11
Quando andai ad aprire la porta, fui subito assalita dal senso di colpa: mi ero completamente scordata di lei. È il solito problema delle relazioni amorose non istituzionalizzate: nessuno le prende sul serio. E tuttavia, avrei potuto affermare con ogni certezza che l'agente Palafolls, ovunque si trovasse, avrebbe pensato più a lei che ai genitori, ai fratelli o a qualunque altra persona cara. Ma le cose stavano così, non l'avevo nemmeno chiamata per informarla sull'andamento delle indagini, e adesso era troppo tardi per rimettere le cose a posto. Eccola davanti a me, pallida, seria, con gli occhi vitrei. Impaurita come se avesse appena visto un folletto.
«Ciao, Julieta! Come stai?»
La invitai a entrare. La condussi in cucina e misi su il caffè. Cominciai a tergiversare con inutili divagazioni. Tutto andava bene, perfettamente bene. Fra pochissimo avremmo trovato Palafolls, mentii. Lei se ne stava zitta, come se non mi ascoltasse. Aveva un'aria esanime e i capelli in disordine. Senza dubbio non aveva dormito o aveva dormito poco e male. Posai le due tazze fumanti sul tavolo e mi sedetti davanti a lei con un sorriso forzato. Prima che potessi continuare con la mia stupida logorrea consolatoria, Julieta disse:
«Un tipo ha chiamato a casa mia».
«Come dici?» domandai, tesa.
«Ha detto che Palafolls è nelle sue mani e che...»
La fermai di colpo.
Raccontami tutto dall'inizio, Julieta, e vai piano, non dimenticare niente, per favore».
«Ieri telefona uno, e chiede di me alla mia compagna d'appartamento».
«Aveva un accento straniero?»
«Sì. Ha detto che dovevo metterlo in contatto con lei, se volevo rivedere vivo Miguel».
«In contatto con me? E ti ha detto cosa voleva?»
«Solo parlare. Ma se lei va a dire alla polizia che vi incontrerete, Miguel morirà».
«E dove dovremmo incontrarci?»
«Non lo so. Mi richiamerà per dirmelo. Ha detto anche che sarebbe stato inutile cercare di localizzare la sua chiamata perché tanto non servirà».
«Che altro ti ha detto?»
«Nient'altro».
«Bene, Julieta, quel che devi fare adesso è tornare a casa tua e aspettare. Quando quell'uomo ti cercherà di nuovo, chiamami al cellulare».
«Lo dirà a qualcuno?»
«No».
«Come faccio a esserne sicura?»
«Ti do la mia parola. Sai che non voglio mettere a repentaglio la vita di Miguel».
La presi per le spalle cercando di tranquillizzarla, ma lei sembrava tranquilla, come se non provasse angoscia, come se quel cumulo di emozioni le avesse prodotto una specie di imbambolamento.
La vidi andar via, camminava come se portasse un gran peso sulle spalle. Aveva appena scoperto che innamorarsi di un poliziotto può avere conseguenze imprevedibili e pericolose. Forse non ce l'avrebbe fatta a sopportarlo.
Mi versai un whisky e cercai di riflettere. Certo, avrei dovuto immaginarlo, se qualcuno doveva rivendicare il rapimento o porre delle condizioni l'avrebbe fatto attraverso Julieta. Probabilmente era stato lo stesso Palafolls a indicare lei come intermediaria. Cominciai a sentirmi assalita dai dubbi. Dovevo dare l'allarme in commissariato? Se davvero il russo voleva soltanto parlarmi, avrei fatto meglio a non tirar dentro nessun altro. Poi, una volta saputo quali fossero le sue richieste, forse avrei potuto mettere al corrente gli altri. E Garzón? Dovevo dirlo a Garzón? Garzón avrebbe potuto essermi d'aiuto, stare all'erta nel caso mi fosse successo qualcosa, accompagnarmi e rimanere nelle vicinanze del luogo dell'appuntamento... Ma sarebbe stato capace di tenere la bocca chiusa? Sarebbe rimasto tranquillamente ad aspettare mentre io incontravo Ivanov? Più di ogni altra cosa temevo l'istinto protettivo che scattava in lui nei momenti più impensati. No, non mi avrebbe lasciata in pace, non si sarebbe accontentato della parte secondaria che gli avrei assegnato. Avrebbe avuto da ridire, si sarebbe scandalizzato per i rischi che potevo correre, avrebbe elaborato piani alternativi per raggirare il russo... Di certo avrebbe messo in pericolo la riuscita dell'operazione. Decisi di non dirgli niente. Fin dall'inizio ero stata chiamata in causa in prima persona, ed ero io a dover chiudere la cosa.
Passai la giornata muovendomi come un automa, con la mente assente e l'orecchio al cellulare. Continuammo a esaminare possibilità e a vagliare le telefonate che arrivavano senza posa, sempre più assurde, anche se quella che aspettavamo non venne.
Alle otto andammo a cena all'Efemérides. Pensai che sarebbe stato un buon modo per allentare la tensione, ma mi sbagliavo, peggiorò le cose. Pepe volle sapere cosa mi avesse tenuta lontano dal suo locale negli ultimi tempi. Evidentemente era convinto che il nostro riavvicinamento sarebbe sfociato in qualcosa di concreto. Tutto per colpa mia, naturalmente: ero stata poco chiara. Uno dovrebbe uscire da casa ogni mattina fresco di psicanalista, pienamente consapevole di quello che prova, e soprattutto deciso a non coinvolgere nessuno nelle proprie insicurezze. Cercai di stare un momento da sola col mio ex marito. I suoi occhi divertiti mi dissero chiaramente che era pronto a un nuovo incontro, per quanto fugace. Gli sorrisi e, senza aspettare che parlasse, gli chiesi:
«Pepe, ma tu pensi che sia una buona idea tornare indietro?»
Capii che qualcosa era cambiato dall'ultima volta che ci eravamo visti. Sospirò con rassegnazione.
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio solo conoscere la tua opinione su quel fragile rifugio che è il passato».
Fece una faccia scocciata.
«Petra, non mi è mai piaciuto filosofare su di noi, anche quando eravamo sposati, e in questo non sono cambiato».
«Hai sempre pensato che la filosofia meritasse argomenti più importanti, vero?»
«E ce ne sarebbero da vendere».
Scoppiai a ridere, e lui assentì con un sorriso.
«Capisco, non preoccuparti», disse, e allontanandosi alzò la voce per aggiungere: «Ordina quello che vuoi, offre la casa».
Povero Pepe, aveva perfettamente ragione. Non era tenuto a dare spiegazioni per qualcosa che in fin dei conti non era successo. Anche se in realtà, e la cosa mi pesava, ogni volta che mi avvicinavo a Pepe, era sempre lui a uscirne perdente. Non ci avrei provato mai più. Soprattutto perché non sempre avrei potuto contare su un bel principe russo per respingere ogni tentazione. Raggiunsi Garzón, che stava chiacchierando al banco con Hamed, ma all'improvviso il suono del cellulare mi fece trasalire. Mi fermai sui miei passi e risposi.
«Signora Delicado?»
Nessuno, tranne Julieta, mi chiamava così.
«Julieta?»
«Ci siamo sentiti. Devo accompagnarla io».
«Ma... è impossibile, adesso...»
«Bisogna fare esattamente così. La aspetto a casa sua fra un'ora», disse seccamente, e mise giù. Garzón era rimasto a guardarmi mentre parlavo e, come era logico, domandò:
«Qualche novità, ispettore?»
«No, niente, devo andare a prendere una mia amica. Arriva adesso da Madrid e non ha potuto avvertirmi prima. Mi dispiace, ci vediamo domani».
Ebbi la sensazione che non mi credesse, ma salutai e me ne andai senza aggiungere niente. Non vedevo perché dovessi giustificarmi, e lui non aveva motivo di sospettare.
Per fortuna non avevo mai sottovalutato l'intelligenza di Ivanov. Facendo in modo che mi accompagnasse Julieta, si cautelava contro la possibilità di un tradimento da parte mia, e nel caso gli avessi preparato un'imboscata, la presenza della ragazza avrebbe allontanato il rischio di una sparatoria. Non so cosa ne pensasse lei, ma il suo aspetto mi sconvolse quando le aprii. Era pallida, tesa, spettrale. Si vedeva che stava malissimo, era spaventata, ma ogni sforzo di rincuorarla sarebbe servito a poco.
«Quando vuole, andiamo», fu l'unica cosa che disse.
Rinunciai a ogni tentativo di farmi rivelare l'indirizzo a cui dovevamo dirigerci. Ivanov ci guidava come bestie al mattatoio, e a noi non restava altra scelta che la docilità. Era lui a controllare la situazione. Vidi che Julieta era venuta con la sua macchina, un'Ibiza piuttosto scassata. Non ebbe dubbi lungo il percorso: supposi che l'avesse già provato prima per evitare errori nel momento cruciale. Con sorpresa, vidi che si addentrava nella parte più degradata del mio quartiere, quella che non era ancora stata oggetto di risistemazione urbanistica. Prese calle Badajoz, dove a quell'ora le enormi saracinesche dei magazzini erano chiuse. Non c'era un'anima. Verso il fondo della strada si vedeva un edificio in costruzione. Ci avvicinammo, e la ragazza fermò la macchina proprio all'angolo.
«Secondo le istruzioni di quell'uomo, io devo restare qui, e aspettarla in macchina finché non avrete finito. Lei deve entrare nel cantiere». Indicò con gli occhi una sgangherata porticina metallica semiaperta che dava accesso al recinto. Mi stupì che non dovesse venire con me: ero convinta che Ivanov intendesse farsene scudo.
Mi inoltrai in quel luogo inospitale. Vedevo appena dove mettevo i piedi. Al terzo passo che feci incespicai in qualcosa di duro, un calcinaccio o un mattone. Temetti di perdere l'equilibrio e cadere. Avanzai ancora un po', a tentoni.
«C'è qualcuno qui?» gridai. La poca luce della strada non arrivava fin lì. Mi muovevo nel buio più assoluto. Mi balenò nella mente l'idea che quell'appuntamento non fosse altro che una trappola. Palafolls era morto e il russo voleva solo sbarazzarsi di me. Portai la mano alla tasca e palpai i tranquillizzanti contorni della pistola. Per sottrarmi al panico, cercai di riflettere. Perché Ivanov avrebbe voluto vedermi morta? Un poliziotto è sempre sostituibile con un altro poliziotto. Tornai a gridare:
«C'è nessuno?»
Allora sentii una presenza dietro di me, vicinissima,sentii quasi il suo respiro sulla pelle. Mi voltai bruscamente e distinsi gli occhi verdi di Ivanov, luminescenti nelle tenebre come quelli di un gatto.
«Buonasera Petra, come sta?» mi salutò con un tono avvolgente e musicale.
«La vedo appena, non possiamo parlare qui».
Il soffio della sua sommessa risata mi turbò. «Andiamo, ispettore, non sia esigente: di fatto, non è nelle condizioni di esigere niente».
I miei occhi si stavano abituando alla penombra e i tratti enigmatici del russo mi si svelavano a poco a poco.
«L'ho fatta venire perché vorrei stringere un accordo con lei».
«È lei ad avere in mano l'agente Palafolls?»
Assentì lentamente.
«Sì: il suo giovane poliziotto è con me e nessuno potrà trovarlo se non io».
«Come posso sapere se è vivo?»
«In questa busta c'è una foto Polaroid del ragazzo, col giornale di stamattina. La guardi quando uscirà di qui».
«E allora...?»
Mi interruppe, avvicinandosi così tanto che le nostre facce si toccavano.
«Silenzio, cara amica. Per favore, la smetta di fare domande. Io qui sto rischiando grosso. Le parlerò, lei ascolti soltanto».
La sua voce era avvolgente, melodica, palpitante come un cuore vivo, e i suoi occhi non cessavano di guardare fisso nei miei. Le ciglia, che attenuavano quella loro strana luminescenza, si alzavano e si abbassavano ritmicamente.
«Io le consegnerò il suo collega, ma voi dovete aiutarmi a uscire dal paese. Voglio due biglietti per Santo Domingo. Domani c'è un volo alle undici. Porterò con me Palafolls all'aeroporto. Lei venga con una scorta di agenti in divisa. Prima dell'imbarco lei mi darà i biglietti e io consegnerò il poliziotto. Non cercate di far niente o qualcuno morirà, sono armato».
«A nome di chi dovrà essere il secondo biglietto?»
«A nome di mia moglie, Natala Ivanovna. E non dimentichi che la presenza della polizia deve essere ben visibile».
«Di chi ha paura, Ivanov?»
«Ah, Petra, la paura... la paura che ci trascina e ci sospinge, che ci attanaglia impedendoci di agire...! La paura in cui siamo nati, che ci distoglie dalla via della liberazione...! Ma io insegno agli uomini che non bisogna temere. Basta allontanare da noi l'occasione del peccato, e poi non avremo più niente da temere...»
Bisbigliava ipnoticamente. Mi posò le dita sulle tempie e le premette piano, erano fredde come pezzi di ghiaccio. Sentii un profondo sopore, una confusione dei sensi. Sentii le braccia e le gambe che cedevano, non potevo reagire.
«La vita non è che un concatenarsi di paure», continuò, «alcune acquisite, altre ereditate... ma l'uomo è un essere forte e coraggioso, mia cara Petra, e la purificazione giungerà a renderlo onnipotente».
Scossi la testa cercando di tornare in me, ma l'influsso di quella presenza era fortissimo, come se la sua voce mi cullasse e annullasse la mia volontà.
«Faccia quello che le dico, Petra, e tutto andrà per il suo verso. Io scomparirò, dopo aver gettato il seme della purezza, che un giorno germinerà. Lei non mi vedrà mai più, ma io continuerò la mia missione in altre terre, molto lontano da qui...»
La dolce cantilena suonava sempre più lontana, ma non ero in grado di capire se fosse il mio udito a indebolirsi o se invece Ivanov si stesse allontanando. Non lo sentii più, o così mi parve. La mia coscienza lottava per aprirsi un varco in quella specie di sonno indotto. Mi sedetti per terra. Formai con le mani una piccola conca di fronte alla mia bocca e respirai il mio stesso biossido di carbonio. Molto lentamente cominciai a reagire, a sentire il sangue che mi correva nelle vene, formicolante. Mi alzai, cercai l'uscita. All'improvviso, temetti che nel mio stato di semincoscienza mi fosse stata sottratta la pistola; portai la mano alla tasca, ma era ancora lì. Sbucai sull'angolo della strada. Non c'era più traccia né di Julieta né della sua macchina. Camminai per le ampie strade deserte fino a Pedro IV, una delle arterie principali. Aspettai con la vista fissa sul flusso del traffico. Fermai un taxi. Vi salii.
Durante il tragitto verso casa ripensavo ossessivamente a quanto mi era accaduto: ipnosi, autosuggestione, influsso satanico? Ognuna di queste possibilità ripugnava alla mia mente razionale. Decisi di lasciare in sospeso qualunque tentativo di definizione. La prima cosa da fare era prendere delle decisioni. Uno: ordinare un sopralluogo nell'edificio in costruzione.
Due: verificare dove fosse finita Julieta. Poteva essere stata presa in ostaggio anche lei. Mi faceva male la testa. Era stato tutto così strano, troppo strano. Appena arrivai a casa feci il numero della ragazza. La sua compagna d'appartamento mi disse che era appena andata a dormire.
«Stava bene?» domandai.
«Sì, vuole che gliela chiami?»
«No, lascia stare. La cercherò domani».
Il mattino dopo, in commissariato, mi aspettava un bel numero di fuochi artificiali. Il resoconto del mio colloquio con Ivanov mandò in bestia Coronas, e Garzón naturalmente lo assecondò. Ero stata un'incosciente e avevo infranto tutte le norme di sicurezza. Molto bene, ma a parte questo, cosa pensavano di fare? Perché non si stancavano mai di proteggermi? Immaginai che lo considerassero un dovere, e quindi li ascoltai con pazienza. Quando finì la fase dei rimproveri «per il mio bene», dissi che avevo delle telefonate da fare e scappai nel mio ufficio. Avevo lasciato la foto Polaroid di Palafolls sul tavolo del commissario. Telefonai di nuovo a Julieta. Non rispose nessuno.
Andai nell'ufficio di Garzón. Strano che la ragazza non mi avesse cercata dopo l'incontro per la liberazione del suo fidanzato. Forse era troppo sconvolta. O forse, questa possibilità mi spaventò, aveva al suo fianco Ivanov con una pistola puntata. Ma niente di tutto questo mi convinceva. Anche se... Rimasi un attimo soprappensiero. Un'ondata di piccoli particolari cominciò a farsi spazio nella mia memoria. Mi fermai sui miei passi. Fissai il pavimento con un'intensità da demente, e subito dopo mi diressi verso l'ufficio in cui Marqués rispondeva alle chiamate. Non appena mi vide, l'agente abbandonò il telefono e mi guardò con occhi esausti.
«Nessuna novità interessante, ispettore. Hanno chiamato da...»
«Non è questo che voglio sapere, Marqués. Mi ascolti e ci pensi bene prima di rispondere. Fu lei ad avvertire Julieta che Palafolls era scomparso?»
Negò più volte con la testa, frugando nei ricordi. Alla fine disse:
«No, io non l'avvertii».
«E allora, chi lo fece?»
«Non ne ho idea, ispettore».
Uscii dalla stanza e Marqués mi segui. Trovammo Garzón e Coronas nel corridoio. Nemmeno loro avevano informato Julieta del sequestro. Di fatto, nessuno l'aveva avvertita. Volevano mantenere il segreto? No, semplicemente a nessuno era venuto in mente di chiamarla. E tuttavia Julieta si era presentata alla mia porta piangendo la triste sorte del suo ragazzo. Aveva poteri paranormali? Ordinai che andassero a cercarla e la portassero immediatamente in commissariato, anche se avrei scommesso qualunque cosa che non sarebbero riusciti a rintracciarla. Ma non ebbi neanche il tempo di pensarci: Coronas mi voleva subito nel suo ufficio. Era su tutte le furie.
«I suoi metodi sono sempre meno ortodossi, Petra, e io non glielo posso permettere».
«Questo caso mi riguarda personalmente, commissario».
«Fa lo stesso. Lei non è che una rotella dell'ingranaggio, esattamente come me».
«Lo so, commissario».
«Lo sa, però se ne frega. Accetta un appuntamento col principale sospetto del caso, scende a patti con lui...»
«Io non sono scesa a nessun patto. Era in gioco la vita di Palafolls, e lo è ancora. Cosa pensa di fare, commissario, riguardo a quello che lei chiama "patto"»?
«È evidente che quel tipo teme i suoi complici di Mosca».
«Si tratta di un uomo intelligente. Secondo il suo piano, noi gli garantiremo protezione. Ci darà Palafolls, ma continuerà a tenere in ostaggio Julieta: il secondo biglietto è per lei. La porterà con sé».
«Con la forza?»
«Non sappiamo da quanto tempo la costringe ad agire per lui».
«Ivanov sapeva perfettamente che la mafia sarebbe venuta a cercarlo. Quella è gente che non perdona. Forse i suoi piani erano pronti da tempo».
«Qualcuno ha rintracciato i due uomini di Esvrilenko?»
«No, se sono arrivati, hanno saputo nascondersi bene».
«Vale a dire, commissario, che alla fine saremo costretti a far fuggire proprio l'uomo che cercavamo».
«Se non c'è altro mezzo per liberare Palafolls...»
«Esiste un accordo di estradizione con Santo Domingo?»
«O forse potremmo avvertire il comandante dell'aereo...» Sorrise.
«Lei ce l'ha con quel russo, vero, Petra?»
«Non mi piacerebbe che continuasse la sua opera purificatrice da qualche altra parte. Sono sicura che lo farà. Cercherà l'aiuto di qualche altra organizzazione criminale che lo accolga e lo protegga, e riprenderà la sua missione spirituale».
«So che tutta questa storia ha pesato direttamente su di lei. E lei si è comportata bene. Anzi, benissimo. Ma la prego di calmarsi. Non possiamo rovinare tutto proprio adesso».
«Nossignore», dissi, e inghiottii la mia amarezza.
Naturalmente, Julieta era irreperibile. La sera prima la sua compagna d'appartamento mi aveva mentito. Era stata Julieta a pregarla di dirmi che dormiva, se avessi chiamato. Avevo preso un granchio spaventoso. Tutto era accaduto sotto il mio naso senza che io sospettassi di niente.
Un'ora più tardi i biglietti per il volo erano già sulla scrivania di Coronas. Questi dispose una scorta assai vistosa, proprio come Ivanov aveva chiesto. Capii che non c'era niente da fare, il russo sarebbe scappato. Quel caso non si sarebbe mai potuto considerare chiuso. Provavo un senso di frustrazione tremendo. Non avevo mai considerato quella situazione come una partita a scacchi, ma adesso capivo che Ivanov aveva vinto con una mossa da maestro. La mia sensazione di impotenza avrebbe raggiunto il culmine quando lui fosse salito a bordo di quell'aereo. Non potevamo farci niente. Coronas non intendeva rischiare, non ci dovevano essere altri morti. Mancava un ordine di cattura internazionale, quindi l'Interpol non sarebbe intervenuta, e con Santo Domingo non esisteva un accordo di estradizione. Se ne sarebbe andato, e avrebbe portato con sé Julieta. Non osavo nemmeno immaginare quali fossero i suoi piani per la ragazza. L'avrebbe lasciata tornare indietro? Bisognava stare attenti, gli uomini di Esvrilenko potevano comparire da un momento all'altro. Nel caso mi fosse rimasto qualche dubbio sul da farsi, Coronas irruppe ancora una volta nel mio ufficio per rivedere il piano punto per punto. Non si fidava più di me.
«Non voglio che nessuno corra il minimo rischio, intesi? Né Palafolls, né noi, né i viaggiatori presenti all'aeroporto».
«Non tenteremo neppure un ultimo negoziato per farci restituire Julieta?»
«Assolutamente no. È probabile che, non vedendo arrivare i suoi ex complici della mafia, lui la liberi di sua iniziativa. Quella ragazza non è che una complicazione per lui. E se così non fosse, la lascerà andare al suo arrivo a Santo Domingo. Ci siamo già messi in contatto con l'ambasciatore».
«E se la uccidesse?»
«Non lo farà. Sarebbe una morte inutile per lui. Non può permettersi di destare sospetti appena arrivato».
«Ma...»
Divenne isterico.
«Basta, adesso. Basta, Petra! Ho dato degli ordini e voglio che vengano eseguiti. Qui dentro tutti devono obbedire a me».
In quel momento entrò un agente senza bussare.
«Commissario...»
Coronas montò ancora più in collera.
«E lei che cavolo vuole? Non le hanno insegnato che deve chiedere il permesso per entrare?»
«Mi dà il suo permesso, commissario?»
«Permesso? Permesso per cosa?»
L'agente, allibito, farfugliò:
«Hanno trovato il russo, signore».
L'espressione dei due non cambiò. Sentii il cuore balzarmi nel petto.
«Dove? Dov'è?»
Mancò poco che gridassi. Allora l'agente giunse al colmo della confusione e, con un filo di voce, rispose:
«L'hanno trovato morto, ispettore».
Coronas diede un colpo tremendo sul tavolo e urlò: «Porca miseria, fosse successo prima!»
Lo sconcerto che seguì la notizia cedette il passo alla disperazione. Se Ivanov era morto, diminuivano le possibilità di salvare Palafolls. E morto lo era davvero, potei constatarlo di persona. L'avevano trovato in un cassonetto della spazzatura dalle parti di El Borne. Uno spazzino si era accorto che qualcosa di strano sporgeva dal coperchio. Era un piede, il piede destro di Ivanov. Tanto il magistrato quanto noi potemmo constatare la strana posizione del cadavere. I piedi gli erano stati legati al collo da una corda che passava dietro la schiena. Praticamente, si era strangolato da solo. Raccapricciante. Aveva gli occhi aperti. Non c'era niente di speciale in quegli occhi, nessuna forza, nessuna luce, nessuna potenza demoniaca, solo il vetro appannato della morte.
«C'è la firma della mafia. Aveva ragione a temere gli uomini di Esvrilenko: alla fine l'hanno trovato. Noi non ne siamo stati capaci», sentenziò Coronas. «Credo che d'ora in avanti dovremo fare più attenzione ai russi che capitano da queste parti. Cosa pensa di fare adesso, Petra?»
«Cercare Julieta. Parlerò con la sua amica, forse...»
«Che lo faccia Garzón. Ho ordinato una perlustrazione dell'intero quartiere del Borne e voglio che lei venga con me. Forse nelle vicinanze troveremo anche Palafolls. Non deve rimanere un solo magazzino o appartamento vuoto in cui noi non abbiamo fatto un sopralluogo. Inoltre ho ordinato che il cadavere di Ivanov sia affidato al dottor Montalbán, che ormai è uno specialista in questo caso».
Assistetti agli accertamenti senza alcuna fiducia di ritrovare Palafolls. Che il corpo del russo fosse finito lì non significava che il suo nascondiglio degli ultimi giorni si trovasse in quel quartiere. Altrimenti, probabilmente, insieme al cadavere di Ivanov, avremmo trovato anche quello del nostro giovane poliziotto. Ma c'erano ancora delle possibilità che fosse vivo, sebbene, col passare delle ore, queste si affievolissero sempre più. Feci mandare un fax a Rekov per informarlo degli ultimi avvenimenti. Chi lo sa, magari sarebbe riuscito a mettere le mani sugli uomini di Esvrilenko quando fossero sbarcati a Mosca! Noi di certo non li avremmo trovati mai più: a quell'ora dovevano già essere in qualche aeroporto internazionale d'Europa in attesa di un volo per la Russia. Erano stati davvero bravi. Avercene, di uomini così dalla parte della legge!
Non era passata un'ora da quando Garzón se ne era andato, che ricevetti una sua chiamata al cellulare.
«Ispettore?»
«Ha già parlato con l'amica di Julieta?»
«No. Però non ce n'è stato bisogno. Julieta è arrivata proprio adesso».
«Come dice? Cosa?!»
«Stiamo andando in commissariato. Le suggerisco di incontrarci lì».
«Arrivo immediatamente».
Salutai Coronas dicendogli il minimo possibile. Non ne potevo più delle sue intromissioni.
Trovai Julieta tranquilla, quasi sorridente, ma tanto il suo sorriso quanto la sua tranquillità erano strani, come ingiustificati e privi di contesto. Mi salutò come se fosse venuta a prendere il tè.
«Signora Delicado, come sta?»
«Bene, Julieta, e tu? Tu come stai?»
«Sto bene».
«Raccontaci».
«Non c'è niente da raccontare».
Mi sedetti davanti a lei, osservandola attentamente.
«Non hai niente da raccontare? Sai già che quell'uomo, Ivanov, è stato trovato morto, vero?»
Rimase zitta, senza mostrare il più lieve cenno di sorpresa.
«Sì, lo so. Così finalmente riposerà. Così riposeremo tutti, finalmente».
Dal suo viso non si cancellava quel sorriso idiota.
«E così riposerà anche Miguel?»
Mi guardò.
«Sì, così riposerà», disse.
Garzón si agitò sulla sedia. Alzai gli occhi verso di lui, poi li fissai di nuovo sulla ragazza. Le parlai con molta dolcezza.
«Julieta, anche tu sei una skopzi, vero?»
Non cambiò espressione.
«Sì, lo sono».
Al viceispettore cadde di mano la sigaretta. Gli feci segno di stare zitto.
«Ivanov era in contatto con te da parecchio tempo, vero?»
«Sì».
«E tu sei entrata a far parte della sua setta».
«Sì».
«Su indicazione di quell'uomo ti sei proposta di sedurre Miguel Palafolls e ci sei riuscita».
«Sì».
«Così potevi informare il russo di tutto quanto noi scoprivamo».
«Sì».
«E adesso?»
«Adesso non andrò più a Santo Domingo per portare la parola della purezza».
«No, non ci andrai, è tutto finito».
«Però resterò qui e darò testimonianza di fede».
Deglutii, decisi di rischiare.
«Sì, anche qui puoi testimoniare. E... dimmi, Julieta, tu sai dov'è Palafolls?»
Mi guardò sorridendo e non aprì bocca. Notai che Garzón aveva afferrato il tavolo con entrambe le mani e stava facendo supremi sforzi per nascondere la tensione. Continuai con tutta la dolcezza possibile.
«Come hai detto tu stessa, ora Ivanov è morto. È stato tutto un sogno, però ora bisogna svegliarsi. Non vorrai che Miguel muoia, vero?»
«Nessuno muore quando è puro».
Ci provai ancora.
«Dicci dov'è, Julieta, per favore».
Smise di sorridere e mi guardò con una fissità che mi spaventò. Poi disse:
«Non parlerò. Non dirò più niente. Mai più».
«Ma, Julieta...
«Non dirò più niente».
Garzón non riuscì a trattenersi e si mise a urlare:
«Basta con le cazzate! Te la do io la purezza! Ti faccio marcire in galera, ti faccio! Mi senti? In galera ti sbatto! Parla, dicci dov'è!»
La ragazza lo guardò senza smettere di sorridere. Garzón era esasperato:
«Parla, parla!»
Lei non rispose. Io presi per un braccio il mio vice e lo feci uscire.
«Ho paura che sia inutile, viceispettore, non ci dirà niente».
«Come, niente? Io la gonfio di ceffoni, l'ammazzo!»
«Vuole calmarsi? Con la violenza non arriveremo da nessuna parte».
«E cosa dobbiamo fare, rimanere con le mani in mano per non traumatizzare la bambina? Aspettare che Palafolls salti fuori morto in qualche angolo di questa città di merda?»
«Se urla così non riesco a pensare! Ha capito? Non riesco a pensare!»
Rimase paralizzato dal mio grido. Continuai, abbassando la voce:
«Non possiamo farci prendere anche noi da questa follia collettiva, Fermín. Adesso meno che mai. Cerchi di calmarsi».
Sospirò profondamente.
«Mi scusi, ha ragione».
Mi premetti gli occhi con le mani e rimasi così finché il telefono suonò. Risposi, assentii, riattaccai. Mi rivolsi a Garzón.
«È il dottor Montalbán. Ha già i risultati dell'autopsia di Ivanov. Andiamo da lui. Prima di uscire, però, dia ordine di cercare padre Villalba. E meglio mettere questi interrogatori in mano a un esperto. Vorrei trovarlo qui quando torniamo. Calcoli che non ci metteremo più di un'ora».
Morte per strangolamento mediante una corda. Quello era il responso di Montalbán. Lasciò ricadere i suoi pesanti occhiali sul naso e continuò:
«È morto verso le tre del mattino. Un cerotto sulla bocca gli ha impedito di chiedere aiuto. In seguito il cerotto è stato rimosso. Un lavoro molto professionale, non c'è che dire».
«C'è stata resistenza?»
«Minima. A parte i segni ai polsi, al collo e alle caviglie, non sono state riscontrate escoriazioni. Probabilmente era sicuro di non potersela cavare. Il sistema che hanno usato procura una morte crudele. Sapevo che veniva usato dalla mafia italiana, ma non avevo mai visto niente del genere».
«È evidente che la mafia russa se ne è appropriata».
«Sì, un bello scambio culturale».
«È castrato?»
«No».
«Che pezzo di stronzo!» sussurrò il viceispettore.
«Non sempre chi predica una religione ne osserva i precetti», commentò Montalbán.
«Per i pazzi tutto è possibile!»
Garzón mi guardò, accusatore.
«Può darsi che fosse pazzo», disse, «ma il supplizio della castrazione lo riservava agli altri».
Montalbán intervenne di nuovo:
«Mio caro Garzón, chi può sapere quali fossero i motivi che spingevano quest'uomo a una condotta così abnorme? Pazzia, sete di potere, traumi infantili, semplici motivi economici? I profeti sono di per sé indecifrabili».
«Me ne fotto dei profeti», riassunse sinteticamente il mio collega.
«Possiamo vedere il cadavere?» domandai, per troncare sul nascere ogni discussione.
Montalbán ci condusse alla lettiga su cui giaceva il malvagio Ivanov, in attesa di rientrare nella cella frigorifera. Il malvagio Ivanov! Neanche da morto aveva perso il suo aspetto imponente. Tuttavia la pelle del suo viso presentava una colorazione violacea dovuta al soffocamento, e gli occhi si indovinavano gonfi sotto le palpebre. Il rigor mortis era grottescamente evidente nelle punte dei piedi, ricurve verso l'alto come babbucce arabe.
Garzón lo guardò con curiosità.
«Che brutto che era!» esclamò.
«Brutto e pericoloso», aggiunse il medico.
Mi avvicinai e osservai la sua immagine livida, le ciocche appiccicose che ricadevano sul lenzuolo. Non aveva espressione, né placida né contratta, non sembrava per niente un uomo speciale. Ma allora, cosa gli aveva conferito in vita quel fascino paralizzante di cui perfino io ero caduta vittima? La forza della sua mente, o quella vecchia entelechia chiamata anima? O forse quel suo potere risiedeva nella psiche degli altri, sotto forma di autosuggestione?
«Posso?» chiesi educatamente a Montalbán. Lui assentì. Allora sollevai il lenzuolo chirurgico che proteggeva il corpo e mi concentrai sulla sua nudità. Il profeta addormentato non era che un uomo.
«Crede che il suo membro sia normale?» dissi, rivolgendomi ai dottore.
«Sì, normalissimo».
Tutti e tre contemplammo per un momento il suo pene adagiato di Iato su un nido di pelo morto.
«Sta cercando spiegazioni psicosomatiche alla sua condotta, Petra?»
«Sa, dottore, tenendo conto che Hitler mancava di un testicolo... e che molti violentatori ce l'hanno piccolo... Magari...»
«Se tutti quelli che ce l'hanno piccolo dovessero fondare una setta...!» sbottò il viceispettore. Montalbán si mise a ridere.
«Andiamocene, se avete finito. Qui non si può fumare e mi merito la mia dose di nicotina dopo un intero pomeriggio di lavoro».
In corridoio il bagliore dei neon ci accecò.
«Avete già saputo qualcosa dall'Istituto di Tossicologia sugli abiti indossati dal morto?»
«No, come sa queste sono cose lunghe, non si sa ancora niente».
Montalbán si accese la pipa, aspirando più volte energicamente come se ne andasse della sua vita. Fra una boccata e l'altra osservò:
«Brutta storia... ma adesso avete il colpevole... Se non altro non se l'è cavata impunemente».
«In un certo senso sì. La punizione avrebbe dovuto venirgli dal cielo».
Lui inarcò le sopracciglia.
«Anche lei è diventata una mistica, ispettore?»
«Lo sono sempre stata», risposi sorridendo e, mentre ci dirigevamo verso l'uscita, aggiunsi: «Solo che non ho mai avuto fedeli!»
«A questo non ci credo. Di ammiratori fedeli deve averne avuti ben più di uno».
Mi congedai con una risata.
«Ci avvisi quando avrà i risultati delle analisi, dottore!»
Assentì fra le nuvole di fumo provenienti dalla sua pipa.
Mentre guidavo verso il commissariato, Garzón crollava dal sonno. Lo lasciai in pace. All'improvviso si riscosse di soprassalto.
«Mi sono addormentato?» disse, come sentendosi colto in fallo.
«Appena per un minuto».
«Non voglio addormentarmi!»
«Perché?»
«Perché ho l'impressione che se mi addormento...» si interruppe bruscamente.
«Palafolls morirà, è così?»
«Sì. Che stupidaggine! Vero?»
«Sì. Che stupidaggine!» dissi a voce molto bassa, e continuai a guidare con un nodo allo stomaco.
12
Nei corridoi del primo piano incontrammo Coronas. Sembrava Napoleone dopo Waterloo. Gli si leggeva la sconfitta negli occhi. Garzón commise l'errore di domandargli:
«Avete trovato qualcosa al Borne?»
Coronas lo guardò di brutto.
«Niente di niente! E voi?»
«Julieta è una skopzi, commissario. Lavorava da tempo in casa mia come infiltrata di Ivanov, e in seguito con Palafolls. Pensava di andarsene col russo a Santo Domingo. Quando lui fu assassinato, si scoraggiò e tornò a casa».
«Quindi ha parlato?»
«Non ha ancora detto la cosa più importante: dove si trova Palafolls».
Coronas, esausto, si passò le mani sulla faccia. All'improvviso mi guardò con un'aria da pazzo.
«La ammazzi di botte, le faccia le peggiori minacce!»
«È quel che le ho detto anch'io», puntualizzò Garzón.
«Non servirebbe a niente. Ha visto come funziona questa gente. Se ha fatto voto di star zitta, non dirà niente».
«Anche dopo la morte del suo guru?»
«A maggior ragione: su di lei ricade la responsabilità di portare avanti la missione».
«Ma il tempo passa, ispettore. L'agente Palafolls può essere prigioniero in qualunque buco. Solo, legato, senza mangiare...»
«Ne sono consapevole. Faremo in modo che padre Villalba, l'esperto in sette che ci ha già aiutati in passato, interroghi non solo Julieta, ma anche Adrian Atienza».
«Speriamo che non sia troppo tardi».
Garzón intervenne dicendo con sorprendente sicurezza: «Nossignore, non lo è».
Coronas montò in collera e disse:
«E lei come cazzo lo sa?! Come può essere così sicuro che non sia morto, che non l'abbiano ammazzato fin dall'inizio?»
Il viceispettore rispose con la stessa energia di prima:
«Perché lo so, commissario. Sono sicuro che è ancora vivo».
Quella risposta inattesa sciolse miracolosamente la collera del commissario che abbassò gli occhi e disse sottovoce:
«Speriamo, Garzón, speriamo!»
Malgrado la drammaticità di quei momenti, quando vidi padre Villalba provai di nuovo la sensazione che quello fosse l'uomo che avrei volentieri sposato. Mi bastò intravedere la sua giacca spigata per sentirmi piena di serenità. Non era la ricaduta fra le braccia del mio giovane ex marito ciò di cui avrei avuto bisogno, e nemmeno una folle avventura con uno slavo di bell'aspetto. No, la scelta sicura sarebbe stata padre Villalba, l'unico che avrebbe saputo dare tranquillità alla mia vita. Forse le domeniche pomeriggio sarebbero state un po' noiose, forse non mi sarei troppo divertita a ricevere visite di bigotte o di preti venuti a fare due chiacchiere, ma non avrei nemmeno fatto caso a certi dettagli, sarei stata troppo occupata a preparare tazze di tè. Ah, se almeno si fosse convertito al protestantesimo, sarebbe già stato un primo passo! pensai. Poi uscii da quella rassicurante fantasia e sondai lo stato d'animo del sacerdote. Non era ottimista.
«Non credo che il mio intervento potrà cambiare le cose, ispettore. Quei due ragazzi sono stati sottoposti a una fortissima pressione psicologica, e questo rafforza enormemente la volontà negli adepti di una setta».
«Cosa intende dire?»
«Intendo dire che sentono di partecipare a qualcosa di eroico. Lo slancio del martirio realizza i loro ideali di santità. È come se si vedessero confermati nella missione che è stata affidata loro».
«I primi cristiani dovevano sentirsi così?» domandò con imprudenza Garzón.
«Salvando le distanze... direi di sì».
«Quali distanze?»
«Che loro erano martiri dell'autentica fede».
Vidi che ci stavamo muovendo su un terreno molto sdrucciolevole e prevenni ogni risposta del viceispettore.
«Fermín, non le pare ora di lasciare che padre Villalba parli lui con quei due ragazzi?»
Assentì, riscuotendosi dalle sue riflessioni, ma capii benissimo che gli sarebbe piaciuto continuare. Come ogni ateo, si appassionava alle discussioni teologiche.
Conducemmo padre Villalba nell'ufficio dove lo aspettava Adrian. Noi rimanemmo fuori, a osservare la loro conversazione attraverso il falso specchio.
Il prete era abile, possedeva tutte le virtù fondamentali per condurre un buon interrogatorio: pazienza, serenità e impenetrabilità del volto. Gli mancava solo quel tocco d'ingegno che serve di tanto in tanto per far vacillare l'indiziato. E poi, sembrava non gli importasse di non ricevere alcuna risposta ai suoi monologhi: in fin dei conti era abituato a parlare con Dio.
Bisognava riconoscere che ci stava provando in tutti i modi possibili, tanto con Adrian quanto con Julieta, che fu interrogata subito dopo. Parlò di spiritualità, di amore, di misericordia, di libertà. Addusse esempi di persone che all'inizio non erano state capite dai loro coetanei, ma che in seguito avevano trovato la forza di fidarsi di se stessi. Passò ad argomenti più teorici, sfiorando l'eresia, avvicinandosi persino a un panteismo che univa in sé tutti gli esseri viventi attribuendo loro una sacralità quasi divina.
Ma malgrado tutti i suoi sforzi, i due rimanevano impermeabili a qualunque tentativo di persuasione. Julieta rimase per tutto il tempo a guardarlo, in un silenzio che faceva venire i brividi per la sua assurda ostinazione. Solo Adrian, a un certo punto, apparve turbato e, quasi sull'orlo del pianto, disse:
«Padre, non dica altro. Cerchi di capire che non osso parlare, non posso. Voglio che lei lo capisca. Le dirò una sola cosa e voglio che sappia che è la verità: io non so dove si trova Miguel Palafolls. Non lo so».
Alla fine di quel lungo e infruttuoso lavoro, il sacerdote uscì e spalancò le braccia davanti a noi.
«Mi dispiace, non ho potuto fare di più!» disse.
«Crede che quel ragazzo dica la verità?» domandò il mio collega.
«Chi può saperlo? Si tratta di una mente disturbata, suggestionata e sottoposta a forte stress. In fondo è come se non fossero più loro stessi, come se qualcuno avesse innestato in loro una nuova personalità. Forse uno psichiatra, con un serio lavoro di deprogrammazione, otterrebbe migliori risultati di me».
«Crede che per questo basterebbe una sola seduta?» domandò Garzón con foga.
Padre Villalba sorrise tristemente.
«Ho paura di no. Sono processi che possono durare degli anni».
«Non abbiamo tempo, padre. Ci stiamo muovendo alla disperata, in cerca di una soluzione miracolosa».
«Vuole proprio farlo dire a me che non possiamo attenderci dei miracoli?»
«Io volevo solo...» balbettò il viceispettore.
Padre Villalba tornò a sorridere, e fu allora che gli sentii pronunciare quella frase meravigliosa. Disse:
«È facile per noi, ispettore. Noi siamo nella luce, vi abitiamo. Ma questi giovani ora vivono nell'ombra, e sono solo messaggeri dell'oscurità».
Una bella definizione. Messaggeri dell'oscurità. Messaggi sanguinosi dal nostro lato oscuro, un luogo che probabilmente io non avrei mai visitato, pur avendone esplorato i confini.
Ci congedammo dal sacerdote sulla porta. Sembrava desolato. Mi diede la mano e sorrise con stanchezza.
«Spero che non si aspettasse troppo da me, ispettore».
Cosa rispondere a quelle parole? Sorrisi anch'io.
Quando si fu allontanato, Garzón brontolò:
«Vatti a fidare di un prete! Questo dimostra soltanto che non abbiamo più cartucce da sparare».
Lo guardai perplessa. Cedere le armi era una tentazione. E invece, gli dissi:
«Non ci resta che provare con uno psichiatra; o almeno col nostro psicologo Sanjuán. La scienza è sempre l'ultima cartuccia. è una questione di principio».
Sanjuán ci ascoltò preoccupato. Era un compito che non si era mai immaginato. In genere non lavorava direttamente sugli indiziati. E poi, lui non era un esperto di deprogrammazione, e con un solo colloquio non prometteva niente, Ma avrebbe fatto tutto il possibile per trovare il punto debole di quella coppia di muti recalcitranti.
Garzón assistette, ma io non volli essere presente agli interrogatori. Mi faceva venire letteralmente il mal di stomaco ricominciare un'altra volta da zero. Che differenza c'era fra i metodi religiosi e quelli psicologici? In fondo, entrambi avevano lo stesso obiettivo: stimolare le facoltà di giudizio, la razionalità. Ciascuno ricorreva ai propri trucchi per penetrare direttamente nel cuore. Che fosse attraverso Dio o attraverso Freud, poco importava.
Andai nel mio ufficio e mi lasciai cadere sulla poltrona. Non rimasi cosciente per più di un secondo, il sonno non trovò alcun ostacolo in me, mi vinse senza resistenza. Quando Garzón mi svegliò, ebbi la lucidità sufficiente per rendermi conto che avevo la bocca aperta, i capelli in disordine e i piedi fuori dalle scarpe. Inorridii, mi alzai e cercai di rimediare all'irrimediabile con qualche colpetto all'acconciatura. Ma non c'era da preoccuparsi, il viceispettore era in condizioni peggiori delle mie. Si lasciò cadere di peso su una sedia e si stropicciò la faccia affranta.
«Non parleranno, Petra, non parleranno. Hanno pronunciato un voto e non parleranno e non diranno niente di niente. Le loro convinzioni sono incrollabili. Perché crede che Ramón Torres si fosse inventato quella complicata storia dei peni? Lui era il più incline a parlare eppure non parlò, si immagini questi, che non hanno la minima intenzione di farlo».
«Quindi neanche davanti a Sanjuán stanno capitolando.
«Sta facendo tutto il possibile, ma è come parlare a un muro. E se vuole che le dica la verità, la cosa non mi stupisce. Li stiamo trattando con tutti i riguardi: un prete, uno psichiatra... Ci preoccupiamo perché hanno subito dei condizionamenti, perché vivono fuori dalla realtà... Ma anche noi siamo fuori dalla realtà! Abbiamo perso ogni buon senso!»
Mi ero svegliata male, e non avevo nessuna intenzione di lasciarlo continuare con le sue lagne.
«Bene, allora torniamo alla realtà, Garzón! Proponga qualcosa, invece di protestare!»
«Credo che un paio di schiaffoni ben dati sarà abbastanza reale per loro. Bisogna provocare una reazione traumatica, non dicono così anche gli psichiatri?»
Di colpo restai come sospesa alle sue parole, in un'estasi momentanea, in un'illuminazione. Poi cominciai a considerare i vantaggi e gli svantaggi dell'idea che mi era venuta. Ma non era il momento di starci su a pensare, dovevo agire. Se non fosse andata bene, non avremmo perso niente. Balzai in piedi.
«Viceispettore, vada nella stanza degli interrogatori e dica a Sanjuán che dobbiamo interromperlo. Quei due devono venire con noi. Faccia preparare un furgone cellulare e due agenti che ci accompagnino».
«Dove li portiamo?»
«Se qualcuno le fa questa domanda, dica che non lo sa, così non dovrà neanche mentire».
Non feci il minimo caso alla sua reazione. In certi momenti la sensibilità è un lusso che non ci si può permettere.
I miei calcoli non erano sbagliati. Il dottor Montalbán, avendo seguito il caso fin dall'inizio, si sentiva coinvolto e desideroso di collaborare. Eppure dovetti faticare più di un'ora per persuaderlo a seguire i miei piani. Quando riattaccai il telefono, il ricevitore era bollente.
Garzón mi stava già aspettando con gli agenti di custodia, furgone cellulare e tutto il resto. I ragazzi non manifestarono la minima curiosità per quello spostamento. Purtroppo, Garzón non sembrava altrettanto indifferente. Ordinai al furgone di seguirci, e non appena fummo soli e mi misi al volante, il viceispettore domandò:
«Dove ci stiamo dirigendo?»
«All'Istituto di Anatomia».
«Ci lasceranno entrare a quest'ora?»
«Abbiamo un appuntamento col dottor Montalbán».
Tacque, si morse le punte dei baffi. Alla fine, esplose:
«Senta, Petra, lo so che lei è il mio superiore e che non è tenuta a informarmi delle sue decisioni, però credo che...»
Lo bloccai:
«Non insista, Fermín! Non è che non voglia spiegarle quel che voglio fare, è che di preciso non lo so nemmeno io. Quindi mi lasci pensare».
«Va bene, va bene; mi scusi».
L'arrivo in piena notte all'Istituto di Anatomia fu piuttosto inquietante. Insieme al custode, ci aspettava Montalbán col suo camice bianco. Agenti e sospetti rimasero in corridoio. Garzón ed io entrammo nell'ufficio del medico. Questi domandò:
«Sempre decisa?»
«Sì».
«Le ripeto che possiamo finire nei casini... tutti e due».
«Si sta tirando indietro?»
«No».
«La ringrazio. Allora andiamo».
Sotto gli occhi sgranati di Garzón uscimmo di nuovo in corridoio e conducemmo i giovani nella camera mortuaria. Gli agenti di custodia ricevettero l'ordine di aspettare fuori.
Là dentro faceva un freddo spaventoso. Montalbán si diresse verso una delle celle frigorifere e la aprì. Comparve una salma avvolta nel suo sacco di plastica con la cerniera. Il medico fece scivolare una lettiga e la accostò. Mi guardò. Assentii.
«Ci dia una mano, viceispettore!» ordinai a Garzón, che ormai aveva gli occhi fuori dalle orbite.
Fra tutti e tre, e non senza difficoltà, trasferimmo il cadavere sulla lettiga. Guardai con la coda dell'occhio i ragazzi e vidi sul volto di Adrian una smorfia di angoscia. Julieta era seria. Montalbán spinse la funebre lettiga fino a collocarla sotto una potente lampada da sala operatoria. La accese e procedette ad aprire la cerniera. Rimase allo scoperto il corpo di Ivanov. Era bianchissimo, tranne il viso, che era rimasto livido. Nessuno parlava. Adrian si mise a piangere e distolse istintivamente lo sguardo.
«Ah, no», dissi, «vi abbiamo portati qui perché lo vediate, e adesso dovete guardare!»
Li spinsi entrambi entro il cono di luce. «Aprite bene gli occhi una volta tanto! Non volete rendere un ultimo omaggio al vostro maestro? E allora, eccolo li!»
Adrian singhiozzava, e Julieta aveva cominciato a sudare malgrado il freddo intenso.
«Il puro, il profeta, l'essere superiore che avrebbe dovuto preservarvi dal male! Lo vedete? Vedete questa macchiolina che ha sulla pancia? Sapete cosa significa? Significa che è cominciata la putrefazione! È morto, e sono stati i suoi amici della mafia a farlo fuori, non il diavolo! E neanche la società. Non è un martire, capito?»
Il ragazzo esplose: «È una vergogna! Voglio uscire di qui!»
«Tu non vai da nessuna parte, rimarremo a guardare questo morto finché non se lo mangeranno i vermi! Ditemi dove si trova Palafolls!»
«Le dirò tutto quello che so... Ramón Torres aveva il compito di eseguire gli interventi di castrazione. Ivanov l'aveva ordinato a lui perché era il più bravo col bisturi; ma Esteban Riqué si rivelò allergico all'anestesia, e morì sotto i ferri. Allora Ramón fu preso dalla disperazione e si suicidò».
«Tutto questo lo sapevamo già. Adesso vogliamo che ci diciate dov'è Palafolls».
«Non lo so, giuro che non lo so!»
Si agitava fra fremiti di nervosismo e di terrore. Julieta aveva la mandibola che scricchiolava tanto la stringeva. Montalbán si diresse verso l'estremità della sala e ci voltò le spalle. Afferrai per un braccio Adrian e lo costrinsi ad avvicinarsi di più, tenendolo fermo. Gridai con tutte le mie forze:
«Guarda, guarda bene! Il tuo dio non è castrato! Strano, vero? Ha fatto passare per le armi un mucchio di ragazzi perché rimanessero casti e puri, ma lui... lui ne aveva bisogno per scoparsi Julieta, vero? Un modo un po' troppo parziale di mettere in pratica i precetti del Signore. Forse anche tu sei stato vittima di questa ingiustizia, non è vero, Adriàn?»
Garzón si allentò il nodo della cravatta. Adrian, piangendo, guardava il pavimento. Gridai:
«Guardami quando ti parlo, guardami! Dov'è Palafolls? Avete paura di questo fantoccio? Di cosa avete paura, ditelo, di cosa?»
Mi avvicinai con aria furibonda al tavolino degli strumenti e presi un bisturi. Poi tornai accanto a Ivanov e, guardando bene in faccia i ragazzi, sbraitai:
«Volete vedere che fine fa il vostro profeta, volete vederlo?! Avanti, allora! Un po' di giustizia anche per lui!»
Presi il pene gelato del morto fra le mani e, con un taglio netto, lo recisi. Poi lo gettai ai piedi dei due ragazzi. Seguì un istante di silenzio sepolcrale. Allora Julieta lanciò un lungo urlo, animalesco, raccapricciante, e si coprì la faccia con le mani. Adrian, impazzito, perso ogni controllo, cadde in ginocchio davanti a lei e, gridando come un pazzo, la supplicò:
«Diglielo, diglielo Julieta, per l'amor di Dio, diglielo!! Tu lo sai dov'è. Falla finita!»
La ragazza parve reagire e, chinandosi, gli passò un braccio intorno alle spalle. Poi alzò la faccia verso di me, e in un tono privo di qualunque emozione o tristezza, disse finalmente:
«È nel quartiere di Gracia, in un magazzino in disuso. È l'unica cosa che so, lo giuro».
«Sei sicura?»
«Si», rispose a bassa voce, e mi convinsi che diceva la verità.
Garzón ed io ci scambiammo uno sguardo intenso. Presi la parola.
«Li faccia riportare in commissariato, viceispettore. E poi avverta tutte le unità disponibili. Bisogna setacciare il quartiere di Gracia, del mandato del giudice ce ne fottiamo. Informi Coronas, ma il minimo indispensabile».
Garzón non disse una sola parola, e uscì con energia invidiabile portandosi via i due ragazzi distrutti. Mi avvicinai a Montalbán.
«Avrei preferito che non vedesse una cosa del genere, dottore».
«Non è stato piacevole, lo riconosco. Ma c'è da dire che nemmeno praticare autopsie è come suonare il violoncello».
Sorrisi.
«Non credo che nessuno dei due andrà a raccontarlo in giro».
«In fondo non me ne importerebbe poi così tanto: vale la pena di pagare un prezzo per un po' di eterodossia. Crede sia sufficiente quello che ha detto la ragazza per trovare Palafolls?»
«Per lo meno sappiamo da dove cominciare».
«Buona fortuna, ispettore, gliela auguro di cuore. E se un giorno avessi bisogno di un assistente, mi ricorderò di lei: ha dimostrato di avere un'ottima mano per la dissezione».
Ci sorridemmo. Uscii da quella sala desolante lasciando al povero dottore l'ingrato compito di riordinare. I corridoi erano in penombra. Per la prima volta dopo molte ore ripresi coscienza di me stessa. Avevo le pulsazioni accelerate, mi palpitavano le tempie e sentivo un peso indefinito nel petto. Entrai in uno dei bagni e mi lavai la faccia. Mi insaponai abbondantemente le mani.
Rimasi per qualche secondo a riprendere fiato. Poi raggiunsi l'uscita e mi inoltrai nella notte chiara e fresca, decisa a dimenticare quel che era appena accaduto.
Il nostro compito non si presentava per niente facile. In Gracia ce n'erano a bizzeffe di magazzini abbandonati, di capannoni decrepiti che un tempo erano serviti da magazzino. Erano tutti chiusi, e noi non avevamo nessun mandato. In alcuni casi era possibile rintracciare il proprietario, in altri, no. Per procurarci le informazioni necessarie ci eravamo rivolti agli uffici del quartiere, situati in plaza Rius y Taulet, che disponevano di un quadro abbastanza aggiornato delle attività commerciali.
In genere, quando non potevamo accedere ai locali, gli uomini ispezionavano accuratamente l'esterno per accertarsi che non vi fossero segni di una recente effrazione. Talvolta era necessario saltare nei cortiletti posteriori dalle case vicine, provocando allarme e curiosità negli abitanti. Malgrado tutti gli ostacoli, alle dieci del mattino i nostri agenti avevano già perlustrato una dozzina di magazzini. Ma senza fortuna. Ci venne fornita una lista di locali recentemente ceduti in affitto. Il nome di Ivanov non era fra quelli dei locatari. Furono interrogati numerosi abitanti del quartiere, nel caso avessero visto o sentito qualcosa di sospetto. Nessuno sapeva niente, nessuno aveva notato niente, nessuno straniero, nessun ragazzo... Era come se lì non succedesse mai niente.
Verso mezzogiorno crollai, in preda a una forte sensazione di scoraggiamento e di stanchezza. Mi lasciai cadere su una panchina della piazza, come se dovessi addormentarmi proprio lì. Garzón si avvicinò all'istante.
«Ispettore, perché non va a riposarsi un po'?»
«No, sto bene».
«Sta bene? Ma se sembra una barbona!»
«Meglio, mi piace sembrare una barbona».
Scosse la testa e mi prese per un braccio, costringendomi a rimettermi in piedi.
«Forza, se non vuole andarsene, per lo meno beva un altro caffè. Non può rimanere lì ferma a prendere freddo».
«Ho sempre desiderato fare la barbona», ripetei con gli occhi socchiusi.
Un sole quasi estivo, ma senza alcuna forza, mi batté sulla faccia e mi abbagliò. Garzón mi obbligava a camminare. Entrammo in un bar.
«Due birre, e un paio di buone frittate da tre uova!»
«Io non ho fame», replicai.
«Petra, una volta tanto farà quel che le dico io».
«Lei sistema sempre tutto col mangiare».
«Una castratrice esperta come lei deve rimettersi in forze».
«Ma come fa a non perdere mai la voglia di scherzare?»
«Basta non prendere la vita troppo sul serio, né troppo alla leggera».
«Un giusto equilibrio».
«Esatto».
Lo guardai. Sorrideva, tranquillo e sereno. Pur con i baffi e con le sue grosse mani sembrava una madre affettuosa, mi venne da ridere.
«E adesso che cavolo le succede?» mi chiese stupito.
«Sono esaurita», confessai.
Fece la voce grossa.
«Mangi questa roba e poi la porto a casa. Non può rimanere ancora in piedi. Se scopriamo qualcosa la chiameremo, non si preoccupi».
Scaricai su di lui ogni responsabilità sulla mia persona, mi appoggiai completamente a lui. Mangiai la frittata e mi lasciai portare a casa. Ma mentre eravamo in macchina suonò il cellulare. Era Rodriguez, dell'Istituto di Tossicologia.
«Petra, mi scusi se la disturbo; ho già trasmesso il referto al dottor Montalbán. La chiamo direttamente perché il dottore stava eseguendo un'autopsia e... ecco... non so, ma forse c'è qualcosa che le può interessare».
La stanchezza mi passò di colpo.
«Dica, per favore».
«Si tratta delle sostanze che abbiamo trovato sulla pelle delle mani e sotto le unghie di quel russo. Be', per lo più erano le solite: polvere, nicotina, pelle morta... però è risultata anche una significativa traccia di tannini».
La parola riecheggiò dentro di me. Cercai di ritrovare il concetto corrispondente.
«Tannini?»
«Si, sa cosa sono?»
Assentii con la testa, che in quei momenti funzionava come un computer: cercava, selezionava, raffrontava, elaborava...
«Ispettore! Mi sente?»
«Sì, sì, mi scusi. Grazie mille, Rodriguez, la chiamo più tardi».
Non diedi a Garzón neanche il tempo di fare domande.
«Torni immediatamente in plaza Rius y Taulet».
Mi sorprese che non chiedesse alcuna spiegazione. Guidava in silenzio e a tutta velocità. Solo quando già stavamo scendendo dalla macchina mi guardò intensamente e disse:
«Ce l'ha in pugno, Petra?»
«Credo di sì», risposi.
Passammo come due schegge davanti all'attonito vigile urbano sulla porta e ci precipitammo negli uffici del quartiere, dove i nostri uomini stavano lavorando con gli impiegati.
«Voglio che tutti, assolutamente tutti, verifichiate se in Gracia ci sia o ci sia stata una conceria», dissi senza nemmeno salutare.
Uno degli impiegati municipali mi chiamò alla sua scrivania.
«Ispettore, io credo di ricordare che ce ne fosse una. Fu chiusa perché i vicini si lamentarono più volte del cattivo odore».
«Riesce a ricordarsi dove si trovava?»
Si concentrò mentre tutti stavamo a guardarlo.
«Be'... non lo so, forse andando a ripescare le vecchie denunce...»
Digitò furiosamente sul computer. Il fumo che impregnava il silenzio entrava negli occhi del funzionario facendogli battere le palpebre. Venti minuti dopo fece un sospiro di sollievo ed esclamò:
«Lo sapevo, eccolo qui! Un essiccatoio di pelli a uso industriale. Il giudice lo fece chiudere nell'ottantanove. È rimasto vuoto da allora».
Lo scossi per le spalle senza nemmeno recidermene conto. Il poveretto si voltò inorridito verso di me.
«Mi dica in che via è!» gridai.
«In calle de la Perla numero 16».
Guardai Garzón.
«Chiami tutte le unità impegnate nella ricerca di Palafolls», dissi, «e dia ordine di concentrarsi lì. E un'ambulanza, Fermín, non si dimentichi dell'ambulanza!»
La nostra corsa pazza continuò e si concluse in calle de la Perla numero 16, davanti a un grande portone di legno coperto di polvere. Arrivammo contemporaneamente ad alcune delle auto. Diedi ordine di transennare.
«Buttiamo giù?» chiesero gli agenti, guardando l'enorme porta massiccia.
«È una vecchia serratura, cercate di aprirla col grimaldello».
Dopo le esperte manovre dei nostri uomini, il chiavistello cedette. Io entrai per prima seguita dal viceispettore e dagli altri. Abituati alla luce del giorno non riuscivamo a vedere niente nell'aria fredda e polverosa. Benché fosse passato tutto quel tempo, il disgustoso odore delle pelli conciate aleggiava ancora nell'ambiente. Chiamai con voce esitante, senza avere il coraggio di avanzare:
«Miguel Palafolls, è qui?!»
Fui spaventata dal suono della mia stessa voce. Uno degli agenti si diresse verso il fondo del locale e aprì un finestrino da cui penetrò un po' di sole. Udii dietro di me la voce di Garzón:
«Guardi, ispettore, laggiù!»
In un angolo si vedeva un mucchio informe di stracci o di vecchie coperte. Fra quei brandelli, non senza difficoltà, riuscii a distinguere gli occhi aperti e ansiosi dell'agente Palafolls.
Io ero alla testa di coloro che si diressero verso di lui; e tuttavia, quando ormai mi trovavo vicinissima, non me la sentii di toccarlo. Avevo la sensazione che sotto quelle coltri piene di muffa avrei potuto trovare un uomo mutilato, fatto a pezzi, spellato vivo, sottoposto alle peggiori torture. Il viceispettore si accorse della mia esitazione e, prendendo l'iniziativa, si chinò e scostò il fetente involucro. Palafolls era nudo, legato mani e piedi, con un cerotto sulla bocca. Garzón, senza pensarci due volte, glielo strappò. Poi gli chiese convulsamente:
«Stai bene, ti hanno fatto qualcosa?»
Il giovane poliziotto, quasi esanime, negò lentamente con la testa. Allora vidi che Garzón tirava via nervosamente le coperte fino a esporre la sua nudità. Ci misi più di un momento a capire che voleva soltanto accertarsi della sua integrità. Fece un sospiro di sollievo. Per la prima volta mi resi conto dello stato del ragazzo. Era pallido, magro, con solchi profondi sulla faccia, e occhiaie come ombre eterne. Sembrava vicino alla morte. Garzón stava cercando di slegarlo con abilità e delicatezza. Le esclamazioni soffocate dei nostri uomini cominciarono a fendere il silenzio. Via via che i solidi cavi di plastica venivano sciolti, restavano allo scoperto i segni terribili che avevano impresso nella pelle. Ulcerazioni, lividi e sangue secco orlavano i polsi e le caviglie di Palafolls. Gli arti, ormai liberi, rimasero contratti e rigidi. Nessuno sembrava capace di articolare una frase coerente. Mi inginocchiai accanto al ragazzo, gli accarezzai la faccia con la mano e dissi:
«Non ti preoccupare, Miguel, adesso siamo qui, non c'è più pericolo. Ivanov è morto».
La sua tensione cedette, chiuse gli occhi senza riuscire ancora a parlare. Allora il viceispettore cominciò a muoversi a passi nervosi e, di punto in bianco, con una strana mescolanza di rabbia e di dolore gridò:
«E questa fottuta ambulanza, arriva o non arriva?! E voi...» aggiunse rivolgendosi agli uomini, «si può sapere cosa cazzo state aspettando? Perquisite ogni centimetro di questa topaia!»
I tre minuti successivi, prima dell'arrivo dell'ambulanza, li passai guardando Palafolls che dormiva. Sembrava più adulto, come se la sofferenza l'avesse fatto invecchiare. Quando lo portarono via pensai che per molte notti mi sarei svegliata di soprassalto, cercando di respingere quell'orrenda visione.
Non fu difficile stabilire da dove Ivanov fosse entrato nel magazzino. Il cortile interno aveva un accesso da un vicoletto posteriore. Era bastato forzare una vecchia finestra e tenere il prigioniero imbavagliato perché non destasse i sospetti dei vicini. Ne deducemmo che non gli aveva dato praticamente da mangiare.
In un angolo si vedevano pochi resti di pane e di tè.
Mettemmo i sigilli al locale e lasciammo due uomini di guardia. Quando uscimmo all'aria aperta respirai con avidità.
«Adesso andrà a riposare, ispettore?»
Lo guardai quasi senza vederlo.
«No», dissi. «Andrò a ubriacarmi».
«A casa sua?»
«In un bar».
«Allora vengo con lei».
«L'avverto che non ho voglia di parlare».
«Nemmeno io».
Entrammo in un bar. Ci sedemmo al banco. Bevemmo tre whisky di seguito senza scambiare una parola.
Alla fine del terzo mi voltai verso Garzón e dichiarai:
«Giuro che non apparirò mai più in televisione».
«Bene», disse lui.
«E non lascerò mai più mettere sotto scorta casa mia».
«Bene», ripeté.
«E soprattutto, sa cosa non voglio più assolutamente fare nella vita?»
«Cosa?»
«Il poliziotto».
«Ispettore, non crede di essersi già ubriacata abbastanza?»
«Sì».
«E allora, andiamo».
Guardai per un momento il soffitto, poi gli obbedii.
Coronas era contento. Il caso poteva considerarsi risolto: Palafolls era stato messo in salvo e la stampa era rimasta lontana dalle indagini. Non potevamo fare niente, però, contro gli assassini di Ivanov. Dare la caccia a Esvrilenko o attaccare la sua organizzazione mafiosa era al di là della nostra portata. L'unica cosa in nostro potere era tenere d'occhio l'uomo mandato da Esvrilenko a controllare i suoi cantieri in sostituzione di Ivanov. Anche se di sicuro questa volta si sarebbe preoccupato di cercare un personaggio meno pericoloso.
L'unica cosa che restava da capire, era a chi fossero appartenuti i peni non identificati che Montalbán conservava all'Istituto. E poi non avevamo ancora determinato quanti seguaci di Ivanov fossero stati castrati in totale. «Se non sono loro a denunciarlo, non c'è niente da fare», disse il magistrato che conduceva l'istruttoria.
«È terribile, vero?» si lamentava Coronas, forse un po' in ritardo. «Tutti quei ragazzi privati della loro virilità per tutta la vita!»
«E col cervello condizionato, che forse è ancora peggio!» soggiunsi con malizia.
«Chissà se verranno mai fuori gli altri ragazzi che appartenevano alla setta, forse sarebbe ancora possibile fare qualcosa», disse Garzón.
«Questo va oltre i nostri compiti», osservò il commissario, «ma se proprio vi piacciono le situazioni difficili, ve ne propongo io una».
Guardai Garzón, giurando a me stessa di assassinarlo non appena ne avessi avuto il tempo.
«Voglio che uno di voi due vada a parlare con Miguel Palafolls».
«Ma se siamo stati ieri all'ospedale».
«Ho detto parlare».
«Perché, cosa succede, commissario?»
«Non la smette di chiedere di Julieta... e io... per la verità, non me la sono sentita di raccontargli niente. Gli ho detto solo che stava bene, che era un po' agitata, e che sarebbe andata a trovarlo fra qualche giorno. Ma lui è disperato. Non riesce a capire perché non si sia ancora fatta viva».
«E ha ragione», mormorò il viceispettore, lanciandomi uno sguardo molto vicino al rimprovero.
Capii che la vecchia e consunta immagine della donna traditrice aveva fatto la sua comparsa nella stanza. Anticipai qualunque commento potesse far ricadere la colpa sul genere femminile.
«Io non avrei mai fatto una cosa simile», dissi. «Anche se sono una donna».
Coronas si rivolse a Garzón ed esclamò con molta enfasi:
«Ho detto qualcosa sulle donne, viceispettore?»
Garzón era ancora più indignato.
«E io, signor commissario, per caso ho aperto bocca?»
Me ne andai con un ampio gesto di saluto.
«D'accordo», disse lui , «me ne vado anch'io, prima che mi vengano attribuite cose che non ho mai detto».
Mi rifiutai di andare io a raccontare a Palafolls le tristi malefatte di Julieta. Fra le altre cose perché mi mancavano gli argomenti. Non riuscivo a immaginare come quella ragazza fosse arrivata a fingere un innamoramento su richiesta del suo aguzzino spirituale. Pensai che chiunque se la sarebbe cavata meglio di me, caricando le tinte, dicendo di lei le cose peggiori, spiegando con luoghi comuni ciò che in realtà non aveva spiegazione. Più tardi seppi che l'ambasciatore delle sinistre notizie era stato il suo collega Marqués, e non mi parve una cattiva idea, l'amicizia è sempre stata un buon lenitivo dell'amore.
Quando il clamore che segue la risoluzione di ogni caso si fu dissipato un po', mi trovai con Garzón alla Jarra de Oro per prendere una birra dopo il lavoro.
«La cosa più seccante è che da quando quella ragazza è in galera sono rimasta senza domestica», buttai lì.
«Sempre prosaica, lei».
«Ma santo Dio! È in vena di critiche oggi pomeriggio?»
«Non più del solito».
Mi accorsi che il cameriere gli aveva servito un minuscolo bicchierino ghiacciato.
«Ma cosa diavolo ha ordinato?»
«Vodka!» rispose lui tutto contento, buttandolo giù d'un colpo.
«Non ci posso credere!»
Mi guardò, felice di avermi sorpresa.
«E mi crederà ancora meno se le dico che stamattina mi ha telefonato Silaiev».
«A lei?»
«Ma certo, siamo amici!»
«E siete riusciti a capirvi?»
«Ma naturalmente! Abbiamo riso per un bel pezzo; prima io, poi lui. Di sicuro ci stavamo ricordando delle stesse cose. Poi abbiamo cantato un pezzetto di "Kalinka"».
«Una conversazione davvero appassionante. Le ha detto se gli uomini di Esvrilenko sono rientrati a Mosca?»
«Ah, no, per queste precisazioni dovrà telefonare a Rekov!» rispose lui ammiccando.
«Lo farò quando ne avrò il tempo», dissi, fingendo indifferenza.
«È stato un caso complicato, vero, ispettore?» osservò assaporando la sua seconda vodka.
«Dubito che ce ne capiterà un altro come questo. Per me è stato un incubo».
«Non ci pensi più altrimenti si deprime. Vuole che le canti una canzoncina sui cazzi per tirarla su di morale?»
«No, grazie, Fermín! Ho già avuto modo di apprezzare la vastità del suo repertorio».
«Almeno un pezzetto. Conosce quella che fa: «Seduta su una roccia c'è una donna riccia che...». Lo interruppi fra le risate.
«Stia zitto, per favore! Non ha mai provato a essere educato almeno una volta in vita sua?»
«Non è ancora arrivato il momento», disse giulivo, e ordinò un'altra vodka.
Epilogo
Il «day after» della risoluzione di un caso è sempre un completo ritorno alla normalità. Non è un passaggio che io sopporto bene. È come se, dopo aver concentrato tutte le energie su una cosa, all'improvviso me la togliessero, lasciandomi vuota e inservibile. La prima cosa da fare è redigere un rapporto che renda comprensibile tutto quanto è successo. Nel caso dei peni tagliati il compito si presentava atipico e complicato. In realtà, non sapevo come dare forma coerente ai fatti né in che modo affrontare argomenti così insoliti entro gli stretti limiti del linguaggio poliziesco. Garzón non faceva che compilare verbali su tutto ciò che riguardava il caso: referti medici, impronte, sopralluoghi, trascrizioni di nastri... per poi posarli sulla mia scrivania. A furia di vederglielo fare, cominciai a rendermi conto di quale gatta da pelare ci fossimo presi. A un certo punto, lo assalii:
«Non mi porti altre carte, Fermín. D'ora in poi faccia sparire qualunque documento le capiti sotto mano. Chissà che così io non riesca a finire questo lavoro, una buona volta».
Si fece una bella risata e continuò le sue faccende. Chiudere un caso lo metteva di buon umore. Quasi mai un'esperienza, pur essendo la stessa, suscita identiche reazioni in due persone diverse, pensai, e dopo un pensiero così profondo mi rimisi a scrivere.
«Ramón Torres, inorridito nel constatare che il suo amico Esteban Riqué era deceduto in seguito a crisi allergica durante l'intervento di ablazione del pene (referto medico n. 125) decise di togliersi la vita. A questo scopo si recò nella casa di villeggiatura di proprietà della sua famiglia a Cambrils (Tarragona) e provvide a togliersi la vita mediante evirazione, da lui stesso eseguita, e conseguente dissanguamento (referto medico n. 126) ...».
Ricordai il ritrovamento del cadavere, la mia mano vagante nella densità dell'acqua insanguinata... rabbrividii. In quel momento Garzón entrò di nuovo nel mio ufficio con qualcosa in mano. Approfittai della possibilità di poter scherzare un po' con lui, dimenticando quelle sinistre immagini.
«Non le avevo detto di non portarmi altre scocciature?»
Ma subito mi resi conto che aveva una brutta cera. Mi spaventai un po'. «Cosa succede, viceispettore?»
L'oggetto che aveva in mano era un pacchetto. Me lo porse. Qualunque accenno di sorriso si cancellò dal mio volto. Era un pacchetto molto simile a quelli della macabra serie. Era indirizzato a me e non aveva mittente. Guardai il mio vice:
«E questo?»
Scrollò il capo:
«Non lo so, Petra, non lo so».
«Ma non è possibile! Cosa facciamo?»
«E cosa vuole che facciamo? Lo apriamo».
Mentre le mie dita disfacevano con ripugnanza i nodi del pacco, avevo la sensazione di essere molto lontana di lì. Ma dovevo affrontare la realtà, e la realtà era che, disfatto l'imballaggio, trovai una cosa che già conoscevo perfettamente: un pene reciso a mollo in un sacchetto di formalina. Il viceispettore lanciò una terribile imprecazione, prese un fermacarte e lo sbatté sul pavimento. Allora mi accorsi che, sotto la scatoletta, sporgeva la punta di un biglietto piegato in due. Lo lessi, sorrisi, guardai Garzón e gli dissi:
«Non si preoccupi, si tratta soltanto di un delicato presente di un mio ammiratore».
Garzón non capì una parola. Gli lessi il biglietto a voce alta.
«Cara Petra, visto che nessuno reclama i resti di Ivanov, e non risulta da nessuna parte che gli manchi un pezzo, ho pensato che forse le farà piacere conservarlo come ricordo. Un abbraccio e mille scuse per lo scherzo».
Firmato: Joaquin Montalbán.
Mi misi a ridere di cuore. Il mio collega brontolò:
«Io non lo trovo per niente divertente».
«Non mi stupisce, bisogna riconoscere al dottore un umorismo fuori del comune».
«E adesso cosa ne fa di questo orrore, lo mette in soggiorno?»
«Lo esibirò come trofeo di caccia. Che ciascuno ne tragga le conclusioni che vuole».
Evidentemente, non trovava divertente nemmeno il mio, di umorismo.
«Senta, Petra...»
«Non si arrabbi, Fermín. La invito a prendere un caffè alla Jarra de Oro».
«E lo lascia qui in ufficio? Se qualcuno lo trova lei finisce nei guai».
«Ha ragione, lo metterò in borsetta».
«Ma che cattivo gusto!»
«Non posso fare diversamente!» dissi ridendo. Rimase a guardarmi di storto.
«Lei si diverte come una pazza, vero?»
«Insomma, Garzón, si calmi! Alla fin fine un uccello non è poi una cosa così sacra».
Cominciava, suo malgrado, a lasciarsi sfuggire un sorriso.
«D'accordo, andiamo. Ma visto che ormai ha sdrammatizzato la situazione, penso che non le dispiacerà ascoltare qualche altra strofetta sull'argomento».
E mantenne la promessa, maledetto lui! Per tutta l'ora della pausa il suo repertorio non sembrava aver fine. Era chiaro che gli uomini avevano dedicato tempo e ispirazione a esaltare il membro virile. Be', dopotutto gli era rimasto ancora il tempo per scalare l'Everest! In fondo era una distrazione inoffensiva.
Barcellona, 28 ottobre 1998
Nota: Tutti gli argomenti sviluppati in questo romanzo provengono, per quanto possa sembrare inverosimile, dalla più assoluta realtà. La vita supera sempre la finzione.
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In Spagna è diffusa l'usanza di mangiare dodici acini d'uva in concomitanza con i rintocchi della mezzanotte.