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"Credevo che tu fossi morto." Attraverso la schiuma in cui stavo naufragando, le parole erano arrivate ovattate come se provenissero da un altro mondo, né migliore né peggiore, semplicemente un altro, o come se avessi avuto nuvole di bagnoschiuma nelle orecchie. " É mezz'ora che sono in casa, ma solo adesso sono entrata in bagno... e tu mi vuoi far venire un colpo... pensavo ti fossi sentito male... con la tua abitudine di stare due ore nella vasca." Riaprii faticosamente gli occhi: ero nudo, ma protetto alla vista della voce (la vista della voce?) da una coperta d'acqua tiepida. Che fosse ancora lei, la voce che mi aveva ordinato di mostrarle il profilo e di sorriderle spontaneamente? No, questa era un'altra voce, più musicale, anche se sottotono come la filodiffusione nello studio di un dentista. "Se ti togliessi quel sapone dalle orecchie, probabilmente riusciresti a sentire cosa ti sto dicendo." Obbedii in un tiepido, un tempo caldo, torpore.
"La nonna sta bene... si lamenta ma sta bene. Dice che la stanno avvelenando, ma è ingrassata. Avrà fatto indigestione di antidoti. Mi ha raccomandato di dirti di non fare entrare estranei in casa sua, come se fosse possibile, dopo che ha invitato le comunità religiose di ogni credo ad andare a trovarla per acquisire da lei la sua profonda saggezza. Mentre dormivi nella vasca, ti ho detto mille volte che è pericoloso, mi sono permessa di ascoltare la tua segreteria telefonica. Una certa Jordy voleva notizie dite e del suo cane. Dice che richiamerà.
Tranquillizzala sul suo cane, povero amore com'è bruttino...
Ah, poi c'è un messaggio per me del dottor Olivieri, l'amico di papà. Te lo ricordi, Lazzaro, papà ti portava sempre allo zoo col dottor Olivieri, presumo si divertissero un mondo quei due... Mi è sembrato agitato...
Lui di solito chiede come sta la nonna anche alla segreteria telefonica. Ah, poi ha telefonato Pogliaghi, non era un tuo amico del liceo, quel ragazzo che indossava sempre jeans stranissimi, incrostati come se si fosse rotolato nella sabbia?... Se ti degni di uscire dalle acque ti preparo la cena, immagino che tu abbia straviziato in questi giorni..." Mi girai a fatica a guardare il turbante alla Valentina Cortese, la vestaglia azzurra e i due bastardini che ai lati della donna sembravano levrieri. "Ciao mamma."
Il tempo. Il tempo era tutto quello che mi serviva.
Ne avevo ancora un po' disponibile. Per il momento Olivieri non aveva preso provvedimenti nei miei confronti.
Preferiva parlarne prima con mia madre "in nome della vecchia amicizia"... Mia madre mi avrebbe firmato la giustificazione e io sarei potuto tornare a scuola. Senonché io non andavo più a scuola perché il tempo era passato. Ma era passato senza avvisarci, così continuavamo tutti ad aspettare la maturità per crescere.
Io, mia madre, mia nonna, Branka, Palloni, Lela. E Olivieri che giocava a fare il preside. Della maturità ce ne saremmo accorti solo quando si fosse manifestata: ogni cosa a suo tempo, come neve a Natale. Solo che non sempre a Natale nevica. Il nostro Natale era stato senza neve, così non ci eravamo accorti di lui. Ci eravamo scambiati regali, avevamo allestito presepi, ma senza neve non ci eravamo resi conto che Natale era passato. E ora eravamo di nuovo quasi in dicembre e pioveva.
Telefonai a Pogliaghi. Aveva la voce stanca, ma accettò di vedermi. Telefonai a Jordy: "Saliò hace tiempo. Quiere dejar un recado?" Telefonai a Vanni per farmi perdonare, da me stesso, non da lui, di aver fatto finta di non conoscerlo. Non c'era. Telefonai infine a casa di Olivieri.
"Pronto," era la sua voce.
"Dottor Olivieri, sono Lazzaro. Volevo scusarmi per averla colpita. Ero sotto tensione. In ogni caso io non c'entro col barbone morto. E tutto quello che le ho raccontato è vero... Non mi interrompa, cercherò di dimostraglielo, ho solo bisogno di tempo. Ho tanto bisogno di tempo."
"Figliolo..." Riattaccai leggermente sollevato. Non si chiama "figliolo" una persona che si sta per far arrestare. Per quanto Olivieri fosse il genere d'uomo che avrebbe chiamato "briccone" il cervello dell'anonima sequestri.
Era un uomo giusto, ma con un linguaggio inadeguato alle circostanze. Assisteva ogni giorno a bassezze, ma cercava quadrifogli tra i rifiuti, tra le siringhe, tra i barboni che una polpetta avvelenata aveva mandato in paradiso.
Polpetta! La polpetta che Branka mi voleva far divorare (gnam gnam) il giorno prima era chiusa in un cassetto dello studio del dottor Totem. Era il mio testimone di carne, aglio, prezzemolo, veleno. L'avrei mostrata a Olivieri. Aveva certo, sulla crosta, le impronte di Branka oltre alle mie. Pogliaghi citofonò. Lo feci salire.
Salutò mia madre che non vedeva da anni. "Ciao È uscita da un po'. Vuole lasciare un messaggio?
Duilio, come sei cambiato." Non era vero, Pogliaghi era identico per fortuna, anzi, quella sera era addirittura regredito. Il viso era una maschera bianca in cui i brufoli rossi come coriandoli pulsavano però come globuli impazziti. Gli occhi erano lucidi, ma Pogliaghi non era commosso.
"Non stai bene?"
"No, guarda, sono stato male tutto il giorno. Ieri notte quando sono tornato a casa mi sono bevuto un bicchierone di latte caldo. Mi è rimasto sullo stomaco."
"Non saranno stati quei quindici bacardi tonic che ti sei scolato dopo la fuga dal bar Mariona?"
"Scherzi? Sai che l'alcol lo reggo benissimo! É il latte che fa acidità..." Mia madre captò queste ultime parole e commentò professionalmente: "Guarda Duilio che il latte toglie l'acidità".
"Di solito, mamma, e alle persone normali..."
" É vero signora, a me il latte fa venire acidità." Ero disposto a credergli. Lo convinsi poi ad accompagnarmi fino all'appartamento di mia nonna. Aprii il cassetto e trovai la polpetta. "Che schifo Lazzaro. Tieni le polpette `vecchie' chiuse nei cassetti?" Pogliaghi era mio amico. Gli raccontai tutto. Di Alioscia e Nives, di Branka e dello spettro ipernutrito di Marzio Palloni che si aggirava, muscoloso ectoplasma vendicativo, nella Milano eletta sua riserva di caccia. Pogliaghi non si stupì.
Mi raccontò del "suo" barbone del giorno prima con dovizia di particolari. Poi mi suggerì: "Senti Lazzaro, i due vecchi pazzi ti hanno lasciato il loro vero indirizzo.
Forse è altrettanto vero l'altro indirizzo, quello dell'organizzazione del Premio di bontà. Proviamo a cercare sull'elenco del telefono. Io faccio AL, tu M-Z".
Trovammo il nome sulle Pagine gialle: ANGIOLOTTA D'ORO. LA BIMBA PIÙ BUONA, e un telefono. L'indirizzo corrispondeva a quello del biglietto che mi avevano scritto i due Miagostovich. Sul loro biglietto non c'era nessun numero telefonico, ma Branka il suo premio di bontà l'aveva vinto nel `39 e, forse, nel `39 nessuno telefonava ai Premi di bontà. Bastava scrivergli, le poste sotto il fascismo pare che funzionassero a meraviglia, O almeno così raccontavano fascisti e postini nostalgici.
Angiolotta Lavarmi doveva essere molto anziana se nel `39, lei, donna adulta, aveva premiato Branka che allora era una bambina. Il suo concorso era sopravvissuto al fascismo, ai liberatori, al neorealismo, alla dolce vita, agli anni di piombo. Era lì, incastonato nelle Pagine gialle, sotto gli occhi di tutti. Era sopravvissuto forse, perché nessuno si era accorto che esistesse. Non era stato spazzato via dal vento della storia, perché fuori dalla storia viveva. Non era stato stanato dai partigiani perché le sue protagoniste col sorrisetto angelico e le crinoline bionde potevano propagandare con la stessa leziosa indifferenza qualsiasi impero, repubblica, rivoluzione, guerra civile. Angiolotta Lavarmi, premiando la bontà, si era costruita un bunker di buoni sentimenti a proteggerla dalla vera vita. Era probabilmente scampata a una, forse a due, guerre mondiali perché le guerre si intraprendono per motivi economici, e la bontà, invece, non ha prezzo, non suscita quindi nessun interesse tra i belligeranti. Solo quando la guerra è finita e anche i vincitori si leccano le ferite, e si pensa di costruire proprio lì, dove adesso ci sono le macerie antiestetiche, un monumento che le ricordi, un supermarket, per esempio, che impedisca di dimenticare, allora l'immagine della bontà torna utile. I vincitori schiaffano le bambine buone e belle in prima fila, in seconda ci mettono quelle buone e brutte, allineate e sorridenti su un manifesto con la scritta: RICOSTRUIAMO. Solo che a Angiolotta Lavarmi, probabilmente novantenne, una bambina buona era sfuggita, sgusciata dalle sue mani inguantate in un gioco di pizzi da lei stessa creato all'uncinetto.
Branka aveva sorriso nel `39, Angiolotta d'oro dell'anno in cui Mussolini intendeva dichiarare la guerra, ma non farla. Aveva sorriso anche un anno dopo, nel suo infantile giugno del `40, quando Mussolini dichiarò guerra. Poi, forse perché i suoi sorrisi erano coincisi con la guerra, una volta che la guerra era finita il sorriso si era trasformato in ghigno e le poste avevano smesso di funzionare. Niente più lettere a Gesù Bambino.
Solo lettere anonime che per quanto arrivassero in ritardo, avevano sempre l'effetto sperato. La sua bontà, i suoi sorrisi, si erano esauriti durante la guerra. In tempo di pace non ne aveva più.
Poteva essere una spiegazione logica o era solo il delirio di due amici di fronte a una polpetta avvelenata da mangiare una sola volta. La nostra equidistanza da ~quella palla di carne ci dimostrava che non eravamo abbastanza buoni da toccare la polpetta zuccherosa, né abbastanza cattivi da prendere in mano la polpetta avvelenata.
Né abbastanza coraggiosi, da quel momento in poi, per toccare con le dita una qualsiasi anonima, forse innocua, polpetta, senza pensare all'oggetto come a una bomba a mano.
"Vuoi toccarla, Pogo?"
"Non ci penso nemmeno. Va bene che è di ieri, ma non ti sembra che sia troppo nera... Se te la metti in mezzo alla fronte... sembra l'occhio di un ciclope."
"L'occhio di un ciclope cieco, vuoi dire. Guardala, non ha nessuna luce. Non sembra né vecchia né antica.
Fa piuttosto pensare che ci sia sempre stata. Nascosta, in attesa del momento in cui saltar fuori..."
"Dal tuo cassetto! Senti, mi passi quella bottiglia di grappa di pere?"
"Serviti pure, tanto non è latte. Sono le undici. Dici che possiamo telefonare a questa Angiolotta Lavarmi, o pensi che la svegliamo?"
"Mah. I vecchi dormono poco. Io farei un tentativo.
Senti, ti spiace accendere tutte le luci, anche quelle del bagno?"
"D'accordo. Ma, hai per caso paura?"
"Non diciamo cazzate. É solo che non mi piace come mi guarda questa polpetta." Il telefono di casa Lavarmi continuava a squillare.
La donna, sempre che fosse in casa, doveva essere, oltre che buona, anche un po' sorda. Il segnale di libero, ascoltato a lungo, finiva per somigliare a un lamento insicuro, indeciso, tra silenzi e singhiozzo. Poi finalmente: "Pronto..." Non era una voce assonnata, era una voce d'uomo. Pur essendo di una potenza baritonale, emergeva a stonare un malcelato falsetto. "Pronto... casa Lavarmi. Chi parla?" Il "pronto" era stato deciso, virile, il "casa Lavarmi" giocosamente femmineo. Mi immaginavo il mio misterioso interlocutore come un uomo grasso, con una parrucca settecentesca, che saltellava nudo in un bosco senza alcun pensiero se non quello di raccogliere pigne.
"Buona sera, mi scusi l'ora. Mi chiamo Lazzaro Sant'Andrea e sono un giornalista. Gradirei sapere se mi è possibile intervistare al più presto la signora Angiolotta..."
"Signorina Angiolotta," puntualizzò il ninfo.
"... Lavarmi, la fondatrice del premio Angiolotta d'oro."
"La fondatrice? É impossibile. Sta sottoterra..." coperta di pigne pensai, "... Se vuole le passo la figlia, la signorina Angiolotta..." Dopo alcuni interminabili minuti una voce femminile rispose: "Sì? Sono Angiolotta Lavarini," era la garrula voce di una persona anziana. "Finalmente la stampa si interessa di nuovo al Premio. Ci crede se le dico che negli ultimi anni sono stata praticamente ignorata? E la mia povera mamma poi... Quando nei necrologi scrivo qualcosa per l'anniversario della sua morte, mi accorgo che è stata proprio dimenticata.
La pagina del giornale è piena di necrologi di persone insignificanti: `Tragicamente scomparsi' dicono loro.
Figuriamoci. Così imparano a guidare così veloce. Ben gli sta. E i suicidi poi... `Chi è causa del suo mal pianga se stesso'. Anche quelli camuffati da `Tragica scomparsa'.
E i fiori al cimitero alla mia povera mamma?... Li porto solo io e qualche Angiolotta riconoscente, e allora sa cosa faccio quando vado al cimitero Monumentale? - ridacchiò - tolgo i fiori dalle altre tombe e li metto a lei..." Alla faccia della bontà. L'Angiolotta d'oro non era un angelo, era una gigantesca polpetta avvelenata, cotta a forma di bambina e poi verniciata d'oro per ingannare le coscienze dei puri. Dei vivi e dei morti. Nei cimiteri, per quanti fiori ci siano, non è mai primavera.
"Appunto signora. Vorrei scrivere un lungo pezzo su sua madre per mettere in giusto risalto i suoi meriti.
Quando possiamo incontrarci?"
"Senta, io domani mattina verso mezzogiorno sono al Teatro Nazionale. C'è una conferenza stampa per la presentazione di una pièce. Poi, naturalmente, ci sarà offerta una colazione informale. La volta scorsa era pasta e fagioli... Se vuole raggiungerci lì, sarò lieta, dopo mangiato, di raccontarle ogni cosa sul Premio... Allora la aspetto, caro..." Riattaccò.
"Ebbene?" chiese Pogliaghi, dopo che gli ebbi riferito la proposta, "ti piace la pasta e fagioli?"
Il bar Magenta a mezzanotte era gonfio di varia umanità. La birreria storica era stata per qualche anno ricettacolo di gente "Fuori", secondo una definizione inelegante e imprecisa. La gente "fuori" una volta entrata nel bar Magenta diventava automaticamente gente "dentro". Fuori restavano solo quelli che non entravano nel bar Magenta perché lo immaginavano come le prime nuvole del paradiso artificiale. Il locale era vasto e molto suggestivo. I baristi non facevano servizio ai tavoli e ogni volta era una lunga fila alla cassa, assediata da marinai di una città senza mare, da sirene femministe che guai se toccavi loro la coda, da piccoli spacciatori e da finti rivoluzionari che aspettavano lì che il mondo cambiasse. Invece era cambiato il bar Magenta.
Dopo qualche piccolo, timido tentativo, il resto del mondo si era fatto coraggio ed era entrato al Magenta.
Lo aveva inondato di presenze eterogenee, poliziotti e fotomodelle americane, studenti universitari e commesse, fotografi e compagnie di solare innocuità. I proprietari avevano aumentato i prezzi. La rivoluzione era fallita. Il tempio era stato sconsacrato. Tutti, proprio tutti, almeno una volta nella vita mettevano piede al Magenta. Le ragazze alla pari tedesche posavano i loro grossi sederi sulle ginocchia di liceali della scuola americana di Milano. Il locale era diventato più vivo proprio perché di mille vite si nutriva. Il pavimento era moquettato di cicche di sigarette e mozziconi dei miei sigari. I posacenere non esistevano più da quando, nel 1910, all'apertura qualcuno se li era fregati tutti. Il locale era affollato come l'uscita di sicurezza di un cinema in fiamme.
Al Magenta, da mezzanotte, si poteva sostare per tutta la vita in attesa di andarsene altrove. Al Magenta potevi incontrare o rincontrare chiunque. Bastava fare lo scontrino a una cassa mastodontica e antiquata, ritirare una bottiglia di Ceres e usarla come pila per girare tra i tavoli occupati illuminando improvvisamente una buona ragione per trascorrere il resto della serata lì. Vanni era a un tavolino intento a insidiare due bionde.
Dovette dire qualcosa di sbagliato perché le bionde si alzarono, se ne andarono e ci lasciarono le sedie libere.
"Ciao Vanni. Ti ricordi Pogliaghi? Era al liceo con noi in un'altra sezione. Ti vado a prendere una birra." Lasciai soli Vanni e Pogliaghi. Quando un quarto d'ora dopo, annaspando tra la folla, li raggiunsi, erano in piena conversazione.
"Hai visto, Pogliaghi, come mi hanno guardato quei due? Hanno delle brutte facce."
"Hai ragione, hanno delle facce che non mi piacciono per niente."
"Secondo te, io piaccio alle ragazze?"
"Cosa vuoi che ne sappia?"
"Ce n'è una che abita nel mio palazzo che quando dobbiamo prendere l'ascensore insieme, scappa su per le scale."
"E tu?"
"Io la inseguo. Voglio sempre vedere se corre più veloce di me coi tacchi. Io una volta ero molto veloce. Ho vinto una gara di velocità a Bellamonte. Senza tacchi, però."
"Be', nella corsa per le scale non conta la velocità. Conta dove appoggi i tacchi."
" É vero. Io, per sicurezza, mi tolgo sempre le scarpe e corro scalzo."
"E le scarpe?"
"Poi scendo con l'ascensore a riprendermele. Secondo te, le piaccio?"
"Boh, bisogna vedere..."
" É vero. Sai, forse pensa che mi puzzino i piedi... Ah, Lazzaro. Grazie per la birra. Te ne vado a prendere una io."
Vanni si alzò, sollevò le sue larghe spalle e si incamminò apparentemente indifferente tra la folla, girandosi ogni tanto all'improvviso per accertarsi che nessuno lo guardasse "male".
"Che fisico gli è venuto," commentò Pogo.
"Pensa che di me ha paura. Da piccolo, qualche volta l'ho pestato e adesso che ha una forza erculea, è ancora convinto che possa suonargliele."
"Pazzesco," disse Pogo.
"Te ne sei accorto?"
"Di cosa?"
"Che è diventato pazzo. A diciott'anni, dopo un esaurimento nervoso, gli hanno diagnosticato la schizofrenia... e adesso, a mio parere, è quasi guarito.., salvo...
"Pazzo Vanni? Ma a me è sembrato che fosse normalissimo." Solo Pogliaghi poteva trovare il comportamento di Vanni normalissimo.
Chissà quante storie analoghe si stavano consumando insieme alle birre, negli altri tavolini. Un indovinello: abbiamo tre amici. Il primo usa comprare dei jeans, immergersi in mare a gennaio coi jeans appena comprati, uscire dall'acqua dopo aver tentato di camminarci sopra e rotolarsi nella sabbia per portarsi via coi jeans un pezzo di spiaggia. Un ricordo umido. Un'iniziazione sabbiosa. Da domani farà il taxista. Il secondo amico ama, invece, inseguire le ragazze sulle scale. Lo fa per conquistarle. É un sistema da uomo delle caverne, solo che a quei tempi non c'erano le scale. Pensa che tutti lo guardino "male". Probabilmente non è vero, a parte le ragazze che insegue per le scale. Ogni tanto va in Piazza del Duomo e parla ai piccioni come faceva San Francesco. No, San Francesco parlava ai lupi. già, ma dove lo trovi un lupo in Piazza del Duomo? Il terzo amico si crede il più intelligente dei tre. A dire il vero, ogni volta che entra in una stanza qualsiasi si sente sempre il più intelligente tra i presenti. Specialmente se la stanza è piena di gente. Se la stanza è vuota, fa di tutto per riempirla perché ha paura di restare solo. Arriva a comportarsi da deficiente purché la stanza si riempia.
Magari di assassini. Domanda: chi dei tre amici è il "pazzo"? É nei tavoli vicini? É dietro la cassa del bar Magenta? É davanti alla cassa, in quella fila interminabile, in quella coda da spaccio russo? Chi era il protagonista, quella sera, al bar Magenta? Ognuno, a ogni tavolo, era protagonista della storia che stava raccontando.
"Sono stata al cinema sabato sera. Era tutto pieno. Figurati che mi sono dovuta sedere per terra." Povera graziosa spettatrice, protagonista di una serata al cinema col sedere per terra. Meno male che c'era la moquette.
Protagonisti gli attori dello schermo? Figurati, cosa ne sanno loro, che nascono dalla luce di un proiettore, delle peripezie del tuo sedere alla ricerca di una posizione meno scomoda. É stato il tuo sedere il vero eroe di quella sera, e di questa in cui stai raccontando la tua serata al cinema a degli amici che non c'erano. Ti alzi anche tu, vai alla cassa a fare lo scontrino per un'altra birra.
"Lazzaro, hai visto quella trifola che si è appena alzata?
Hai visto che culo?"
"Gli manca la parola."
"Se Vanni la vede, si toglie subito le scarpe. Meno male che qui non ci sono scale."
"Già, né piccioni, né barboni. Se non ci fossero le scale e Piazza del Duomo, Vanni sarebbe normale. E se non ci fossero piccioni e barboni, anche Branka non sarebbe un'assassina. Metti in un ospedale psichiatrico un maniaco che ha ucciso trentasette bambine con le trecce, e si comporterà benissimo. Dopo qualche anno lo considereranno guarito e lo lasceranno uscire. Solo allora si accorgeranno che si è comportato bene perché lì, dov'era, non c'erano bambine con le trecce. Non appena fuori, prima o poi, incontrerà la trentottesima bambina con le trecce e allora... Purtroppo `fuori' è pieno di scale, anche scale mobili, figurati, di `piazze del Duomo'... Fuori è pieno di piccioni, di barboni e di bambine con le trecce. Ho il sospetto che anche io e te, Pogo, siamo pazzi... solo che noi ci tratteniamo." Vanni tornò con tre birre: ne teneva due con le mani e la terza infilata sotto l'ascella come un gigantesco termometro: "C'era uno che mi guardava male".
Gli presi la birra da sotto l'ascella e tirai una lunga sorsata. Poi, lentamente, mi accesi un sigaro e più dottor Totem che mai gli dissi: "Vanni, devi smetterla di pensare che tutti ti guardino male. Non è vero".
"Questa volta è vero. Mi ha guardato male."
"Dai, nessuno ti ha guardato male," gli dissi irritato, guardandolo male.
"Sì che mi ha guardato male." Vanni si girò e iniziò a esplorare gli occhi della folla mentre io alzavo gli occhi al cielo. Pogliaghi si stava occupando della sua birra.
"Hai ragione, Lazzaro," disse Vanni visibilmente sollevato, "nessuno sta guardando male me. Sta guardando male te!" Seguii il suo sguardo finché nella ressa non isolai una figura tuttotorace. Aveva capelli a spazzola e il naso rotto. Il giubbotto di pelle grigia di cui mi aveva parlato Caroli, non riusciva a mimetizzarsi tra due modelle di colore.
Marzio Palloni era lì. Lo vedevo in faccia per la prima volta. Il mio nemico. Mi alzai strattonando Pogliaghi: "Dai, andiamo, qui tra poco ci scappa il morto".
"Anche qui?" chiese Pogo che pensava al sangue del bar tabacchi Mariona. Si alzò e mi seguì. Era una fuga impossibile. Sembrava di camminare nelle sabbie mobili.
Il Magenta era così pieno che i miei "permesso" non venivano ascoltati. Eravamo imprigionati da carne umana. Da gente che aspettava compatta, una muraglia cinese fuori zona, che si liberassero i tavolini. Era un picchetto dilatato. Ogni volta che qualcuno si spostava a fatica per farti passare, ti trovavi davanti un altro muro di folla. Fortunatamente Marzio Palloni era nelle nostre stesse condizioni. Non guadagnava terreno inseguendoci.
Sgomitava, imprecava e si teneva una mano all'altezza del fegato dove, sicuramente, teneva la sua licenza di caccia. Carica.
Prendemmo Vanni e lo usammo come ariete per sfondare la folla. Da un tavolo vicino sentii un: "Ciao Lazzaro". Occhieggiai verso Enrico, un altro amico. Al Magenta ci si incontrava tutti prima o poi. Enrico aveva un viso da putto incorniciato da barba e capelli che lo collocavano nell'immaginario tra Ercole paffuto e Bacco giovane. Era sbronzo. Nessun aiuto quindi da quel settore. "Scusami Enrico, vado un po' di fretta." Enrico abbassò lo sguardo sulla birra che restava nel suo boccale da litro. Vanni si stava divertendo un mondo a sfondare la folla. Lui ignorava l'esistenza di Palloni.
Non era a conoscenza di quella parte del mio passato prossimo. Stava vivendo il presente. E nel presente si sentiva una locomotiva: " É in arrivo sul binario otto il diretto Magenta-Milano. Pistaaa", gridava tornato bambino.
Quando faceva lo stesso gioco da bambino, nessuno si era mai sognato di pensare che fosse pazzo. E neanche adesso, forse. Pensavano che fosse semplicemente molto ubriaco.
Pur essendo aggrappato a Vanni non perdevo di vista Palloni. Il gigantesco banco del bar era a forma di ferro di cavallo. Circumspintonando ci stavamo avvicinando, ma troppo lentamente, all'uscita. Marzio Palloni si gettò, si tuffò tra la folla per raggiungerci. Volò sul tavolino di Enrico rovesciandogli la birra che restava nella caraffa. Enrico alzò gli occhi arrossati su Palloni e gli disse: "Lo hai fatto apposta?"
"Sì," rispose Marzio il belligerante (nel vostro nome il vostro destino). Enrico si alzò. Era un metro e ottantasette. Aveva un po' di pancetta e gli mancavano i muscoli di Palloni, ma in piedi, vendicativo, sembrava un dio vikingo. Assestò uno schiaffone a Palloni. Palloni, schiumando, volò di nuovo, questa volta all'indietro, su un gruppo di ragazzi permalosi. Iniziarono a pestarlo di santa ragione. Palloni aveva i jeans troppo stretti per estrarre la pistola. Si difese utilizzando tutti i colpi scorretti che aveva imparato da quando era al mondo. La birra aveva però anestetizzato i suoi assalitori. Accusavano i colpi, ma non sentivano, al momento, dolore fisico e perciò tornavano alla carica. Un tipo mingherlino, non avendo armi a portata di mano, cavò dall'ultima tasca della giacca una stilografica e iniziò a trafiggerlo col pennino d'oro.
Pogo, Vanni e io guardavamo affascinati lo spettacolo.
"Bello, sembra una corrida."
"Non mi piacciono le corride."
"Neanche a me. L'altra sera ho visto Sangue e arena su una tivù privata e mi sono addormentato." Non c'era più bisogno di tagliare la folla per raggiungere l'uscita. Ora era la folla che ci faceva scansare, allontanandosi da dove ci ostruiva la strada, per avvicinarsi al luogo dello spettacolo. Anche le allieve delle suore Marcelline, con le gonne scozzesi e il trucco leggero, riscoprivano istinti sanguinari seppelliti in profondità come l'invidia del pene, e volevano un posto in prima fila. In poco tempo Marzio Palloni sparì alla nostra vista, circondato da spettatori. Non c'era più fila alla cassa: erano tutti lì. L'accesso all'uscita era deserto.
"Direi che ce ne possiamo andare." La via era libera e quindi uscimmo a riveder le stelle.
A Milano, di notte, c'è il mare. È un mare di persone che, nascoste dall'oscurità, nuotano da un locale all'altro per pescare o per farsi pescare, un po' esche, un po' squali disinvolti e impacciati. É un mare di guai, nelle bische volanti di piazza Tirana, dove un dado e una pallottola rimediano sempre un buco di troppo. É un mare in burrasca alla disperata, frenetica ricerca del divertimento prima che faccia giorno. É un mare di equivoci in cui i travestiti brasiliani si spacciano per ex ballerine Oba Oba, ostentando, anziché la voce delle sirene, baritonali listini dei prezzi. É un mare che a tratti può apparire deserto e ti sembra che non ci sia in giro nessuno, ma sai che è profondo come l'oceano e, come l'oceano, abitato. É un mare in cui potresti perderti se non ci fossero le luci dei locali aperti a farti da faro, se non ci fossero finestre illuminate anche in palazzi quasi completamente addormentati, come a dirti che a Milano le case dormono con un occhio solo. E poi ci sono i fari delle auto che dragano la città per mettere a fuoco una tentazione. I buchi dei dadi, dei proiettili, delle siringhe, delle narici da dove esce muco ed entra cocaina, i buchi del corpo umano eletti a custodi del piacere della carne. Da tutti questi buchi, di notte a Milano, fuoriesce l'acqua, da tutti questi buchi, al mattino, l'acqua rientra e nessuno ha il coraggio di ricordare che a Milano, di notte, c'è il mare.
Pogliaghi navigava sicuro con l'auto di suo padre. Il taxi lo avrebbe inaugurato solo tra ventiquattro ore. Giravamo senza una meta precisa io, lui e Vanni sprofondato nel sedile posteriore. Dopo esserci allontanati dal Magenta avevamo gironzolato nel più completo silenzio.
Finalmente Pogliaghi si decise a parlare: "Sai Lazzaro, sono due giorni che ci siamo rincontrati e tutti e due i giorni hanno avuto lo stesso epilogo: un bar. É un fatto di sangue. Sono così tutte le sere, quando si esce con te?..."
"Senti Pogo. Oggi non ho avuto tempo di leggere i giornali. Ti spiace se passiamo in corso Buenos Aires, lì c'è un'edicola che è aperta tutta la notte." Vanni si risvegliò dal suo stato catatonico e propose: "Poi possiamo andare a vedere le puttane?"
"Quali puttane?" intervenne Pogliaghi, "ormai sono tutti travestiti. Chissà dove sono finite le puttane. In strada ce ne sono solo di orribili. In viale Misurata ne ho visto una che avrà avuto almeno sessant'anni, lo stesso in via Washington. Faceva una tristezza.., grassa, sfatta, sembrava un'operaia in una fabbrica di protesi per mutilati di guerra. Che squallore. Io non sono mai andato con una puttana, ma l'idea di accostare il piacere con quel rudere, ti fa rivalutare i sostenitori della masturbazione."
"Io una volta sono andato con una puttana," intervenne Vanni, "ma non ci torno più di sicuro. Starnutiva continuamente, avevo paura che mi attaccasse l'influenza.
Figurati che si è soffiata il naso col reggiseno." Fui colto da uno dei miei attacchi di disgusto con conseguente tosse e conati. Cercavo di coprire i conati aumentando il volume alla tosse.
"Vuoi un fazzoletto..." chiese Pogo.
"O un reggiseno," infierì Vanni.
La birra galoppava nel mio stomaco, intenzionata a uscirvi dalla cavità orale. Mi ripresi a fatica concentrando la mia attenzione sull'edicola di corso Buenos Aires che nel frattempo avevamo raggiunto. Scesi dall'auto e acquistai tre quotidiani. L'unico altro cliente dell'edicola, in quel momento, era un signore distinto che studiava le incellofanate promesse delle riviste pornografiche esposte in bell'ordine. Mi fermai a guardarlo, incuriosito dalla serietà con cui il suo sguardo vagava tra nere e svedesi. Se la pornografia ha qualcosa di buono, è che non è razzista. Non c'era bramosia nello sguardo dell'uomo, valutava le copertine con lo stesso atteggiamento che avrebbe tenuto nello scegliere il colore di una moquette o della carta da parati.
"Desidera qualcos'altro?" mi chiese l'edicolante richiamando su di me l'attenzione del pornografo tappezziere.
I nostri occhi si incontrarono. L'uomo aveva occhi da pesce, ma già, a Milano di notte c'è il mare.
"Topolino," dissi. Non leggevo Topolino neanche quando ero bambino. Lo avevo sempre ritenuto una lettura da bambini, ma adesso, il fatto di scegliere la pubblicazione più asessuata di tutta l'editoria (Topolino e Minnie sono topi casti. Niente a che vedere con le conigliette di Play boy), mi allontanava mille miglia agli occhi del giornalaio, dal suo altro cliente notturno. L'edicolante e il tappezziere mi guardarono con un'aria di compatimento. Chi compra Topolino alle tre di notte è un ipocrita. Mi allontanai dall'edicola il più velocemente possibile.
"Ce n'hai messo di tempo," commentò Pogo. Passai Topolino a Vanni. Vanni mi guardò incuriosito. Distolsi lo sguardo. Pogliaghi aveva tatto un posteggio di fortuna, ma non sembrava intenzionato a ripartire. Iniziammo perciò a sfogliare i giornali.
La morte del barbone era in cronaca cittadina. Lessi l'articolo freneticamente e scoprii che anche un altro barbone era deceduto alla Stazione centrale. Cercavo qualche accenno a un'autopsia, ma l'articolista si lanciava in una denuncia dickensiana su una civiltà industriale, ai cui margini si muore di solitudine. Altro che solitudine. E se fosse stata Branka ad avvelenare anche l'altro barbone? Il quotidiano dava più spazio ai piccioni di quanto non ne avesse dato ai barboni. Ma in fondo, i piccioni occupavano più spazio perché erano di più. Quello che l'autore dell'articolo ignorava, era che mentre i piccioni potevano volare via, lontano dal veleno di Branka, i barboni non sapevano volare.
Non. I piccioni venivano fotografati, i barboni non venivano fotografati, perché i turisti non volevano sporcare i negativi.
"Ehi Lazzaro, guarda qui," Pogliaghi mi passò il suo giornale. Il titolo annunciava: "Ammazza a bottigliate l'amante della moglie. Dramma della gelosia alle porte di Milano. Giulio Mariona, cinquantadue anni, gestore del bar tabacchi Mariona..." Il pezzo non menzionava la rissa. C'era una foto di Giulio Mariona. Era un Giulio Mariona con vent'anni di meno e con qualche illusione di più. Non c'erano, evidentemente, foto più recenti.
Nessuno, negli ultimi vent'anni, si era preso la briga di fotografarlo. Era solo un barbone con un bar tabacchi.
In un'altra foto, moglie e figlia con tette che sembravano sul punto di entrare in un altro articolo, accennavano un sorriso.
"Hai visto Pogo? Le tue principesse l'hanno presa bene." Pogo scaldò il motore. Un freddo insostenibile, uscito da uno spiffero della notizia, si era diffuso nello scheletro, nel cuore dell'auto.
"Dove andiamo adesso?" chiese Vanni.
"Hai ancora voglia di vedere le puttane? Benissimo, ma dove?"
"Facciamo un giro..."
"Pogo, ti spiacerebbe passare un attimo in via Pontevetero?"
"Dove abita Branka?"
"Sì, lì sotto. Voglio solo vedere la casa di Branka di nuovo. Può darsi che con voi due mi faccia un altro effetto, che da un incubo si trasformi in un sonno agitato.
Tanto, tra poco è mattino. Poi se ti fa piacere potremo andare a vedere le puttane, e guarda, mi voglio sbilanciare, possiamo anche andare a suonare i citofoni di tutti i palazzi che vuoi e poi scappar via. E fesso, ma può darsi che sia ancora divertente." La casa di via Pontevetero aveva il portone solo accostato.
" É aperto!"
"Forse è sempre aperto, qui. Branka non può avere paura di nulla e di nessuno." Scendemmo tutti e tre. Feci entrare Vanni per primo. Era l'unico a non avere paura perché ignorava la storia. Ci ritrovammo davanti al bidone. Nessuno di noi, aveva intenzione di salire le scale. L'atrio era deserto. Stranamente dal portone semiaperto non era entrato nessuno, né un ladro, né un drogato, né uno zingaro, né tantomeno un barbone in cerca di riparo. Era quasi come se il popolo clandestino della notte in cerca di bottino o di un tetto, sapesse che lì, in quella casa, la porta aperta poteva essere una trappola mortale.
Un miagolio disperato e improvviso ci paralizzò graffiando il silenzio. Il suono veniva dal bidone. Vanni sollevò il coperchio e un gattino terrorizzato annaspò verso la luce. Lo sollevai dai rifiuti in cui sarebbe morto soffocato e lo condussi fuori, all'aperto, seguito da Vanni e Pogliaghi.
" É stata sicuramente Branka. Voleva che morisse lì." Vanni mi prese il gatto di braccio e mi chiese: "Posso tenerlo?"
"Certo, gli hai salvato la vita. É tuo." Avevamo tutti una dannata fretta di andarcene da lì.
Vanni carezzava il gatto sul sedile posteriore. Non aveva più voglia di andare a vedere le puttane, né di suonare campanelli. Il gatto lo scrutava con impaurita riconoscenza.
"Non mi guarda male," constatò Vanni felice.
Pogo sbadigliò: "Andiamo a casa?" Passammo per via Washington davanti alla casa di mia nonna. Lì, di fronte, sostava una puttana. Le passammo davanti e, nonostante la velocità dell'auto e la mia innegabile miopia, riuscii a guardarla in faccia.
Con un giubbotto di pelliccia sintetica, le labbra rosse, le calze a rete e una minigonna di gomma, riusciva a dimostrare una cinquantina d'anni. Quaranta in più di quanti se ne fosse attribuiti il giorno prima. Branka si prostituiva, grottesca implacabile sentinella del mio studio.