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La Stazione centrale di Milano sembrava la grande bocca aperta di un animale morto. Una carogna. Una carcassa abitata, mantenuta viva dalla frenetica attività di parassiti, mosche, sciacalli, taxi gialli, passeggiatrici, barboni, venditori di piatti di plastica adornati da inspiegabili conchiglie con al centro la scritta "A Milano andai, a te pensai, e questo ricordo ti portai".
Antonello Caroli che aveva appena accompagnato al treno un'aspirante attrice, attualmente "comparsa", di Domodossola, stava per scendere i gradini, triste come un animale post-coitum. Carolina, la ragazza di Domodossola, non era esattamente bella, ma il nome la rispecchiava.
Oddio, Carolina era un nome che poteva avere una duplice interpretazione. Da un lato era infatti un nome snob da ragazza della buona borghesia milanese che studia in un collegio svizzero. Dall'altro, quello era il lato che interessava a lui, Carolina evocava il nome della mucca Carolina, un personaggio dei Caroselli a cavallo, a dorso di mucca tra pubblicità e immaginario infantile. Era proprio l'equazione "Carolina uguale mucca" a interessare Caroli.
Carolina da Domodossola aveva infatti un aspetto da vacca. Grosse mammelle, un grosso culo e un'aria placida pronta a brucare erba, fumare erba, fare del cinema.
Ad Antonello Caroli, poi, piaceva la coincidenza della radice del proprio cognome col nome della sua (appena) amata: Caroli-Carolina. Per ricordarsi di quel pomeriggio, di Carolina e del treno per Domodossola, acquistò il piatto di plastica con le conchiglie e la "poesiola" su Milano. Lo trovava orrendo. Lo avrebbe usato come posacenere. Antonello Caroli era un ragazzo originale.
Un metro e novanta, biondo, un po' equino, un ragazzo allampanato che ricordava Donald Sutherland.
Aveva trentaquattro anni e sulla carta d'identità c'era scritto: Professione attore. Aveva recitato in molti film i cui esterni venivano girati a Milano. Particine, poco più che comparsate, ma anche Marlon Brando, e a maggior ragione Donald Sutherland, avevano cominciato così.
Solo che Caroli aveva cominciato da un pezzo, commettendo un sacco di errori.
A diciotto anni si era sposato e a diciotto e mezzo aveva avuto una figlia. A diciannove si era separato. Ora la figlia viveva con la madre. Anche lui. Viveva con sua madre. A vent'anni aveva dato il meglio di sé nell'interpretazione di uno spot pubblicitario su un'acqua minerale pugliese. A ventisei anni era stato il "segretario particolare" di una contessa sessantacinquenne che ne dichiarava trentacinque. Con un attico in via Pietro Verri, un cameriere discreto e un appetito insaziabile. A ventisette anni, dimagrito e insoddisfatto, aveva conosciuto Lazzaro Sant'Andrea che era diventato suo amico.
Lazzaro spesso lo prendeva in giro: "Dai, raccontami di quando la contessa..." Ma era un amico. Il tempo passava, ma Lazzaro restava. Gli aveva consigliato di scrivere la propria biografia: Il segreto del mio insuccesso.
Ora, a trentaquattro anni suonati, Antonello Caroli, cedendo alle insistenze della propria madre, si era fatto raccomandare da uno zio, senatore comunista, e da qualche mese, al mattino faceva il bidello. Il resto del giorno, l'attore. Del resto, considerava la sua performance quotidiana di bidello come una delle sue interpretazioni, caratterizzazione d'attore.
Era sempre più depresso da quando era nato. Il vedere un barbone rannicchiato a dormire, ignorato da tutti, in un angolo della stazione, gli mise allegria. Lui non era ridotto così. Quello che Caroli non sapeva in quel momento, era che il barbone non dormiva. Non respirava più dalla notte prima.
"Senti, scusa, ce l'hai mille lire, mi mancano per il biglietto, devo andare a Torino a disintossicarmi." La figura era sbucata improvvisamente di fronte a Caroli come un folletto sbiadito. Pochi capelli, pochi denti, un tremito elettrico e senza vivacità. Aveva appena enunciato una delle due scuse base dei tossicodipendenti per incettare denaro. L'altra era: "Senti, mi dai mille lire che mi devo comprare un panino. Sono due giorni che non mangio".
Caroli non aveva simpatia per la droga. Non aveva nemmeno molti soldi. E in più la comparsa del Jolly eroinomane gli aveva fatto venire un colpo. Perciò bruscamente gli disse: "Senti, togliti dai coglioni". Al che al Jolly passò la voglia di andare a Torino come passò l'appetito. Il volto provato si contrasse in una smorfia in cui, come nell'oblò di una lavatrice, si vedevano passare cenci, disperazione, rimpianto, agonia, disgusto, rabbia, violenza. Quando l'oblò si stabilizzò su un'espressione, l'espressione fu di odio.
Il Jolly estrasse di tasca una siringa evidentemente usata, la rivolse contro Caroli dicendogli: "Brutto stronzo, ti attacco l'Aids". Caroli corse a quattro a quattro i gradini in discesa come uno stambecco. Dietro di lui, più lento ma feroce perché ferito, l'altro animale lo braccava coi suoi artigli sintetici. Eh sì, Caroli aveva ragione di sentirsi depresso. Correva con ancora in mano il piatto di plastica con conchiglie, lontano, via dalla grande bocca della Stazione centrale. Da dove un barbone, sporco come un dente cariato, sembrava dormisse.
"Nostra figlia è un mostro." Le parole appena uscite dalla bocca del vecchio erano ancora lì per aria, in attesa che le acchiappassi. "Mostro," e nella rete da farfalle prendevo tanti mostri, indeciso su quale trattenere, quale scegliere per dare un significato alle parole del vecchio. Cominciamo con la logica. Due ultrasettantenni copulano senza precauzioni e nasce una figlia deforme per motivi genetici. Certo, era ingiusto da parte mia collegare la parola mostro alla parola deforme, ma non potevo fare a meno di immaginare un essere con la testa grossa come un pallone da mare, di quelli che fanno anche da salvagente, completamente coperto da orecchie di tutte le dimensioni. Centinaia di orecchie su un pallone un po' floscio. Se quello era un mostro, io, certo, ero pazzo.
Scartata la prima ipotesi restava "mostro" = M, il Mostro di Dusseldorf, e vedevo un film in bianco e nero firmato Fritz Lang in cui Peter Lorre è riflesso in una vetrina alle spalle di una bambina che sarà la sua prossima vittima. Oppure mostro senza volto come il Mostro di Firenze, vittoriano come Jack lo squartatore, di cartapesta come Godzilla, un animale preistorico di cartone dei film di fantascienza giapponesi. Avevo anche conosciuto personalmente un mostro. Anni prima, a Bellamonte in Trentino. Poi c'era mia madre che ogni tanto mi diceva: "Sei un mostro di egoismo," e una certa Dariva, una mia compagna delle medie con la faccia da maialino, i ricci e una salivazione accentuata tant'è vero che avevo trasformato "Dariva" in "Saliva", ma lei non era proprio un mostro. più che altro era un cesso.
Spero sia diventata bellissima. Così, giusto per far vedere che mia madre aveva torto e che non sono un mostro di egoismo.
"Nostra figlia è un mostro."
"In che senso?"
"Vede, nei suoi primi anni di vita era buonissima, pensi che a cinque anni e mezzo mi aiutava a fare i mestieri in casa," intervenne la vecchia: esaurita la libidine era tornata "mamma".
"Poi," continuò il padre, "a sette anni, mi sembra ieri...
"E quand'era?"
"L'altro ieri. A sette anni ha vinto il premio `Angiolotta di bontà' per la bambina più buona dell'anno. Andava a scuola, aiutava mia moglie a fare i mestieri, raccoglieva gli animali feriti e aiutava una compagna di scuola portatrice di handicap a fare i compiti e a restare al passo con la classe. E guai se altri bambini la schernivano, lei prendeva sempre le sue difese. Sa, i bambini a volte possono essere molto crudeli."
" É il vizio dell'agnello," commentai.
"Come?"
"È il vizio dell'agnello. Ha in mente il proverbio `Il lupo perde il pelo ma non il vizio'? Ecco, è il contrario.
Mi spiego: in genere è facile accostare ai lupi vizi e cattiverie, ma forse è solo fame. Invece il vizio dell'agnello è più subdolo perché nascosto, inimmaginabile per la mansuetudine dell'animale, per l'innocenza del bambino colpevole. Ecco, la cattiveria dei bambini è il vizio dell'agnello," conclusi soddisfatto di me stesso.
"Penso che abbiamo fatto bene a rivolgerci a lei."
"Anch'io, ma non capisco quale sia il problema. Vostra figlia è un mostro di bontà." La vecchia prese la parola: "Nostra figlia era un mostro di bontà. Fino a ieri. Oggi è un mostro di cattiveria".
"In che senso?" chiesi sempre più interessato.
"Nel senso che ora nostra figlia raccoglie ancora animali abbandonati, ma li tortura lentamente. Strappa le ali agli insetti. Fa dispetti a volte crudelissimi alle altre bambine. Prende a sassate i bambini."
"E non vi aiuta più a fare i mestieri," pensai ma mi trattenni dal dire.
"Ora nostra figlia è diventata disordinata. Non fa più i compiti. Ci insulta, ci umilia, ci dice che siamo vecchi, inutili, moribondi. In casa nostra abita un signore poliomielitico e nostra figlia cerca sempre di spingerlo giù dalle scale." Ero ammutolito e sempre più affascinato al pensiero di poter incontrare un essere di una cattiveria così solare. Il fatto poi, che poco tempo prima di manifestarsi "cattiva" avesse vinto un premio di bontà, era l'irrazionalità, la contraddizione che spiegava tutto. Non solo il suo comportamento. Qual era il significato? Lo ignoravo. Era un mistero. Ma non è forse un mistero la nascita dell'universo? Non è un mistero Dio? E il cane di Jordy? Solo che questo, quello della bambina, era un mistero che avrei potuto incontrare, toccare anche, a patto che non mi mordesse. Erano ormai le quattro del pomeriggio.
"Posso offrirvi qualcosa da bere?" Accettarono, disidratati dalla loro confessione, asciugati, prosciugati dalla loro terribile verità. Guardai nel mobile bar di mia nonna. Niente. Si vede che si era portata le bottiglie per il viaggio di andata. Guardai nel frigo della cucina abitabile: "Mi dispiace, c'è solo grappa di pere..."
"Va benissimo, grazie," rispose Alioscia.
Versai la grappa di pere in bicchierini da vodka. Li porsi ai due genitori. Alioscia disse: "Salute", e vuotò il bicchiere d'un fiato, all'unisono, sincronizzato con sua moglie. Tenevano in mano i bicchieri rivolti verso di me, indicandomi chiaramente che ne volevano ancora.
Scolai il mio per mettermi alla pari e mentre una cascata gelida di pere mi produceva un brivido di grappa, riempii i bicchieri per un altro giro. Nives, al suo terzo bicchierino emise un piccolo rutto. Non si scusò, ma riprese a parlare: "E vuole sapere la cosa più grave?..." Certo che volevo sapere la cosa più grave. Avevo l'acquolina in bocca anche se sapeva di pere.
"...nostra figlia uccide i piccioni." Non mi sembrò tanto grave, forse perché detestavo i piccioni. Non al punto di ucciderli, certo. "A sassate?"
"No. Li avvelena. Sparge becchime avvelenato in piccoli mucchietti, proprio per ucciderne il maggior numero possibile senza però destare eccessivo allarme. É diabolica."
"É machiavellica," aggiunse cupo il nobile Alioscia, ma con un certo orgoglio paterno.
"Dove si procura il veleno?" Nives arrossì, un po' per la grappa, un po' per la colpa.
"Lo scorso settembre siamo stati in campagna da una famiglia di agricoltori che ci procuravano il vino quando ancora potevamo permettercelo... be', il giorno prima della nostra partenza, Alceo, l'agricoltore, non riusciva più a trovare il pesticida... come si chiama, Alioscia?"
"Parathion. É micidiale."
"Be', da allora Branka..."
"Branka?"
"Nostra figlia (come il fernet). Da allora Branka ha iniziato a manifestare interesse per i piccioni. Vuole essere portata in Piazza del Duomo, al parco Solari, dove ci sono piccioni." Alioscia prese la parola: "All'inizio non avevamo collegato la scomparsa del parathion con la nuova passione di nostra figlia. Speravamo che Branka fosse tornata improvvisamente buona, così come improvvisamente era diventata cattiva. Poi, leggendo il giornale, abbiamo scoperto che il killer dei piccioni aveva colpito in Piazza del Duomo e al parco Solari. Ho frugato dappertutto in casa per scoprire dove Branka avesse nascosto il pesticida, ma non ho trovato niente. Lei può aiutarci?"
"Senz'altro," mentii spudoratamente, "ma avrei bisogno di due cose: per prima incontrare vostra figlia.., è possibile?"
"Se crede anche oggi. L'abbiamo chiusa in casa a chiave."
"Potete accompagnarla qui, diciamo alle sei?"
"Certo. Ci verrà volentieri. Adora mettere in difficoltà gli adulti." Gli adulti? già, ero io l'adulto!! Forse. "E per seconda cosa mi dovreste dare il vostro indirizzo e il recapito di chi ha organizzato il Premio di bontà, come si chiama..."
"Angiolotta d'oro". Alioscia cavò di tasca una stilografica, una rubrica di pelle logora e tutta la dignità che gli era rimasta dopo quel colloquio. Scribacchiò qualcosa, due arabeschi tremolanti tracciati da una mano poderosa e me li porse. Se ne andarono così come erano venuti. Due elefanti in cerca della strada per il proprio cimitero.
Da quando Caroli aveva lasciato la Stazione centrale inseguito dal tipo che voleva andare a Torino a disintossicarsi, molti treni erano partiti e molti altri arrivati.
Quasi tutti in ritardo. Del resto il ritardo era una specie di servizio pubblico. Che cosa angoscia, soprattutto, l'uomo? La propria impotenza di fronte al passare del tempo. Anche alla Stazione centrale il tempo scorreva puntualmente inesorabile. Certo, neanche lì si poteva fermare. Ma c'era il RITARDO. E il ritardo, se non ti permette di fermare il tempo, ti consente di protrarre il momento, di allungare l'attesa magari sbuffando. E tutti quelli che sbuffavano e imprecavano ingrati contro il ritardo, ignoravano quanto, proprio grazie al ritardo, quel momento della loro vita, l'attesa, si prolungasse generosamente rispetto a ogni altro momento passato e futuro.
La gente non si accorgeva nemmeno del cadavere del barbone, solo i bambini, per i quali il tempo non significa niente, vedevano. Il cadavere del barbone veniva additato dai bambini le cui madri li trascinavano via, verso mete più istruttive, che so, il Museo delle Cere. Le madri pensavano che il barbone fosse il solito barbone, addormentato un po' dovunque su letti di fortuna ai margini della società. Oltre tutto pensavano che il barbone avesse molte identità, molti volti e molte età. L'avevano visto la prima volta da bambine, era alto, magro e puzzava di vino scadente. Erano scappate via perché somigliava maledettamente a un loro zio pazzo. O forse era proprio il loro zio pazzo, quello che non veniva invitato a pranzo nemmeno a Natale. Poi erano cresciute e il barbone era diventato di volta in volta grasso e cisposo, basso e pelato, di statura media con un certo contegno, ma senza più nessuno, con gli occhi allucinati, le mani tremanti e un sacchetto di plastica, di quelli che servono per la raccolta dell'immondizia, sempre pieno di tesori invisibili agli altri.
Invisibili alle madri. Così le madri strattonavano via i loro figli dal barbone che pensavano dormisse, per evitare che scoprissero in quei lineamenti occultati dalla trascuratezza, il proprio vecchio amato temuto odiato zio pazzo. Solo i bambini, per i quali lo zio pazzo non significava niente, vedevano. Avevano visto e volevano raccontare: "Hai visto mamma, quell'uomo è morto".
"Non dire stupidaggini. É un barbone e sta solo dormendo. Andiamo via."
"Cos'è un barbone, mamma?"
"Un uomo che non lavora e vuole sempre dormire."
"Come papà?"
"No. Papà è uno sporco mantenuto." già, cos'è un barbone, mamma? Un uomo non. Che non lavora e che non si lava. Che non ha una casa. Che non accetta le regole accettate da tutti gli altri. Un barbone non si fa la barba e allora gli cresce una barba lunghissima.
Lui continua a non radersi e la barba lo copre a poco a poco come una coperta di fumo, un plaid di nebbia che lo nasconde, un serpente che lo avvinghia, lo cela. Quando il barbone è completamente avvolto dalla sua barba, nessuno lo vede più. É la barba, il motivo per cui la gente non si accorge dei barboni e tira diritto, accelerando leggermente il passo. Non è indifferenza.
Non è disprezzo. É che proprio non lo vedono.
Grazie all'insistenza di un bambino che si era messo a piangere perché la madre lo voleva portare al Museo delle Cere, intervenne un poliziotto e si accorse del cadavere del barbone: "Lo avrà ucciso il freddo o la vita sregolata", pensò mentre un furgone lo portava via. E tutti pensarono la stessa cosa, e a nessuno interessava granché la causa della sua morte. Un certificato medico generico sulle ragioni del decesso. Nessuna autopsia.
Pensa che schifo aprirlo. Chissà quanta barba aveva nel corpo al posto degli organi. Niente frattaglie, solo barba.
E il cuore poi, figurati, non ce l'aveva proprio. Però, forse, se gli avessero fatto l'autopsia, chissà, si sarebbero accorti che era stato un tipo originale. E poetico anche.
Negli ultimi tempi si era convinto di essere un uccello e aveva fatto scorpacciate di becchime per piccioni.
Forse questo avrebbero scoperto, se gli avessero fatto l'autopsia. Ma per fare l'autopsia ci vuole un corpo. E quello non era più un corpo. Né uno zio pazzo. Era solo un metro e settantotto di barba.
Vedevo da lontano il pomeriggio terminare attraverso una bottiglia di grappa di pere. La bottiglia, che appena tolta dal freezer aveva incrostazioni di gelo, ora era tornata di vetro. Le pennellate di ghiaccio si erano sciolte in una natura morta: bottiglia con pere. Non avevo pitoccato la bottiglia da quando i vecchi se ne erano andati. Il tempo era passato e io, che non mi ero mosso dalla bergère, in realtà mi ero avventurato altrove, in una regione a me ben nota, che aveva per confini euforia e depressione. Mi ero imbambolato a guardare il ghiaccio mentre si scioglieva. Il vetro della bottiglia era ormai libero. La bottiglia era diventata una dessidra: al posto della sabbia, grappa.
Il cane di Jordy si era addormentato ai miei piedi.
No, non dormiva, aveva gli occhi aperti. Forse pensava alla stessa serie di nomi in ordine sparso e intercambiabile a cui stavo pensando io. Piccioni, Jordy, Pogliaghi, mostro. Bontà, Angiolotta, Jordy, piccioni, Pogliaghi.
Bontà. Mostro. Pogliaghi. Mi fermai a Pogliaghi. Non volevo correre il rischio di fermare il mio pensiero, e forse quello del cane sotto la poltrona, alla parola mostro.
Tra poco, probabilmente, avremmo incontrato il mostro. Fortunatamente il cane non aveva la museruola.
Lo guardai, ormai placido e con lo sguardo appannato e gli dissi ad alta voce: "Hai ringhiato tutta la mattina.
Adesso, tra poco, quando sarà il momento di ringhiare, non vorrei che ti addormentassi lasciandomi solo".
La presenza dei vecchi era ancora percettibile nella stanza. Non solo, ma l'annuncio dell'arrivo della bambina aveva aggiunto al locale un altro inquilino. La sua imminenza era intollerabile. Cercai di tirarmi su il morale da solo. Branka: a me soltanto poteva capitare un mostro con un nome da fernet. Niente da fare, il mio umore non migliorava. Mi ero appena ripreso da un'abulia di grappa di pere e ora mi trovavo alle soglie di un incubo e, quel che è peggio, tra poco, un incubo alla soglia.
Jordy. Chiamare Jordy. "Pronto? Sono Lazzaro Sant'Andrea, c'è Jordy per favore?"
"Quién habla? Yo no soy Jordy. Jordy no esta aqui."
"Mierda," risposi e agganciai.
Dov'era finita Jordy ora che avevo bisogno di lei? Certo, non l'avevo mai vista, ma se è per questo non avevo visto neppure Branka. Ecco, Jordy era l'antitesi di Branka.
Nella mia regione tra euforia e depressione, due nuovi confini erano stati tracciati: Jordy e Branka. Ma Jordy non c'era e Branka, invece, tra poco sarebbe stata lì. Che voglia di andare via. Di chiamare un taxi. Taxi.
Certo, taxi uguale Pogliaghi. Lui che mi credeva ancora un eroe, quello della sua movimentata adolescenza, mi avrebbe convinto del mio coraggio. Composi il numero che da quattordici anni sapevo a memoria, sperando che non rispondesse sua madre. "Pronto, sono Lazzaro Sant'Andrea. C'è Pogliaghi per favore?"
"Pogliaghi no esta aqui. Quién habla?"
"Una que te dice: vete a tomar por culo." Riagganciai. Sovrappensiero, invece di chiamare Pogo il dritto, il mio Duilio Pogliaghi, avevo ricomposto il numero di Jordy e mi aveva risposto di nuovo quell'accidente di filippina o quel cavolo che era.
Sollevai ancora la cornetta, formai il numero: "Pronto", mi rispose la voce inconfondibile di Pogliaghi. "Pogo, sono Lazzaro. Senti, stasera verso le dieci, fai un salto a casa mia. Ricordiamo i vecchi tempi."
"Cazzo, Lazzaro, stasera non posso. Anzi, va be', sì, posso.
Ci vediamo dopo." Pogliaghi sapeva quel che voleva.
Qualcosa squillò. Non poteva essere il telefono perché stavo parlando con Pogliaghi. Doveva essere il citofono.
Stava arrivando. "Pronto Lazzaro, ci sei..."
"Sì, ci sono, scusa è il citofono. Aspetto visite."
"Una trifola?"
"No, mangime per piccioni. A dopo." Il cane di Jordy, dovevo decidermi a trovargli un nome provvisorio, si riscosse dal torpore ma non ringhiò. Si mise a uggiolare, una specie di lamento rivolto al vuoto. E al citofono. Stava arrivando. Non chiesi chi è, lo sapevo già. Aprii con un indice il portone da basso e iniziai ad aspettare. Non ci volle molto. Avevo lasciato la porta dell'appartamento aperta. Mi aspettavo che arrivassero in tre: Branka accompagnata da due grossi genitori ingobbiti da responsabilità genetiche.
Arrivò da sola. Si stagliò sulla porta vestita come un'angiolotta d'oro, il cappotto lungo le braccia, una gonnellina rosa. I calzettoni ricamati con dei cuoricini anch'essi rosa, come a dire che i cuori sono rossi solo per gli adulti. Un grembiulino bianco un po' pasticciato con colori di ignota provenienza, ma sempre colori tenui che ancora dovevano crescere. Mi ero chiesto, nell'attesa che il suo ascensore arrivasse al pianerottolo, che viso potesse avere un mostro che aveva vinto un premio di bontà. Me l'ero immaginata bellissima, quasi troppo, per cui la sua bellezza sarebbe stata un insulto.
Non avevo dato un colore ai suoi capelli e ai suoi occhi.
Avevo solo immaginato la loro luminosità. Ma una luminosità che da solare diveniva il fuoco di un incendio appiccato da un piromane. Poi, una volta spentosi, l'incendio avrebbe lasciato a ricordarlo solo i corpi carbonizzati delle vittime e sarebbe stato sostituito dalla vera luce della bambina: né quella del sole, né quella del fuoco. Sarebbe rimasta la luce artificiale di un neon impazzito da megadiscoteca. Solo che la discoteca sarebbe stata deserta, eccetto i corpi carbonizzati che non ballavano più. Ma il neon avrebbe continuato a lampeggiare.
Me l'ero aspettata così. Già, Milano è una città di pazzi e di cani. Mi ero sbagliato di grosso. Non era un neon. Era abbigliata come una bambinetta leziosa, quella a cui tiri le trecce per farti notare. E aveva infatti treccine vivacizzate da fermagli a forma di pupazzetti.
Non era un tragico neon, oh no, magari. Era una bambina.
La bambina aveva sessant'anni.
"Ciao signore." Aveva una vocetta stridula e grottesca.
La voce di un comico fallito che quando racconta una barzelletta vecchia quanto lui, per illudersi di essere un attore "fa le voci" di tutti i personaggi della stonella. Dilatandola, rendendola più patetica. Un suicidio commesso con crudeltà.
Ero diventato di ghiaccio. Il ghiaccio sciolto della bottiglia di grappa di pere si era ricreato addosso a me.
"Ciao signore," ripeté in attesa di una mia risposta. Era meno alta e meno possente dei genitori. Magra, ossuta, slavata, con i capelli nerissimi probabilmente tinti. Se c'era una bellezza su quel volto, se n'era andata insieme alla bontà, diluita negli occhi azzurri come sciacquatura di detersivo.
"Ciao Branka. Io mi chiamo Lazzaro, cioè... Totem."
"E il cane come si chiama?" chiese Branka distogliendo fortunatamente lo sguardo da me e abbassandolo sul cane ex ringhioso accucciato ai miei piedi. Esitai.
"Eilcanecomesichiama?" Lo ripeté così, tutto attaccato, come se si fosse trattato di uno scioglilingua. Poi, improvvisamente, trovando più divertente ciò che aveva appena detto, scoppiò in una risata acuta.
"Non ha ancora un nome. Tu quanti anni hai, Branka?" Assunse un'espressione pensosa, poi iniziò a contare gli anni che aveva, indugiando, come se non li ricordasse bene, su ogni dito: "uuuno, duuue, treee, quaattro..
Per arrivare a sessanta ci avrebbe messo almeno tre quarti d'ora.
Così la interruppi: "I tuoi genitori mi dicono che fai cose molto, molto brutte..."
"Comesichiamailcane?"
"Che tiri sassi ai bambini e che fai male agli animali..."
"Comesichiamailcane?"
"Jordy. Ti piace?"
"Posso accarezzarlo?"
"No."
"Posso dargli una polpetta?"
"Come mai giri con in tasca delle polpette?"
"Le dò agli animali. Ne vuoi una?" Mi piacevano molto le polpette, ma pensai ai piccioni stecchiti a centinaia e rifiutai.
"No grazie. Chi prepara le polpette?"
"Io. Sono molto brava sai. Le preparo tutte da sola e poi le dò agli animali."
"E agli animali piacciono?"
"All'inizio sì, poi non pie..." ridacchiò soddisfatta.
"... hanno mal di pancia quegli ingordi. Si rotolano per terra con la bua. Resto lì a guardarli finché si muovono. É meglio che la tivù. Poi quando non si muovono più vado via."
"E cosa ci metti nelle polpette?"
" É un segreto. Te lo dico se ne assaggi una. Assaggiala assaggiala assaggiala assaggiala..." Mi versai un dito di grappa di pere.
"Sei un ubriacone?" chiese con una voce tutta miele.
Io detesto il miele.
"Senti Branka. É vero che hai vinto un premio di bontà? Chi te l'ha dato? É vero oppure è una bugia?"
" É vero, è vero, è vero, è vero, è vero... Vuoi una polpetta.., aspetta, ti faccio vedere." Cavò dalla tasca del grembiule una medaglia rotonda che cinquant'anni prima doveva essere stata dorata e me la porse. Lessi ad alta voce: "Angiolotta d'oro. I bimbi buoni 1939".
I suoi genitori non mi avevano mentito, non del tutto: Branka aveva sì vinto un premio di bontà, ma negli anni trenta. In cinquant'anni aveva avuto il tempo di trasformarsi in un'autentica carogna. Ovviamente era pazza. Ma pazzi erano di sicuro anche i suoi genitori. Il nobile Alioscia e l'ignobile Nives. Loro, che da quando la bambina era piccola, avevano coltivato la sua e la loro follia. Da cinquant'anni la trattavano come una bambina di dieci appena compiuti.
L'assurdo era che nel micromondo - la stanza di mia nonna in cui io, Alioscia, Nives e Branka ci eravamo incontrati - loro avevano ragione e io avevo torto.
Se su quattro persone in una stanza, tre sostengono la stessa follia, il quarto, anche se dice la verità, è numericamente inferiore. Emarginato. Ha torto. Per questo sostengo da quando sono nato che "non conta la quantità, conta la qualità". Se, comunque, avessi detto ad Alioscia e a Nives: "Vostra figlia ha sessant'anni", mi avrebbero risposto: "Lei è completamente pazzo".
E avrebbero avuto ragione. Cercavo una storia? L'avevo trovata. Il titolo avrebbe potuto essere Il brutto della democrazia. In quella stanza ero un emarginato. Fuori, per fortuna, c'era via Washington e il resto del mondo.
Fuori, sulla strada, avrei avuto ragione io. Sentii il bisogno impellente di uscire di lì, di portare fuori il cane di Jordy a fare pipì. Invece rimasi, affascinato dal male, dalla follia e dalla loro perversa verità.
"Senti Branka, dammi una polpetta." Fece per mettersi una mano in tasca, poi un'espressione "furbetta" illuminò il suo viso scialbo e ci ripensò: "Te la dò, se mi prometti di mangiarla subito!" Non ebbi difficoltà a prometterlo. Tanto, non avevo mai mantenuto una promessa in vita mia. Contavo di far analizzare chimicamente la polpetta da qualcuno e poi, se fosse stata avvelenata, avrei chiamato uno psichiatra, un vero psichiatra e l'equivalente del commissario Maigret della protezione degli animali. Forse anche un vero poliziotto. Branka, in fondo, ora voleva avvelenare anche me.
"Non mi fido signore, fai giurin giuretta."
"Giurin giuretta."
"Tieni. La polpetta mangiala in un boccone. Gnam gnam." Afferrai la polpetta mentre Branka, velocissima, si riprendeva la sua medaglia d'oro di bontà che avevo lasciato sulla scrivania vicino alla bottiglia di grappa di pere. Altrettanto velocemente aprii un cassetto e ci lasciai scivolare dentro la polpetta.
"Bugiardo, bugiardo," gridò Branka e mi saltò al collo.
Aveva dita forti ed era insospettabilmente robusta.
Così, infischiandomene del fatto che non bisogna picchiare i bambini perché non è educativo, né far valere la propria forza sulle persone vicine a una "certa età", le infilai una gomitata all'altezza del fegato. Si accasciò al suolo iniziando a tossire e a sputacchiare. Il cane, rincuorato, le addentò il grembiulino. Mi rialzai massaggiandomi la gola poi, vedendo che non si rialzava, mi accostai a lei preoccupato. Rialzò la testa di colpo e tentò di mordermi lo scroto. Le tirai una ginocchiata al mento facendole battere i denti a vuoto.
Se aveva un pregio, consisteva nel fatto di essere una buona incassatrice. Afferrò un candelabro d'argento e si buttò alla carica. Il cane iniziò ad abbaiare. Schivai e le feci uno sgambetto per cui rovinò oltre me, nella camera da letto di mia nonna. Non feci in tempo a girarmi che chiuse dietro di sé la porta. Rimasi immobile aspettando una sua reazione. Il silenzio. Nessuna reazione.
Probabilmente aspettava, nascosta di là in qualche parte, che io facessi la prima mossa, che entrassi per poi aggredirmi.
Il cane era agitatissimo. Avrei potuto chiamare la portinaia per farmi aiutare. Bella fine per un ex eroe farsi aiutare da una portinaia. Cosa avrebbe detto Pogliaghi se l'avesse saputo? No. Dovevo cavarmela da solo.
Aprii la maniglia con un piede. La porta era aperta.
La stanza buia. L'interruttore della luce, maledizione, era all'interno della stanza. E Branka aveva il grande vantaggio di essersi abituata al buio come i gatti. Come i gatti! Stavo pensando di lanciarle dentro il cane di Jordy. Poi ebbi un sussulto di dignità e mi lanciai nella stanza con un urlo di guerra giapponese.
Mi beccai il candelabro sulla spalla e volai sul letto matrimoniale che mia nonna aveva comperato, forse, per via del sesso della terza età. Branka mi fu addosso.
Le sparai un cazzotto alla cieca e finalmente si placò.
Mi rialzai e corsi ad accendere la luce. Quando mi girai non era più lì. Era sparita. Forse dietro a una tenda?
No. Scostai la tenda ma non c'era. Si era infilata sotto al letto. Da lì, infatti, provenne la sua voce. Il letto parlante.
Ansimava. Il letto parlante ansimava soffocato dai cuscini. Stavo impazzendo anch'io.
"Non sono cattiva io. Ero tanto buona. Buona, brava e ubbidiente."
"E che mangi tanta pappa," pensai. Mia madre infatti, quando ero piccolo, prima di darmi il bacio della buona notte mi faceva recitare a guisa di preghierina: "Caro Gesù, fammi crescere buono, bravo, ubbidiente e che mangi tanta pappa". Non ero cresciuto né buono, né bravo, né ubbidiente. In compenso avevo mangiato tanta pappa, ma soprattutto avevo bevuto un sacco di birra. Che ora stavo per vomitare sul letto di mia nonna, colto da un accesso di tosse nervosa.
Il letto riprese la sua litania: "Non sono cattiva. Sono buona buona buona. Solo che papà e mamma sono un po' suonati".
"Senti chi parla," risposi ormai definitivamente infantilizzato.
"Chi lo dice sa di esserlo," ribadì lei in perfetto stile bambinetta.
"Okay. Vieni fuori e parliamone. Giuro che non ti picchio.' "Bugiardo. Fai giurin giuretta."
"Giurin giuretta."
"Senti, esco e ti racconto una cosa se mi prometti che non mi farai del male."
"Guarda che hai cominciato tu. Comunque, se ci tieni, giurin giuretta." Uscì. Sgattaiolò fuori, mi scrutò con diffidenza. Poi riprese a parlare: "Non sono cattiva. Non sono tanto cattiva. Uccido solo gli animali. Tanto poi vanno in paradiso".
"Be', è questa la verità che mi dovevi raccontare? Io la sapevo già."
"No, è un'altra cosa. Ma questa volta non è stata colpa mia. Vedi, io non dormo tanto di notte. Sto sveglia e allora vado in giro. Stanotte, una volta smesso di piovere, sono andata in un posto dove avevo visto un cane che..."
"Volevi mandare in paradiso."
"Sì, lo avevo curato da un pezzo. Sapevo dove andava a fare pipì. Così gli ho preparato una polpetta con dentro un po' di veleno, non tanto però, lo giuro, giurin giuretta. Ho preso una pagina di giornale e l'ho distesa sull'erba e ci ho appoggiato sopra la polpetta per essere sicura che il cane se ne accorgesse in mezzo a tutta l'erba. Sono rimasta lì ad aspettare. Solo che il cane non arrivava. É arrivato un signore tutto sporco. Lui si è accorto subito della polpetta, si è inginocchiato, l'ha annusata, poi se l'è mangiata in un boccone. Io ero lì a guardare, volevo avvertirlo, ma, sai... la mamma mi ha detto di non rivolgere mai la parola agli sconosciuti, così sono stata zitta. Dopo poco tempo è caduto con la faccia sulla pagina del giornale e non si è più mosso." Oh cristo, l'aveva avvelenato.
"... Non volevo mandarlo in paradiso. Non l'ho fatto apposta. Giura che non lo dici a quelli del Premio di bontà. Non voglio che la signora Angiolotta mi tolga la medaglia di bambina più buona dell'anno." Scoppiò a piangere.
"D'accordo Branka, non dico niente a quelli del Premio di bontà. Però permetti che ti aiuti. Chiamo un signore e ti faccio parlare con lui."
"D'accordo," disse la vecchia bambina.
Mi si avvicinò sempre in lacrimoni. Stavo pensando a chi chiedere aiuto. A un poliziotto? Era un'assassina.
A uno psichiatra? Era pazza. A Babbo Natale? Era una bambina. Branka imparava molto in fretta: mi colpì con una ginocchiata ai testicoli e mentre mi piegavo in due, corse via. Fuori dalla stanza di mia nonna. Fuori dalla casa di mia nonna. Fuori. Dove c'erano cani e barboni.
Milano è una città di pazzi, di cani e di barboni.
E io ero lì, accasciato al suolo col cane di Jordy che mi leccava la faccia.