dell'ufficio si richiuse di schianto dietro di lui.

Pearce guardò Culobasso. - Hai qualcosa da ridere?

Il piccoletto drizzò la testa. Aveva la bocca tesa in un ghigno risoluto. - E anche se fosse? - rispose.

La porta si riaprì. Tony disse: - I tuoi cinque minuti.

Pearce camminò lungo il tappeto rosso che copriva il corridoio e mise piede nell'ufficio di Thompson. Il ragazzo di Ailsa era seduto dietro una scrivania enorme intento a tastarsi i baffi. Non si alzò per dare il benvenuto a Pearce. Non lo guardò neppure in faccia.

Pearce seguì lo sguardo di Thompson. Dalla parte opposta della scrivania c'era una batteria di monitor che trasmettevano in silenzio quanto avveniva in alcuni dei prive del centro sauna. Quattro schermi erano spenti ma, malgrado l'ora del mattino, altri due mostravano segni di attività. In basso a sinistra, una massaggiatrice in topless era occupata a scuotere la carnosa zona lombare di un anonimo cliente disteso su un asciugamano accanto a una Jacuzzi. Sullo schermo accanto, quello da cui Thompson non riusciva a staccare gli occhi, la massaggiatrice era nuda e in ginocchio, con l'uccello del cliente che le scivolava dentro e fuori dalla bocca. In qualche modo riusciva ad avere un'espressione annoiata.

Pearce disse: - Mi sorprende che abbiate già clienti.

Thompson non lo guardò nemmeno. - Siamo aperti da mezz'ora.

Pearce volse lo sguardo a Tony, poi a Thompson, poi di nuovo allo schermo. Infine disse: - Devo aspettare che abbiano finito?

Thompson si girò sulla sedia. - E tu chi cazzo sei?

- Ho un messaggio, - disse Pearce voltandosi. - Da parte di Ailsa.

- Ah, sì? - Thompson gettò un'occhiata a Tony e storse la bocca. - Ah, sì? - ripeté.

- Non vuole vederti mai più.

- Ah, sì? - Thompson sbarrò gli occhi. Sempre più sbarrati. - Ah, è così? Non vuole più vedermi, eh?

- Se ti avvicini a lei o a sua figlia, quello che ti farò oggi sarà solo un assaggio.

- Ah, sì? - Thompson scoppiò a ridere. Poi s'interruppe all'improvviso. - Che vuoi dire?

Pearce si rivolse a Tony e disse: - Puoi uscire, se vuoi.

Tony disse: - Perché dovrei?

- Se ti interessa sapere come sta Ailsa, è preoccupata per sua figlia -. Pearce attese un istante. - Becky è andata a sbattere contro un muro. Una gran bella botta. Ha la mascella fratturata.

- Pete? - disse Tony. - Avevi promesso, brutto stronzo.

La fronte di Thompson si imperlò di sudore.

- Ailsa è spaventata, - continuò Pearce. - S'è comprata una pistola. Crede che Pete abbia in qualche modo a che fare con il piccolo incidente accaduto a Becky.

Thompson aprì la bocca e la richiuse. Poi scosse la testa. - Non sono stato io, testa di cazzo. Diglielo, Tony, pezzo di merda buono a nulla. E già che ci siamo, vedi di non darmi mai più dello stronzo. Ora forza, diglielo che non sono stato io.

- Incredibile, - disse Tony. - Cazzo, è incredibile. Qualcuno dovrebbe darti una bella lezione.

Alle sue spalle, Pearce sentì Tony avviarsi verso la porta. - Aveva deciso di piantarti una pallottola in fronte, Pete. Ma io l'ho convinta che ammazzarti sarebbe stato eccessivo -. Pearce afferrò una sedia. - Magari possiamo parlare. Da uomo a uomo -. Si sedette, sapendo che Thompson aveva ancora lo sguardo fisso dietro di lui, nella speranza che Tony intervenisse. - Cerca di non complicare le cose.

- Tony? Dove stai andando? - Il pomo di Adamo di Thompson fece su e giù come avesse ingoiato qualcosa di ancora vivo. - Sei licenziato -. La porta si richiuse. - Tony? - Con voce strozzata il ragazzo di Ailsa sbottò: - Frocio di merda.

- Finiscila, - disse Pearce. - Non è carino, Pete -. Si grattò il mento con il dorso delle dita.

Thompson disse: - Che cosa vuoi?

- Quello che ha detto Tony, - rispose Pearce. Darti una bella lezione.

Ore 11:27.

La macchina andava bene, quindi Eddie aveva tempo per pensare.

Una coppia perfetta di squilibrati, in cui ognuno dei due pensa che l'altro sia pazzo.

A prima vista, Robin appariva un po' nevrotico. La morte del fratello così giovane l'aveva traumatizzato, questo era certo. Stando a Carol, aveva continuato a fare la pipi a letto fino all'adolescenza. Poi c'era quella storia della pistola ad acqua. Solo un grosso scherzo, forse, ma non era difficile capire come fosse accaduto con un padre del genere, la malattia alle mani e la delusione per una carriera da musicista andata in fumo Era comprensibile come tutto ciò l'avesse portato alla schizofrenia.

Carol, dal canto suo, non era certo miss Sanità Mentale. Tutto per via di quella che lei stessa definiva un'infanzia «stramba». Era cresciuta in una fattoria nei Borders, una bambina solitaria, con genitori anziani e senza vicini di casa. Era solita avvolgere animali morti nella carta stagnola e seppellirli nel suo cimitero privato, in fondo a un terreno incolto. Tranne le donnole. A queste era riservato un privilegio: le loro ossa essiccate e i minuscoli denti aguzzi venivano raccolti e conservati in barattoli di marmellata e custoditi sotto il letto. La cosa che disturbava Eddie era che Carol aveva cominciato con gli animali uccisi dai suoi cani o da altre bestie selvatiche, poi era passata a cacciare per conto suo. A piazzare trappole. A prendere al laccio conigli e simili. Niente di troppo grosso.

La domanda era: tutto ciò faceva di lei una pazza? Chi lo diceva che, nelle medesime condizioni, Eddie non si sarebbe dilettato nella stessa maniera? Ormai la conosceva da molto tempo, e se fosse stata pazza l'avrebbe notato. Di sicuro non aveva tutte le rotelle a posto, altrimenti non avrebbe trascorso quel periodo nel reparto psichiatrico dove aveva conosciuto Robin. Ma capita a chiunque di essere depressi, no? C'è una bella differenza tra giù di corda e fuori di testa. Lui, se non altro, la pensava così.

Almeno fino alla notte precedente. Ora non aveva quasi più alcun dubbio sul fatto che Carol fosse completamente fuori di melone come uno scarafaggio lobotomizzato. Gli sarebbe piaciuto poterne parlare con Robin. Ironia della sorte, suo marito era l'unica persona in grado di fare un po' di luce sulla sanità mentale di Carol. Ma se avesse saputo che loro due… Be', Eddie non voleva arrivare a tanto.

- Piantala.

- Di far cosa?

- Di morderti il labbro.

Eddie smise di mordersi il labbro e cominciò a pensare alla notte che avevano passato insieme.

Carol l'aveva svegliato urlando. Lui si girò sul fianco e le cinse la vita con un braccio.

Lei si divincolò e si fiondò fuori dal letto. Non la smetteva di strillare. Eddie si coprì la testa con il piumone, ma fu inutile. La sentiva ugualmente. Si tolse di dosso il piumone, sbadigliò, imprecò e accese l'abatjour. Faceva freddo in camera da letto, e in bocca aveva un sapore di uova marce. Si strofinò gli occhi. Mise a fuoco la libreria, e accanto a essa il vaso con la pianta di papiro. Sullo scendiletto c'erano vestiti gettati alla rinfusa. Carol era in piedi nell'angolo, la faccia nascosta tra le mani. Si dondolava avanti e indietro come una che è appena uscita dal manicomio. La camicia da notte era bagnata e le aderiva alla gamba sinistra.

Eddie si alzò dal letto e prese a barcollare verso Carol. Mise un piede nudo su una spazzola per capelli e imprecò. Quando raggiunse la donna, la afferrò per i polsi e con uno strattone le scoprì il viso. Le mani esili di Carol si liberarono subito dalla presa e tornarono a coprirle il volto. - Che hai?

Carol pestò i piedi come una bambina capricciosa. Con una mano, Eddie le schiacciò entrambi i polsi fino a farla gridare. La schiaffeggiò. Non avrebbe voluto, ma non sapeva che altro fare per calmarla. Allentò la stretta, e Carol si ricoprì immediatamente il viso. Eddie allungò le braccia e la abbrancò di nuovo. Aveva le mani scivolose.

Ci vollero dieci minuti e altrettanti ceffoni per farla calmare.

- Che hai? - tornò a chiederle Eddie.

- Mi stava toccando -. Respirava a singhiozzi. Le parole le uscirono di bocca come sei sillabe distinte punteggiate da bruschi respiri. Ripeté: - Mi sta-va toccan-do -. Poi lo fissò con gli occhi grigio fumo. - Mi ha svegliata. Spaventata.

- Che cos'è che ti toccava?

Il suo volto sembrava artigliato da dita invisibili che scavavano buchi dai quali sgorgavano lacrime.

La sveglia faceva le 2 e 31.

Alle 2 e 54, Eddie ottenne una risposta.

Ecco che cosa era successo: nel sonno, Eddie le si era accoccolato vicino. Dormiva nudo. A un certo punto, durante la notte, gli era venuta un'erezione. Lei si era svegliata, aveva sentito la pressione del pene sul suo corpo e se l'era fatta nelle mutande.

Niente di che. Il contatto col suo uccello l'aveva spaventata al punto che s'era pisciata addosso. Sì, ma perché? Non riusciva a capirci niente. E lei non voleva parlarne. A ogni modo, dove cazzo era il problema?

La Carol personaggio pubblico, quella di cui pensava d'essersi innamorato, era falsa come le unghie verniciate di blu della mano che ora stringeva il volante dell'auto rubata. Falsa come le due unghie verniciate di blu che reggevano la sigaretta che si era appena portata alla bocca. La vera Carol era una squilibrata affetta da una qualche forma di fallofobia. Oh, Dio, ma Eddie la desiderava. Gli venne duro. Magari avesse potuto sbottonarsi i pantaloni e tirarlo fuori, sì, tirar fuori il cazzo e chiederle di avvolgerlo con le sue calde labbra. Al solo pensiero ebbe un capogiro. Oh, Madonna. «Ma il tuo cazzo le fa schifo, ricordi?» Il pene gli si ammosciò all'istante. Abbassò il finestrino e lasciò che il vento gli pizzicasse la guancia. Bastò poco perché avesse mezza faccia completamente intirizzita. Richiuse il finestrino e la macchina si riempì subito di fumo.

- Come va? - le domandò.

- Bene.

- Sapevo che ti sarebbe piaciuta, - disse. - Ti eri trovata bene con la Sierra dell'ultima volta -. Eddie aveva munito l'auto di targhe false e più tardi attaccato l'insegna «Taxi» sul tetto. Erano diretti a ovest. Eddie guardò l'orologio. Meno di un'ora e mezza al via.

- Dici che dovremmo tornare in città?

Eddie si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. - Mi hai tolto le parole di bocca, - disse. - Svegliami quando arriviamo.

Ore 11:42.

Pearce andò alla finestra. Thompson si girò sulla sedia. Pearce inserì una mano nello spazio fra le tende e allargò le dita.

L'ufficio di Thompson dava su una chiesa abbandonata. Dietro un muro basso, provvisto di sbarre nere appuntite, i cardi costeggiavano il sentiero di cemento che conduceva a una porta in legno di quercia. Al di sopra della porta c'era una finestra di vetro colorato, rotta e successivamente sbarrata con assi di legno. Della struttura originale non rimaneva che un unico pannello raffigurante un oggetto circolare, forse un'aureola. Due ubriaconi tremanti di freddo stavano seduti su un gradino di pietra sotto la finestra e, alternandosi, gustavano a grandi sorsi una lattina di Special Brew.

Thompson tossì.

Pearce continuò a osservare gli ubriaconi. Uno dei due si alzò in piedi e si mise a pisciare sul posto. Con i talloni ben piantati per terra, mosse le punte dei piedi da una parte all'altra, spruzzando urina di qui e di là, fino a svuotare la vescica. Si scrollò, si sedette e prese in mano la birra. Le sue spalle sussultarono quando l'amico gli indicò l'inguine e lui si rese conto di avere ancora l'uccello fuori. Quindi si rialzò e si sistemò.

A parte i due ubriaconi del cimitero, non c'era nessuno in giro.

Pearce disse: - Tranquillo qui.

- Sì, - disse Thompson con una lieve esitazione nella voce. - Molto.

- Hai fretta? - Pearce si allontanò dalla finestra.

Thompson scosse il capo e si asciugò il naso con il dorso della mano.

Pearce prese il cellulare e selezionò il secondo numero in memoria. L'uno era il numero di casa di sua madre. Il due quello dell'ufficio. Rispose la principale, Denise, che andò a chiamarla.

Poco dopo, udì la voce trafelata della madre: - Abbiamo da fare.

- Non farti mettere troppo sotto.

- Che volevi?

- Solo richiamarti.

- Oh -. Fece una pausa. - Me l'ero dimenticato. Niente di importante, - disse. - Solo una sensazione. Ehm, non so -. Un'altra pausa. - Ora che ci penso, è una sciocchezza. Niente di che. Non hai picchiato Willie Cant, vero?

Riusciva a vederne l'espressione del viso. Fronte corrugata, labbra strette. La faccia che faceva quando lui aveva fatto qualcosa di male. Come la volta in cui aveva strangolato quella ragazza a scuola. Isla qualcosa. Anche se era stato un incidente. Stavano facendo un gioco. «Bacio, coccola o tortura». La afferrò, la immobilizzò a terra e tentò di baciarla. Lei si dimenò. Per impedirle di scappare era quasi riuscito a soffocarla. Forse, col senno di poi, fu proprio in quel momento che divenne consapevole della sua forza fisica.

Un incidente. Non gli credette nessuno. Neppure sua mamma.

La sedia di Thompson cigolò.

Pearce lo guardò, e il poveretto sussultò. Pearce disse poi a sua madre: - Ci vediamo a pranzo?

- Sarebbe bello. Ho il turno di mattina, stacco verso l'una. Dove ci incontriamo?

- Vengo a prenderti io.

- Ascolta, devo andare. Denise mi sta sostituendo e non la prenderà bene -. Gli schioccò un bacio e riattaccò.

Pearce infilò le dita nella tasca posteriore e tirò fuori il pezzo di carta che gli aveva dato Cooper. Dei quattro nomi sulla lista ne mancava solo uno. Domenic Corrigan non era in casa. Willie Cant l'aveva visto. Ailsa Lillie idem. Rimaneva solo Jack Muirton. Indirizzo di Sighthill. Numero di telefono sconosciuto.

Thompson si stava rosicchiando l'unghia di un pollice.

- Hai un elenco telefonico? - domandò Pearce.

Il manager della sauna cadde quasi dalla sedia per la smania di obbedire. Uno dopo l'altro aprì con foga tutti e quattro i cassetti della scrivania. - Dev'essercene uno da qualche parte, - disse dopo aver constatato che anche l'ultimo cassetto era vuoto. Lo chiuse sbattendolo, riaprì il primo dall'alto e si rimise a cercare.

- Non fa niente -. Pearce compose il numero del servizio informazioni.

- Eppure era qui -. Thompson estrasse il cassetto e ne rovesciò il contenuto sul pavimento. Una Bibbia della Gideons atterrò con un tonfo. Una scatola di fiammiferi cadde spargendo il contenuto un po' ovunque. Un pacchetto di gomme da masticare rotolò sotto la sedia. Altri oggetti vari rimbalzarono andandosi a nascondere sotto la scrivania.

- Muirton, - disse Pearce al telefono. Poi, rivolto a Thompson: - Posso usare la penna?

Thompson si chinò per raccogliere la biro che si era andata a fermare a pochi centimetri dalla punta metallica di uno stivale di Pearce, e gliela porse.

- 42 Sighthill Drive West -. Con la penna, Pearce picchiettò sul secondo cassetto dall'alto. - Carta, Pete, grazie.

Thompson aprì il cassetto e strappò un foglio da un blocco per appunti che si trovava all'interno.

Pearce glielo prese di mano e vi annotò il numero di Jack Muirton. Non era in casa. Pearce gli lasciò un messaggio sulla segreteria avvertendolo di che cosa sarebbe accaduto se non avesse saldato il debito entro il giorno seguente. Terminato lo spazio sul nastro, riattaccò.

Thompson si stava grattando una mano.

Pearce posò il telefono sulla scrivania. - Togliti i pantaloni, - disse.

- Aspetta un secondo -. Thompson deglutì. - Non possiamo risolvere la faccenda in un altro modo?

- Non saprei. Tu che dici?

- Vuoi soldi? Te li dò -. Thompson si frugò nella tasca, trovò il portafoglio e lo innalzò con un'espressione di trionfo. Lo aprì e tirò fuori un rotolo di banconote. - Ecco, - disse sventolandolo davanti a Pearce. - Prendi.

- Non li voglio i tuoi soldi.

- Prendili, - supplicò Thompson. - Prendili tutti. Qui ci sono mille sterline.

- È un bel po'.

- Non si sa mai quando possono servire.

Pearce disse: - Grazie, - e si infilò i soldi nella tasca posteriore. Mille sterline. La somma esatta che aveva preso in prestito da Cooper. Ora sarebbe bastata a pagare solo metà del debito. - Levati i pantaloni.

- Eddài, - disse Thompson. - Facciamo le persone civili.

- Per piacere, - disse Pearce. - Va meglio così? Per piacere, togliti i pantaloni.

Thompson gettò il portafoglio vuoto sul pavimento. C'era calma nella sua voce. - Che intenzioni hai? - Le sue dita si mossero verso la cintura, soffermandosi sulla fibbia.

- Datti una mossa, - disse Pearce. - E lo scoprirai.

- Posso riavere indietro i soldi?

- Secondo te?

Thompson slacciò la cintura lentamente, la sfilò dai pantaloni e la piegò a metà. Accarezzò la striscia di cuoio con il pollice, poi la afferrò alle due estremità e la mise in tensione. Con un movimento rotatorio fece partire una frustata. La cinghia colpì Pearce sulla parte alta del bicipite sinistro. Thompson ruggì e fece roteare nuovamente la cintura. Pearce la acchiappò al volo, serrò la presa e tirò Thompson verso di sé. Thompson smise di sbraitare e lasciò andare la cintura. Pearce lanciò un'occhiata al segno rosa scuro sul braccio, poi tornò con lo sguardo su Thompson.

Senza dire una parola, Thompson si sbottonò, tirò giù la cerniera e abbassò i pantaloni.

- Sfilali, - disse Pearce.

Thompson si slacciò le scarpe, le cavò e sfilò i pantaloni. Dopodiché portò le mani a coppa davanti ai boxer, anche se la camicia gli scendeva fino a coprire l'inguine. - E adesso?

- Togliti le mutande.

- Stai scherzando.

- Dobbiamo ripetere tutta la sceneggiata?

- Vaffanculo. Vuoi vedermi il cazzo, eh, frocio di merda? Bene, allora vai a farti fottere.

La fibbia della cintura colpì Thompson appena sopra il sopracciglio. Thompson vacillò, sul suo volto lo sgomento. Prese a piagnucolare e portò una mano dall'inguine alla testa.

Dopo un po' disse: - Lascerò Ailsa in pace.

Pearce lo squadrò per un momento, poi abbassò la cintura. - Sono certo che lo farai.

- E anche Becky. Mi terrò alla larga da tutt'e due.

- Sono certo che lo farai.

- Lo prometto, - aggiunse Thompson alzando lo sguardo. - Farò tutto quello che vuoi -. Si asciugò il naso. Del moccio gli rimase attaccato ai baffi.

- Bene, - disse Pearce. - Adesso voglio che ti togli le mutande.

Ore 11:50.

Poco più di un'ora al via.

Robin sedeva a un tavolo per quattro accanto alla finestra. A ogni coperto, un piccolo supporto di plastica reggeva un pezzo di cartoncino con la scritta «Riservato» stampata in grassetto rosso su entrambi i lati. Fuori, il marciapiede era punteggiato di alberelli in gabbie di ferro che offrivano la parodia di un boulevard parigino. Alcune finte palle di cannone - sculture alludenti al tradizionale colpo di cannone sparato ogni giorno dal castello all'una di pomeriggio - butteravano le isole spartitraffico bislunghe e lastricate di Leith Walk.

Nel bar, la musica andava a tutto volume. Jazz, con batteria e sassofono a farla da padroni e i suoni percussivi di un pianoforte a smarrirsi nell'impasto sonoro. Allargò le dita e batté qualche accordo sul tavolo.

All'età di tredici anni Robin aveva sostenuto audizioni in tre delle migliori scuole di musica britanniche: St Mary's a Edimburgo, Douglas Academy a Glasgow e Chetham's a Manchester. Fu ammesso in tutte e tre. Lui scelse Chetham's, perché all'epoca era la più rinomata.

Fu poco dopo il suo quattordicesimo compleanno che il padre lo accompagnò in macchina alla nuova scuola. Erano diretti a sud, e Robin, sul sedile davanti, stava raccontando a suo padre quanto non vedesse l'ora di migliorare la propria tecnica per potersi cimentare nella Sonata in si minore di Liszt, uno dei brani più difficili nel repertorio pianistico. A quel tempo, l'unico problema che gli si era manifestato alle mani era una sporadica rigidezza, che eliminava facilmente immergendole per qualche minuto in un catino di acqua calda.

Il padre infilò una mano nel portaoggetti e tirò fuori una bottiglia di whisky piena a metà. Bevve un lungo sorso. - Non me ne importa una sega della tua tecnica.

Robin si fece piccolo. Se lo aspettava. Eccolo.

- Sei una sanguisuga.

L'insulto preferito di suo padre. Era diventato un soprannome, quasi. Sanguisuga. Mio figlio, la sanguisuga. - Scusa, papà.

- Non rispondermi, stronzetto -. Bevve un altro sorso. - Sanguisuga -. Il labbro superiore si contorse. - Vampiro -. Ritrasse le labbra e mostrò i denti. - Parassita.

- Vorrei che non facessi così, papà.

Il volto del padre era deformato dalla rabbia. Diventava così quando beveva, il che avveniva ormai talmente spesso da sembrare normale. Tanto normale che a Robin non venne mai in mente che il padre non avrebbe nemmeno dovuto guidare.

Robin canticchiò tra sé in silenzio. Notturno in do diesis minore di Chopin. Si mise a picchiettare le note sulle cosce.

Il padre disse: - Quei soldi che t'ha dato la commissione.

Robin si interruppe a metà di una battuta. - La borsa di studio? - Le tasse scolastiche ammontavano a cinquemila sterline l'anno, una somma ben oltre le possibilità dei suoi genitori.

- Ci resti quattro anni. Sono ventimila sterline. Succhi via ventimila sterline a noi contribuenti, eh?

Robin non voleva prenderle anche stavolta. Non disse nulla e ricominciò a suonare Chopin.

- Oltre a tutti i soldi che abbiamo speso per quelle cazzo di lezioni di piano. Vedi, non hai fatto altro che spillarmi soldi per quasi tutta la vita. E per cosa? Per tutta quell'artuccia di merda che piace a te e a tua madre -. Diede un pugno sul volante. - Un fottuto spreco di soldi. Dei miei soldi, cazzo.

- Papà, avrei bisogno che…

Lo schiaffo gli bruciò la guancia. Il secondo schiaffo gli fece sanguinare il labbro. Si riparò il viso con le mani, e avvertì il gusto caldo e salato del sangue.

- Patetico, - disse il padre. - Quattordici anni e guardati, piangi come una ragazzina.

- Non sto piangendo -. Robin abbassò le mani per mostrargli gli occhi spavaldamente asciutti.

Il padre borbottò: - Non sai neanche dare un calcio a un pallone.

Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, il padre a sorseggiare whisky e Robin a sforzarsi di non piangere. Arrivati alla nuova scuola il padre lo aiutò a portare le sue poche cose nella stanza dove avrebbe dormito, al piano superiore di un prefabbricato. Dall'altra parte del cortile, Palatine House conservava ancora una certa somiglianza esteriore all'albergo vittoriano che era un tempo. Al suo interno, come Robin ricordava dalla visita guidata dopo l'audizione, si diffondeva la cacofonia che proveniva dai quattro piani di stanze per le esercitazioni, tutte arredate nello stesso identico modo: un leggio e un pianoforte verticale Daneman. A destra, i portici conducevano alla Baronial Hall, dove si tenevano i recital all'ora di pranzo. Sopra la cancellata a punte aguzze che recintava un campo da croquet, la cattedrale di Manchester dominava l'orizzonte.

Robin si rivolse al padre e disse: - Credevo che fossi fiero di me.

- Sarei fiero di te se smettessi di pisciare a letto. Allora sì che ci sarebbe da andare fieri. Ma non credo che tu possa farlo legato in tre quarti, eh? - Disse così e se ne andò senza salutare.

Robin voleva solo suonare il piano, nient'altro. Non gli importava delle idee del padre. Quell'uomo era un troglodita, un ubriacone, e non valeva la pena di piangerci sopra. Mentre era ancora nel grembo della madre, attaccato al suo corpo come un parassita, Robin era riuscito a succhiare il sangue al padre. Così almeno la vedeva lui.

Un giorno il padre si era improvvisato batterista jazz. Robin l'aveva sentito suonare una volta sola su una batteria in un negozio di strumenti musicali, quando erano andati a comprare un nuovo pianoforte per Robin. E la verità era che, per quanto odiasse ammetterlo, suo padre aveva talento. Ma quando la madre era rimasta incinta di Donald, il padre aveva abbandonato ogni aspirazione musicale per assicurare alla famiglia un reddito fisso nel reparto cottura di uno stabilimento per la lavorazione della carne. Quando venne al mondo Robin, due anni dopo il fratello, il padre vide chiudersi ogni via d'uscita da quel lavoro alienante. A detta di mamma, fu allora che cominciò a bere, e dopo l'incidente peggiorò rapidamente.

La cosa strana fu che, una volta nella nuova scuola e malgrado gli incubi sempre più frequenti, Robin non bagnò mai più il letto.

La scuola di musica finì quattro anni dopo. Iniziato il college, aveva continuato a esercitarsi otto ore al giorno. Trascorso appena un mese del primo semestre, cominciò a sentire fiammate di dolore invadergli entrambe le braccia. Ogni movimento delle dita o dei polsi gli provocava fitte acute. Il dottore gli diagnosticò una tendinite e prescrisse una fisioterapia. Dopo tre mesi, tre mesi senza potersi esercitare, non era per niente migliorato. Il dottore gli prescrisse quindi degli antinfiammatori, che dopo alcuni giorni consentirono a Robin di suonare almeno per qualche ora senza sentire dolore. Questo stato di gioia non durò che una settimana, e cessò la mattina in cui Robin si svegliò scoprendo di avere le braccia intorpidite, di non riuscire a muovere le dita neppure di un millimetro e di avere i polsi gonfi all'inverosimile. Passò l'anno e mezzo successivo a farsi visitare da medici specialisti di ogni tipo, i quali non poterono far altro che giungere tutti a una stessa conclusione: Robin era affetto da uno dei casi più gravi di neuropatia ulnare che avessero mai riscontrato. Nei giorni in cui stava meglio cercava di suonare. Più spesso, anche un'attività fisicamente semplice come lavarsi i denti gli faceva venire le lacrime agli occhi. Lasciò il college dopo che quindici cure diverse, comprese due operazioni per riposizionare il nervo ulnare, erano risultate inutili. Quando fu ormai evidente che Robin non sarebbe mai diventato il grande pianista che aveva sempre sognato, sua madre fu sconvolta. Suo padre, invece, disse che erano solo fregnacce psicosomatiche per attirare l'attenzione, e che il ragazzo avrebbe dovuto trovarsi uno straccio di lavoro onesto e smetterla di piagnucolare come una checca. Ma all'epoca, a quella sanguisuga del figlio già non fregava più niente di cosa pensasse il padre.

- Signore.

Robin aveva distinto in modo abbastanza chiaro la voce della cameriera malgrado il lamento del sassofono soprano, ma senza alcun buon motivo fece finta di non aver sentito.

- Signore.

Ancora una volta? No, dai. Girò la testa.

- Le spiacerebbe sedersi qui, per favore? - La ragazza aveva le braccia scoperte, la pelle chiara con un accenno di lentiggini. Nella mano sinistra reggeva un blocchetto, con la destra si picchiettava una matita sui denti. Doveva avere poco meno di vent'anni.

- Di che colore hai i capelli? - le domandò Robin.

- Scusi, cosa…

Lui le sorrise. - Perdonami se te lo chiedo. Sembreresti rossa. Ma non vedo bene, - disse volgendo lo sguardo un po' più in alto. - Per via del cappellino.

- E che dobbiamo metterci la retina e tutte 'ste stupidate -. La ragazza spinse indietro la «stupidata», ossia il cappellino, con la matita, mostrando un altro millimetro di fronte umida. - Per non far finire i capelli nel cibo.

- Sono le regole, eh?

- Non me ne parli.

- Sai una cosa? - disse Robin. - Quel cappellino ti sta proprio bene.

- Davvero? - Fece una risata. - Grazie.

- Hai le sopracciglia chiare. Ma scommetto che sei rossa -. Robin fece un cenno con la testa. - Me la togli questa curiosità?

Lei strinse la matita tra i denti.

- Sai, mia moglie ha i capelli rossi, - continuò Robin. Se Carol l'avesse sentito, avrebbe potuto ammazzarlo. Carol non aveva i capelli rossi, né castanorossastri, né, guai a dirlo, rossicci. - Biondo rame, li chiama così -. La cameriera aggrottò le sopracciglia, masticò la matita, la sfilò di bocca e cominciò a scuoterla nell'aria mentre parlava. - Il mio colore di capelli direi che è castano. Castano chiaro. Ma ho i riflessi rossi. Però a volte, se c'è la luce giusta, possono sembrare biondo rame -. Annuì e puntò la matita verso Robin. - Sì, proprio così.

- Sheila -. Era la voce di un cameriere paffuto che teneva in equilibrio sopra la testa un vassoio di bevande varie mentre tentava di farsi strada nel minuscolo spazio rimasto tra due sedie. La camicia viola era macchiata di sudore sotto l'ascella. - Quando hai finito col signore puoi fare il tavolo 7? - Abbassò il vassoio e prese a distribuire i bicchieri a una famiglia numerosa seduta intorno a un tavolo vicino.

Sheila fece schioccare la lingua.

- E il capo? - domandò Robin.

- Sì, - rispose. - Meglio che prenda l'ordinazione.

- Devo spostarmi? - Robin fece per alzarsi. Piegò le ginocchia e lasciò una mano sul bordo del tavolo. - È che mia moglie dovrebbe arrivare da un minuto all'altro e le ho detto che le avrei tenuto un tavolo accanto alla finestra. Viene anche un amico, e non vorrei deluderli. Ma non credo di poter…

- Stia pure dov'è -. Sheila infilò blocco e matita nella tasca del grembiule, si distese in avanti e raccolse due dei cartoncini con la scritta «Riservato». Robin le allungò gli altri due, che lei tenne stretti al petto. - Beve qualcosa mentre aspetta?

- Un caffè doppio, - disse rimettendosi seduto. - Grazie -. La osservò mentre si trascinava verso il centro del locale e lasciava cadere i cartoncini su uno dei due tavoli liberi. Li posizionò in fretta, si voltò e gli sorrise. Robin le fece un cenno con la mano.

- Nuova amichetta? - Carol agitò le unghie blu imitando il gesto che lui aveva rivolto alla cameriera. Robin non alzò nemmeno gli occhi. Non riusciva a guardarla in faccia. In tutta quella storia c'era qualcosa che gli faceva venire una gran voglia di scoppiare in lacrime. Il volto dell'infedeltà. Il volto di una bugiarda. - Nervoso? - Carol gli si sedette di fronte, accese una sigaretta e fece scivolare il pacchetto verso di lui. Robin ignorò l'offerta. Lei alzò le spalle. - Parlarne può essere utile, Robin.

- Non in pubblico, - disse lui.

Si voltò a guardare fuori dalla finestra. «Parlarne può essere utile. Parla. Non parlare». Gli occhi di Carol lo sfottevano. La sua bocca lo derideva. Il suo tono di voce era venato di ironia. Andava a letto con Eddie. Le mani di Eddie le avevano tastato il seno. Eddie l'aveva assaporata, era stato dentro di lei. Robin la guardò. Stava tirando una boccata alla sigaretta, le labbra storte nel soffiare il fumo da un lato della bocca. Mai vista una cosa tanto brutta. La odiava. La odiava al punto che persino i denti gli facevano male.

Carol incrociò il suo sguardo e lui riuscì ad abbozzare un sorriso. Con quelle unghie avrebbe potuto cavargli via tutte le otturazioni. Aveva il viso pallido e freddo come porcellana. Lei e Eddie. Robin ne aveva le prove. Dio, aveva voglia di allungare una mano e accarezzarle la guancia, sfiorarle le labbra, seguire la linea dritta della parte del corpo che più gli piaceva. Ma non poteva. Immaginò piuttosto di sfondare quel sottile ponticello del suo tanto amato nasino con le nocche delle dita. Pam. La sorpresa nei suoi occhi. Pam. Schizzi di sangue dalle fessure striminzite delle narici. Pam. Sangue che le scorre sul viso, pam, tra le dita, pam, sulle labbra, pam, in bocca, pam, pam, porca puttana, pam. Pam, porca puttana. Pam. Pam.

Come l'investigatore. Oh, merda. Gli scappò un gemito che cercò di nascondere con un colpo di tosse. La camicia gli aderiva alla schiena. La musica era d'un tratto troppo alta, l'ostinato glissando del sassofono come il guaito di un animale torturato. Sentì freddo. Diede un'occhiata a Carol e lei sorrise, il naso perfetto, come sempre.

Qualcuno gli diede un colpetto sulla spalla e disse:

- Robin.

Carol si fece più in là, e Eddie le si sedette accanto. Eddie aveva troppi denti, altrimenti lo si sarebbe potuto anche definire un tipo attraente. Gli occhi blu fiordaliso e i riccioli biondi lo facevano sembrare almeno cinque anni più giovane rispetto ai trenta che aveva. Senza chiedere nulla, prelevò una sigaretta dal pacchetto che Carol aveva lasciato sul tavolo e disse: - Novità?

Carol cominciò a parlare. Lasciala fare, pensò Robin. Quella pantomima era per lui. Come non avessero passato il tempo a scopare come ricci. Stava raccontando a Eddie quello che aveva fatto dall'ultima volta che si erano visti. Certo. Eddie faceva finta di ascoltare, intercalando il monologo di Carol con un grugnito o due, le sopracciglia paglierine sollevate in una finta espressione di stupore, ora risucchiando l'aria tra i denti con le labbra ritratte e scuotendo piano il capo.

Fra di loro aleggiavano nuvole di fumo.

Una cameriera - non Sheila - si avvicinò al tavolo e Robin ordinò un altro caffè. Normale, stavolta. Carol chiese un toast con pomodoro e formaggio e un'acqua minerale ghiacciata. Eddie non aveva molta fame, ma accettò il consiglio di Carol di prendere qualcosa di leggero, come un croissant alle mandorle, per esempio.

- E un latte macchiato, - aggiunse.

Robin riusciva a vedere le dita di Carol fremere dalla voglia di toccare la manica della giacca dell'amante. Stavano forse giocando? Volevano che lui intuisse? Era questo che volevano? E quell'occhiata modello scopami che gli aveva appena lanciato? Robin volse lo sguardo altrove. Fuori, la gente era imbacuccata per il freddo. Il traffico pulsava su e giù per Leith Walk. Il cielo pesante era di un grigio sporco, lo stesso degli occhi di Carol. Si voltò e, controllando la voce, disse: - Sei pronto, Eddie?

- Sempre pronto, - rispose Eddie dandosi un colpetto sulla tasca della giacca.

Ore 12:07.

Niente ti ricorda la prigione più di vedere un uomo nudo. Dieci anni di docce comuni. Dieci anni di galeotti morti di sesso che ti guardano vogliosi. Quando era uscito, due mesi prima, Pearce aveva provato un piacere immenso nel fare le cose più semplici. Come alzarsi dal letto quando ne aveva voglia, spegnere la luce all'ora che voleva lui, scegliere che cosa mangiare per cena, e cagare in privato.

Si accorse che stava fissando l'uccello di Thompson. Era pallidissimo, cicciuto, e con un prepuzio lunghissimo. - Girati, - disse Pearce. - Metti le mani dietro la schiena.

Thompson si voltò, premendo la parte anteriore delle cosce contro il bordo della scrivania. Le mani si mossero lentamente verso il fianco e lì si fermarono, sospese. Pearce gli afferrò i polsi e con uno strattone glieli strinse l'uno contro l'altro. Thompson strillò. Con una mano Pearce gli tenne fermi entrambi i polsi mentre con l'altra cercò a tentoni sul pavimento la camicia dell'uomo nudo. Quando l'ebbe trovata, si mise in bocca una manica e la strappò all'altezza dell'ascella. Poi gli legò i polsi con il lembo di stoffa così ottenuto.

Thompson ululò: - Ahia, mi fai male.

Pearce ne ebbe abbastanza. Lo fece girare su se stesso e gli sferrò una testata. Thompson barcollò, la bocca spalancata, e quando le gambe gli cedettero Pearce gli diede uno spintone. Thompson cadde sulla scrivania, battendo la testa sulla superficie lucida. Gli occhi gli ruotarono verso l'alto e le palpebre, dopo alcuni battiti, si chiusero. Rimase lì immobile, la testa inclinata su un fianco, la bocca aperta, i denti coperti dalla lingua. Il petto gli faceva su e giù, lentamente. Quando espirava emetteva un suono a metà tra un sibilo e un fischio cupo. Le mani, legate dietro la schiena, lo costringevano a stare col bacino sollevato. Il pisello gli giaceva rannicchiato nella piega tra i testicoli.

Pearce prese in mano il cellulare e compose il numero di Julie, anche se ormai era certo che avesse buttato via il telefono. Vuoi che ci fidanziamo, Pearce? Gran brutta cosa la speranza, eh? Una voce garbata dall'accento inglese lo invitò a lasciare un messaggio. Con lo stesso falsetto strozzato che aveva già usato decine di volte prima di allora disse: - Vuoi che ci fidanziamo? - Si sentiva il petto in tensione e il respiro pesante. Forse alla fine non l'aveva buttato via, il telefono. Non lo poteva sapere con certezza. In tono lamentoso ripeté: - Vuoi che ci fidanziamo, Pearce? Vuoi che ci fidanziamo? - Il telefono gli si ruppe in mano, il telaio si era spaccato sul fondo. La crepa sottile sembrava un ciglio incollato sulla plastica. Smise di stringere.

Pearce fece scattare l'interruttore nella testa e la rabbia svanì all'istante. Se avesse chiuso gli occhi ora sarebbe riuscito a vedere il suo cane, Angus, accovacciato sotto lo scuolabus, con una delle zampe anteriori color rosa vivo, spogliata del pelo e della pelle per tutta la lunghezza fino alla spalla. Pearce tenne gli occhi aperti e con un tono di voce naturale disse: - Perché il mondo è pieno di gentaglia? - Thompson emise un gemito. Pearce assicurò nuovamente il cellulare alla cintura. La sua fronte aveva colpito Thompson in mezzo agli occhi, ormai gonfi. Thompson emise un altro gemito. Aveva gli occhi aperti e sbavava da un lato della bocca. Sembrava ubriaco.

- Mi senti? - domandò Pearce. Thompson tentò di issarsi, ma ricadde subito. Le braccia, legate dietro la schiena, non potevano sorreggerlo. Pearce si piegò sulla figura distesa. - Ti farà un po' male, - disse.

Thompson si sforzò di sollevare la testa dalla scrivania. - Non la toccherò mai più.

- Esattamente -. Pearce si allontanò dalla scrivania per raccogliere il cassetto che Thompson aveva svuotato in cerca dell'elenco telefonico.

- Non picchiarmi più. Lascerò stare Ailsa. E pure Becky -. Thompson parlava con voce stridula. - Non le toccherò mai più, nessuna delle due -. Tentò di alzarsi ancora una volta. - Cristo, mi gira la testa -. Riuscì a mantenersi in posizione semieretta per una manciata di secondi prima di crollare nuovamente all'indietro.

- Ho quasi finito -. Pearce reinserì il cassetto nelle guide e lo spinse dentro di qualche centimetro.

- Che stai facendo? - Thompson rotolò su un fianco e sferrò un calcio con il piede sinistro.

Pearce lo afferrò per la caviglia e gliela schiacciò tra le dita. Thompson strillò e smise di dimenare la gamba. Si fece molle in tutto il corpo, ma Pearce non lasciò andare la presa. Sentiva le proprie unghie scavargli nella pelle. - Perché lo fai, Pete? - Pearce afferrò anche l'altra caviglia e cominciò a tirare Thompson verso di sé. Le chiappe nude di Thompson squittirono sulla superficie liscia della scrivania. - Perché picchi le donne? Thompson si ritrovò con le natiche sul bordo del tavolo e lo scroto penzoloni sopra il cassetto vuoto. Si mise a urlare non appena ebbe capito le intenzioni di Pearce. Pearce dovette alzare la voce per farsi sentire. - Pensi davvero di potertela cavare così? - Thompson tentò inutilmente di muovere le gambe chiuse nella morsa di Pearce, poi smise di gridare per prendere fiato. Pearce disse: - Sono cose che non mi piacciono.

- Che ci guadagni? - disse Thompson tentando di sollevarsi. - Ti piace? E tutta tua.

- Macché -. Pearce mollò una caviglia per respingerlo giù.

- E allora cosa? Tuo padre pestava tua madre?

Pearce riagguantò la caviglia di Thompson e si mise a ridere. - Non le si è mai avvicinato abbastanza da poterla picchiare.

- Non farlo, - disse Thompson cercando di rimettersi seduto.

- Dimmi un po', cosa pensi che stia per fare?

- Schiacciarmi i coglioni nel cassetto.

- Ok -. Pearce lasciò andare le caviglie per afferrargli le ginocchia.

- Che cosa?

- Hai sofferto abbastanza -. Pearce lo aiutò a raddrizzarsi fino a fargli appoggiare i piedi per terra, a cavallo del cassetto.

- Lo prometto, - disse Thompson. - Le lascerò in pace tutt'e due.

Pearce fece un ghigno e balzò in avanti. Con entrambi i talloni bloccò i piedi nudi di Thompson al pavimento.

Thompson urlò e cercò di muoversi. La sua testa sfregò contro la T-shirt di Pearce. Con le mani annodate e gli stivali di Pearce sui piedi, Thompson oscillò da una parte all'altra. Dopo un po' si sedette in silenzio, ebbe un fremito e guardò in basso, tra le gambe.

Pearce udì uno sciacquio, come dell'acqua sul legno. Appoggiò il palmo della mano contro la parte anteriore del cassetto e disse: - Uno. Due…

Ore 12:32.

— È il tipo delle foto -. Kennedy teneva il telefonino schiacciato contro l'orecchio sforzandosi di distinguere la voce nasale del capo sopra lo sferragliare del traffico lungo Leith Walk. Dribblò due uomini intenti a trasportare una cucina a gas dal retro di un furgoncino in divieto di sosta a un negozio di elettrodomestici di seconda mano. - Sì, quello che si fa la moglie di Greaves.

Ebbe un brivido di freddo. L'odore di paste calde che usciva da Greggs e si diffondeva nell'aria gli fece venir voglia di fiondarsi dentro e arraffare un pastie con formaggio e cipolla. Ma non poteva. Non mentre era impegnato a pedinare quei tre. - Edward Francis Soutar? È così che si chiama? - Dopo una pausa aggiunse: - Sì, c'è anche lei.

Robin Greaves, con una borsa sportiva blu a tracolla, era nascosto dietro la moglie e il suo amante. Kennedy si era appostato circa sei metri più indietro, la mano che teneva il cellulare ormai intirizzita per il freddo. Si passò il telefono nella sinistra che, almeno per il momento, aveva ancora un po' di sensibilità. Il semaforo diventò rosso dalla parte della strada vicina a Kennedy. - Ora puoi anche smettere di urlare, - disse al capo, il quale protestò che non stava affatto urlando, poi, con l'identico tono di voce e volume, domandò dove fosse diretta la squadra di Greaves. Squadra. - Come faccio a saperlo? - Kennedy allontanò il telefono e lo fissò. Dopo un po' lo riportò all'orecchio e disse, calmo: - Non ha preso la macchina. E a piedi.

La voce del capo continuò a strepitargli nell'orecchio. Kennedy infilò la mano intirizzita nella giacca. Più avanti, il trio svoltò in una via laterale. Kennedy accelerò l'andatura mentre il freddo gli penetrava fin dentro gli stivali. A ogni passo era come se qualcuno gli stesse sbattendo un'asse di legno sulle piante dei piedi. - Devo andare, - disse al telefono. Riattaccò, abbandonò il cellulare nella tasca della giacca e girò l'angolo.

Ci mise qualche secondo a localizzarli. All'ombra di un lungo caseggiato, le auto erano ammassate in fila l'una dietro l'altra. L'acqua che gocciolava da un condotto di scarico al primo piano aveva formato una pozza sul marciapiede e cominciato a colare sulla strada, andando a bagnare la ruota anteriore di una Ford Sierra bianca, vecchia di due anni, con l'insegna «Taxi» sul tetto. La donna era seduta al volante. Edward Francis Soutar stava prendendo posto sul sedile di fianco. Robin Greaves, rincantucciato sul sedile posteriore, alzò gli occhi quando Soutar sbatté la portiera.

Kennedy recuperò il telefono e compose il numero dell'ufficio. Era occupato. Quindi provò sul cellulare del capo.

Dopo quattro squilli il capo disse: - Aspetta. Sono sul fisso.

- È per quello che ho chiamato sul cellulare -. Ma non c'era nessuno ad ascoltarlo. Kennedy si accese una sigaretta e aspettò.

Quando l'ebbe spenta, il capo tornò al telefono. - Che c'è?

- Puoi controllare il rapporto per vedere se la moglie di Greaves fa la tassista?

- No che non fa la tassista.

- Sicuro?

- Fa lavori saltuari.

- Ne sei assolutamente certo?

- Ho il naso a puttane, ma il cervello funziona.

- E importante. Ti spiace verificare?

- Verificare? - Kennedy udì le gambe della sedia grattare il pavimento quando il capo balzò in piedi. Verificare? - Il suono metallico del cassetto dello schedario che si apriva. - Se proprio ti fa star meglio, farò 'sta cazzo di verifica.

- Grazie.

- Figurati, - disse con un sospiro. - Ok. Eccola qua. Sei pronto? - Kennedy restò in silenzio. Il capo si schiarì la voce e continuò: - Carol Wren è registrata come…

- Si chiama così?

- Sì, usa il cognome da nubile. Alcune donne lo fanno. Posso andare avanti? - Il capo confermò l'agenzia di collocamento cui era iscritta Carol Wren. Era specializzata in personale d'ufficio. Non c'erano indizi che Carol possedesse, guidasse o avesse mai guidato un taxi. - Che importanza ha?

- Te lo dico dopo -. Kennedy chiuse il telefonino. Rimase appoggiato al muro all'angolo della via e si accese un'altra sigaretta. Nella macchina non si muoveva quasi nulla. Qualche minuto dopo spense la sigaretta e ne accese un'altra. Adesso aveva entrambe le mani congelate. Batté i piedi ed ebbe un sussulto quando si sentì i talloni come trafitti da centinaia di minuscoli coltelli. Nella macchina ancora niente. Che stavano facendo quei bastardi? Se ne stavano seduti in quella cazzo di macchina, ecco cosa facevano. Non facevano altro. Non si muovevano. Non parlavano. Se ne stavano seduti e basta. Forse ascoltavano la radio. Soutar teneva persino gli occhi chiusi. O magari s'era addormentato. Carol aveva lo sguardo fisso davanti a sé. Greaves si era lasciato cadere in avanti e, con il mento appoggiato al torace, si guardava le nocche delle dita intrecciate.

Kennedy scrutò l'orologio e si domandò ancora una volta perché lo stesse facendo, scegliere di starsene lì al freddo a farsi congelare le estremità. Aveva deciso di fare l'investigatore privato per le emozioni, l'avventura, il pericolo. Dava la colpa a Hammett. Chandler lo si poteva perdonare. Ma Hammett? Che bastardo.

I romanzi polizieschi avevano permeato l'adolescenza di Alex Kennedy. Era rimasto stregato fin dalla lettura del suo primo Chandler. Aveva letto tutto Chandler, poi Hammett, poi Ross Macdonald. Alla fine era riuscito a mettere insieme una pila enorme di giallacci da quattro soldi degli anni Cinquanta e Sessanta, ormai fuori commercio, acquistati nei charity shop e ai mercati delle pulci. I suoi investigatori preferiti erano Max Thursday e Johnny Killain. Uomini che vivevano di emozioni e di pericolo. Uomini per i quali essere due contro uno era tutto sommato un giusto squilibrio. Uomini che avrebbero potuto sfidare un muro di mattoni e costringerlo a chiedere pietà. Kennedy si soffiò nelle mani chiuse a coppa. Hammett aveva fatto l'investigatore nella vita reale e avrebbe dovuto sapere come stavano davvero le cose. Non aveva scuse per aver fatto apparire eccitante quel lavoro di merda. Non succedeva mai niente. Niente. Zero. Nisba. Quando eri in ufficio facevi telefonate e navigavi in rete. Archiviavi un verbale, facevi qualche altra telefonata e navigavi ancora un po' in rete. Fuori dall'ufficio stavi in macchina per ore a osservare il nulla. A volte, come ad esempio quel giorno, non avevi nemmeno il lusso di un'auto in cui sedere. Dovevi rimanertene lì al freddo a osservare il quasi niente diventare un bel cazzo di niente. Se ti annoiavi a morte potevi sempre catturare il preciso istante in cui non succedeva niente scattando una fotografia, e Kennedy l'avrebbe fatto senz'altro se non avesse dimenticato quella cacchio di macchina fotografica in auto. Sfilò un'altra sigaretta dal pacchetto. Mentre l'accendeva notò un movimento dentro la Sierra. Finalmente succedeva qualcosa? Posò in tasca l'accendino e vide Soutar girarsi e porgere qualcosa a Greaves. Greaves soppesò l'oggetto sul palmo della mano e, con un rapido movimento del polso, lo puntò alla testa di Soutar.

Kennedy afferrò il cellulare e fece il numero dell'ufficio. Stavolta la linea era libera.

-Che c'è?

Kennedy aveva la gola secca. Deglutì. - Quanto ci metti a venire qui?

- Non ce la fai da solo?

Deglutì ancora una volta. - Mi sa tanto che qui c'è in ballo molto più del tuo naso.

- Che cazzo stai dicendo?

- Potrebbero andarsene da un minuto all'altro. Chiamami dal cellulare quando sei partito.

Nella Ford Sierra bianca, un Robin Greaves sogghignante restituì la pistola a Edward Francis Soutar.

II capo di Kennedy disse: - Non posso lasciare l'ufficio.

- Una volta qui non te ne pentirai, - disse Kennedy. - Credimi.

Ore 12:40.

- Passai la mattinata ad affilare con la lima la punta di un lungo cacciavite, - disse Pearce a Thompson.

Thompson piangeva come un bambino al quale il bulletto della scuola aveva calpestato il lecca-lecca.

- Puoi fare silenzio un minuto? - Pearce si piegò sulle ginocchia e gli slegò le mani. - Sapevo dove abitava Priestley, lo spacciatore di mia sorella.

Le spalle di Thompson sobbalzavano a ogni respiro che gli usciva dai polmoni.

- Andai a fargli visita -. Pearce ricordò un cartello appeso a un muro. Neighbourhood Watch di Blacket. C'aveva riso sopra mentre camminava lungo la fila di ville bifamiliari. Alcune di esse avevano i balconi in pietra. Tutte avevano il giardino privato e l'allarme antifurto sulla facciata, segno che all'interno c'era di sicuro qualcosa che valeva la pena sgraffignare.

Thompson prese a strisciare sotto la scrivania, gemendo, i denti che vibravano contro il labbro inferiore.

Pearce aveva aperto un cancello di ferro battuto e percorso un sentiero sinuoso che conduceva a un portico bianco di legno con il tetto in ardesia. Molto grazioso. Aveva suonato il campanello e nell'attesa ammirato il prato. Quando Priestley aveva aperto la porta, Pearce era entrato, chiudendola dietro di sé. Senza tante storie.

Thompson sbatté ripetutamente le palpebre.

- Lo infilzai col cacciavite, - disse Pearce. - Ventisei volte. Una per ogni anno di vita di mia sorella.

Thompson emise un suono strano. Sembrava quasi che stesse per mettersi a cantare.

Pearce lo ignorò. La giustizia aveva un prezzo. Pearce dovette pagare un conto di dieci anni di vita, ma non aveva alcun rimorso. Quella carogna se l'era meritato. Anche se adesso Pearce non era sicuro di poterlo rifare, sapendo quanto lunghi possano essere dieci anni.

Raccolse ciò che rimaneva della camicia di Thompson e lo gettò sul suo corpo nudo. - Vestiti, se vuoi. Io me ne vado.

Il corpo di Thompson, incuneato sotto la scrivania, era in preda agli spasmi, come attraversato da scosse elettriche nel petto. Teneva le mani infilate in mezzo alle gambe a protezione dei testicoli che Pearce aveva minacciato di spappolargli nel cassetto. La camicia di cotone spiegazzata rimase là dove Pearce l'aveva lanciata, distesa sul ginocchio sinistro. Dalla strana smorfia sulla bocca uscì un lamento debole, mentre la bolla che si era formata tra le labbra aperte scoppiò quando Pearce si sporse in avanti per chiudere con delicatezza il cassetto della scrivania.

- Sei stato avvertito -. Pearce lo pungolò con lo stivale. - A meno che tu non muoia dalla voglia di entrare nel coro delle voci bianche, stai alla larga da Ailsa. Se non lo fai, ti giuro che ti faccio arrivare alle note più alte. Sempre che non sia di cattivo umore. Nel qual caso ti uso come puntaspilli. Mi hai sentito bene, Pete?

Thompson annuì con forza e strillò quando sbatté la nuca sul bordo della scrivania.

- Ti tengo d'occhio. Posso fidarmi? Thompson tirò su col naso. - Me ne sto lontano.

- Ok -. Pearce allungò una mano.

- Non picchiarmi -. Thompson incrociò le braccia davanti al viso. - Ti prego.

Con il dorso della mano, Pearce gli toccò appena il gomito. - Stringi.

Thompson abbassò lentamente le braccia con gli occhi rossi grondanti di lacrime e il volto luccicante. Le labbra gli tremavano mentre stendeva la mano.

Pearce gliela prese e strinse forte. Si voltò e se ne andò in fretta. Lì aveva finito ormai, e non voleva fare aspettare sua madre.

Ore 12:51.

Greaves, Soutar e Wren erano ancora nella Sierra. Kennedy disse al telefono: - Qui c'è un parcheggio.

- Qui dove?

- In fondo a Leith Walk, all'angolo -. Kennedy si mise in punta di piedi. - Devo farti un segno?

- Lascia stare. Ti vedo.

Kennedy mise via il telefono non appena vide la Saab rossa del capo che si avvicinava. Con le mani congelate sotto le ascelle, si avviò verso il posto vuoto dalla parte opposta della strada rispetto alla Sierra. La Saab arrivò per prima, rallentò e si fermò. Kennedy aprì la portiera del passeggero e si accartocciò sul sedile. Il motore era ancora acceso. Si sfregò ostentatamente le mani e si voltò a guardare il capo. Aveva il naso fasciato e coperto da una mezza dozzina di cerotti Micropore a forma di croce. - Chi ti ha riparato? - domandò Kennedy.

- Che cavolo stanno combinando quei tre?

- Ok. Ignorami pure.

- Hai visto altre armi?

- A parte la pistola? - Kennedy pensò che forse quel lavoro non era poi tanto male. Finalmente stava succedendo qualcosa di grosso e lui ci si trovava in mezzo. - Niente di che. Qualche bomba a mano, un lanciafiamme, un lanciamissili.

- Non è il momento di dire stronzate.

- Ti sei medicato da solo? Non sapevo che avessimo una cassetta del pronto soccorso.

- E la legge.

- Dove la tieni?

- Schedario. Terzo cassetto dall'alto. In fondo.

Kennedy disse: - Greaves si puliva le unghie con un coltello.

- Di che tipo?

- Affilato.

- Ma di che tipo?

- Non lo so -. Kennedy indicò con le mani una trentina di centimetri. - Bello grosso.

- Un coltello da pane?

- Più piccolo -. Avvicinò le mani di qualche centimetro. - Lama seghettata.

- Da caccia, forse.

- Non vuoi sapere della pistola?

- Io non ne so niente di pistole. E tu?

- Veramente no. Però non mi dispiacerebbe averne una.

- Per farci cosa?

«Per sparare agli stronzi come te». - Boh.

- Ah, be', notevole.

- Greaves l'ha consegnata a Soutar -. Kennedy fece una pausa. - Adesso ce l'ha Soutar. È tutto quello che so -. Fece un'altra pausa. - E nera, - aggiunse.

- Nera. Soutar ha una pistola nera. Caspita, fa molta più paura di una pistola rosa, non credi?

Ore 12:57.

Carol passò a velocità troppo sostenuta su un dosso artificiale, e a Robin sobbalzò lo stomaco. Quando, poco prima, Eddie gli aveva dato in mano la pistola, lui gli aveva chiesto se fosse carica. Eddie aveva fatto cenno di sì, e la tentazione di premere il grilletto e vedergli la testa saltare via dal collo era stata enorme. Ma aveva resistito. Si era divertito un po' a puntargliela addosso prima di restituirla come un bravo bambino.

- Oops, - disse Carol.

- Vuoi che ci arrestino? - protestò Eddie.

- Fanculo, Soutar.

Quanto a Carol… Robin strinse il fodero di cuoio del coltello da caccia che teneva in tasca e guardò fuori dal finestrino. «Chinati in avanti. Afferrale la mascella. Piegale indietro la testa. Tagliale la gola. Tutto finito in pochi secondi». Dietro una recinzione, un gruppetto di bambini giocava a pallone su una spianata di ghiaia. Fuori da una chiesa che promuoveva un incontro di metà mattina, un suonatore di cornamusa in kilt sfidava il freddo. Robin colse di sfuggita un frammento del bordone, il suono acuto e non del tutto intonato della canna melodica, rapidi abbellimenti a impreziosire la melodia.

Quando l'auto fu vicina a un altro dosso artificiale, Carol rallentò fin quasi a fermarsi. - Così va meglio? - Eddie scosse la testa. - Allora?

- Vuoi fare cambio? Vuoi che guidi io? - Eddie sbarrò gli occhi, e per un attimo Robin pensò che fosse sul punto di sferrarle un pugno. Forse anche Eddie lo pensò. Forse era quello il motivo per cui incrociò le braccia. - Vuoi andarci dentro tu con Robin? Posso aspettare fuori. Credo di riuscire a stare in macchina col motore acceso senza troppa difficoltà.

Sembravano una coppia sposata. Robin aprì la chiusura lampo della borsa sportiva e diede un colpetto sulla spalla a Eddie. Il suono della cornamusa era ormai lontano.

Eddie lo ignorò e continuò: - Vuoi la pistola, Carol? Eh? Pensi di averne le palle? - Poi infilò una mano nella giacca.

- Eddie, prendi questo, - disse Robin. Eddie si stava scaldando e non era la prima volta. L'ultima volta aveva quasi perso il controllo, e Robin era stato costretto a intervenire per risolvere i suoi casini. Eddie a volte gli faceva tornare in mente suo fratello. «Ti ricordi la signora Strang?»

- Facile, - disse Carol mentre svoltava a destra in Easter Road. - Cosa ci vuole? - disse. - Puntare. Premere. Bang.

«Ti ricordi le spiate?»

- Credi che sparare a qualcuno sia così semplice? Eddie piegò la testa ad angolo per vedere che cosa gli porgeva Robin. - Puntare. Premere. Bang? Come seguire una qualunque ricetta del cazzo? - La mano uscì vuota dalla tasca della giacca.

- O un passo di danza, - aggiunse Robin.

Eddie afferrò il passamontagna dalle mani di Robin. - Certo, tu sai tutto sulle pistole. Una roba facile facile.

«Ignorali». Dov'era rimasto? Ah, sì, la signora Strang. Le spiate. Prima di andare alla scuola di musica, Robin era solito fare questo gioco insieme a Don. La loro anziana vicina di casa andava a letto presto. Vedova, con entrambi i figli fuori casa, viveva sola in un'angusta casetta a due piani in fondo alla via. Alle nove e mezzo di sera strisciavano lungo il vialetto del giardino, camminavano furtivamente lungo i muri della casa e si mettevano a spiare tra le tende della camera da letto al piano di sotto, dandosela poi a gambe quando la donna si coricava. Non la videro mai nuda, anche se una volta la scovarono in mutande. Una notte, mentre stavano nascosti nel giardino recintato sul retro, Don vide che la porta di servizio era socchiusa. «Allora cosa abbiamo fatto?» Una volta entrati, si infilarono in cucina poi nel corridoio ben illuminato. Le pareti del salotto attutivano il suono della Tv. Sulla sinistra c'era una rampa di scale, e sotto di essa un armadio a muro. Don aprì l'anta e scoprì un aspirapolvere, uno spazzolone in un secchio, una macchina per cucire, barattoli disposti in fila su un lungo scaffale, e in basso, su un ripiano più piccolo, una sfilza di libri per ragazzi, ognuno con un segnalibro arancione che spuntava dal bordo superiore.

Le scale scricchiolarono. Don si fiondò dentro l'armadio e chiuse la porta. Robin udì una chiave girare nella serratura. Chiudendosi nell'armadio, Don aveva chiuso fuori Robin. Robin restò immobile mentre i passi della signora Strang si facevano sempre più vicini. Era vecchia, e dura di orecchi. Aveva tempo a sufficienza? Sì, se non ne perdeva altro a pensare. Attraversò di corsa il corridoio, la cucina, uscì dalla porta sul retro, lungo il viottolo di fianco alla casa, su su fino a quello che conduceva alla porta di fronte, e fece un gran baccano scuotendo la cassetta per le lettere. Il suo unico pensiero: proteggere il fratello. Quando la signora Strang fu sulla porta d'ingresso, Robin le parlò a voce altissima. Lei gli disse più volte che non era sorda, ma lui continuava a gridare affinché Don lo sentisse, affinché capisse che poteva uscire. Temeva che Don non recepisse il messaggio, ma dopo un po' vide l'anta dell'armadio aprirsi dietro l'anziana signora e Don allontanarsi per il corridoio in punta di piedi. Prima che Don si dileguasse in cucina, Robin le aveva elencato tutti i lavoretti possibili, e la signora Strang, da vecchia stronza qual era, non voleva fargliene fare neanche uno. - Dovresti essere già a letto. Che cos'è, un gioco? - A momenti sputava la dentiera. - Lavare la macchina? Alle dieci meno un quarto di sera? Vattene a casa o ci parlo io con tuo padre.

- O premi il grilletto, - stava spiegando Carol con le spalle strette alzate quando Robin incrociò il suo sguardo nello specchietto retrovisore. - O non lo premi, - continuò con gli occhi ancora fissi su Robin mentre si rivolgeva a Eddie. Poi abbassò le spalle. - Dov'è il problema?

- Io non ho problemi.

- Mai detto che tu ne abbia.

Robin si schiarì la voce. Aveva la bocca asciutta.

- Siamo quasi arrivati.

- Lo vedo.

- Allora vuoi che lo faccia io? - disse Carol. - Dammi la pistola.

- Io con te non ci entro, Carol, - disse Robin. Scordatelo.

- Tanto sta bluffando, - disse Eddie. - Vero, Carol?

Carol svoltò a sinistra, rallentò, poi mise di nuovo la freccia. Fermò l'auto a non più di tre metri dall'ingresso dell'ufficio postale e si lasciò cadere sul volante. Con il ronzio del motore in sottofondo disse: - Scendete, prima che vi strangoli tutt'e due -. Eddie aprì la bocca per dire qualcosa ma Carol lo anticipò: - Fuori -. Ancora stesa sul volante ripeté: - Fuori. Fuori. Scendete.

- Non ci dici in bocca al lupo? - Eddie spalancò la portiera e scese. Robin fece altrettanto, poi disse:

- Pronto?

Eddie sbatté la portiera. - Un secondo -. Trasse un respiro profondo ed espirò con forza. Il colpo di cannone dell'una fece spiccare il volo a un corvo impaurito. Il corvo gracchiò, planò e andò a posarsi su un davanzale due piani sopra l'ufficio postale. Eddie disse:

- E ora.

- Dopo di te, - disse Robin infilando i pollici nel passamontagna.

Ore 13:00.

Robin li contò rapidamente. Sei uomini e otto donne, in fila lungo le pareti biancastre dell'ufficio postale. Sedici ostaggi in tutto comprese le cassiere, dovevano bastare. Uno dei clienti era grosso come un toro. Bisognava starci attenti. Tanto non era Robin a doversene occupare. Controllare la folla era compito di Eddie. D'altronde era lui che aveva la pistola e, come ci teneva a ricordare in ogni occasione, non era una merdosa pistola ad acqua.

La frecciatina era riferita al fatto che, cinque anni prima, Robin aveva assaltato un distributore di benzina con una pistola ad acqua. Della rapina non ricordava più molto. Era successo tutto così in fretta. Gli veniva in mente di aver urlato un sacco e che a un certo punto aveva dovuto spruzzare il commesso per convincerlo a spostarsi. Ma non aveva funzionato. L'imbecille non aveva fatto altro che starsene lì in piedi a bocca aperta. Il giudice aveva dato l'impressione che la vicenda lo divertisse un po', anche se non lo dichiarò mai esplicitamente.

Quando, un anno più tardi, fu dimesso dal reparto di massima sicurezza di un ospedale psichiatrico, Robin non aveva un posto dove andare. Carol convinse Eddie, che aveva appena perso il lavoro, a farlo stare da lui, e lei si unì a loro sei settimane dopo. Come sistemazione andò bene per un po'. Con i loro assegni integrativi per la casa contribuirono a pagare il mutuo di Eddie finché si fu risistemato.

Ma nella vita non c'è solo l'affitto da pagare.

Poco dopo le dimissioni di Carol, Robin rubò il cassetto di un registratore di cassa da una libreria di Princes Street. Lo strappò via dal banco, se lo mise sotto il braccio e fuggì trascinandosi dietro decine di cavi penzolanti. Carol lo aspettava in macchina dietro l'angolo in Castle Street. Era stata sua l'idea, sua la scommessa. Lanciò la sigaretta dal finestrino nell'istante in cui Robin spalancò la portiera posteriore. Robin scaraventò il cassetto sul sedile di dietro e salì in macchina. - Vai, - gridò.

A casa ad aspettarli c'era Eddie, che li aiutò a forzare il cassetto. Conteneva quarantasei sterline e diciassette pence.

Fu allora che Eddie avanzò la sua proposta.

- Esistono due categorie di ladri, - affermò (e lui doveva saperla lunga, ricordava di aver pensato Robin. Un anno nelle forze di Polizia deve avergli insegnato qualcosa sui delinquenti). - Quelli che fanno i soldi e quelli che si fanno beccare -. Fece una pausa per aumentare la solennità del momento. - Chi agisce seguendo un piano fa i soldi, - proseguì. - Chi va allo sbaraglio, come voi due inutili teste di cazzo, si fa beccare. E stavolta non vi mandano al manicomio. Se non cominciate a usare la testa finirete in galera prima ancora di accorgervene. Guardate qua -. Raccolse una manciata di monete e le fece ricadere nel cassetto. Muoveva il capo da una parte all'altra. - Guardate che roba.

- Hai ragione, - disse Carol. - Hai in mente qualcosa?

Eddie aprì la bocca mostrando i denti storti. - Sapete i due ingredienti che ci vogliono per far riuscire una rapina?

Non li sapevano.

- Gli ostaggi, - disse Eddie, - sono il secondo ingrediente. Qualche problema?

Robin lanciò un'occhiata a Carol. Lei scosse il capo e volse lo sguardo a Eddie. Poi disse: - Qual è il primo?

Chinandosi in avanti, Eddie fissò Carol dritto negli occhi e con voce calma disse: - La violenza.

E aveva ragione. Per la prima rapina all'ufficio postale avevano passato un sacco di tempo a pianificare, ma ne era valsa la pena. Ora, nove mesi più tardi, Robin sperava che la seconda filasse altrettanto liscia.

Con il capo chino frugò nella borsa e ne trasse un cuneo che inserì sotto la porta. Poi tirò fuori il cartello, lo rivoltò e lo attaccò all'unica finestrella premendo sugli angoli, sui quali era stato applicato dell'adesivo Blu-tack. All'esterno il cartello diceva: «Chiuso per pranzo causa malattia. L'ufficio riapre alle 13:30». Robin infilò la mano in tasca, cercò il fodero del coltello e sganciò il bottone che lo chiudeva.

Quando si voltò verso l'interno dell'ufficio postale, illuminato in modo quasi fastidioso, vide Eddie con indosso il passamontagna giallo scuro avanzare di buon passo verso l'inizio della fila, la mano sempre in tasca. La donna in testa alla fila, lo sguardo fisso sui piedi, non si accorse dell'uomo che si avvicinava. Non lo notò neppure quando questi estrasse la mano dalla tasca e le puntò addosso una Brocock Orion 6 modificata. Dietro di lei, alcuni dei clienti cominciarono a indietreggiare. Qualcuno disse: - Oh, Dio -. Qualcun altro emise un gemito.

Robin fece una smorfia. Era la parte che odiava di più. Raccolse la borsa e si allontanò dalla porta d'ingresso.

La donna era sulla trentina, piuttosto piccola, con i capelli castani che come un fiume torbido le scorrevano lungo il viso e sul piumino blu. Portava una sciarpa lunga arrotolata più volte intorno al collo e indossava dei jeans e un paio di robusti stivali bianchi. Teneva lo sguardo rivolto in basso, immersa in chissà quali pensieri. Problemi con il ragazzo, problemi coi figli, problemi di salute, problemi di denaro; qualsiasi fossero le sue preoccupazioni, stavano per passare in secondo piano. Teneva un pacchetto grande come un libro tascabile nella mano destra nuda, mentre con la sinistra guantata batteva piano l'altro guanto sul fianco. Aveva ancora gli occhi fissi sul pavimento quando Eddie le si parò davanti puntandole la pistola a una gamba.

In origine era un'arma ad aria compressa, ma era stata modificata. Nella camera erano stati inseriti speciali manicotti in acciaio per consentirle di esplodere proiettili veri. Eddie l'aveva pagata duecento sterline.

Le sparò un proiettile calibro 22 nella coscia sinistra.

La donna crollò al suolo come avesse le ossa liquefatte.

Gli altri clienti si mossero come un unico organismo muto, e arretrarono fino alla parete opposta in un silenzio frastornato. Eddie si voltò verso le due cassiere, rimaste pietrificate dal momento dello sparo. - Sapete chi siamo? - disse. Attese un istante, poi si rispose da solo: - Evelyn Fitzpatrick -. Si riferiva alla donna che li aveva resi famosi, la sessantacinquenne cui aveva sparato tre colpi in ogni ginocchio. La stampa locale c'era andata a nozze. Sopravvivrà, non sopravvivrà? Nei giorni successivi avevano stampato quattro edizioni al posto delle consuete tre. Le vendite erano salite alle stelle. Finché poi si riprese. - Fate le brave, disse Eddie. - Se provate a suonare l'allarme svuoto il caricatore su questa bella signorina.

Robin si fece avanti e osservò la donna stesa sul pavimento. Sulla gamba sinistra le era fiorita una macchia rossastra. La testa giaceva a una trentina di centimetri dallo sportello. Aveva gli occhi serrati e la bocca spalancata. Robin si chinò su di lei e le toccò una guancia. La donna aprì gli occhi di scatto e sbatté ripetutamente le palpebre. In viso era più pallida di Evelyn Fitzpatrick.

- Te la caverai, - disse. - Basta che stai lì ferma e zitta. Capito?

- Vi prego, non…

- Shhh…

La donna annuì.

Mentre le toglieva di mano il pacchetto per posarlo sul banco, nelle orecchie gli rimbombava ancora il colpo sparato da Eddie. Robin si rivolse alla donna grassa, quella la cui lacca per capelli lo aveva nauseato al primo incontro, in mattinata. - Come ti chiami?

La sua voce era un sussurro. - Hilda.

- Bene, Hilda -. Robin fece un sorriso, anche se probabilmente il passamontagna ne rovinò l'intenzione amichevole. - Ora voglio che tu apra la porta, che prenda questa, - disse mostrandole la borsa sportiva che teneva nella mano destra, - e che la riempia di soldi, tanti soldi. Pensi di potermi fare questo favore?

Hilda mormorò una risposta.

- Non ho sentito, Hilda.

- Il portello. Può passarmela dal portello.

- Se volevamo farla passare da quel cazzo di portello te lo dicevamo, - disse Eddie. - Vuoi che questa si becchi un'altra pallottola? - Indicò la figura distesa puntandole addosso la pistola. - La vuoi sulla coscienza? Non credo proprio. Aprì la porta, Hilda. E fallo subito, porca puttana. Non abbiamo tutto il giorno.

Dall'altro lato della parete divisoria, Hilda attraversò la stanza dondolando sulle anche. Robin spostò lo sguardo sulle clienti pigiate in un angolo. Alcune si abbracciavano, altre piangevano. Avevano tutte la testa girata dall'altra parte, poiché l'istinto diceva loro che era meglio evitare il contatto visivo. Uno dei sei uomini accovacciati alla parete, invece, non la smetteva di fissare Eddie. Non il toro che aveva notato prima, bensì un ometto gracile e attempato che dava l'impressione che qualcuno gli avesse pisciato in bocca e lui non riuscisse a liberarsi del sapore. Continuava a schioccare le labbra e a passarsi la lingua sulla dentiera.

Anche Eddie lo notò. Con un movimento rotatorio allontanò il braccio armato dalla donna puntandolo sul vecchio. - Cazzo hai da guardare?

L'uomo fissò la pistola e alzò le mani. Sui palmi aveva rughe profonde. Le dita nodose gli tremavano.

La donna sul pavimento cacciò un urlo.

Eddie mosse il braccio di scatto. - Zitta, - strillò agitandole contro la pistola.

- Le hai sparato a una gamba, - disse Robin. - Non lo fa apposta.

- Non ho chiesto il tuo parere. Falla stare zitta e basta.

Dal gruppetto nell'angolo giunse un altro grido.

- Chiudete quella cazzo di bocca.

- Come dovrei farla stare zitta?

- Non ti sento.

Altre urla dall'angolo della stanza, che si susseguirono come latrati di cani. Robin si avvicinò a Eddie e gli gridò qualcosa nell'orecchio. Eddie annuì, puntò l'arma contro la parete e sparò facendovi un buco.

Silenzio.

Un pezzo d'intonaco, rimasto attaccato al muro solo tramite una sottile striscia di carta da parati, ciondolò da una parte all'altra. Robin osservò come la striscia di carta si strappò e il pezzo d'intonaco si staccò atterrando sulla spalla di una donna accovacciata lì sotto. Questa urlò e balzò subito in piedi, pulendosi il cappotto dalla polvere e dal gesso.

Eddie fece alcuni passi verso di lei.

- Mi scusi, - fece la donna, e tornò ad accucciarsi. - Mi scusi, mi scusi, - ripeté incrociando le braccia sul capo chino.

Eddie la fissò con insistenza. Poi disse: - Ancora una parola e ti ficco una pallottola in un occhio, chiaro? - Si guardò attorno. - E questo vale per tutti -. Strascicando i talloni sul pavimento andò dalla donna stesa accanto allo sportello. - Anche per te -. Si mise in piedi a cavallo della donna ferita e disse: - Non me ne frega niente se la gamba ti fa male.

La porta del divisorio si aprì e Hilda disse: - Mi dia la borsa.

Robin si fece largo e consegnò la borsa sportiva alla cassiera. - Fai in fretta, - le disse. - E… Hilda? Solo soldi veri, mi raccomando. Niente scherzi con l'inchiostro, intesi?

Ore 13:03.

Da quando aveva saputo della rapina all'ufficio postale nove mesi prima, Pearce era preoccupato per l'incolumità della madre. Mentre era in galera le aveva più volte consigliato di cercarsi un altro posto di lavoro. Lei aveva respinto le sue preoccupazioni. Pericolo? Quale pericolo? Una volta fuori di prigione, c'aveva riprovato. Non erano soldi suoi, aveva addotto la madre. Fai il gioco dei rapinatori, aveva spiegato, e non ti succede niente. E così avrebbe fatto se fosse mai capitato. Ma non sarebbe capitato. Non nel suo ufficio postale.

Pearce le fece notare che in realtà a qualcuno era già successo qualcosa. E siccome aveva funzionato, la banda avrebbe usato lo stesso metodo per la rapina successiva: fare irruzione e sparare a qualche poveraccio prima ancora che chiunque avesse il tempo di reagire. Ma non una cassiera, aveva ribattuto la madre. Le cassiere erano al sicuro dietro il vetro antirapina.

Appena vide il cartello sulla porta dell'ufficio postale, Pearce capì che c'era qualcosa di strano. Gli uffici più piccoli avevano spesso carenza di personale, specie quelli destinati a chiudere, come quello della madre. La settimana prima, dopo qualche bicchierino di gin, si era infuriata a proposito di un aumento del carico di lavoro, pretese di produttività ridicole e volantini informativi su temi quali «Come ridurre le file agli sportelli» o «Tutto su Ernie{1} e i titoli di Stato a premio», che era costretta a leggersi nel tempo libero dato che non c'era nessuno a sostituirla mentre li leggeva al lavoro. Pearce non credette al cartello attaccato alla porta. Un paio di persone in malattia e, sì, era possibile che l'ufficio chiudesse per mezz'ora, ma se fosse stato così, la madre lo avrebbe senz'altro avvisato.

Non poteva permettersi di indugiare. Lei era tutto ciò che aveva.

Accanto al marciapiede c'era un taxi fermo col motore acceso. Lo raggiunse di corsa e bussò al finestrino con le dita. La rossa al volante apparve infastidita dall'interruzione. Quando vide che lui non se ne andava, smise di spazzolarsi i capelli e abbassò il finestrino.

- Mi scusi il disturbo, - disse Pearce. - È qui da molto?

- Aspetto un cliente. Da mezzogiorno e quarantadue -. La donna guardò l'orologio. - È in ritardo.

- Ha notato niente di strano?

- Tipo?

Pearce alzò le spalle. - Evidentemente no -. Diede un colpetto sul cofano. - Me lo farebbe un favore?

- Non la conosco. Perché dovrei farle un favore?

- Chiami la Polizia.

La frase catturò la sua attenzione. Sbatté la parte posteriore della spazzola sul palmo della mano, e il suo viso pallido si fece ancora più pallido. - E perché dovrei?

- Potrebbe essere in corso una rapina.

La donna scoppiò a ridere. - Là dentro? - disse indicando l'ufficio postale con un cenno disinvolto delle unghie smaltate di blu. - Ma se è vuoto.

- La chiami lo stesso, - disse Pearce.

- La chiami lei, se è così preoccupato.

- Lo farei, - disse lui. - Ma non ho tempo. Devo mettermi al lavoro per buttar giù quella porta.

Ore 13:04.

Il cellulare di Eddie suonava ancora Per Elisa malgrado le numerose promesse fatte a Robin di cambiare suoneria. In una mano teneva la pistola, nell'altra il telefono. La musica cessò. Eddie corrugò la fronte. - Grazie. Facciamo in un minuto.

- Che c'è?

- Di' alla grassona di muoversi, - disse Eddie.

- Che succede? - Robin era sulla soglia del divisorio a osservare Hilda, intenta a ficcare mazzette di banconote nella borsa. - Hilda, puoi sbrigarti? - Si voltò verso Eddie. - Allora?

- Presto avremo visite.

Robin sfilò il coltello dal fodero. - La squadra speciale?

- Non ancora, - rispose Eddie. - Solo un cittadino allarmato.

- Fatto, - disse Hilda. - C'è tutto -. Con un sorriso mostrò a Robin la borsa aperta. Lui fece un cenno con il capo e lei chiuse la cerniera.

- Portala qui, - disse.

Il suo sorriso svanì appena vide il coltello. Si mosse verso di lui lentamente, una mano paffuta aggrappata alla borsa, l'altra stretta alla gola.

- Dammela, - disse Robin.

Hilda batté le ciglia come fosse sul punto di svenire, ma restò in piedi e consegnò la borsa. Poi si asciugò la mano sulla coscia.

Una bussata. Robin gettò un'occhiata a Eddie. Altre bussate. Regolari. Insistenti. Qualcuno che batteva forte alla porta d'ingresso. Era il visitatore, il cittadino allarmato. Robin non riusciva a capire la reazione di Eddie sotto il passamontagna. Altre bussate ancora. Poi cessarono, e una voce smorzata disse: - Adesso entro -. Silenzio. Un grido, accompagnato dallo stridore del cuneo sotto la porta, spostato di alcuni centimetri verso l'interno. Robin posò la borsa, mentre una mano si infilò nello spiraglio e fece ruzzolare il cuneo sul pavimento. Appena la porta si spalancò, Hilda scattò in avanti. Robin la acchiappò per il polso e la trascinò tra le sue braccia. La donna si dimenò finché Robin non le appoggiò la lama del coltello sulle labbra. Aveva il respiro pesante e la lacca per capelli gli faceva il solletico in gola.

- Lasciala andare -. L'uomo che parlò era vestito in modo del tutto inappropriato per il freddo che faceva: T-shirt bianca e jeans neri. Era fermo sull'uscio, con l'aria gelida che entrava a folate da dietro.

- E tu chi cazzo sei? - domandò Eddie.

- Prendi i soldi, - disse Robin rivolto a Eddie.

- Sono lì ai tuoi piedi. Prendili tu.

- Ho solo due mani, ok? L'uomo sulla porta si mosse.

Eddie disse: - Stai indietro o faccio fuori la grassona.

- Non te lo consiglio, - disse l'uomo. - La grassona è mia madre.

Robin disse a Eddie: - Prendi i soldi e andiamocene.

- Prima voglio sbarazzarmi di 'sto stronzo.

- Allora fallo, Cristo -. Robin sentì la bocca seccarsi. Hilda gli tremava tra le braccia, mandandogli zaffate di lacca su per le narici.

Eddie raccolse la borsa. Il figlio di Hilda se ne stava appoggiato alla parete con le braccia incrociate.

- Vuoi cercare di fermarci? - chiese Eddie.

- Non sono soldi miei, - rispose l'uomo. - Fate quello che volete, basta che lasciate in pace mia madre.

Eddie alzò le spalle e si avviò lentamente verso la porta. Passò davanti al figlio di Hilda che lo ignorò. Eddie aprì la porta. - Portati dietro mammina, - disse rivolto a Robin prima di scomparire. La porta si richiuse con uno schianto.

Il figlio di Hilda distese le braccia e le sue mani diventarono pugni. Grossi pugni. Aveva le braccia paurosamente muscolose. Abbassò gli occhi e si guardò le nocche. - Se il tuo amico fosse rimasto, - rialzò lo sguardo e Robin lo fissò nei freddi occhi azzurri, - forse avresti avuto una possibilità. Lui aveva la pistola -. Si voltò verso la donna cui Eddie aveva sparato alla gamba. - E sembra che fosse anche pronto a usarla. Tu, invece, hai solo un coltello -. Fece un passo in avanti. - E non credo nemmeno che abbia il fegato di usarlo.

- Ah, non credi? - Robin pigiò leggermente la parte seghettata della lama sulla gola di Hilda. Lei piegò indietro la testa ed emise strani singulti. Robin prese ad arretrare verso la porta trascinando Hilda con sé e cercando di tenere salda la mano. La narice sinistra iniziò a prudergli. Tirò su col naso. Cominciarono a lacrimargli gli occhi. Starnutì. Merda. Scosse la testa. Sbatté le palpebre. Hilda continuava a tremare. Robin starnutì ancora.

- Brutto pezzo di merda, le hai fatto un taglio -. Il figlio di Hilda si scagliò verso di lui.

Robin spinse via la donna e afferrò la maniglia della porta. Ce l'aveva quasi fatta a uscire quando si sentì tirare per il giubbotto. I piedi gli scivolavano, lo stavano trascinando indietro.

Udì uno strappo. Cadde in avanti e si aggrappò allo stipite. Non riusciva a scappare per quanto cercasse di spingere con le gambe. Merda, era come correre con l'acqua che ti arriva alle cosce. Il figlio di Hilda non avrebbe lasciato facilmente la presa. Robin fece un altro tentativo di liberarsi ma quella stretta feroce non lo mollava. Fu preso dal panico. Doveva andarsene, via da quella stanza, via da quelle persone urlanti, via da Hilda e da suo figlio, doveva fuggire a qualsiasi costo. O lui o loro. Contava solo sopravvivere. Si voltò di scatto e con il coltello vibrò un colpo dal basso verso l'alto. Il figlio di Hilda non si trovava là dove immaginava Robin. Si trovava dietro la madre e con le braccia le cingeva la vita nel tentativo di trascinarla via da Robin. Robin osservò con orrore il coltello affondare nel collo di Hilda. Hilda si accasciò sulle ginocchia, gli occhi spalancati, fissi in avanti. Solo quando Robin le estrasse il coltello dalla carne lasciò andare la presa.

Il figlio le coprì la ferita con la mano. Il sangue prese a sgorgargli fra le dita. Era impassibile in volto. - Mamma, - disse. Lo ripeté. Poi lo urlò: - Mamma!

Robin si voltò e fuggì di corsa.

Ore 13:05.

Robin gettò il passamontagna arrotolato sul sedile accanto a sé.

- Ho quasi ammazzato Evelyn Fitzpatrick, - disse Eddie. - È stato facile.

- Puntare, premere, bang, - disse Carol.

- Sì -. Sul sedile davanti, Eddie si voltò e gettò un'occhiata a Robin. - Sei volte, porca puttana.

- Bisogna ammettere che non è come accoltellare qualcuno -. Carol incrociò le mani sul volante uscendo da London Road. Una macchina della Polizia sfrecciò loro accanto nell'altra direzione. - Molto meno personale.

- Perché non chiudi la bocca e non pensi a guidare? - disse Eddie.

Robin non capiva perché Eddie fosse tanto nervoso.

- Sanguinava di brutto, - disse Robin arruffandosi i capelli. Il passamontagna glieli aveva appiattiti. - Forse l'ambulanza arriva in tempo.

- E chi se ne fotte, - disse Eddie. - Abbiamo i soldi.

Carol ebbe l'impudenza di dire: - Non certo grazie a Robin.

- Vaffanculo -. Non riusciva a credere a quella puttana. Un impeto di rabbia gli fece uscire all'istante il sudore sulla fronte. Se le avesse sfondato il cranio con un mattone, si sarebbe sentito un bel crac? Al diavolo, l'avrebbe uccisa in quel momento e ne avrebbe subito le conseguenze. Aveva ancora il coltello in mano. Poteva benissimo - no, un secondo, che gli passava per la testa? Cristo, non poteva più fidarsi di se stesso. Ci voleva qualcosa per tenergli la mente occupata. La borsa sportiva, che conteneva una quantità indefinita di contanti, era nascosta sul pianale dietro il sedile del passeggero. Robin disse: - Conto i soldi.

- Prima pulisciti, - disse Eddie. - Hai la manica piena di sangue.

Robin sollevò il braccio e toccò la macchia scura. Era ancora umida. - Oh, merda, - disse guardando a destra.

- È su tutta la portiera -. Afferrò il passamontagna, lo appallottolò e si mise a sfregarlo sullo sportello.

- Io non lo farei, - disse Eddie.

Robin si fermò. - Perché no?

- Perché non è tuo.

- Sì che è mio, - disse Robin rigirando il passamontagna tra le dita. - L'ho appena raccolto dal sedile qui di fianco. E comunque che differenza fa se uso il tuo o il mio?

- Non il passamontagna, imbecille. Il sangue non è tuo.

- Lo so, Eddie. Stavo solo scherzando, ok?

- La vuoi sentire una bella cosa? - Eddie si girò verso Robin, le labbra tirate indietro in un sorriso esagerato. Non attese la risposta. - A quel passamontagna è rimasto attaccato un determinato numero di capelli tuoi. Lo sfregamento farà sì che parte dei suddetti capelli si stacchi e vada a unirsi al liquido viscoso che viene sfregato -. Il sorriso scomparve. - Mi segui?

Robin gettò il passamontagna accanto a sé. - Stavo solo cercando di pulire.

- Be', non stai facendo che spargere il tuo Dna in giro come uno stronzo rincoglionito.

- C'è qualcosa che vorresti dire, Eddie? Dai, sputa il rospo.

- Sputare il rospo, eh? - disse Eddie e fece un respiro profondo. - E va bene -. Tornò a guardare la strada. - Mi chiedevo solo il perché. Voglio dire, ti ho chiesto di prenderla in ostaggio, non di ammazzarla, porca troia. Perché cazzo non hai fatto come t'avevo detto?

- Non l'ho fatto apposta.

- Oh, non l'hai fatto apposta. Ah, be', allora è tutto a posto. Scusami se a mio modesto avviso non ce n'era un cazzo di bisogno.

Robin fece un ghigno. - L'uomo che spara alle gambe della gente solo per far scena pensa che io sia stato troppo violento?

- Non esattamente, - rispose Eddie. - Penso che tu sia stato troppo stupido. O quello, oppure sei un caso clinico, di quelli rari.

- E stato un incidente -. La macchina passò sotto il ponte di Abbeyhill, con Carol attenta a rispettare i limiti di velocità. Un tabellone pubblicitario al cantiere del Parlamento scozzese mostrava il numero telefonico di Crimestoppers.

- Fammi capire, l'hai accoltellata alla gola, e lo avresti fatto per sbaglio? - Eddie forzò una risata. - Prova a raccontarlo alla Polizia. Eh, Carol?

Lei lo ignorò. - Butta via il coltello, Robin.

L'aveva tenuto in mano persino mentre cercava di togliere il sangue di Hilda dalla portiera. Il sangue cominciava a coagularsi sulla lama, e il manico si era fatto appiccicoso. - Potrebbe servirmi ancora.

- Per cosa? - disse Eddie. - Per un altro incidente?

- Almeno mettilo via, Robin.

Robin estrasse il fodero dalla tasca. Le mani gli tremavano mentre infilava il coltello nella custodia di cuoio. Le mani gli tremavano mentre si chinava per aprire la tasca esterna della borsa sportiva. Le mani gli tremavano mentre lasciava scivolare il coltello dentro la tasca e la richiudeva. Le mani gli tremavano mentre Carol svoltava in Holyrood Park.

Sulla destra si ergeva Salisbury Crags. Alcune coppie passeggiavano lungo il sentiero tortuoso che si arrampicava su per il pendio vulcanico. A braccetto. Mano nella mano. Abbracciati. Più in là, verso Arthur's Seat, coppie con bambini. Coppie con cani. Coppie con cani e bambini. Nessuno passeggiava per Holyrood Park da solo. Robin si domandò se anche Carol e Eddie facessero passeggiate a Holyrood Park. Le mani continuavano a tremargli quando Carol si infilò in uno dei pochi posti rimasti liberi nel parcheggio.

- Cristo, togliti il giubbotto, - disse Eddie. - Non puoi andare a casa con tutta quella roba sulla manica.

- Me l'ha strappato. Ho sentito la fodera che si strappava.

- Mettilo nella borsa insieme ai soldi.

Robin cominciò a sbottonarsi il giubbotto. - Morirò di freddo.

Carol disse: - Oh, povero piccolo, - e spense il motore.

Magari l'avrebbe pestata a morte, a mani nude.

Eddie si accese una sigaretta, ne offrì una a Carol, poi una a Robin.

Robin scosse il capo. - In verità, - disse lottando con le maniche del giubbotto, - non mi sento tanto bene.

- Oh, stella -. Carol fece la faccia triste.

Robin si liberò le braccia, aprì la cerniera lampo della borsa e vi ficcò dentro il giubbotto, sopra i mucchi di banconote. Chiuse gli occhi e vide Hilda con il sangue che le sgorgava dalla ferita alla gola. A poco a poco, il suo volto si trasformò in quello di Carol. Riaprì gli occhi e sorrise. - Allora, - disse, - a che ora ci troviamo domani?

Eddie corrugò la fronte mentre faceva un tiro dalla sigaretta. Trattenendo il fumo in bocca disse: - Facciamo alle dieci, se per voi va bene -. Un attimo dopo espirò un unico filo di fumo dalla bocca aperta. - Non mi dispiacerebbe starmene un po' a letto.

Ore 13:07.

Il capo di Kennedy disse: - Oh, cazzo.

Una decina di persone erano uscite di corsa e si erano messe a girare in tondo vicino all'ingresso dell'ufficio postale, quando cominciarono ad arrivare i soccorsi. Alcune di loro sembravano sconvolte, altre sedevano sul marciapiede in stato di choc ma in apparenza calmissime. Kennedy sbirciò attraverso l'uscio aperto. All'interno, un uomo con una T-shirt macchiata di sangue teneva in grembo la testa di una donna, premendole una mano sul collo. Il sangue gli scorreva giù fino al gomito e gocciolava sul pavimento. C'era un'altra donna distesa a terra a ridosso dello sportello. Una mezza dozzina di uomini con armi dall'aspetto minaccioso e giubbotti antiproiettile invasero l'ufficio postale quasi seguendo una coreografia. Kennedy non era in grado di vedere oltre senza uscire dalla macchina, e fuori faceva troppo freddo perché ne valesse la pena. - Che facciamo?

- Riguardo a cosa?

- Riguardo a loro. Greaves & Co. Alla sua squadra.

- Devo pensarci su.

- Che c'è da pensare? Sappiamo chi sono, cos'hanno fatto, abbiamo nomi e indirizzi -. Kennedy fece una pausa. - Dobbiamo dirlo alla Polizia.

- Ci sono altri fattori da considerare. Fammici pensare.

- Ti spiace se fumo mentre pensi?

- Non in macchina.

Kennedy si immaginò di uscire dall'auto e rabbrividì. - Perché non li seguiamo?

Il capo scosse la testa. - Ho altri piani. In ogni caso, come hai detto tu, sappiamo dove abitano.

La Polizia armata si era allontanata dall'ingresso. Kennedy riusciva di nuovo a scorgere l'uomo, il davanti della T-shirt quasi completamente rosso. La donna che teneva in grembo non si muoveva.

Ore 13:09.

Sembrava morta.

Pearce le strinse la mano. Fredda e appiccicosa. Nessuna reazione. Neppure un debole sussulto. Con voce rotta domandò: - Quando potrà dirlo?

Il medico scosse il capo. - Non saprei. Ha perso un mare di sangue.

Pearce posò lo sguardo sulle mani del medico. Guanti usa e getta, le dita immerse nel flusso che fuoriusciva dal collo della madre. - Che speranze ha?

- Date le circostanze, sta reagendo nel modo migliore possibile.

- Non mi ha risposto -. Le palpebre di Hilda vibrarono e Pearce tornò a stringerle la mano. - La prego, me lo dica.

Il medico sospirò. - E molto debole.

- Posso fare qualcosa?

- Sto già facendo il possibile. Le tenga la mano.

- Scusa, giovanotto.

Pearce sentì una mano sulla spalla. Si girò e vide un vecchio che lo guardava con un ghigno pazzoide, i denti guasti messi a nudo su un volto simile a un teschio eroso dal tempo.

- Volevo solo ringraziarti, - disse l'uomo. - Ero dentro anch'io quando… - Si passò la lingua sui denti. - A ogni modo, volevo solo dirti grazie per averci salvato da quei due figli di puttana. Sennò chissà come andava a finire -. Fece una pausa, con lo stesso ghigno di prima. - Mi dispiace per tua mamma. Come sta?

Pearce distolse lo sguardo dal vecchio. Gli occhi di sua madre erano ancora chiusi. Si domandò se lo sarebbero rimasti. «No, non può accadere di nuovo. Non posso perderla». - Non mi va di parlare -. «Se la caverà».

- Non preoccuparti, giovanotto, - disse il vecchio. - In bocca al lupo, eh?

Ore 13:12.

Per lo meno la Polizia ebbe il buon gusto di lasciarlo in pace per un po'. Immaginò che gli agenti avessero già sentito vari testimoni e avuto la conferma che lui, Pearce, non era da ritenersi responsabile né per la rapina, né per la sparatoria, né tanto meno per l'accoltellamento della madre. Ma era senza dubbio uno dei testimoni principali, e prima o poi avrebbero voluto parlare con lui. Non fu per nulla sorpreso quando un sergente investigativo gli spiegò che avrebbe seguito l'ambulanza e che gli avrebbe fatto qualche domanda in ospedale, se lui era d'accordo.

Pearce domandò se aveva scelta.

Ore 13:13.

L'aria secca gli raschiava la gola.

Si era assembrata una folla. Tutti imbacuccati con cappelli, sciarpe, guanti. Il respiro affannoso. Nuvole di fiato si addensavano sopra di loro. Tra i primi, Pearce adocchiò un uomo travestito da Babbo Natale. Un macellaio se ne stava sulla porta del negozio a braccia conserte sul grembiule lercio a righe bianche e blu.

Il traffico si era fermato.

Non si muoveva nulla. Il silenzio gli martellava i timpani.

Pearce seguì il barelliere verso la più vicina delle due ambulanze. Si sentì colpevole quando le lasciò andare la mano.

- Aspetti -. Un uomo con il naso tutto fasciato si stava facendo largo tra la folla. Un poliziotto in uniforme scambiò qualche parola con lui e lo lasciò passare.

Quando l'uomo sorrise, Pearce si sentì svuotato.

L'uomo gli porse un biglietto da visita. - Mi chiami.

Pearce non lo guardò neanche, il biglietto. Avvocato, medico, giornalista. Che importanza aveva? Lo infilò nella tasca posteriore dei jeans insieme ai soldi di Pete Thompson e salì sull'ambulanza che lo stava aspettando.