07

A Coronas toccò il giudizio salomonico. Non fu nemmeno un compito difficile: fra due posizioni opposte come quella di Garzón e la mia, trovare un punto intermedio ragionevole sembrava un gioco da ragazzi. E tuttavia ci pensò bene prima di decidersi.

«Signori, devo dire che abbandonare l'indagine al punto in cui siamo, accontentandoci di spiegare le morti e le castrazioni avvenute fin qui, mi sembra eccessivo. Ma mi sembra altrettanto eccessivo avere due persone impegnate a tempo indeterminato. Per fare le cose bene, credo che forse seguendo le piste già aperte potremmo andare un po' più in là e chiarire dei punti ancora oscuri. È anche possibile che, morti i due ragazzi, ormai i responsabili dei crimini si siano eliminati da sé, e che non succeda più niente. In sintesi, credo che la soluzione stia nel continuare le indagini, ma per un periodo determinato, dopodiché, se non ci sono progressi, vi occuperete del caso parallelamente ad altri lavori. Se poi brancoleremo ancora nel buio... allora chiederemo al magistrato di chiudere il caso».

«Quale margine di tempo avremmo?» domandò subito Garzón.

«Direi, per il momento, un mese».

«Perché non due?» intervenni.

«Diciamo che un mese e mezzo andrà bene», concluse Coronas, come se stessimo tirando sul prezzo in un mercato orientale. Garzón sbuffò e allora il commissario, guardandolo, aggiunse inaspettatamente: «Naturalmente, viceispettore, sia chiaro che se lei è così convinto che il suo lavoro non serva a niente, anche il suo rendimento lascerà a desiderare; quindi, se lo desidera, le offro l'opportunità di essere sollevato dal caso per questo mese e mezzo e sostituito da qualcun altro».

«No, per carità!» reagì prontamente Garzón.

«Può spiegarmi perché non vuole che la tolga dal caso?»

«Perché sono curioso».

Coronas se ne usci in un sonoro «ecco!» mentre dava un deciso colpo sul tavolo che ci fece trasalire.

«Vede, mio caro Garzón, l'ha detto lei stesso: prova curiosità. E questo è esattamente quel che succede a me. E se c'è curiosità significa che il caso è ancora aperto, altrimenti, perché farsi delle domande e volerne sapere di più? Lo vede? La mia domanda e la mia strategia non erano casuali: volevo portarla a dire proprio quello che ha detto».

Non so se Salomone si fosse dato tante arie quando gli venne in mente la fesseria di tagliare in due il bambino, ma in fin dei conti Salomone era un saggio ebreo, e Coronas un piedipiatti spagnolo; non gli si poteva chiedere troppo. E poi, a me la sua soluzione andava bene. Un mese e mezzo non era male. Tanto più che Garzón aveva confessato la sua curiosità, cosa che non mi sarei stancata di ricordargli ogni volta che mi avesse rotto le scatole.

La prima cosa da fare, confrontandomi col mio vice dopo la sentenza del capo, era evitare di fargliela pesare come un trionfo personale. Sarebbe stato falso, oltretutto; mi ha sempre dato fastidio la gente che si butta con tanta passione nel lavoro da arrivare a confondere gli interessi lavorativi con quelli privati. Quindi passai all'azione e feci in modo che Garzón vi prendesse parte incaricandolo di chiamare di nuovo a deporre i genitori di Ramón. Dovevano riconoscere in modo definitivo la voce del figlio nella registrazione della sua ultima telefonata a casa mia. Io non ce l'avrei fatta a vedere le loro facce mentre ascoltavano, a sostenere le domande che sarebbero potute sorgere dopo. Me ne andai a cercare soluzioni per il mio geroglifico.

Osservai l'iscrizione cirillica che avevo copiato su un foglietto. Alla fin fine il viceispettore aveva ragione: era demenziale. Un uomo sta per uccidersi. Nella disperazione più estrema, sconvolto dalla morte dell'amico, avvenuta forse per colpa sua, pensa di dover fare a tutti i costi qualcosa affinché la polizia venga a conoscenza di un fatto spaventoso e prepara un'ultima missiva di cui mi avverte chiamandomi per telefono. Perfetto, fin qui tutto a posto, malgrado il suo smarrimento, un ultimo gesto equilibrato. Apriamo il pacchetto e cosa ci troviamo? Insieme al membro appartenente all'amico del cuore, una scritta indecifrabile. Per Dio! Bisognava essere completamente idioti per fare una cosa simile. A meno che non si sentisse ancora minacciato e che la minaccia pesasse su qualcun altro: un parente, un amico, un amore... In ogni caso quel modo di procedere era assolutamente stupido, irritante. Bisognava riconoscerlo. Morto o non morto.

Corsi con quella frase indecifrabile alla Escuta Officiai de Idioma, dove fui ricevuta dalla direttrice in persona. Era affascinata all'idea di ricevere un poliziotto; e il suo grado di fascinazione crebbe quando le misi davanti i caratteri cirillici. Li osservò con attenzione:

«Be', io direi che si tratta di russo, anche se non è la mia specialità; io insegno inglese. Non ho la minima idea di cosa possa voler dire. Sarà meglio che la accompagni al dipartimento di lingue slave, lì ci diranno qualcosa».

Salimmo per innumerevoli scale scontrandoci con i giovani allievi. Al dipartimento, che come tutto il resto dell'edificio mi ricordava il commissariato, la direttrice mi presentò una robusta donna bionda dal forte accento straniero. Non credo nelle generalizzazioni. Quindi, dopo averla conosciuta, non pensai che tutti i russi fossero antipatici, ma la considerai una sua caratteristica esclusiva. Efficiente e asciutta prese il foglietto e disse:

«Sì, questa è lingua russa e si traduce così: "Lochi, puro come l'aria"».

«Lochi? Cosa vuoi dire "lochi"?»

«È un cognome, immagino, non ha traduzione».

«Puro come l'aria?»

«Questo è quello che dice: "Lochi, puro come l'aria". Vuole che glielo scriva?» domandò spazientita.

«Non è necessario, lo farò io stessa».

Quando la direttrice mi accompagnò all'uscita, la voglia di sapere sembrava uscirle da tutti i pori.

«È riuscita a risolvere il suo problema? Spero che nessun allievo della nostra scuola si sia messo nei pasticci».

«No, è un'indagine di routine».

Era la cosa più imbecille che avessi mai detto, oltre che la più inverosimile, ma bisogna che la gente si abitui che sono loro a dovere delle informazioni alla polizia, e non viceversa. L'era mediatica aveva finito per farci credere che chiunque abbia il diritto di sapere qualunque cosa. Ma per fortuna in quel momento evitai di infliggere alla povera direttrice una filippica sull'argomento; ebbi la lucidità necessaria per capire che ero di pessimo umore, e così me ne andai a casa.

Julieta mi aveva preparato un'enorme bistecca con verdure, senza dubbio per compensare i suoi eccessi passati, ma anche perché così se la sarebbe cavata prima e avrebbe avuto più tempo per chiacchierare col fidanzato Palafolls. È la vita, pensai, avevo creduto che la presenza di due guardiani davanti alla mia porta fosse superflua, e tuttavia per altri era stata determinante. All'improvviso mi ricordai che rientrando non avevo visto i miei angeli custodi. Mi affacciai alla finestra e constatai che non c'erano. Molto significativo, Coronas ci ordinava di continuare le indagini, ma, morto Ramón Torres, riteneva che io fossi fuori pericolo. Mi sentii riconfortata, quella notte avrei dormito meglio.

Cenai in cucina, bevendo un buon Rioja e ascoltando del jazz. Basta correre, mi dissi, sentendo per la prima volta da parecchi giorni una certa pace. Basta inseguire gli avvenimenti. Riflessione. Tagliai un angolo della bistecca e succhi sanguinolenti tinsero il piatto. Immediatamente mi tornò in mente lo spettacolo del suicida nella vasca da bagno e, soprattutto, l'odore. Non era il giorno ideale per mangiare carne, spinsi il piatto da parte. Finii le verdure e andai a sedermi in soggiorno. Tirai fuori tutta la documentazione del caso e cominciai a ricapitolare. Se bisognava andare avanti sulla base degli indizi che accompagnavano i peni era indispensabile vedere fin dove eravamo arrivati. L'indizio numero uno, il punto di catgut, apparve finalmente motivato. Con quel segnale ci era stato indicato che la serie delle castrazioni avveniva in un contesto medico. Ramón e Esteban erano studenti di medicina. Ma la conclusione più importante era che il livello di trasparenza dei segnali non era per niente alto. Se tutto il resto aveva lo stesso indice di correlazione, non c'era da stupirsi che fosse difficile trovarvi un senso, Avevamo seguito fino alle ultime conseguenze le implicazioni del primo elemento? Niente affatto. Presi un bloc-notes e mi appuntai: «Interrogare tutti i compagni di corso di Ramón e Esteban. Eventualmente infiltrare qualche agente in facoltà perché tenga gli occhi aperti». Il secondo indizio, la crocetta di cera, non era risultato per niente rivelatore. Tutte le ricerche sulle chiese o sulle sette erano finite su un binario morto. E non mostrava alcuna attinenza col resto degli indizi. Meglio lasciarlo stare per un po'. Poi veniva la scheggia di pietra calcarea, e nemmeno questa sembrava in rapporto col resto, a meno che... Un'idea aleggiò nella mia mente come un effluvio di Magdeleine di Proust. Scartabellai fra le fotocopie fino a trovare il fascicolo giusto: un verbale del sopralluogo alla cava redatto da Garzón, una descrizione della pietra, la relazione tecnica del perito e la lista di clienti che ci era stata fornita. Cominciai a leggere un nome dopo l'altro finché non trovai quello che cercavo: Sergej Ivanov. Di certo il nesso era molto labile, ma chissà... Una scritta in russo e un russo che compra proprio quella pietra... C'era, per di più, una certa prossimità geografica fra Cambrils e Ulldecona. Sergej Ivanov. Bisognava seguire quel filo. Sergej Ivanov. Alla fine riguardai le fotografie di ciascuno degli indizi, di per sé assurdi. Il viceispettore aveva ragione, il tutto aveva l'aria di un gioco da bambini viziati che sviliva il nostro compito di poliziotti. Garzón non si sbagliava mai del tutto, aveva sempre una parte di ragione. Un gioco di ruolo? Sembrava un po' delirante. Mai, mai più avrei concesso un'intervista televisiva che mi mettesse in contatto con le tenebre del mondo esterno.

Il giorno seguente convocai Garzón per una riunione di lavoro che si preannunciava intensa. Lui cominciò con l'informarmi sul suo ultimo incontro con i Torres. Fra singhiozzi, esitazioni e imprecazioni contro l'avversità, entrambi avevano riconosciuto, con un minimo margine d'errore la voce del figlio sul nastro registrato. C'era da immaginarselo. Io a mia volta notificai al viceispettore le conclusioni e i piani scaturiti dalle mie meditazioni della sera prima. Un paio di sbuffi di insoddisfazione non mi furono risparmiati quando seppe che lo attendeva un'indagine a vasto raggio fra gli studenti di medicina. Ai contrario, quando gli dissi che quel pomeriggio stesso avremmo fatto un altro viaggio alla cava, non furono più soltanto sbuffi di protesta ma franca ribellione.

«Mi spiace, ispettore, stasera non se ne parla».

«Può dirmi perché?»

«Perché è il 31 dicembre, cazzo, e stanotte sono invitato a una festa! Se andiamo a Ulldecona non farò in tempo. E poi, dubito che lavorino in un giorno come questo. Di solito le aziende danno mezza giornata libera; non vedo perché alla cava debba essere diverso».

«È vero, mi scusi, non mi era nemmeno venuto in mente».

«Non ha deciso niente per Capodanno?»

«Me ne ero completamente dimenticata».

«E cosa pensa di fare?»

«Be'... forse chiamerò qualche amico e mi farò invitare a un cenone... In realtà non me ne importa niente, mangerò qualcosa da me e poi mi metterò a leggere».

«Non mi sembra una bella idea. Capisco che non gliene importi un tubo delle festività, ma dare l'addio all'anno vecchio e cominciarne uno nuovo è una cosa che bisogna fare fra amici. Perché non viene con me? La festa che le dicevo è all'Efemérides, si pagano cinquemila peseta e questo comprende la cena, il Bacchettino dell'uva 1 , spumante e musica fino all'alba. Offro io se me lo permette».

«Ma... Non saprei, tutto quel casino; e poi ci sarà anche la moglie di Pepe».

«Non ci sarà, partecipa a un programma televisivo fino a tarda notte. Forza, si svegli, sta diventando peggio di una suora!»

Mi lasciai convincere. Non mi piace che la gente mi dica cosa devo fare per il mio bene, forse fu decisiva l'immagine della suora, ma sta di fatto che quella sera alle dieci, Garzón ed io facemmo il nostro ingresso trionfale all'Efemérides.

Io portavo un semplice vestito di raso grigio, di quelli che dimostrano che l'età non mi ha trattata poi così male, pur senza ostentare eccezioni miracolose. Garzón era stupendo, in abito scuro con una camicia di un bianco sepolcrale. Una cravatta color porpora gli dava la solennità di un prelato. Subito ci rendemmo conto, però, che la nostra eleganza contrastava col tono generale; o magari no, perché la gente che riempiva l'Efemérides era caratterizzata dall'assoluta libertà di scelta nell'abbigliamento. C'erano ragazzi di tribù metropolitane che coniugavano la moda con l'ispirazione personale. Giovani con la faccia da studenti che non si erano nemmeno cambiati i jeans di tutti i giorni. Capelloni con un tocco hippy che sfoggiavano pantaloni a zampa e gonne lunghe fino ai piedi; e perfino alcuni giovani marocchini con accessori etnici propri del loro paese. A dire il vero, se stonavamo, era solo per l'età. Ma nessuno sembrava incline a ricordarcelo. Regnava una tale confusione, una così grande allegria, che avremmo proprio dovuto essere vecchi bacucchi per abbandonarci alle riflessioni sul passare degli anni o sul declino della maturità.

Garzón conosceva molti di quei chiassosi ragazzi che lo salutavano con pacche sulle spalle e frasi del tipo: «Che ganzo che sei, Fermín!». Ci si fanno un sacco di amici a essere clienti abituali in un posto. Io ero un po' spaesata e, passati i primi momenti di euforia, cominciai a pentirmi di essere venuta, cosa d'altra parte normale in me. Proprio per questo, per evitare una fuga poco cortese, mi diedi a scolare un calice dopo l'altro di cocktail champagne pensando che così mi sarei caricata un po'. E ci riuscii. Nel giro di un'ora mi muovevo come un pesce nell'acqua fra i tavoli e il buffet, avevo fatto anche qualche conoscenza. Salutai Pepe, che era bellissimo, o almeno così mi parve in virtù di quell'euforia autoindotta, e, ritrovata ormai la sicurezza, mi misi ad aiutare Hamed ad asciugare dei bicchieri. Quando ormai mi stavo francamente divertendo ebbi all'improvviso una visione che mi sconcertò. Chi erano quei due che si baciavano indifferenti alla folla intorno a loro? Ma certo, né più né meno che Julieta e Palafolls. Che cazzo ci facevano lì, a parte pomiciare? Non appena si accorsero della mia presenza, vennero a salutarmi con la massima cordialità. Ovviamente, il consiglio di venire all'Efemérides era partito dal viceispettore, che era davvero sprecato come poliziotto viste le sue doti per le relazioni pubbliche. Risi, parlai forte, scherzai e chiacchierai con loro, incoraggiata dall'aspetto di Palafolls. Vestito in modo normale e fra i suoi coetanei sembrava un ragazzo come tanti. Voglio dire che nessuno l'avrebbe preso per un poliziotto, il che... Garzón interruppe i miei pensieri:

«Ma che cavolo fate ancora qui? Andate subito a prendere i vostri sacchetti dell'uva, mancano solo cinque minuti alla mezzanotte!»

Corremmo verso un tavolo su cui erano stati ammonticchiati gli acini della fortuna e ci preparammo a seguire le regole dettate dalla tradizione. Tutti i mobili del ristorante erano stati spostati e la gente occupava il centro della sala formando piccoli gruppi di amici. Le casse dello stereo furono collegate con la diretta televisiva dalla Pubertà del Sol. Un formicolio di impazienza precedette i dodici colpi. Alla fine suonarono uno dopo l'altro scatenando un frenetico andirivieni di mani alla bocca, di soffocamenti, di risate nervose. Quando si sentì il dodicesimo rintocco, e il dodicesimo acino fu deglutito, tutti esplodemmo in un festoso clamore e presero il via i baci e gli abbracci. «Buon anno!» mi gridò Garzón, e come un orso bruno mi strinse fra le sue bracciate sollevandomi dal pavimento. Poi baciai Julieta e Palafolls, che finalmente avevano smesso di tubare, e poi tutti si lanciarono ad abbracciarsi senza discriminazioni, come se avessimo appena vinto la Seconda Guerra Mondiale. In quel pandemonio emotivo mi trovai faccia a faccia con Pepe. Lui mi disse: «Ti auguro tanta felicità, mia cara ex moglie», e detta la sua battuta, mi baciò. Mi accorsi di apprezzare nuovamente quel che di lui mi era sempre piaciuto: la sua gioventù, e misi in quel bacio più effusione di quanto sarebbe stato opportuno. Ma non importava, era cominciato un nuovo anno e questo sembrava consentire ogni eccesso. Di fatto, e per trovarne conferma, osservai Garzón scatenato in una specie di polka con un cappellino di carta alla Genia Khan di traverso sulla testa. Io ballai con Pepe, con Hamed, con un ragazzo col naso e i baffi finti di Gronchi Mar... Insomma, l'imbecillità di massa che avevo sempre deprecato divampò in me senza che potessi fare niente per impedirlo.

Esausta, mi sedetti a riposare, e per ottenere che Garzón venisse due minuti a parlare con me dovetti ripetutamente chiamarlo.

«Sa cos'ho pensato, viceispettore?»

«Dica, mia bella Petra».

«Credo che invece di mandare lei alla facoltà di medicina, possiamo infiltrare fra gli studenti Palafolls. È preciso e identico a loro! E forse sarebbe un sistema più efficace. Cosa ne pensa?»

Il suo sguardo aveva qualcosa di molto vicino all'odio.

«Certo, ispettore, che lei è implacabile. Le sembra il caso di parlare di lavoro proprio adesso?»

E se ne andò soffiando in una lingua di suocera come un camaleonte a caccia di mosche. «Non importa», pensai, «domani la vedrà in un altro modo». Nemmeno io potevo fermarmi a riflettere a lungo su quell'idea; non mi lasciarono stare tranquilla neppure per un istante. Subito si fece avanti Pepe per invitarmi a ballare, questa volta un ritmo lento e cadenzato.

«Ti stai divertendo?» mi sussurrò all'orecchio.

«È la stessa cosa che mi chiedo anch'io, ma non ho avuto il tempo di rispondermi in tutto questo bailamme».

«Sei sempre la solita».

«La solita?»

«Contraddittoria, sfacciata, ironica, ribelle...»

«Una donna tremenda, insomma».

«Diciamo... un po' scomoda».

«Non ho mai aspirato a essere un tappetino».

«No, piuttosto un letto da fachiro».

Mi misi a ridere di gusto. Lui mi strinse. Sentii il suo corpo giovane, nervoso, conosciuto e ormai quasi dimenticato. Era così piacevole lasciarsi andare... senza dover allacciare nuove relazioni, senza tensione, senza malintesi, senza mercanteggiamenti, senza... La canzone finì e non riuscivamo a separarci».

«Ti porto qualcosina da bere?» mi chiese.

Qual cosina? Mi ricordai che quella era la sua domanda quotidiana di fine pomeriggio. Qual cosina. La Madeleine di Proust. Il sapore stantio del nostro matrimonio. Le serate vuote, le discussioni, le filosofie inconciliabili, l'impressione di soffocamento, di solitudine interiore. Benedette le sensazioni olfattive, gustative, uditive, capaci di restituirci una sferzata di realtà!

«Qualcosina? Non se ne parla nemmeno, devo andare, non mi ero accorta dell'ora».

«Come, te ne vai?»

«Me ne vado, caro Pepe, salutami tanto tua moglie».

Rimase lì allibito nella sua sorpresa. Sorrise tristemente e fece un gesto teatrale con la mano.

«Addio, ispettore Delicado, spero che in questo nuovo anno tu ritrovi la felicità!»

«Di certo l'ho lasciata da qualche parte, prometto di cercarla. Addio».

Raggiunsi Garzón aprendomi un varco fra la gente. Era circondato da un gruppetto di ragazze che si sbellicavano dalle risate ballando con lui. Aveva sostituito il cappellino cinese con un fez ed eseguiva caracollando i passi di quella che sembrava una mazurca.

«Me ne vado, Fermín. La aspetto il giorno due alle otto spaccate».

«Ispettore, non le ho mai cantato una canzone che dice: "I cazzi son strumenti di grande utilità..."»?

Scappai fuori in cerca della macchina. L'aria gelata dell'alba mi rese un po' più lucida. La gente che si diverte non scherza affatto. Qualcosina? Mio Dio, l'avevo scampata bella! E al tempo stesso, che delusione! Il Destino mi doveva una compensazione, e bella grossa, anche! almeno un metro e novanta, occhi azzurri, portamento atletico, incontrollata tendenza alla passione... Meglio non pensarci, forse non era ancora troppo tardi per prepararmi una tazza di tè e leggere qualche paginetta. Moderazione, innanzitutto.

 

Avrei potuto giurare che una giornata intera non sarebbe bastata a dissipare la sbronza di Garzón. Quando si presentò nel mio ufficio era ancora rintronato. Sorvolai sul suo stato generale e passai a illustrargli la nuova strategia.

«Bisognerà informare Palafolls sui particolari del caso. Bisognerà preparargli un profilo e parlare col preside della facoltà di medicina perché ci autorizzi e spieghi la situazione ai docenti. Se ne occupi lei, Fermín».

«D'accordo, ispettore, nessun problema».

«Io, nel frattempo, andrò alla cava per seguire la pista del russo. Credo sia una coincidenza su cui valga la pena di insistere. Che gliene pare?»

Mostrò con una smorfia il suo scetticismo.

«Mah, non so cosa dirle, lei conosce il mio punto di vista. Quanto alla coincidenza... in fondo di russe ci sono anche l'insalata, la roulette, la vodka, per esempio».

«Certo, viceispettore, se questo è il meglio che le viene in mente, credo che possiamo fare a meno di discutere. Si metta al lavoro immediatamente. Voglio che Palafolls sia tramutato quanto prima in uno studente modello».

Uscì sparato come una freccia. Se i ragionamenti non lo convincevano, un ordine ben dato lo rimetteva in riga. Da parte mia, ero persuasa di trovarmi finalmente sulla pista giusta ed ero trascinata dalla passione investigativa molto più che dal desiderio di punire il colpevole. Sull'onda di quell'impulso guidai a tutta velocità fino a Ulldecona.

Il responsabile della cava si ricordava perfettamente di me: vantaggi dell'essere donna nonché poliziotto. Mi condusse nel suo ufficio e quando gli chiesi del suo cliente russo si massaggiò la guancia e mi diede un'occhiata d'intesa.

«Ho capito chi vuole dire. Certo che lo conosco, anche se l'ho visto solo due volte, ma me lo ricordo molto bene. Venne a fare gli ordini per almeno un anno di consegne. La pietra gli serve per una costruzione qui vicino. Lavora per conto di un impresario russo, e rimane qui per tutta la durata dei cantieri. Questo è quel che mi ha detto».

«Di che tipo di costruzione si tratta?»

«Lui non mi disse niente, ma nella zona si dice che i russi abbiano comprato molti terreni sulla costa. Stanno tirando su delle case da nababbi, da parecchi miliardi ciascuna, per altri russi che pare verranno a sistemarsi qui. E poi, stanno costruendo un edificio molto grande tutto rivestito con la nostra pietra. Non so cosa dovrà essere, forse un albergo».

«Come si svolgevano gli incontri con questo Ivanov?»

«Si parlava di lavoro, il solito: il prezzo, i quantitativi, le date di consegna, il trasporto. Quel che si fa sempre in questi casi. Poi venne un'altra volta per prolungare il contratto di qualche mese. Parla benissimo lo spagnolo».

«Che tipo è?»

«È strano, non saprei come dire».

«Strano?»

«Sì, strano, vestito di nero, i capelli... Sembra Rasputin». Si mise a ridere, un po' imbarazzato da quella trovata. «Be', voglio dire che ho visto un film dove c'era Rasputin, ed era un po' come lui».

«Capisco. Ho bisogno che mi dia indicazioni per arrivare al cantiere».

«Posso telefonare a uno dei camionisti che effettuano il trasporto. Ma, mi dica, non sarà un truffatore o qualcosa del genere? Non mi andrebbe che mi lasciasse una partita da pagare».

«Non si preoccupi; se dovesse venir fuori qualcosa del genere, glielo farò sapere».

Mentre viaggiavo verso il luogo indicato ebbi la certezza, il presentimento, la precisa sensazione di essere diretta verso il centro nevralgico del caso. Non ne sarei uscita a mani vuote. Fortunatamente Garzón non era con me, perché a condividere un presentimento si rischia sempre di vederselo smontare.

Trovai il cantiere con facilità seguendo le indicazioni dell'autotrasportatore. Tanto più che lo si vedeva da lontano: c'erano macchinari da costruzione e muratori al lavoro. Fu a uno di loro che dissi il mio nome e chiesi di vedere Sergej Ivanov. Assentì, si allontanò verso la baracca della direzione e tornò accompagnato dallo stesso Ivanov. Mi sorpresi dell'immensa perspicacia di certa gente: quel tipo era veramente preciso identico a Rasputin. Quaranta e passa anni, quasi cinquanta, barba rasa, capelli abbastanza lunghi portati dietro le orecchie, pantaloni e redingote nera, una sciarpa... Ma ormai era troppo vicino, staccai gli occhi da lui per non essere indiscreta e quando li rialzai, e vidi che Ivanov mi stava guardando direttamente negli occhi, ebbi un brivido. In quell'uomo vi era qualcosa di profondo, oscuro, uno spazio popolato di presenze pericolose, misteriose, pulsanti e vive come cuori strappati. Sorrise con un'espressione imperscrutabile, mi tese la mano, fredda, asciutta.

«Ispettore Delicado! In cosa posso servirla?»

«Vede, mi sto occupando di un caso...»

«Prima che vada avanti voglio dirle che la conosco».

«Mi conosce?»

«L'ho vista mesi fa in televisione».

«Che coincidenza! Sono comparsa solo una volta».

«Guardo molto la televisione, mi aiuta a migliorare la lingua; e poi, passo tanto tempo nella mia umile baracca qui in cantiere... Quando gli operai vanno a casa io rimango qui da solo».

«Perché non prende una stanza in paese? Deve esserci qualche buon albergo».

«I lavori sono lunghi, non riuscirei a resistere in un albergo. Anche se mi vede impegnato in compiti così aridi, sono un uomo di studi, ispettore. Mi piace leggere. Qui mi sono sistemato bene. Posso invitarla nella mia modesta dimora a prendere una tazza di tè? L'ospitalità è sacra per noi russi, fa parte della nostra componente orientale».

Rimasi affascinata nel vedere l'interno di quella che mi era sembrata una normale baracca di cantiere. Era rivestita di legno, calda, accogliente, e comprendeva una saletta piena di libri, con un paio di comode poltrone, uno scrittoio e un grande samovar di ceramica a fiori.

«Qui posso prendere il mio tè», disse Sergej.» Che gliene pare? Ho anche una minuscola cucina, più che sufficiente per me, un piccolo bagno e una camera da letto».

«Ritiro quel che ho appena detto sugli alberghi».

«E poi non vivo in completa solitudine, come ha potuto vedere, ci sono molti operai a farmi compagnia».

«E di notte un guardiano, immagino».

«No, non è necessario, basto io. Non sono un uomo timoroso, e non esiste alcun pericolo di furto. Inoltre abbiamo un cane da guardia».

Preparò un paio di deliziose tazze di tè e ci sedemmo. Mi offerse una sigaretta, che accettai.

«Ecco, così va meglio. Ma, mi dica, quale caso ha portato fin qui le sue indagini?»

«Un caso di morte, signor Ivanov, la morte del giovane Esteban Riqué».

«Un assassinio?»

«Assassinio, omicidio preterintenzionale... non lo sappiamo ancora. Vuole vedere una foto?»

La prese fra le mani, ma il suo era un volto che non cambiava espressione in nessuna circostanza.

«Dio santo, un ragazzo giovanissimo!»

«L'aveva mai visto?»

«No, mai. Avrei dovuto vederlo? È mai venuto qui?»

«Questo è appunto quel che volevo chiederle».

«Le ho già detto che non l'ho mai visto, ma possiamo domandare agli operai, al capocantiere».

«Lo farò, non si preoccupi, lo farò».

«E mi dica, ispettore, cosa l'ha indotta a venire fin qui? Forse questo ragazzo abitava nelle vicinanze?»

«No, non abitava da queste parti, ma ci sono degli indizi che mi portano fin qui».

«Posso chiederle quali?»

«Mi dispiace, non mi è possibile risponderle».

«D'ogni modo, conti sulla mia collaborazione».

«Molto bene. Ora, se non le dispiace, mi informi in generale su questi lavori, signor Ivanov».

«Ma naturalmente. Il cantiere appartiene a un consorzio di investitori russi. Se ha bisogno dei nomi, glieli farò avere. Io lavoro a nome loro, come delegato e uomo di fiducia, grazie al mio dominio dello spagnolo. Sovrintendo ai lavori».

«Lei parla lo spagnolo decisamente bene. Dove ha imparato?»

«In Russia. Mia moglie era quella che voi chiamate una niña de la guerra, una dei bambini che furono spediti nel nostro paese dai comunisti. Non solo non aveva dimenticato la sua lingua, ma insieme ci sforzammo di perfezionarla».

«Ah, che storia curiosa! E dove si trova sua moglie adesso?»

«Disgraziatamente, sono più di cinque anni che mi ha lasciato. Sono vedovo».

«Mi dispiace. E cos'è che state costruendo?»

«Un villaggio di lusso. Ciascuno dei soci, i miei datori di lavoro, disporrà di una splendida casa per trascorrervi  le vacanze e per ritirarvisi una volta raggiunta l'età della pensione. Il clima in Russia... che le posso dire?»

«E l'edificio più grande?»

«Le ho già detto che i miei capi sono uomini d'affari. Hanno in mente un piccolo albergo senza fini commerciali, una specie di foresteria per potervi accogliere visitatori o partecipanti a qualche convegno. Non credo di doverle ricordare che la Russia è un paese in espansione».

«Lo so, lo so».

Avrei giurato che il mio interrogatorio lo divertisse, che trovasse spassosa tutta la situazione. Aveva due occhi acutissimi che non mi toglieva di dosso. Mi faceva sentire insicura e imbarazzata.

«C'è qualcos'altro che vuole sapere?» mi chiese.

«Farò qualche domanda fra i muratori».

«Ma certo! Io non l'accompagnerò, così si sentirà più libera. Quando avrà finito uscirò a salutarla».

«Vi sono dei russi fra gli operai?»

«No, assolutamente, non ho portato nessuno con me. Tutti i lavoratori sono stati contattati qui. Non sarà mica un ispettore del lavoro, per caso?»

«Temo di no».

Alzandomi in piedi diedi una rapida occhiata agli scaffali. Mi guardò intensamente.

«Curiosità intellettuale?»

«Visto che non capisco il russo me ne vado senza sapere cosa le piace leggere».

«Temi profondi, ispettore, sono un uomo insignificante, che però aspira a migliorarsi. Leggo i grandi classici del mio paese: Puskin, Tolstoj, Dostoevskij. Leggo di poesia, teatro, filosofia e perfino di teologia».

«Incredibile! Ha messo su una vera biblioteca. Per quanto tempo abiterà ancora qui?»

«Fino alla fine dei lavori. Fra cinque o sei mesi la mia missione sarà compiuta e potrò tornarmene in Russia».

«Immagino che ci vedremo di nuovo».

«La riceverò con piacere. In attesa di una sua visita, terrò il samovar sempre acceso».

Mentre mi allontanavo, sentii per un pezzo il suo sguardo perforarmi la nuca. Chissà se stava ancora sorridendo con la sua enigmatica espressione.

Senza alcuna speranza feci un giro di domande fra gli operai. Nessuno aveva visto Esteban né altri ragazzi all'interno del cantiere. Eravamo in una zona molto isolata, una delle poche ancora pressoché vergini sulla costa fittamente edificata di Tarragona. Se qualche ragazzo fosse passato di lì, loro l'avrebbero visto. Il russo? Nemmeno il russo riceveva visite. Non c'era niente da fare. Decisi di andarmene e di non perdere altro tempo. Quella gente non sapeva di cosa stessi parlando. Altrimenti, Ivanov non mi avrebbe dato tutta quella libertà di fare domande, pensai. Letteratura, filosofia, Dostoevskij... tutto molto bello, peccato che non sapessi il russo. Eppure, bisognava essere ciechi per non notare al primo sguardo la gran quantità di croci impresse sul dorso dei libri che Ivanov aveva allineato sui suoi scaffali. E la croce è un segno internazionale. «Strano, un direttore dei lavori che legge di simili argomenti!» mi dissi. C'era sotto qualcosa che meritava di essere approfondito.

Mi fermai a mangiare un ignobile piatto unico in un autogrill. Quando ebbi finito chiamai il commissario col cellulare.

«Commissario Coronas, ho bisogno che lei verifichi rapidamente un paio di cose. Voglio sapere se è schedato qui o in Russia un certo Sergej Ivanov. Appena arrivo a Barcellona le spiego. E poi vorrei che si informasse presso i colleghi di Tarragona se il villaggio turistico L'Anatra Marina, di proprietà di certi russi, in costruzione sulla costa, è in regola. Crede di potersene occupare?»

Se ne occupò. La sera lo raggiunsi nel suo ufficio e lo trovai sorridente, segno inequivocabile che aveva tutte le informazioni. In effetti, il villaggio russo denominato L'Anatra Marina era perfettamente in regola. Vendita dei terreni, imposte, permessi di costruzione, tutto a posto.

«Naturalmente i proprietari, uomini d'affari russi, devono appartenere alle nuove mafie, come quelli che stanno comprando ad Alicante, in Andalusia e in molte altre zone. Qui, però, non ci risulta niente a loro carico. Non ci sono ordini di cattura dell'Interpol contro di loro, né sospetti di alcun genere. I loro capitali sono puliti, danno posti di lavoro e niente offusca la loro rispettabilità. Finché non ne combinano qualcuna...»

«E riguardo a Ivanov?»

«Ho consultato anche l'Interpol e non c'è nessuna scheda. Ho cercato di mettermi in comunicazione via Internet con la polizia di Mosca, ma loro non sono ancora attrezzati. E poi, è possibilissimo che quest'individuo, se ha qualcosa da nascondere, sia qui con un nome fittizio e con documenti falsi».

«E allora, in che modo si può verificare...?»

«In nessuno; a meno che... A meno che non vada lei stessa a Mosca e ponga le stesse domande alla polizia di lì».

«Lei mi autorizzerebbe, commissario?»

«Sarebbe disposta a fare un viaggio simile?»

«Domani stesso».

Si mise a ridere.

«Petra Delicado, crederà mica che parlassi sul serio?»

«Ma naturalmente».

«Be', mi dispiace, è impossibile».

«Perché? Non è la prima volta che degli agenti del nostro commissariato vanno in trasferta all'estero».

«Si, però di solito si tratta di casi di portata internazionale».

«Questo è un caso di portata internazionale».

«Io non la vedo così. Mi riferivo a traffici di droga».

«Andiamo, commissario, lei sa che ho passato un mucchio di tempo all'Ufficio Documentazione! Vuole che le sottoponga gli esempi di casi che hanno richiesto viaggi all'estero e che non avevano niente a che fare con gli stupefacenti?»

«Sono convinto che ne troverebbe, ma il traffico di droga è il motivo più comune».

«Esiste forse un articolo del regolamento che dice: droga sì, omicidi no?»

Vidi la collera affiorargli sul volto come un'eruzione.

«Senta, Petra, le ricordo che sono io a decidere cosa si fa qui dentro!»

Cambiai subito il tono riducendolo a un'implorante mezza voce con note di disperazione.

«La prego di scusarmi, signor commissario. Non mi sono mai sognata di mettere in dubbio la sua autorità, solo che... mi creda, se un viaggio in Russia fosse l'unico modo per seguire fino in fondo la mia linea investigativa, la prego di darmene autorizzazione. Lei sa che in questo caso è in gioco fin dall'inizio una forte implicazione personale che non sono stata io a scegliere. Possono esserci parecchi altri cadaveri che ci aspettano da qualche parte, signor commissario. Sono troppi i morti ormai».

Si calmò e la sua voce divenne paterna.

«Me ne rendo conto, Petra, e finora non le ho negato niente che potesse facilitare le indagini, ma quel che mi chiede ora è del tutto inconsueto... E molto costoso, per di più!»

«Costoso? Si tratta solo di un volo aereo e di un paio di notti in albergo».

«Un volo aereo? Davvero pensa che la manderei da sola in Russia? Neanche per sogno, dovrà accompagnarla Garzón».

«Ma commissario, si tratta solo di fare delle verifiche presso gli uffici di polizia, non andrò di certo a cacciarmi nei bassifondi».

«Lei è impazzita! Ha un'idea di cos'è Mosca al giorno d'oggi? Una città senza legge! Possono tirarle via la pelle solo per rubarle i guanti. E può darsi che neppure chiusa in un commissariato sarebbe al sicuro. La corruzione è dilagante, abbiamo motivi per pensare che più della metà degli affari della mafia si svolgano con la connivenza della polizia».

«Questo non cambierebbe se mi accompagna Garzón».

«Garzón è un vecchio volpone e morde meglio di lei».

«Sì, ed è un uomo, è questo che voleva dire, no?»

«Su Petra, non cominci con le rivendicazioni femministe, lo sa che mi dà sui nervi. E poi cosa cazzo mi tira fuori adesso contro Garzón? Siete sempre andati d'accordo».

«Non ho niente contro di lui. Va bene, accetto il suo piano, perché questo significa che mi autorizza a partire, vero, commissario?»

Mi osservò, sorridendo di traverso.

«Petra Delicado, lo sa cosa mi muove a dirle di sì?»

«No, signor commissario».

«Mi spaventa la possibilità di averla fra i piedi ventiquattrore su ventiquattro a rompermi le palle. Ma le dico una cosa, se dopo tutto questo casino che stiamo facendo le sue ipotesi sul caso dei peni tagliati risultassero false... allora chi si gioca la minchia sono io».

«A questo riguardo non posso dividere i rischi con lei, ma per solidarietà potrei tagliarmi un dito del piede».

Si mise a ridere.

«Va bene, allora vada a comunicare al viceispettore la sua triste sorte. Deve avere un diavolo per capello. È alla facoltà di medicina da stamattina, a preparare il terreno per Palafolls».

«Lo troverò. Ah, commissario Coronas... e grazie davvero!»

Si girò con una faccia di autoimposto malumore e se ne andò senza rispondere. In fondo, il commissario Coronas non era cattivo,

 

Avevo appena finito di mandar giù un conglomerato di semi di soia che era stata tutta la mia cena, quando suonò il telefono. Era il viceispettore.

«Petra, per Palafolls all'università è tutto sistemato».

«Coronas mi ha detto che è andata per le lunghe».

«Preferisco non parlarne».

«Sarà meglio, si risparmi le parolacce per dopo. Ne avrà bisogno quando saprà qual è la prossima mossa che faremo».

«Sta scherzando?»

«Andiamo a Mosca, Fermín».

Seguì un silenzio sospetto. Mi aspettavo un'infinità di domande, ma ebbi soltanto questa risposta:

«Fenomenale! Questo è il tipo di viaggio che mi piace, in Russia in gennaio e in agosto nel Congo! Sì, perché no?»

«Domani in ufficio glielo spiego, vedo che stasera non è dell'umore giusto».

 

 

08

Ho paura di volare. Non è sempre stato così: ho ereditato questa spiacevole fobia dal mio primo marito. Era un uomo equilibrato e composto, ma quando saliva su un aereo, perdeva ogni compostezza e diventava isterico. Dopo aver viaggiato per parecchi anni insieme a lui, invece di abituarmi cominciai anch'io a sentirmi insicura. Il mio ex marito combatteva la paura col Valium, io invece andavo giù di whisky. Preferivo essere un po' sbronza che arrivare a destinazione completamente instupidita.

Garzón fu sorpreso quando mi vide chiedere alla hostess la prima dose. Erano appena le nove di mattina. Ma non disse niente, si limitò a guardarmi di sottecchi con un certo scetticismo. Immaginai che fosse ancora arrabbiato: il suo senso pratico lo portava a considerare quell'avventura come nient'altro che una divagazione, una perdita di tempo, proprio quando avevamo tante cose da risolvere. Cercai di ingraziarmelo; la prospettiva di dover tollerare per una settimana le sue silenziose recriminazioni mi faceva venire i capelli dritti.

«Lei sopporta bene il freddo, Fermín?»

«Parto preparato».

«Un processo di auto convincimento?»

«Nemmeno per sogno, mi sono comprato quattro paia di mutandoni lunghi. Ho fatto il militare a Burgos».

Quando ci portarono il pranzo Garzón spazzolò il suo vassoietto nel giro di pochi secondi. Io non assaggiai quasi niente, ma chiesi che mi versassero dell'altro whisky. Questa volta ebbi la compagnia del mio collega.

«Chi verrà a prenderci?» domandò.

«Aleksandr Rekov, ispettore di polizia. Lui ci assisterà e ci farà da accompagnatore e da guida per tutto il tempo che trascorreremo a Mosca».

«Se avessimo una foto di quel Sergej la cosa sarebbe più facile».

«Saremmo comunque obbligati a consultare gli archivi. Speriamo che quello sia il suo nome vero, o almeno un nome falso che risulti già in archivio».

«Sarebbe già una bella cosa se fosse schedato, mi creda».

«Immagino che la mafia russa lavori con dei professionisti».

«È sicura che saprebbe riconoscerlo se lo vedesse in foto? Le foto segnaletiche non sono mai molto buone. E poi questi russi sono dei trasformisti».

«E questa da dove l'ha tirata fuori?»

«Non so, dico».

Al terzo whisky ero già riuscita ad autoconvincermi che eravamo in treno. Anche Garzón sembrava meno distruttivo. Visto che aveva fame e che non ci servivano altro si mise a chiacchierare.

«Da piccolo avevo letto le avventure di Michele Strogoff. Mi emozionavano molto le descrizioni della steppa russa. Per più di un anno andai in giro in bicicletta per la campagna castigliana pensando di essere un emissario dello zar».

«Che bellezza!»

«Non creda: mio padre mi disse che trascuravo le bestie, mi diede una gran lavata di capo e mi tolse la bicicletta. Io mi sono sempre scontrato con la realtà, Petra, dura come una roccia».

«Ma nessuno potrà mai toglierle il senso di libertà provato in quelle corse per la campagna».

«Questo è vero, ma non so se serva a qualcosa».

«Anche a me la Russia ricorda dei romanzi, quelli di Tolstoj e di Dostoevskij. Mi è sempre sembrato un paese misterioso, immenso, mistico... il grande paese in cui si perdono inesorabilmente gli eserciti invasori».

Garzón invece si era perso nelle fantasticherie o nei vapori del whisky. Improvvisamente cambiò argomento:

«Pensa di rimettersi con Pepe?»

Lo guardai senza neppure prendermi il disturbo di mostrarmi seccata.

«No. Perché me lo chiede?»

«L'altro giorno lui stesso mi diceva che gli pareva di sentire di nuovo un'attrazione reciproca».

«Guardi, la necessità di sentirsi attratti o di attrarre, la sentiamo tutti dentro di noi. Di tanto in tanto abbiamo bisogno di farla venir fuori, e allora la cosa più facile è guardarsi indietro, se se ne ha la possibilità. Ma tornare indietro non è che una soluzione di comodo, un miraggio da cui bisogna fuggire».

«Mi piace molto quando elabora queste teorie, ma non credo che abbia ragione. Anch'io ho la mia teoria: penso che nel passato lasciamo pezzi del nostro cuore che è sempre bello ritrovare».

Detestavo lo stile di Garzón quando si lasciava prendere dalla vena poetica.

«La pianti di fare il nostalgico e mi canti un'altra delle sue canzoncine sui cazzi».

Non si fece pregare. Guardò in tutte le direzioni per accertarsi che nessuno potesse sentirlo e, abbassando la voce arrochita dall'alcol, intonò:

 

Ho la minchia assai nervosa,  

e sente grande emozione  

perché le dame vezzose  

la riempiono di tensione.  

Ma io le dico: piccina,  

non essere troppo molesta,  

ché dopo la battaglia  

abbasserai la testa. 

 

Mi piaceva la sua faccia da bambino saputello mentre lanciava al vento le sue innocenti oscenità. Ridemmo sottovoce per non richiamare l'attenzione.

«Adesso penso che farò un sonnellino, viceispettore, mi chiami quando arriviamo sopra le steppe».

Credo che Garzón non si sognasse nemmeno di dormire. Lo sentii chiedere un altro vassoio alla hostess. Era chiaro che pensava di arrivare meno patito di Strogoff al suo appuntamento con lo zar.

Quando scendemmo dalla scaletta dell'aereo, Mosca ci ricevette con un'aria gelida. Ci rendemmo subito conto di non essere equipaggiati per quel freddo. Ci lamentammo fra noi mentre effettuavamo le manovre di ritiro dei bagagli. Non appena lasciammo I'area degli sbarchi internazionali il nostro sguardo cominciò a vagare fra la gente in cerca della persona che doveva essere lì ad aspettarci. All'improvviso vidi un rozzo cartello con su scritto: «PETRA DELICADO». Alzai gli occhi. L'uomo che lo mostrava era alto e robusto, aveva vividi occhi azzurri e zigomi alti. Un autentico slavo. Gli attribuii una quarantina d'anni prima di sorridergli. Anche lui sorrise.

«Petra Delicado?» domandò mostrando una perfetta dentatura bianca.

«Aleksandr Rekov, I presume».

Il suono della mia voce mi rivelò che avevo già cominciato a sbattere le ciglia prima ancora di propormelo. La mia mano si perse nel suo solido e gigantesco palmo. Non era solo. AI suo fianco comparve un uomo sui sessant'anni, basso, tarchiato, duro come il cuoio. Mi parve un perfetto erede dei classici mugik. Rekov ce lo presentò come il suo assistente, Dmitrij Silaiev. Non parlava l'inglese, perciò tanto lui quanto Garzón erano condannati al silenzio.

Rekov aveva una bella voce grave dalle risonanze cosacche. Mi spiegò che ci avrebbero accompagnati in albergo, ci avrebbero dato due ore di tempo per riposare e poi sarebbero venuti a prenderci per condurci in commissariato e cominciare la nostra prima giornata di lavoro in comune. Il vento che ci flagellò mentre raggiungevamo la macchina mi paralizzò. Bruciava, pungeva, mi entrò dalle orecchie fino al centro della testa. Sentii bestemmiare Garzón mentre cercava di rialzarmi l'insufficiente bavero del cappotto. Allora Rekov fece una cosa che mi lasciò senza parole. Con una risata secca e giocosa si avvicinò e, aprendosi la pelliccia ampia e spessa che portava, la stese su di me come un'ala protettrice stringendomi contro il suo corpo. «Excuse me», mormorò. Allora sentii il calore avvolgente che emanava da lui, la durezza dei suoi muscoli, il penetrante e insieme dolce profumo di tabacco e di tè della sua pelle. «Petra», mi dissi, «è possibile che Napoleone e Hitler siano usciti sconfitti da questo paese, ma com'è vero Dio tu non puoi andartene dalla grande madre Russia senza aver conquistato quest'uomo». Il destino stava cominciando a saldare i suoi debiti.

L'albergo era uno schifo e quando, dopo aver disfatto le valigie, mi ritrovai con Garzón nella hall, mi toccò sorbirmi le sue proteste sulla mancanza di comodità delle nostre camere. Per me era tutto lo stesso, e se in quel momento mi avessero chiesto perché fossimo andati fino a Mosca, avrei giurato che non lo sapevo. La mia mente era completamente catturata dal mio primo contatto con Rekov. Un'allucinazione momentanea? Neanche per sogno. Un'ora dopo me lo vidi di nuovo davanti e le mie prime impressioni si trasformarono in immense certezze. Rekov era un uomo dal magnetismo selvaggio, travolgente. Tutto in lui mi imprigionava i sensi e mi teneva attaccata come una chiave a una calamita: i suoi tratti virili e un po' misteriosi, la vastità del suo torace, le membra possenti, il movimento sicuro e maestoso del suo corpo. Fumava con la mano sinistra e esibiva negli occhi d'acciaio un'ironia gioviale che non escludeva l'amabilità. Era chiaro che dovevo fare attenzione, perché senza dubbio era un tipo di quelli che giocano duro.

Prima di ogni altra cosa, ci portarono in un negozio dove comprammo colbacchi e pellicce a spese del commissariato. Coronas non ne sarebbe stato molto contento, ma anche lui al nostro posto avrebbe fatto lo stesso. Garzón aveva un'aria stranissima con la pelata coperta e due grosse orecchie cadenti ai lati della sua faccia da cagnone. L'impassibile Silaiev lo aiutò a scegliere un cappotto che si adattasse alle rotondità della sua figura. Si capivano abbastanza bene a gesti, anche se mi parve di percepire che una comunicazione più profonda non sarebbe stata facile fra loro.

Poi andammo al commissariato di Rekov e Silaiev. Era in centro, in una strada squallida e grigia dove la neve si ammonticchiava sui marciapiedi sporchi. Con un solo sguardo, Garzón ed io ci scambiammo una prima osservazione evidente: in confronto i nostri uffici di Barcellona erano il Taj-Mahal. Mobili vecchi, archivi polverosi, pareti scrostate... Tutto però era più grande, qualità immancabile dei grandi paesi in cui gli spazi rispondono a una sorta di gigantismo percettivo.

Ci sedemmo tutti e quattro intorno a un tavolo da riunioni che sembrava un catafalco. Il primo passo consisteva nell'esporre il caso ai nostri colleghi russi. Consegnai loro le fotografie delle autopsie e degli oggetti trovati nei peni. Rekov le distribuì fra i suoi archivisti. Cercammo di riassumere i fatti. Io facevo la mia narrazione in inglese e Rekov ne traduceva i particolari al suo collega. Mi divertiva vedere le espressioni di sorpresa che il buon Silaiev cercava di dissimulare. Rekov rimaneva inespressivo, anche se sembrava sempre più accigliato via via che parlavo. Lo attribuii al suo crescente interesse.

«Abbiamo avuto casi raccapriccianti qui da noi. La stampa occidentale si è occupata di alcuni di essi, forse ne avrai sentito parlare anche tu. Serial killer con tendenze al cannibalismo come il Macellaio di Rostov, barboni mutilati di cui erano stati mangiati degli organi, vendette terribili delle mafie con amputazioni di parti del corpo... ma quello che mi dici è davvero strano, perché se non ci sono corpi che corrispondono a tutti quei peni...»

«Di corpi, purtroppo, ce ne sono già due».

Gli occhi azzurro mare di Rekov intensificavano lo sguardo fino a trasformarsi in due fessure ogni volta che io aggiungevo un nuovo dato. Era molto affascinante. Quando citai il nome di Anatoli Esvrilenko, che figurava al fronte dell'operazione immobiliare sulla costa di Tarragona, assentì rapidamente.

«Certo che lo conosco. È potente, ha molta gente che lavora per lui. È a capo di attività legali che ne coprono altre al di fuori di ogni controllo. Abbiamo cercato di inchiodarlo più volte, per ora senza risultati».

«Per lui lavora un certo Sergej Ivanov. Crede che potremmo saperne qualcosa di più?»

«Ce ne occuperemo domani stesso. Affiancheremo al lavoro d'ufficio delle indagini sul campo. Salterà fuori».

«Abbiamo solo una settimana».

«Il tempo è un concetto relativo. Traducilo al vice-ispettore Garzón».

«Sarà meglio che non glielo dica: forse non apprezzerebbe, lui non vede l'ora di tornare».

Rise fra i denti e si disegnarono delle pieghe nella sua pelle indurita dal freddo.

«E cosa mi dici dell'ultimo messaggio che mi hanno mandato? Cosa pensi di questa iscrizione?»

«Ripetimi la frase».

«Blochin, yuctgiu kak bozgyx».

«Blochin, puro come il vento».

«Esatto. Hai qualche idea di chi possa essere questo Blochin, se sia censito nei vostri archivi?»

«Verificheremo anche questo. Non preoccuparti, ispettore Delicado, lavoreremo per una settimana come se non esistesse nient'altro al mondo».

Gli sorrisi compiaciuta.

«Certo, spesso dimentichiamo che i casi non si risolvono con colpi di fortuna o deduzioni improvvise e brillanti, ma col duro lavoro».

«Stai cercando di convincere dei vantaggi del duro lavoro un russo appena uscito dal regime sovietico?»

«Non cercherei di convincerti di niente di cui tu non fossi già sicuro».

Ci scambiammo uno sguardo pieno di reciproca attrazione. E dato che già da un po' non fornivamo alcuna traduzione ai nostri rispettivi colleghi, Garzón si spazientì:

«Che cazzo state dicendo, ispettore?»

«Che il lavoro è importante».

«E be', sì...»

Il poveretto era di pessimo umore. Si era fatto molto tardi e non avevamo mangiato niente di decente per tutto il giorno. Per fortuna Aleksandr ci aveva pensato.

«Adesso, se me lo permettete, il nostro commissariato ha il piacere di invitarvi a cena. Il mio assistente Silaiev ed io vi porteremo in una taverna dove si mangia bene».

Silaiev fece il saluto militare e rimase serio come prima. Sentii borbottare Garzón:

«Buona idea, mangiamo qualcosa, perché a uno come me due vassoietti d'aereo non gli fanno neanche il solletico».

 

L'aria della notte ci accoltellò i polmoni. Le strade erano deserte, ma il freddo era così intenso che sembrava avere consistenza e volume propri. I pneumatici slittavano e solo la perizia e l'abitudine di Rekov ci permettevano di avanzare sicuri sulla brina. Finalmente arrivammo davanti a un immenso portone di legno e un ragazzo venne a parcheggiarci la macchina.

Entrare in quella taverna fu stupefacente. Come una resurrezione. Dopo il deserto di ghiaccio la terra si apriva e il suo ventre ti accoglieva. Calore, musica, risate, odore di piatti appetitosi e di tabacco aromatico. Su un palco una piccola orchestra sgranava melodie vibranti. Ragazze vestite da zingare servivano boccali di birra. Ci sbarazzammo dei cappotti e sentii un'ondata di sangue affluirmi alle guance. Rekov mi disse, gridando per farsi sentire:

«Può sembrare un po' folcloristico, ma non lo è: si mangia benissimo e c'è molta vita. Se ci fai caso vedrai che di turisti non ce ne sono».

«Credevo che ultimamente a Mosca i turisti li rapinassero e li buttassero immediatamente nel Volga».

«Questo è assolutamente vero, ma se ne resta qualcuno sano e con i soldi in tasca ci assicuriamo che non venga a disturbarci nei posti che ci piacciono».

Appena fummo seduti a tavola Rekov ordinò vodka e birra. Lo pregai di pensare lui al menu, e dopo una breve attesa ci portarono delle scodelle fumanti. Era una bella zuppa densa, con pezzi di porro, di carne, di barbabietola e di verza. Era deliziosa. Garzón, assaggiandola, alzò gli occhi al cielo e gridò un «alleluia!» che i nostri ospiti furono in grado di comprendere benissimo. Silaiev ingollava impassibile, aprendo la bocca solo per mangiare.

«Non è molto comunicativo il tuo assistente, vero?»

«Oh, è un uomo di poche parole! Ma nessuno è più efficiente di lui. Sono anni che lavoriamo in coppia e ci capiamo alla perfezione. Anche tu ti trovi bene col tuo vice?»

«Sì, anche se a volte mi tocca far valere la mia autorità».

«Non è facile comandare per una donna».

«Mi fa piacere che tu lo riconosca, anche se me la cavo senza problemi».

«Ma brava! Comandi anche a casa tua?»

«Non ne ho bisogno, vivo sola. E tu?»

«Completamente solo».

Ci scambiammo uno sguardo divertito, constatando che tutto funzionava come doveva. Garzón non si preoccupava più della traduzione, preso com'era da un piatto di polpette piccanti che ci servirono per secondo. Osservai che Silaiev ricorreva con un'assiduità allarmante alla bottiglia della vodka, ma è nota la passione dei russi per l'alcol, e per essere esatti nemmeno Aleksandr se la cavava male. Immaginai che fossero abituati.

La gente che ci circondava sembrava allegra e felice. Pensai che la crisi in cui il paese era immerso lasciava pur sempre qualche spiraglio da cui sfuggire. Certo, la Russia era un grande paese e Mosca una città enorme; doveva esserci gente che se la passava peggio. Provavo curiosità per la nuova povertà, e avrei voluto fare molte domande a Rekov, ma temevo di offendere il suo orgoglio nazionale. Mi limitai a godere della musica elettrizzante e a bere come tutti gli altri. In breve mi ritrovai in perfetta pace con me stessa, disinibita e allegra. Cominciai a guardare Rekov con assoluta sfacciataggine, senza pretendere niente, solo per il piacere di vederlo, di indovinare il suo carattere, il suo passato. Mi piacevano il volume scolpito e regolare della sua faccia, i segni delle battaglie sulla sua fronte, la bocca dalle labbra sottili e amare, i capelli lisci. Credetti di indovinare che aveva una storia lunga e profonda alle spalle, una conoscenza disincantata degli uomini, una stanchezza contro la quale combatteva in ogni gesto. Lo immaginai disincantato quanto me. Una storia punteggiata di durezze, forse qualche tragedia, molte donne. Io non ne avrei mai saputo niente, anche se quasi sicuramente quella notte sarei andata a letto con lui. E non ne avrei mai saputo niente perché non gliel'avrei chiesto. A quale scopo? A quale scopo cercare di sapere quel che non si può cambiare? Perché rovinare gli incontri che il destino ci regala con belle frasi, con bugie? «Ah, mio caro Aleksandr!» pensai, resa euforica e placida dalla vodka. «Approfitteremo dei presente fino all'ultimo e poi continueremo la nostra vita sapendo della reciproca esistenza, e niente di più».

Nemmeno lui mi toglieva gli occhi di dosso, e non cercava alcun alibi o scusa per farlo, tanto che alla fine della cena il desiderio che fluiva fra noi era così consistente che temetti diventasse visibile e materiale come la vodka che ci eravamo scolati. Ma non c'era pericolo, Silaiev aveva degnamente concluso la sua bevuta e avrei giurato che vacillasse sulla sedia. Quanto a Garzón, aveva subito un trasporto così intenso nel mangiare, che ora si riprendeva in silenzio come un monaco buddhista dopo la preghiera.

Sulla porta del ristorante l'assistente di Aleksandr ci salutò con un batter di tacchi dei suoi robusti stivali. Mi preoccupai quando lo vidi allontanarsi fra la neve con passo insicuro. Lo dissi a Rekov, e lui si mise a ridere.

«Dmitrij? Potrebbe continuare a bere per altre due o tre ore. Non preoccuparti, la passeggiata fino a casa lo snebbierà del tutto. Andiamo, vi accompagno in albergo».

Una volta arrivati parcheggiò e ci scortò fin nella hall. Ma Garzón non dava segni di volersene andare, di modo che li invitai a prendere qualcosa al bar. Non c'era quasi nessuno: un paio di gruppetti di uomini che bevevano stancamente. Ordinammo di nuovo vodka. Studiai il viceispettore per vedere se era ubriaco, ma aveva un aspetto abbastanza normale. Anche se non normale al cento per cento giacché di colpo saltò su e disse a Rekov:

«Voi avete mandato a rotoli l'Unione Sovietica, e questo molta gente non ve lo perdonerà mai».

Il russo non se la prese troppo quando mi vidi obbligata a tradurre.

«Di' al tuo collega che ha ragione. E digli che non sono sicuro se questo sia un bene o un male, ma bisogna tener conto che la Russia è un paese grande, complicato, tragico, e che siamo stanchi di essere un simbolo per il mondo. Vogliamo liberarci per una volta della nostra grandezza e cercare di risolvere in modo pratico i nostri problemi. Ci meritiamo un riposo storico. Insomma, traduciglielo».

Tradussi, osservando con pazienza infinita gli occhi bovini di Garzón fissi nell'aria e la caduta lentissima delle sue ciglia. Si fece il silenzio e alla fine il mio collega replicò: «Sì, però che colpa ne abbiamo noi? Gli dica che anche la Spagna è un paese tragico all'ennesima potenza. Sa come si dice ennesima potenza in inglese? Be', il fatto è che noi siamo piccoli e abbiamo bisogno di un'illusione per andare avanti e pretendere giustizia».

«Manco per sogno Fermín, io non traduco niente del genere perché è tardissimo e poi perché è una sonora cazzata e credo che la cosa migliore che possiamo fare è andarcene subito tutti a dormire!»

Assentì docilmente. Ci alzammo e andammo alla reception. Lo lasciai chiedere la chiave sotto lo sguardo di Aleksandr, ma stronzo com'era non se ne andò e rimase ad aspettare che anch'io prendessi la mia. Non potei far altro che salutare il russo per non rendere la situazione ancora più imbarazzante.

Mentre salivamo in ascensore non rivolsi nemmeno la parola al mio vice; e una volta al mio piano, me ne uscii senza neanche dirgli buonanotte. Non so se se ne fosse accorto. Non mi importava. L'avrei assassinato affettandogli il pene per la mia collezione. Certo, la colpa era mia. Perché diavolo non ero salita con Rekov alla faccia sua? Dove pensavo di trovarmi, a un tè vittoriano? Mi tolsi il cappotto e lo gettai con rabbia sul letto facendo crollare la lampada. «Cazzo, qui in Russia non c'è niente che funzioni!» gridai sull'orlo della disperazione. Fu allora che bussarono alla porta. La raggiunsi in due falcate pensando che fosse Garzón. Di sicuro voleva che gli traducessi le istruzioni per usare la doccia... E invece no, era Aleksandr Rekov, col suo sorriso ironico, in silenzio. Giocava duro, proprio come avevo intuito. Aprì le braccia allargando le falde della sua pelliccia, in gesto di supplica. Mi raggiunse il suo odore meraviglioso di tabacco e di lana e di pelle calda. Lo lasciai entrare.

Diavolo, non sono mai stata un'appassionata di battaglie, ma devo riconoscere che quella notte compresi perché quell'imperialista di Napoleone e quel figlio di puttana di Hitler rimpiansero tanto di non aver conquistato la Russia. Le montagne, le tundre innevate, le steppe che si perdono all'orizzonte. L'immensità.

 

La mattina seguente accompagnai Aleksandr fin sulla porta dell'albergo; ci saremmo visti un'ora più tardi in  commissariato. Garzón stava già facendo colazione e ci vide passare. Sorrise forzatamente quando mi sedetti, e mi chiese subito:

«L'imperatore Rekov è già arrivato? Significa che ci sono novità?»

«No. È appena andato via», replicai, e perché non rimanesse alcun dubbio, aggiunsi: «Ha passato la notte con me».

Annuì fingendo indifferenza. Stavo subendo un'allucinazione o Garzón mi teneva il muso? Mi servii la  colazione con inusuale energia e non aprii bocca dall'inizio alla fine. Nemmeno lui. Vedendo che si preparava ad ammucchiare una nuova razione di dolci sul piatto, gli dissi di fare in fretta:

«Si sbrighi, viceispettore, ci aspettano fra poco». Assentì con faccia scazzata.

Rekov era già nel suo ufficio, con Dmitrij Silaiev, tutti e due a prendere il tè come se niente fosse. Osservai che il primo mi guardava con assoluta professionalità, senza sottintesi né tenerezze. Perfetto, sapeva comportarsi.

«Per cominciare dirò che Ivanov non figura sotto il suo nome nei nostri archivi. Abbiamo selezionato i dossier in cui potrebbe comparire. Il materiale che abbiamo in computer è scarso. Sono quasi tutte schede da vagliare una per una. Possiamo cominciare?»

Passammo più di un'ora osservando una faccia dopo l'altra sullo schermo, di fronte e di profilo. Poi passammo ai dossier che Rekov e Silaiev avevano ammucchiato sulla scrivania. Di tanto in tanto ci veniva servita una tazza di tè.

A metà mattina un impiegato amministrativo fece la sua comparsa portando a Rekov delle carte.

«Qui abbiamo tutti i dati sulle attività recenti di Anatoli Esvrilenko, tutto quel che è stato possibile verificare».

Mentre lui lavorava su quei documenti, io perseveravo nel mio difficile compito. Silaiev mi metteva sotto gli occhi le fotografie e Garzón le rimetteva al loro posto dopo che le avevo viste. Devo dire che formavamo una squadra ben sincronizzata.

A mezzogiorno mangiammo un semplice panino e Aleksandr ci spiegò:

«Gli ultimi affari di Esvrilenko appaiono assolutamente in regola. È vero che ha investito in paesi stranieri, in Spagna, in Portogallo e in Italia. Non abbiamo informazioni esaurienti su queste transazioni, ma pare che in Spagna, in effetti, intenda costruire un villaggio turistico. Niente che abbia a che fare con i giovani né con la prostituzione; anche se non possiamo esserne certi. Tuttavia, i traffici legati al sesso non sono fra le specialità di Esvrilenko».

«Cosa intendi dire?»

«Sebbene non esistano regole precise, i mafiosi si sono in un certo senso suddivisi le competenze. Un certo Drosogij sembra essere sulla cresta dell'onda per tutti gli affari riguardanti la prostituzione. Esvrilenko si dedica di più al gioco, agli stupefacenti e ai locali notturni. Questo però non esclude che abbia messo su una rete di pedofili o qualunque altra porcheria del genere. I miei colleghi stanno investigando».

«Si sa qualcosa di Ivanov?»

«Non è fra i suoi collaboratori soliti. Forse si tratta di un nuovo acquisto».

«E questo qui manda uno che non conosce a occuparsi dei suoi affari in un posto dove non può controllarlo? Non mi sembra molto logico».

«Certo, in apparenza non lo è, ma per qualche ragione si fida di lui».

«Potremmo parlare con Esvrilenko?»

«Lo faremo, anche se non servirà a niente».

«Forse così lo costringeremo a fare qualche mossa che si ripercuota su Ivanov. Alcuni uomini del mio commissariato lo stanno sorvegliando».

«Domani andremo nel suo quartier generale».

Per tutto il pomeriggio vidi sfilare centinaia di foto. Senza alcun risultato. La fisionomia di Ivanov era così caratteristica che per quanto avesse potuto camuffarsi, ero sicura di non sbagliare. Verso le sette avevo gli oc-chi così rossi che mi bruciavano. Dovemmo fermarci. Rekov, per fare una pausa, si offrì come guida per un giro turistico di tutto riposo. Quella sera saremmo andati in uno dei locali notturni di Esvrilenko, dove si riunivano i suoi uomini. Il giro turistico non includeva né Garzón né Silaiev, che avrebbero passeggiato per conto loro. Dovetti sopportare le proteste del mio collega quando glielo spiegai.

«Ma se non abbiamo nessuna lingua in comune!»

«A Silaiev non importerà, lui parla pochissimo».

«Ma che bella prospettiva!»

«Non siamo venuti qui per divertirci», gli dissi con perfetta ipocrisia. Lui represse la risposta che aveva in mente e se ne andò col buon Dmitrij, che non aveva sorriso neppure una volta.

«Formano una coppia armoniosa», fu la battuta di Aleksandr quando li vide allontanarsi.

«È meraviglioso non averli fra i piedi per un po'; Garzón sta diventando insopportabile».

«Io credo che soffra di gelosia».

Gli lanciai uno sguardo malizioso e finalmente ce ne andammo da quel maledetto commissariato pieno di polvere e di foto.

Passeggiare con Aleksandr Rekov nella Piazza Rossa fu un'esperienza indimenticabile. Al suo fianco mi sentivo come Anna Karenina accanto al conte Vronskij, ma molto meno angosciata. Pensai che era esaltante avere un amante russo, un vero pezzo d'uomo di cui non conoscevo altro che il fascino virile. Questo era il vero turismo, non visitare monumenti! Camminavamo e chiacchieravamo instancabilmente sulla grandezza della Russia, la profondità dell'anima russa, il suo mistero.

«A volte penso che siamo solo un popolo di barbari contadini; altre volte sono più ottimista e sento sulle mie spalle il peso di una cultura millenaria».

«Non è sempre piacevole l'idea di appartenere a un antico impero».

«Tu credi che voi spagnoli e noi russi abbiamo ancora un po' di febbre imperialista nelle vene?»

«Un certo orgoglio, forse, un pizzico di fierezza».

«Molto diluito, Petra, molto diluito. Guarda me, io sono solo un lupo solitario che si accontenta di un lavoro duro e di un minuscolo appartamento malandato».

«Cos'è per te il peggio della vita in solitudine?»

«Forse non avere nessuno con cui condividere la gioia. La tristezza preferisco sopportarla da solo, ma la gioia... E per te?»

«Be'... la monotonia; si, la monotonia. Mi piacerebbe avere accanto qualcuno capace di propormi esperienze insolite, cambiamenti. Il mio carattere ha un lato avventuroso, ma non sono tanto capace di alimentarlo da sola; almeno non con la frequenza necessaria».

Sorrise, poi rise. Mi passò un braccio sulla spalla.

«Una donna forte la nostra Petra Delicado, vero?»

«Indurita dalle circostanze, ma non mi lamento».

«Mi piace la gente che non si lamenta. Detesto certi miei connazionali che parlano dei tempi del comunismo come se avessimo subito una maledizione del cielo. Non bisogna dimenticare il passato, ma nemmeno il passato del passato. Non bisogna credere nelle soluzioni facili, nelle promesse, né reclamare istericamente miglioramenti. La vita è dura, crudele, atroce, e niente ci fa pensare che possa cambiare troppo».

Il suo tono si era fatto lugubre, e la sua faccia scura. Poi, di colpo, tornò a sorridere, a ridere, finalmente.

«Esperienze insolite, eh? Qualcuno dovrebbe proporti delle esperienze insolite!»

Cenammo in una taverna e alle dieci in punto uscimmo di corsa verso il Rex, il locale dove avevamo appuntamento con i nostri colleghi.

Era un'enorme sala démodée, arredata con un lusso un po' straccione in stile anni venti. Un nugolo di tavolini con l'abat-jour rosso circondava la pista centrale. La gente cominciava ad arrivare. C'erano gruppi di turisti. Delle balalaike suonavano, e appesa al soffitto una grande sfera di cristallo con migliaia di sfaccettature lanciava riflessi in tutte le direzioni. Un orrore.

«Questa è la principale tana dell'orco. C'è un primo spettacolo per turisti e coppie. Ma all'una tutti se ne vanno e comincia un secondo programma molto più sostanzioso. Ci vengono i seguaci di Esvrilenko. Qui si incontrano, concludono affari d'ogni genere».

«E Esvrilenko?»

«Certe volte viene anche lui, altre no».

«Visto che lo sapete, perché non lo arrestate?»

«A volte lo facciamo per qualche episodio particolare, ma non è facile incastrarlo. Lo sottoponiamo a una specie di assedio continuo».

«È vero quel che si racconta della corruzione poliziesca di questa città?»

«È vero».

«E tu sei uno di quei poliziotti corrotti?»

«Tu cosa credi?»

«Come posso saperlo? Che sia venuta a letto con te non vuoi dire che tu sia un angelo».

«Ma può significare che credi nella mia sincerità quando ti dico che non lo sono».

«In effetti, dovrò crederci».

Le pupille gli ballavano, più burlone che mai, negli occhi inquieti. Guardai l'orologio, Garzón e Silaiev stavano davvero tardando.

«Non si saranno mica persi i nostri bracci destri?»

«È strano, ma dato che è così, credo che dovremo cominciare a bere con la sinistra».

Ordinò una bottiglia di spumante. Continuavano ad affluire gruppetti di turisti parati a festa. Di colpo, la pista si illuminò e comparve una bella zingara accompagnata da tre violinisti zigani. Si lanciò sorridente in una serie di belle canzoni che intervallavano slanci di folle passione con passaggi lenti e tristissimi. Riconobbi soltanto «Occhi neri». Aleksandr seguiva la musica con evidente piacere, quasi con emozione. Si rese conto che lo stavo osservando.

«A noi russi piace il nostro folclore, e a voi spagnoli?»

«Forse ci piace, ma non lo ammettiamo facilmente».

«Mi riesce difficile capirlo».

«È ancora più difficile spiegarlo».

Pensai che non era il momento più opportuno per risalire all'esaltazione romantica dello spirito del popolo, tanto più che cominciavo a essere preoccupata per il ritardo di Silaiev e di Garzón. Sarebbe stato il colmo che fosse il mio «guardaspalle» a dover essere protetto.

Dopo la cantante, entrò in scena un mago che estraeva pupazzi di peluche da dei berretti, nuova versione non troppo originale del vecchio gioco del coniglio dal cilindro.

«Aleksandr, sono preoccupata, può essere successo qualcosa?»

Negò categoricamente.

«Mai con Dmitrij. Dmitrij è come un vecchio orso di montagna sfuggito a decine di trappole. Ha cicatrici dappertutto, ma è sempre più inafferrabile, e più pericoloso».

In effetti, un'ora dopo, quando una specie di coro di rematori del Volga cantava a voce spiegata canzoni altrettanto strazianti per il cuore e per i timpani, vedemmo avanzare fra i tavoli i due dispersi. Silaiev era come sempre, impassibile e tutto d'un pezzo, mentre Garzón aveva in faccia un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Ciascuno dovette fare rapporto al proprio superiore gridandogli nell'orecchio, ma quando Garzón si avvicinò al mio il suo alito mi fece fare un salto.

«Fermín, ma lei ha bevuto!»

«Non abbiamo smesso un istante. Cosa voleva che facessi con questo disgraziato di Silaiev? Beve come un cosacco, quello lì, ma poi non gli succede niente. È molto spiritoso però, non creda, ci siamo fatti delle belle risate tutti e due».

«Capisco. Avrebbe dovuto pensarci prima, visto che non è abituato».

«Non è mai troppo tardi per prendere una buona abitudine! Le faccio notare che questa vodka non è poi così male, mi sembra una cosa sana».

Guardai Aleksandr con allarme e lui mi restituì lo sguardo, ironico e divertito. Ordinarono vodka a dispetto della mia faccia scandalizzata. La serata continuò infilando uno dopo l'altro numeri triti e ritriti che i turisti applaudivano fino a spellarsi le mani. Alla fine uscì sulla pista una squadriglia di cosacchi vestiti di nero che, in quello che sembrava essere il piatto forte, si lanciarono in danze vigorose, convulsamente rapide, esibendosi in piroette che sfidavano la legge di gravità. Ballavano tutti insieme, a due a due, simulando una lotta, e poi facendo a gara a chi piroettava più in alto. Gli spettatori erano entusiasti e partecipi, lanciavano grida di incitamento, prorompevano in applausi scatenati. Uno dei ballerini cominciò a chiedere al pubblico di accompagnare, battendo le mani, le evoluzioni del ballerino di turno. L'effetto di coinvolgimento riuscì perfettamente. Quando il meccanismo fu ripetuto per almeno cinque minuti, colui che in quel momento faceva da maestro delle danze cominciò a invitare a gesti, assecondato dai danzatori, qualcuno del pubblico affinché saltasse sulla pista e si unisse al ballo. La gente rideva a crepapelle e negava con la testa senza smettere di segnare il tempo con le mani. Infuriava il ritmo di «Kalinka». All'improvviso, dinanzi alla sorpresa generale del nostro tavolo, Dmitrij Silaiev si alzò e, afferrato per un braccio Garz6n, lo trascinò sulla pista. La vodka mi si fermò in gola, e capii subito che avrei fatto meglio a tossire tenendo gli occhi ben aperti perché quello non era che l'inizio. E così fu. Come se non avessero fatto altro per l'intera serata, i due piedipiatti si diedero da fare imitando le piroette cui avevano assistito. L'immagine usata da Rekov per descrivere il suo subordinato si dimostrò esatta: era come un orso di montagna. Saltava, slanciava le gambe alla cosacca senza perdere l'equilibrio e poi si abbassava e tornava a rialzarsi come se non sentisse nemmeno i suoi cento chili. Ma ancor di più mi sorprese vedere Garzón, che faceva quel che poteva, il che non era poco. Anche lui sembrava un orso, ma piuttosto un orso della Cantabria, in via d'estinzione. Eppure niente di quello spettacolo deplorevole sembrava infastidire il pubblico; anzi, tutto sembrava indicare che si stavano divertendo alla grande. Incitavano, gridavano, battevano le mani ritmicamente ed emettevano fischi potentissimi.

Guardai angosciata Aleksandr e mi accorsi che rideva come un matto.

«Non puoi far niente per fermarli?» domandai.

«E perché dovrei farlo?»

«Sono preoccupata per Garzón, ho paura che finisca lungo disteso».

«Ti pagano per fargli da baby-sitter?»

«No, ma so che domani si pentirà di essersi lasciato andare».

«Non c'è niente di male nel ballare e divertirsi, nel prendersi una bella sbronza, sono tutti modi per tenere lontana la morte».

Maledetto russo! pensai, come osava...? Eppure no, aveva ragione, al diavolo il viceispettore e il suo compare. Peggio per loro! Mi rilassai e riuscii perfino a farmi quattro risate alle spalle di quei due plantigradi in pieno delirio.

Con quella gran baraonda finì la prima parte dello show, riportando al tavolo i nostri due uomini sudati e ansimanti. Sospirai di sollievo. Secondo i nostri programmi da quel momento in poi avremmo cominciato a lavorare.

I turisti lasciarono il locale in massa per raggiungere i loro autobus, e solo mezz'ora dopo il pubblico presente in sala era completamente cambiato. La luce si smorzò, e si passò dalla musica folcloristica a un hot jazz strascicato. Bene, l'atmosfera migliorava. Abbondavano figuri con l'aria da magnaccia e signorine dai capelli tinti a colori sgargianti. Il cattivo gusto era spaventoso. Anche i numeri sulla pista cambiarono di tono. Ragazze fasciate in vestiti aderentissimi occupavano lo scenario e ballavano dimenandosi languidamente e facendo finta di cantare.

Aleksandr mi toccò il braccio e indicò con gli occhi un gruppo di uomini soli che si stavano sedendo in quel momento.

«Abbiamo avuto fortuna, oggi Esvrilenko si è degnato di venire».

Li osservai senza riuscire a vedere in loro niente di speciale, erano volgari esattamente quanto gli altri.

«Vieni con me. Così li avrai visti almeno una volta. Non si sa mai».

Ci avvicinammo, e Rekov si rivolse a uno di loro. Ci invitarono a sederci ma il mio collega declinò l'invito. Esvrilenko era un ciccione senza personalità. Il grasso che si accumulava sul suo viso riusciva a cancellarne le fattezze. Sorrideva con cinismo e disprezzo mentre parlava in russo con Aleksandr. Non potei dedurre niente di quella conversazione perché tanto il poliziotto quanto il mafioso dissimulavano perfettamente ogni espressione. Osservai come le mani e il collo di quell'uomo così sgradevole fossero sovraccarichi di spesse catene d'oro, di grossi anelli e ciondoli. Rekov lo guardava con aria di sfida e di tanto in tanto Esvrilenko spostava lo sguardo su di me accentuando la luce di scherno nei suoi occhi. Dopo un paio di minuti, tornai col mio accompagnatore al nostro tavolo.

«Cos'ha detto?» chiesi senza perdere un secondo.

«Cosa pensi che possa aver detto? Lui afferma che quell'Ivanov, l'uomo che si occupa dei suoi cantieri in Spagna, si chiama davvero così ed è assolutamente pulito. Dice che ha studiato in un mucchio di università straniere. Gli ho chiesto una sua fotografia, e ha detto che purtroppo i suoi uffici non ne dispongono. Facile, vero? Se chiediamo la sua scheda o il contratto di lavoro ce ne fabbricheranno uno su misura».

«Capisco».

«Però, se desse qualche ordine a Ivanov da qui, obbligandolo a fare qualche mossa falsa, i tuoi uomini dovrebbero accorgersene. Non è così?»

«Speriamo».

«D'ogni modo, domani continueremo a lavorare sulle fotografie. D'accordo?»

Non mi sentivo molto incoraggiata, mi rendevo sempre più conto che il nostro viaggio in Russia non avrebbe portato ad alcun risultato. Ma visto che lui era così convinto, io non potevo fare la disfattista. Sorrisi.

«Che te ne pare se ce ne andiamo da questo maledetto postaccio?»

Ci alzammo in piedi, con molta più sicurezza di Silaiev e Garzón, e ci incamminammo verso l'uscita. In quel momento capii che avrei dovuto escogitare un trucco per sbarazzarmi di Garzón e mi sentii invadere da un'ondata di fastidio. Chiesi discretamente a Aleksandr che quella notte mi portasse a casa sua.

«Non è molto comoda», mi avvertì.

«Sapremo supplire agli inconvenienti».

Ci congedammo dai nostri vice senza alcuna spiegazione. Pur nell'ubriachezza, Garzón mi guardò stupito. Gli sorrisi fingendo totale indifferenza. Forse con quella mossa mi sarei risparmiata di portarlo a spalle nella sua stanza e togliergli i calzini.

L'appartamento di Aleksandr era minuscolo e molto malandato. Era un uomo senza storia? In ogni caso se ne aveva avuta una non se ne vedevano tracce. Non c'erano fotografie né ricordi personali fra le scarse suppellettili. Un letto, scaffali pieni di libri e di carte e una piccola cucina dove si ammonticchiavano tazze da tè sporche, questo era tutto.

Accese il samovar decretando che per quella notte avevamo già bevuto abbastanza. Ci sedemmo su un sofà sfondato. La stanza era calda: lui mi spiegò che a Mosca il riscaldamento era ancora gratuito, dai tempi dei sovietici, anche se non si sapeva per quanto tempo ancora.

«Ho un presentimento un po' negativo, Petra. Non credo che troveremo Ivanov nei nostri archivi. Esvrilenko si è mostrato molto sicuro quando ha detto che è pulito. È possibile che non abbia precedenti e che per questo l'abbia mandato all'estero».

«Allora il mio viaggio è stato inutile».

«C'è stato un momento in cui pensavo che saremmo riusciti a chiarire qualcosa sugli affari di quel bastardo in Spagna, e a capire il perché della vendetta dei peni tagliati. Ma è difficile, non abbiamo confidenti nella sua organizzazione e, conoscendo i suoi metodi, dubito molto che esista qualcuno disposto a parlare. Secondo te, da dove possiamo cominciare?»

Fissai la mia tazza di tè. Scossi la testa, scoraggiata. Allora Aleksandr spostò le carte che ingombravano il tavolo e disse:

«Non voglio deluderti del tutto: lavoriamoci un po' sopra. C'è una cosa che forse può essere interessante. Uno dei miei uomini ha individuato una strana coincidenza. Nel vedere le fotografie del tuo dossier si è ricordato che mesi fa sono state rinvenute parecchie candele di cera viola in un magazzino appartenente a Esvrilenko. Successe durante il sequestro di una partita di whisky di contrabbando. Insieme alle casse di bottiglie c'era un sacco pieno di quelle candele. Dentro trovarono un biglietto che diceva: "La fine del millennio è vicina". Ne furono incuriositi, ma non fu possibile provare che quel locale appartenesse a Esvrilenko. Il whisky fu sequestrato e tutto finì lì, la storia fu dimenticata».

Non erano quelli i piani che avevo in mente per quella notte, ma l'importanza della novità mi spinse a mettere al primo posto il dovere.

Rivedemmo il caso punto per punto. Rekov prendeva indecifrabili appunti nel suo cirillico rapido ed energico. Parlavamo, confrontavamo, ritornavamo su indizi e testimonianze. Il risultato era sempre lo stesso: una sola cosa rimaneva incomprensibile, la strana croce di cera liturgica. Non era possibile metterla in rapporto con niente.

«E il nome Blochin», aggiunse.

«È una storia da pazzi, il viceispettore aveva ragione».

«Però, Petra, se tu oggi sei qui è perché hai messo in relazione l'indizio della pietra con quello del messaggio in russo. Perché non continuare con la catena di associazioni?»

«Non si può associare niente se non c'è un minimo nesso logico».

«Tu l'hai già fatto. In realtà, è per questo che ti trovi qui. Fra un messaggio in russo e un cliente della cava con il nome russo, non è che ci sia un gran nesso logico. Ma adesso questa cera sembra mettere in relazione Esvrilenko col tuo caso. E tutte queste candele e croci ci portano a un contesto religioso. E poi, per di più, il messaggio misterioso parla di purezza».

«Puoi spiegarmi cosa c'entra un trafficante con la religione?»

«Diciamo che per il momento ne ricaviamo la seguente formula: religione e Russia. Sei d'accordo?»

«Mi stai suggerendo di interrogare il patriarca della Chiesa Ortodossa?»

«No, ho un'idea migliore. Ti farò conoscere un santo. Forse lui saprà dirci qualcosa sulle croci di cera viola, sulla purezza, sulla fine del millennio».

«Un santo? Questo mi sa di romanzo di Dostoevskij».

«L'hai detto, proprio così. La Russia è un paese che quanto a misticismo non ha niente da invidiare all'India. Qui abbiamo grandi uomini di fede che vivono come eremiti. Non erano ben visti durante il regime socialista, ma questo non significa che fossero scomparsi».

«E la gente li consulta?»

«Non è facile farlo. Però, padre Belinskij ha già collaborato un paio di volte con la polizia. Due anni fa catturammo un assassino grazie al suo contributo».

«Come successe?»

«Avevamo tre indiziati che si accusavano reciprocamente del delitto. Secondo gli elementi in nostro possesso ognuno dei tre poteva essere il colpevole. Ebbene, chiedemmo a padre Belinskij di venire in commissariato e di incontrarsi a turno con ciascuno di loro. Non fu facile persuaderlo, ma alla fine accettò, in nome della giustizia. Venne da noi, prese posto in uno degli uffici e cominciò a ricevere gli indiziati in presenza del prefetto generale. Col primo non successe niente: lo benedì e lo lasciò uscire dalla stanza. Ma quando fece la sua comparsa il secondo, immediatamente padre Belinskij tese la mano verso di lui e gli disse: «Figlio mio, pentiti perché hai commesso un crimine scellerato togliendo la vita a un uomo, solo così potrai presentarti puro agli occhi di Dio». Allora l'indiziato si inginocchiò, gli baciò la mano e subito confessò tutti i particolari dell'assassinio».

«Dici sul serio?»

«Ma naturalmente! Non dimenticare che sei in Oriente, Petra, qui non tutta la logica proviene dalle stesse fonti».

Lo guardai attonita e lui scoppiò a ridere.

«E con questa mancanza di fede nell'irrazionale dici ancora di aver voglia di esperienze insolite?» ribatté.

Mi misi a ridere anch'io. Aveva ragione, ciascuno ottiene solo quello che è alla portata della sua mente, nient'altro. Mi si avvicinò e, con la tremenda forza delle sue braccia, mi sollevò dal divano trasportandomi a volo fino al letto.

Non so a che ora ci addormentammo, ma quando la sua potente sveglia suonò, tutte le cellule del mio corpo invocavano una tregua. Richiesta impossibile, Aleksandr saltò immediatamente giù dal letto e mi spronò nel più puro stile sovietico.

«Il lavoro ci attende», disse, e dinanzi a tale verità, non potei far altro che abbandonare le lenzuola.

 

Per strada il freddo ci salutò di nuovo. Aleksandr andò in cerca della macchina e io rimasi ad aspettarlo sul marciapiede. Mi distrassi guardando una vetrina, niente di interessante: ingranaggi, pezzi metallici il cui uso mi era impossibile determinare... A un tratto trasalii, udendo un rumore di gomme che stridevano sul marciapiede, mi voltai, e senza avere il tempo di pensare a quel che stava accadendo, vidi che il fuoristrada grigio si lanciava su di me. Ebbi appena il tempo di reagire retrocedendo e appiccicandomi contro il muro, ma non potei evitare che uno degli specchietti retrovisori mi desse un forte colpo alla spalla. Caddi di lato. Cercai la pistola e, sdraiata a terra, mirai ai pneumatici che si allontanavano a tutta velocità. Non riuscii a beccarli, e il veicolo sparì dietro l'angolo facendo un rumore d'inferno.

Parecchi passanti si fermarono e si avvicinarono per aiutarmi. Però, appena vedevano che impugnavo una pistola, si tenevano indietro e non osavano far niente. Allora udii la voce imperiosa di Aleksandr che si apriva energicamente un varco fra la folla.

«Petra! Stai bene?»

«Sono stata meglio altre volte», risposi, e solo allora cominciai a sentire che il dolore mi paralizzava le gambe.

 

09

Al pronto soccorso stabilirono che non avevo niente di serio. Nessuna frattura né versamento, l'unica cosa che si poteva rilevare era una contusione all'anca e l'enorme livido che cominciò a formarsi. Garzón, testardo, si ostinava ad affermare che avevano cercato di assassinarmi, con la complicità di Rekov. Gli ripetei cento volte che l'intenzione non era stata quella di uccidere.

«Se avessero voluto ammazzarmi mi avrebbero sparato. Rekov dice che è stato solo un avvertimento perché la smetta di dare noie. Pare che la mafia si comporti così in questo paese».

«E lei gli ha creduto, naturalmente».

«Be', sì, gli ho creduto».

«Non so cosa dirle, ispettore. Quell'uomo la porta a casa sua e il giorno dopo, proprio sulla porta, una macchina le viene addosso. Ma lei crede a tutto quel che le dice Rekov?»

«Senta, Garzón, fui io a chiedergli che mi portasse a casa sua. È evidente che ci seguirono e che tennero d'occhio il portone».

«E come sapevano che sarebbe rimasta un attimo sola per strada? Non è più ragionevole pensare che lui l'abbia lasciata lì di proposito mentre gli altri facevano il lavoro sporco?»

«No, non è per niente logico. Avrebbero potuto aggredirmi ugualmente in presenza di Rekov, oppure avrebbero potuto seguirci tutto il giorno fino a trovare il momento giusto per farlo».

«Sa cosa penso, ispettore? Penso che lei si sta comportando come una donna sedotta che non vuol vedere chi è veramente il suo seduttore».

Sentii che la collera mi saliva al viso come un'eruzione.

«Basta, viceispettore Garzón! Nessuno, assolutamente nessuno, l'ha autorizzata a immischiarsi nella mia vita privata! Io mi sono ben guardata dal dirle cosa penso delle sue sbronze con quell'animale di Silaiev».

«E che cazzo vuole che faccia? Lei non ha fatto altro che escludermi sistematicamente».

«Le ordino di star zitto!»

Non mi era mai piaciuto mettere fine a una discussione imponendo la mia autorità, ma questa volta aveva esagerato. Una donna sedotta! In quale romanzo d'appendice aveva letto una simile espressione? Avrebbe reagito allo stesso modo se io fossi stata un suo superiore di sesso maschile? Naturalmente no! Si sarebbe limitato a contemplare la mia conquista da lontano e si sarebbe perfino permesso di darmi qualche pacca sulla spalla lodando il mio buon gusto. Ma bene, Garzón, bene: alla fine salta sempre fuori l'essenza, il più puro maschilismo, quel che si pensa davvero. È terribile riconoscerlo, ma gli uomini si comportano con le donne come se fossero di loro proprietà. Non avevo nessuna intenzione di lasciare che la cosa finisse lì. Rekov fece gli accertamenti opportuni e concluse che la macchina dei miei assalitori era una Lada a trazione integrale, senza dubbio appartenente al parco auto di Esvrilenko. Ma non potevamo provarlo. Non era affatto sorpreso da quel tentativo di dissuasione. La mafia faceva anche di peggio. Non ci trovavamo precisamente nell'impero della legge. I mafiosi sapevano che il corpo di polizia presentava numerosi punti deboli. Nemmeno i giudici erano immuni dalla corruzione. Capii che quando si parlava di Mosca come di una città ad alto rischio non si stava affatto esagerando. Tuttavia, Aleksandr sembrava tranquillo, accettava la situazione senza disperarsi. Le cose stavano così. Lo capivo, in fin dei conti il suo ruolo era poliziesco non politico. E poi aveva nervi d'acciaio, una tranquillità che gelava il sangue. Non mi sarebbe affatto piaciuto trovarmi fra i suoi indiziati, e giuro che questo lo pensai prima di vederlo in azione.

Perché lo vidi, vidi i suoi occhi assumere lo sguardo di un gatto e la sua bocca sorridere senza un filo di pietà. Fui io a insistere per andare con lui in visita da Esvrilenko, quando lui decise di rispondere all'aggressione.

«Ma se tu stesso hai detto che non è possibile provare niente».

«Lo so, però non si possono lasciare le cose per aria».

Non capivo a cosa si riferisse, ma per niente al mondo avrei voluto restare sola in commissariato mentre lui se ne andava con Silaiev. Naturalmente, il viceispettore si unì alla spedizione. Dopo un lungo sobbalzare sulle strade mal asfaltate della periferia di Mosca, ci fermammo davanti a un enorme edificio tipicamente sovietico. Rekov ci indicò di scendere. Al piano terreno c'era una specie di locale con una porta a vetri smerigliati cui Silaiev bussò. Comparve un uomo giovane dall'aria patibolare che non appena ci vide fece un passo indietro. Riuscii a sbirciare l'interno, che sembrava una sala da gioco. Tavoli da poker, un biliardo, e una decina di uomini tranquillamente seduti. Immaginai che si trattasse di una delle basi operative di Esvrilenko. Rekov fece il nome di qualcuno, e quel qualcuno si alzò immediatamente dalla sua poltrona e venne verso di noi. Era un po' più vecchio dell'uomo che era venuto ad aprire, ma quanto ad aria patibolare non aveva proprio niente da invidiargli. Osservai che Aleksandr faceva un cenno col capo al più giovane dei due, come per dirgli di allontanarsi. Lui se ne andò senza fiatare. Poi guardò lentamente il viceispettore e me. A quel punto mi attendevo che seguisse uno scambio di domande, e invece, niente. Senza che nessuno aprisse bocca, neanche per salutare, Silaiev si fece avanti e lo prese per il bavero con una sola mano. Poi alzò l'altra nell'aria e gli assestò un brutale ceffone. L'uomo non cercò di difendersi, non sottrasse nemmeno la faccia a quella pala di ferro che, sollevandosi di nuovo, tornò ad abbattersi su di lui. La stessa manovra fu eseguita una terza volta, e una quarta, ogni volta con maggiore velocità e violenza. Quell'energumeno di Silaiev colpiva dall'alto in basso, trascinando più che percuotendo, con un'intensità che nasceva dalla sua stessa forza fisica, senza bisogno di prendere alcuno slancio. Qualche goccia di sangue schizzò in aria dal naso fracassato. Sentii che lo stomaco mi si rivoltava mentre l'aria mi entrava a malapena nei polmoni. All'improvviso vidi Rekov afferrare il suo aiutante per un braccio cercando di trattenerlo. Questi si fermò di colpo come un automa o come un cane ammaestrato. Il bersaglio di quelle percosse vacillò senza cadere. Allora fu lo stesso Rekov a prenderlo per la giacca e, con una frase breve e asciutta, lo spinse contro la vetrata, che rimbombò con fragore.

Senza che nessuno fosse uscito dal locale per vedere cosa stesse capitando, tornammo in macchina e ce ne andammo. Io ero sconvolta, ancora scossa dal rumore dei ceffoni e dalla vista del sangue.

«Ecco fatto», disse laconicamente Aleksandr.

«Ma non gli hai chiesto niente, non sai nemmeno se sono stati loro, perché l'avete picchiato così?»

«Sanno benissimo che hanno passato il limite; noi abbiamo fatto altrettanto. Adesso siamo a posto. Non ti preoccupare, se lo aspettavano. Non possiamo dare spazio a nessuna provocazione».

«Ma, e adesso? Adesso ce la faranno pagare».

«No, adesso il conto è chiuso. La prossima volta sarà un'altra cosa».

«Sembra di essere a Chicago negli anni trenta!» esclamai in spagnolo.

La voce di Garzón mi rispose dal sedile posteriore.

«Che manica di botte! Ha visto come picchia questo qui, ispettore? E come una macchina da guerra!»

Sentii dei colpi ripetuti e, voltandomi, vidi che il viceispettore batteva col pugno sul palmo della mano. Era esaltato come un bambino dopo la scena violenta di un film. Silaiev non nascondeva un sorrisetto d'orgoglio.

«Si rende conto, Petra? Se in commissariato avessimo qualcuno capace di pestare così, tutto sarebbe più facile».

«Chiuda il becco, Fermín».

Mangiammo tutti e quattro insieme in un silenzio un po' teso. Per quanto mi sforzassi di capire che ogni paese è un mondo a parte, non riuscivo ad approvare i metodi di Aleksandr. Dal suo sguardo capivo chiaramente che era consapevole del mio biasimo, senza che ci fosse bisogno di spiegarglielo. Avrebbe potuto argomentare che i mafiosi mi avevano aggredita selvaggiamente, o che era indispensabile dissuaderli da un nuovo attentato in modo radicale. Tuttavia, secondo il suo modo di fare, si limitò a esporre la filosofia sottesa a tutta la storia e disse soltanto:

«La vita è dura in Russia, e quando in un posto la vita è dura, tutto è duro, tutto».

Non c'era niente da aggiungere, né sarebbe stato prudente da parte mia farlo; quindi cercai di dimenticare quell'episodio sgradevole, che del resto non ci aiutava per niente nelle indagini.

Nel pomeriggio Aleksandr mi disse che il «santo» ci stava aspettando a casa sua e che, naturalmente, ci saremmo andati da soli lui ed io. Dovetti far fronte alla diffidenza di Garzón, alla sua convinzione che allontanandomi da sola con quell'uomo avrei corso un grave pericolo.

«Non si preoccupi, viceispettore, me la caverò. Lei ne approfitti per farsi spiegare da Dmitrij la sua tecnica del ceffone.

«Magari! Dice che vuole portarmi in un museo...»

«Al museo della vodka, forse?»

Mi guardò con rancore.

«Se non la convince che Dmitrij ed io passiamo il pomeriggio in un museo, nemmeno a me convince molto l'idea che lei e Rekov lo passiate in compagnia di un "santo"».

La sua impertinenza toccava punte intollerabili. Non riusciva ad accettare di essere soppiantato da Rekov. Pensai che avrebbe dovuto fare più caso al nostro amico Silaiev, il quale non solo distribuiva cazzotti a destra e a manca, ma si mostrava sempre ligio alla disciplina. Ma non me la presi, non mi restava molto tempo da passare in Russia, e sapevo che non appena fossimo partiti, i malumori di Garzón sarebbero scomparsi.

Attraversai di nuovo Mosca accanto al mio amante ex sovietico. Mi sentivo leggermente euforica per la birra bevuta a pranzo. Avevo bisogno di dimenticare tutto. In un certo senso, quella sorta di missione all'estero mi faceva evadere dalla noiosa routine spagnola, però mi dava la sensazione di lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro. È vero che ogni tanto mi rilassavo insieme a Rekov, ma mi mancavano i momenti di solitudine nel mio appartamento, in cui analizzavo gli avvenimenti della giornata. Suppongo che questo desiderio d'intimità colpisca tutte le persone abituate a vivere da sole. Guardavo il suo solido profilo al volante, le mani ossute dalle nocche di pietra. Garzón aveva ragione: quell'uomo poteva essere qualunque cosa: pericoloso, spietato, cinico, un compendio di tutte le crudeltà. Ma era il mio amante, ed era bello, e dopo quella settimana non l'avrei più rivisto, e solo nel ricordo di quella settimana avrebbe avuto un posto nella mia mente per tutta la vita.

I quartieri che via via andavamo attraversando mi costrinsero a uscire dai miei pensieri. Da un po' avevamo lasciato il centro cittadino e ci muovevamo in zone sempre più periferiche e spopolate. Cominciò a nevicare. Rekov azionò il tergicristalli e si lasciò sfuggire una breve imprecazione. Forse il biancore dei fiocchi di neve sarebbe stato bello in campagna, ma su quelle strade fiancheggiate da vecchi palazzoni malandati appariva tristissimo. Eravamo in macchina da circa tre quarti d'ora, quando domandai:

«Ma dove diavolo vive il tuo "santo"?»

«Siamo quasi arrivati», mi rispose.

Le dimesse case popolari stavano cedendo il passo a piccole costruzioni a un piano, nere come grotte nel biancore dell'atmosfera. Sarebbe stato difficile credere che lì potesse abitarci qualcuno, se non fosse stato per qualche finestra illuminata. Ci fermammo davanti a una casa completamente al buio, con le imposte chiuse.

Scendendo dalla macchina pensai che il freddo mi avrebbe fatto scoppiare i polmoni. Aleksandr mi passò ancora una volta il braccio possente sulle spalle. Uscì ad aprirci una vecchia mamuska che ci fece entrare senza dire una parola. Ci ritrovammo in un piccolo soggiorno circondato di scaffali pieni di libri. Padre Belinskij sedeva presso la finestra, vicino a un braciere. Aveva un volto barbuto e decrepito, gli occhi gialli come quelli di un gatto. Pensai che il suo aspetto non aveva niente di speciale, e non avvertii in lui alcun alone di santità. Tuttavia, Rekov assunse un atteggiamento rispettoso e, quasi con devozione, si inchinò e gli baciò la mano. Io gli sorrisi senza sapere cosa fare. Ci invitò a sedere, e subito dopo ricomparve la domestica con un vassoio di tazze da tè.

Rimasero a parlare per un bel pezzo mentre bevevamo. Non ci fu nessuna traduzione. Il vecchio mi guardava con occhi penetranti. Cominciai a sentirmi a disagio e a desiderare che tutto finisse al più presto. Non mi sembrava una cosa molto seria. A un tratto Aleksandr si voltò verso di me e mi chiese di tirar fuori il biglietto con la frase misteriosa. Presi la borsa e lo cercai precipitosamente. Glielo misi in mano. L'uomo lo dispiegò con lentezza e lesse in silenzio. Dopo un interminabile minuto disse: «Blochin». E rimase zitto.

Chiuse gli occhi come se si concentrasse su un pensiero profondo e rimase in quella posa tanto a lungo da sembrarmi grottesco. Con lo sguardo cercai di spingere Rekov a domandargli qualcosa, ma questi si portò un dito alle labbra chiedendomi di restare in silenzio. Finalmente il vecchio apri gli occhi e, mortalmente serio, pronunciò una sola parola, di cui intesi chiaramente il suono:

«Skopzi», disse, e dopo un istante, ripeté: «Skopzi». Aleksandr non accennò minimamente a parlare. Io ero sul punto di saltare addosso a quel diabolico santone e scuoterlo per le spalle, ma lui dopo un po' si alzò e arrancò verso un punto della sua vasta biblioteca. Si chinò e andò a prendere un libro. Mentre cercava una pagina determinata, cominciò a spiegare qualcosa al mio collega. Nemmeno questa volta mi fu tradotta una sola parola. Quando finirono di parlare, domandai:

«Cosa ti ha raccontato?»

«Ne parleremo in macchina».

Il "santo" ora mi guardava. Disse una frase che ritenni rivolta a me. Rekov la tradusse:

«Padre Belinskij dice che vede molto ghiaccio nel tuo cuore, e anche molta paura dell'ignoto. Ti dà un consiglio: riposa, lascia vagare un poco la tua mente, non cercare di controllare tutto».

All'anima il padre Belinskij! Nessuno gli aveva chiesto una seduta psicanalitica. D'ogni buon conto, sorrisi e dissi:

«Ringrazialo. Promettigli che ci proverò».

Poi Aleksandr tradusse la nuova frase del vecchio.

«Ti chiede se vuoi la sua benedizione».

Fui sul punto di mandarlo a quel paese, ma poi pensai che nella mia vita avevo ricevuto così tante maledizioni non richieste, che per una volta una benedizione non poteva farmi male. Quindi, chinai la testa dinanzi a quell'uomo e lasciai che infondesse la sua fede su di me. Lo udii pronunciare una breve preghiera che ripeté anche per Rekov.

Uscimmo da quella casa che era già buio. Aleksandr portava con sé il libro. La neve cadeva con una tale intensità che era difficile guidare.

«Non mi racconti quel che ti ha detto? Cos'è quel libro?»

Parve uscire da uno stato di trance.

«Scusami! Sono un po' impressionato, mi capita ogni volta che consulto padre Belinskij. Sento che da lui promana una forza straordinaria. Dopo mi sento strano, un po' intontito. Dice che Blochin è il nome dell'antico fondatore di una setta molto particolare. Si tratta degli skopzi».

«E cioè...?»

«Ci ha pregato di muoverci con estrema cautela, perché stiamo entrando in un territorio oscuro, di tenebra profonda. Mi ha assicurato che pregherà Dio affinché ci protegga».

«E a parte questo?»

«Non so niente di più. Mi ha dato questo libro: al capitolo dieci troveremo le informazioni di cui abbiamo bisogno».

«Dammelo, lo leggerò mentre tu guidi!»

«In russo?»

«Cavoli, è vero! Fermati un momento».

«Sei pazza? Non posso fermarmi con questa nevicata».

«E io non posso aspettare un minuto di più.»

«Credevo che l'incontro con padre Belinskij ti avrebbe infuso un po' di pace».

«Andiamo, Aleksandr, per favore, questa è una cosa importantissima per me! Sono mesi che ci sto lavorando».

«Mi è venuta un'idea. Da queste parti c'è una piccola locanda. Dormiremo lì. Non è consigliabile guidare con questo tempo».

Mi chiesi come fosse possibile che un uomo duro e temprato dall'esperienza come Rekov fosse così sensibile alla vena mistica. Speravo solo che uscisse in fretta da quel suo imbambolamento per tornare razionale e pratico come sempre, dal momento che ero completamente nelle sue mani.

Ci fermammo davanti a un alberghetto minuscolo che sembrava un'antica casa di posta. Ci assegnarono una camera al primo piano. Un grande letto coperto di spesse trapunte occupava quasi l'intera stanza. Il pavimento di legno scricchiolava sotto i passi. Seguii i movimenti di Aleksandr, mentre si toglieva il cappotto, si accendeva una sigaretta, e si sedeva, finalmente, a leggere.

«Traduci, mentre leggi», lo supplicai.

Mi osservò con rassegnazione. Sorbii ogni sua parola quando cominciò a far udire la sua voce, esitante, alla ricerca dei termini giusti in inglese.

«Gli skopzi. Si tratta di una setta fondata in Russia nel 1772 da Akoulina Ivanovna, una delle ultime mistiche del XVIII secolo. Diceva di essere la madre di Dio. La sua dottrina diceva che Adamo ed Eva erano stati creati senza sesso, e per raggiungere lo stato di purezza più estrema gli adepti si castravano per evitare la procreazione. Blochin, figlio spirituale della Ivanovna, era il «Cristo» della sua chiesa e si evirò di propria mano per non commettere peccato. In seguito fu deportato in Siberia, e al suo ritorno in Russia riprese il comando della setta col nome di Kondrati Seliwanov, facendosi passare per lo zar Pietro II, sfuggito miracolosamente ai sicari inviati da Caterina II per ucciderlo. Morì nel 1832. Gli skopzi credono che tornerà sulla terra reincarnato per lottare contro l'Anticristo e instaurare il Millennio. Nel 1874 si scatenò una grande campagna poliziesca per sradicare la setta. All'epoca fu rilevato che in Russia vi erano più di cinquemila skopzi, settecentosessanta dei quali volontariamente mutilati. Vi sono ragioni per pensare che la setta sia ancora attiva in Russia e in alcuni paesi balcanici».

Mi lasciai cadere sul letto, le tempie mi pulsavano con violenza, le idee turbinavano nella mia mente.

«Ecco. Ecco. Adesso capisco. Adesso sì», mormorai quasi in estasi. «Quel ragazzo ci diede tutte le prove. C'erano tutte. Ci indicò l'operazione chirurgica per mezzo dei punto di sutura. Ci segnalò la setta mistica con la crocetta di cera. Ci indicò il luogo in cui si trovava Ivanov per mezzo del frammento di pietra. Il profeta della setta stessa col suo ultimo messaggio! Per Dio! Come abbiamo fatto a non vederlo? C'era tutto con quei peni tagliati!»

«E i loro possessori? E il ragazzo morto? E il presunto suicida che ti informava, contro la sua stessa coscienza e il voto di segretezza? Ma fu davvero un suicidio?»

«Non lo so, non io so, non posso ancora saperlo!»

Credo che lo dissi quasi gridando. Aleksandr si avvicinò, mi prese le mani.

«Petra, per favore, calmati».

«E adesso, cosa facciamo? Dimmi, cosa facciamo?»

«Al commissariato c'è una squadra che si occupa delle sette religiose. Sono abbastanza diffuse in questo paese. Domani ci andremo e lavoreremo con loro. Deve pur saltar fuori qualcosa sugli skopzi. Padre Belinskij mi ha detto che devono essere ancora attivi».

«E se in archivio non c'è niente? Domani è il nostro ultimo giorno a Mosca!»

Non rispose. Mi attrasse contro il suo petto.

«Non c'è niente che possiamo fare ora. Guarda fuori: è buio pesto, siamo in capo al mondo, la neve cade fittissima. Fa conto per un momento che tutto si sia fermato. Finché noi siamo qui non può succedere niente. Chiamerò Silaiev e gli dirò che non arriveremo prima di domani. Rimarrà tutto com'è, credimi, e noi staremo tranquilli.

Fece il numero senza perdere un istante. Quando ebbe riattaccato, gli dissi:

«Il viceispettore Garzón dev'essere preoccupato per me».

«E io invece credo che non potrebbe stare meglio. Silaiev e lui se la stanno spassando in un bordello di prima categoria. C'è qualcos'altro che ti preoccupa?»

Senza dubbio Rekov aveva molti volti. Crudele, mistico, saggio, amorevole, cinico, passionale ed esaltato. Contraddittorio. E poi, aveva senso dell'umorismo.

Ero persuasa che la mia ansia sarebbe cresciuta ancora di più, ma mi sbagliavo. Mentre Aleksandr mi spogliava e io spogliavo lui, tutto ciò che solo pochi attimi prima mi aveva tolto il respiro cominciò ad allontanarsi a poco a poco. Alla fine rimase soltanto il corpo di quell'uomo a riempire tutto, il tepore del suo odore.

 

Il mattino dopo Garzón aveva una faccia da far paura. In parte per i postumi della sbronza, e in parte per la rabbia accumulata contro di me. Mi disse di essersi preoccupato da morire per la mia sorte. Lo ascoltai con pazienza infinita, decisa a lasciarlo sfogare, ma quando cominciò a enumerare i pericoli che secondo lui mi avrebbero minacciata, dal rapimento fino all'assassinio, non ce la feci più ed esplosi.

«Spero che tutte quelle preoccupazioni non le abbiano rovinato il pomeriggio passato a puttane». Rimase un po' spiazzato e mi guardò con aria indifferente.

«Ma figuriamoci! Le assicuro che...»

Non lo lasciai finire.

«Guardi, Fermín, ho la sensazione che faremmo meglio a concentrarci di più sul lavoro. Non le interessa sapere che abbiamo quasi risolto il caso?»

Gli raccontai tutta la storia, lasciandolo a bocca aperta. Non riusciva a credere alle sue orecchie, la cosa gli sembrava assolutamente irreale. Ma dovette ammettere che eravamo sulla buona strada. Soprattutto in commissariato, quando ci trasferimmo in un altro ufficio in compagnia di Rekov e Silaiev. La squadra che si occupava delle sette era in effetti al corrente delle vicende degli skopzi. Informarono Aleksandr che il gruppo era risorto con straordinario vigore durante il governo di Gorbaciov. L'ultima azione contro di loro risaliva soltanto a un anno prima. C'erano stati degli arresti, ma non era stato possibile condannare nessuno per mancanza di prove. Effettivamente molti degli adepti che erano stati rintracciati, quasi tutti giovani, avevano subito l'intervento di evirazione. Eppure le indagini della polizia avevano incontrato forti ostacoli, soprattutto per via del segreto assoluto che circondava la setta.

«Il voto del silenzio che è alla base del loro patto. Tanto che si autodefiniscono prima di tutto "società segreta". I miei colleghi sono convinti che siano ancora attivi, anche se ufficialmente la setta è stata sciolta l'anno scorso».

«Qual è il loro obiettivo?»

«E chi lo sa? La conquista del mondo? Comunque, infiltrandosi in settori professionali o imprenditoriali, hanno la possibilità di commettere estorsioni, di combinare affari fraudolenti, di manovrare delle persone... Il denaro non è estraneo alla vicenda».

Tutto coincideva. Ramón Torres era in preda a un panico profondo quando aveva rotto il voto del silenzio. Anche se ogni giorno la follia cui aveva preso parte gli faceva sempre più orrore. Mi aveva vista in televisione e aveva escogitato una soluzione che salvasse entrambe le parti della sua coscienza. Non avrebbe rivelato la verità, ma mi avrebbe dato indizi sufficienti perché potessi scoprirla. Povero ragazzo, aveva idealizzato un po' troppo le mie capacità professionali e questo gli era costato la vita! Ora si trattava di scoprire come fossero andate le cose, di indagare sulla morte dell'altro ragazzo... Forse non era ancora troppo tardi per evitare nuovi delitti. Probabilmente altri ragazzi c'erano ancora dentro fino al collo.

«Ho chiesto di sottoporti tutte le schede dei sospetti da noi controllati, Petra. Credo che questa sia l'ultima opportunità di smascherare Ivanov. Prenderemo un tè e ci metteremo subito al lavoro. Purtroppo, mancano le foto di coloro che riuscirono a fuggire prima di essere scoperti. Dobbiamo confidare nella buona sorte».

Mi sentivo tranquilla, anche se non contenta: l'idea che quella storia orrenda si fosse svolta sotto i nostri occhi mi tormentava. Garzón, invece, era come sbalordito, sorpreso che quella specie di gioco infantile avesse radici così lontane.

Gli agenti preposti mi misero una quantità di cartelle sulla scrivania. La giostra muta delle foto ricominciò, ma questa volta io agivo sotto il peso di una tensione crescente che mi induceva a vedere Ivanov in ogni volto. Accesi una sigaretta e mi versai un'altra tazza di tè, imponendomi calma e freddezza. Guardai Aleksandr. Lui mi sorrise e, come se conoscesse il mio stato d'animo, disse:

«Nessuno, nessuno al mondo, nemmeno la migliore squadra di poliziotti in mille ore di lavoro consecutivo sarebbe riuscita ad arrivare più in là di dove sei arrivata tu a partire da quegli indizi».

Che avesse ragione o no, gliene fui grata. Sospirai e pensai che stringere i denti e andare avanti è quasi sempre la migliore soluzione, l'unica.

E lo fu. Due ore più tardi, nell'aprire una di quelle cartelle mi imbattei di colpo nella faccia di Ivanov. Non c'era il minimo dubbio. Alzai la voce e dissi distintamente:

«È lui».

Rekov e i due poliziotti che erano con noi si chinarono sul tavolo, osservarono la foto e i rapporti. Parlarono fra loro. Silaiev e Garzón rimanevano in attesa. Finalmente, Aleksandr tradusse.

«Si tratta di Jurij Sumiatski. Era implicato nel giro della setta, ma era riuscito a fuggire. Non aveva precedenti penali. Non era stato possibile rintracciare nessun familiare né altri che potessero dare informazioni su di lui. Risultava latitante».

«Credete che lavori per la mafia?»

Ingaggiò una nuova discussione con i suoi colleghi. Poi parlò.

«Siamo inclini a pensare che avesse contattato Esvrilenko per chiedergli di aiutarlo a uscire dal paese. Poteva essere un accordo vantaggioso per entrambi. Esvrilenko aveva bisogno di qualcuno che si occupasse dei suoi cantieri in Spagna, e che non facesse domande. A Sumiatski servivano un passaporto, una via d'uscita sicura dal paese e un posto dove stare».

«Be', è il nostro uomo».

«Infatti, è lui».

Fu necessario stendere un rapporto su tutto quanto, e dovetti firmare una dichiarazione per gli archivi di Mosca.

Poi dissi a Rekov:

«Devo telefonare immediatamente in Spagna perché arrestino quel tale, però...»

«Però cosa?»

«Però, se lo faccio, di sicuro il commissario ci darà l'ordine di rientrare oggi stesso. Lo conosco bene. Infatti in tutti questi giorni non l'ho chiamato neanche una volta, temendo una cosa simile. E un pomeriggio è pur sempre un pomeriggio, non ti pare, Aleksandr? Un pomeriggio con la sua notte corrispondente. Credo che manderò un fax».

«È la cosa migliore. Non puoi ancora andartene, ho un regalo per te».

«Che regalo?»

«Lo vedrai».

Mandai quel maledetto fax al commissariato. Coronas sarebbe diventato isterico, non ricevendo nessuna spiegazione, ma non avevo voglia di contargli delle palle, e tanto meno di appellarmi alla sua comprensione. Non appena ebbi la certezza che il mio messaggio fosse stato ricevuto, Aleksandr ed io ce la filammo. Il mio aereo partiva alle nove del mattino seguente e un minimo di cortesia esigeva che cenassimo con Garzón e Silaiev. Ci restava poco tempo per noi.

Sperimentai l'ebbrezza adolescenziale di scappare da tutto e da tutti, e di approfittare di ogni istante. Mentre camminavo con Aleksandr sulla Piazza Rossa, mi sembrava di avere il cuore diviso a metà. Da una parte ero esaltata e gioiosa per la grande attrazione che provavo verso di lui, per l'atmosfera di eccitazione avventurosa in cui tutto si svolgeva. Dall'altra, sentivo la triste anticipazione di quella che sarebbe stata la mia nostalgia quando fossi partita dalla Russia.

Non so cosa diavolo pensasse Rekov, ma sembrava allegro. Mi faceva camminare a grandi falcate seguendo il suo passo. Ci muovevamo come se facessimo parte di una grande scena da musical in cui intervenissero turisti, vecchietti, famiglie e fiocchi di neve.

Trascorremmo tutto il pomeriggio lì intorno, lui non volle andare da nessun'altra parte. Chiacchierammo, ridemmo e ci baciammo: un modo di passare il pomeriggio che chiunque avrebbe definito ridicolo e infantile. Ma era così.

Verso le cinque cominciò a guardare l'orologio con insistenza. E quando si avvicinarono le sei mi prese sottobraccio e camminammo decisi verso una meta prestabilita.

«È arrivato il momento di darti il mio regalo», disse, con aria enigmatica.

Il luogo verso cui ci dirigevamo era l'imponente mausoleo di Lenin, proprio sotto le mura del Cremlino. La cosa mi incuriosì. Quando arrivammo, ne stavano uscendo gli ultimi battaglioni di turisti, ordinatamente incolonnati. Ci mantenemmo a breve distanza e li osservammo sfilare verso i loro autobus. Guardai Aleksandr divertita.

«Adesso puoi dirmi in cosa consiste la sorpresa?»

«No», disse, mettendosi a ridere.

«Allora aspetterò!»

Non dovetti aspettare per molto. Alla fine Rekov si diresse verso la porta del mausoleo, dove non si vedeva più nessuno. Lo seguii. La mia curiosità iniziale si trasformò in una certa inquietudine. Mi tenni da parte mentre lui confabulava brevemente con le guardie sulla soglia, che sembravano conoscerlo. Si voltò verso di me, mi fece un cenno con la testa e io lo raggiunsi.

Entrammo nel mausoleo in un modo così rapido da sembrarmi furtivo. Udii i cancelli di ferro chiudersi dietro di noi.

«Lo visitiamo quando tutti sono andati via?»

«Immagino non sia necessario spiegarti fino a che punto questo è proibito».

Il cuore mi batté forte.

«E tu hai un permesso?»

Fra le ombre dei corridoi di marmo colsi nei suoi occhi un lampo di divertimento.

«Questo è uno dei vantaggi dell'essere poliziotto. Credo che tu abbia sentito parlare della corruzione poliziesca in Russia, o no?»

«Ti sarà costato molto caro!»

«Se mi scoprono posso pagarlo ancora più caro».

«Ma, come ti è venuto in mente...?»

«Parla la donna che ama l'insolito? Sono riuscito a ottenere solo un quarto d'ora, sarà meglio che tu te lo goda».

Se non fossi stata così terrorizzata mi sarei messa a ridere, ma rimasi zitta. In quella cornice, la solennità si imponeva a chiunque. Faceva molto freddo, o forse la vista delle nude pareti di marmo mi intirizziva ancora di più.

Il silenzio era profondo, ormai si udivano solo gli stivali dei sorveglianti che si allontanavano, il ronzio di qualche tubo al neon al nostro passaggio. A un tratto mi resi conto che quella follia poteva compromettermi. Per quanto lui fosse sicuro degli accordi presi e per quante amicizie avesse ai più alti livelli, la cosa poteva sfuggirgli di mano in ogni momento. Era vero che quel luogo aveva perso la sua importanza politica, ma se qualcuno ci avesse pescati lì io sarei stata come minimo accusata di vilipendio, e lui forse di alto tradimento. Una cosa simile mi sarebbe costata probabilmente un soggiorno nelle carceri russe o, nel migliore dei casi, l'impossibilità di uscire dal paese per un bel pezzo. Persi la tranquillità interiore. Se a Coronas fosse arrivata la notizia che ero stata pescata a deambulare per la tomba di Lenin fuori orario, gli sarebbe venuto un infarto.

«Siamo arrivati», disse Aleksandr a voce molto bassa.

Il corridoio semilluminato si interrompeva di colpo in uno stretto gomito e, senza alcun preambolo architettonico, immetteva direttamente nella camera funeraria. Lì, isolato da un cubo di vetro antiproiettile, Lenin dormiva. Rimasi impressionata dalla sua immobilità. Era vestito di scuro, adagiato su un guanciale e coperto fino alla vita da un lenzuolo di seta nera. Non aveva gambe.

Rimasi a osservarlo in stato di ipnosi, sbalordita. Sembrava che fosse sul punto di sorridere, ma era il corpo di un uomo morto molto tempo prima, nient'altro che questo. Tuttavia, la sua presenza fra i vivi appariva fantasmatica, strana.

Aleksandr mi prese per un braccio e mi fece staccare gli occhi dall'enorme urna. Si chinò su di me e mi baciò. Poi cominciò a togliermi la pelliccia con movimenti insinuanti. La lasciò cadere a terra. Cercò di sbottonarmi la camicetta e allora io mi bloccai. Capii che pretendeva di fare l'amore su quelle lastre di marmo. Lo respinsi con violenza.

«Ma cosa diavolo fai?»

«Non ne hai voglia?»

«Qui, no».

«E il rischio, l'emozione, l'insolito?»

«Ma è ridicolo!»

«Solo un po' inquietante, ma è un posto come un altro. Preferisci che ce ne andiamo?»

Esitai, mi dibattei. L'insolito. L'indimenticabile. La passione. Aleksandr mi aveva di nuovo abbracciata col suo corpo caldo e forte. Mi lasciai trasportare solo da lui, dimenticando il luogo in cui eravamo, le circostanze. Il desiderio riuscì a sovrapporsi a qualunque remora. Facemmo l'amore senza spogliarci, con urgenza, con una certa disperazione. Poi mi colse un'ondata di paura. Mi staccai da Rekov e volli andarmene. Non potei più guardare il corpo imbalsamato.

Rifacemmo la strada di prima, in silenzio. Arrivati che fummo alla porta, mi lasciò un attimo sola e mi chiese di farmi da parte. Non dovevo vedere in faccia la guardia che era venuta ad aprirci.

Una volta fuori, inspirai l'aria gelida con autentica avidità. Camminammo senza parlare. All'improvviso, Rekov disse:

«Una donna deve sapere chi è il suo avversario alla scacchiera. Deve saper misurare il livello della partita».

«Davvero era così importante per te scopare sulla tomba di Lenin?»

«Non specificamente, ma tu dicevi che volevi delle emozioni».

«Tutto questo mi pare assurdo e infantile. Sarà meglio che io vada in albergo, adesso. Ci vediamo stasera a cena».

Mi sentivo indignata e rabbiosa senza capirne esattamente il motivo. Supposi che si trattasse della passività con cui avevo vissuto la situazione, ma di sicuro c'entrava anche quella specie di sfida che Rekov mi aveva lanciato. Perché fare qualcosa di scomodo, rischioso, quasi contro natura? Cos'era quella, la mentalità russa postsovietica, o quella maschile in generale? Anche se forse la cosa che mi infastidiva di più era di avere avuto tanta paura.

Dall'albergo chiamai il commissario Coronas. Non appena sentì la mia voce divenne una belva.

«Petra? Petra Delicado, dice? Mi lasci pensare... Ah, sì, credo che qui una volta ci fosse un ispettore con questo nome! Può dirmi perché cazzo non mi ha chiamato per tutta la settimana?»

«Commissario, non pensavo che... In realtà siamo stati presissimi e abbiamo trovato il nostro uomo, non è stato così facile».

«Così presi da non poter nemmeno rispondere alle mie telefonate?»

«Alle sue telefonate? Perché, lei ha chiamato?»

«Parecchie volte, anche, e mi è stato detto che il messaggio sarebbe stato trasmesso all'ispettore Rekov; quindi mi dica lei...»

«Glielo spiegherò, signor commissario, non si preoccupi, tutto ha una spiegazione. Non posso stare molto al telefono, ma le anticiperò che si tratta di una setta segreta. Avete già arrestato Ivanov?»

Si fece un silenzio sospetto, poi udii un sospiro.

«Ci è sfuggito di mano».

«Come ha detto?»

«Che ci è sfuggito, puttana miseria! Vivo circondato di inetti, questa è la verità! Lo stavano tenendo d'occhio da quando lei è partita, poi do l'ordine di fermarlo e lui ci scappa sotto il naso. Da mangiarsi le palle! E dev'essere un artista della fuga, perché quando sono entrati nella baracca c'era ancora una sigaretta sul portacenere, accesa! E poi, era notte, non si vedeva niente... Insomma! Ho diramato l'ordine di cattura».

«E di Palafolls, si sa qualcosa?»

«Ha preso molto sul serio il suo ruolo di infiltrato e non si è fatto vivo per una settimana. Però oggi ha chiamato. Pare che stanotte vada a una festa di studenti, ma domani vuole vedermi. È probabile che abbia già scoperto qualcosa. Verrà domattina. E voi quando tornate?»

«Partiamo di qui alle nove.

«Sappiate che voglio vedervi immediatamente, non vi do neanche il tempo di posare le valigie e di lavarvi i denti, d'accordo?»

«Sissignore».

Chiamai Aleksandr, che trasmise l'allarme al suo dipartimento nel caso che Ivanov fosse tornato a Mosca. C'era ben poco da fare, per il momento. A dire il vero Coronas aveva tutti i motivi per essere incazzato, ma li avevo anch'io. Lasciarsi scappare Ivanov! E i messaggi di Coronas? Perché Aleksandr non me li aveva passati? Era vergognoso, inefficienza su tutta la linea. E come se non bastasse la bella idea di scopare davanti alla sacra mummia di Vladimir Il'ic Ul'janov!

 

All'ultima cena moscovita mancava solo Gesù Cristo. Rekov, Silaiev e Garzón facevano la parte di undici apostoli, col loro umore concorde e le loro continue dimostrazioni di amicizia, e io mi sentivo pesare addosso l'umore di Giuda. Naturalmente la prima cosa che feci fu chiedere ad Aleksandr se avesse ricevuto i fonogrammi di Coronas. Con perfetta sfacciataggine mi disse di sì.

«Posso sapere perché non me li hai passati?»

«Per la stessa ragione per cui tu gli hai mandato un fax invece di parlargli. Temevo che ti ordinasse di tornare. Gli avevo chiesto se avesse qualcosa di importante da comunicarti, e lui mi aveva detto di no. Perché rischiare?»

Finsi di lottare disperatamente col piacere narcisistico che provavo.

«Ma è terribile, davvero, ho la sensazione che siamo entrati tutti in una spirale di follia collettiva».

Si mise a ridere di cuore, seduttore e un po' paterno.

«Non sta succedendo niente, Petra, va tutto bene. La sensazione che provi è dovuta semplicemente al fatto che hai scoperto di non essere come credevi: avventurosa, anarchica, amante dei cambiamenti... Hai mai pensato che la tua vera natura sta dalla parte dell'ordine, dell'immobilità, del razionalismo più assoluto?»

«Fuck you!» gli dissi, cosa che perfino Garzón capì.

Quando Aleksandr riuscì a placare il suo attacco di risa, cominciammo finalmente a cenare con un certo alleggerimento della tensione, almeno da parte mia. Eppure non riuscivo a togliermi dalla testa la fuga di Ivanov. Rekov non ne era affatto sorpreso: a quanto pare era scappato più o meno allo stesso modo l'anno prima, da Mosca. Molto meno stupito era Garzón: quel finale coincideva con la sua infondata teoria sull'inafferrabilità russa. Nemmeno la concreta solidità di Silaiev gli aveva fatto cambiare opinione. Anche se ora entrambi sembravano affratellati e inseparabili come Romolo e Remo, con una generosa bottiglia di vodka a far la parte della lupa. Temetti che, dopo quel viaggio, il viceispettore avesse bisogno di una cura di disintossicazione.

All'uscita dal ristorante i due si avviarono verso nuovi bagordi, mentre Aleksandr mi accompagnò in albergo.

Facemmo l'amore di nuovo, questa volta in uno scenario meno lugubre. Ci abbracciammo con fiducia e con un'ultima reciproca curiosità. A dire il vero lui era riuscito a sapere di me molto più di quanto io ne sapessi di lui. Ma non importava, le nostre mentalità erano così diverse che non saremmo mai giunti a un'autentica comprensione. Ero contenta, però, di averlo conosciuto. Mi aveva vaccinata contro ogni tentazione di rimettermi con Pepe, contro il terribile sbaglio di tornare indietro, e mi aveva dato la soddisfazione di constatare che c'erano ancora uomini pronti a giocare duro. Era un controllo statistico che qualche volta ci voleva.

Avevamo deciso che non ci sarebbe stato un addio. Lui si sarebbe alzato all'alba e se ne sarebbe andato. Io sarei rimasta a letto, e anche se mi fossi svegliata, avrei finto di dormire. Una degna conclusione per due amanti che hanno condiviso del tempo senza quasi conoscersi. Molto meglio così, avrei portato via intatti dei ricordi da plasmare a mio piacere. Aleksandr Rekov sarebbe sempre stato il mio glorioso amante russo, il mio conte Vronskij, il mio Ivan Turgenev. A cosa mi sarebbe servito sapere che manteneva una ex moglie isterica, un figlio adolescente o che, invece, conviveva con le sue manie di scapolo un po' orso? Non ci saremmo mai più rivisti; era quanto mai improbabile che le esigenze professionali mi portassero di nuovo a Mosca, e non mi sarebbe mai venuto in mente di presentarmi un bel giorno come turista in cerca della seconda puntata di un'avventura sentimentale. Addio, Aleksandr Rekov. Visto che la vita è così avara di realtà soddisfacenti, rimane sempre la possibilità di mitizzare i ricordi. D'ogni modo, annoto affinché serva da testimonianza per i secoli futuri, che quando lo sentii vestirsi alle prime luci dell'alba feci molta fatica a fingere di dormire avvolta nella placidità.

 

Garzón era chiaramente euforico sull'aereo del ritorno. Per un attimo temetti che si lasciasse di nuovo prendere dalla vena dei carmi priapei. Cercai di spegnere la sua gioia per evitare un nuovo show.

«Non so cosa la renda così felice».

«Il ritorno in patria, caro ispettore. Cominciavo a sentire la mancanza delle lenticchie e del chorizo».

«Annaffiati con la vodka?»

«Maledizione! Si può sapere perché è così di cattivo umore?»

«Lei cosa ne dice? Siamo sul punto di risolvere il caso, e mentre noi ci diamo da fare da una parte, il principale indiziato se la batte dall'altra. Non sono cose da ridere!»

«Ma neanche da piangere! Si fidi dei nostri ragazzi: se c'è un ordine di cattura, avranno tutto sotto controllo. Quel tipo non uscirà dal paese, non è così facile per un russo passare inosservato. Lo beccheranno».

Quando Garzón cominciava a tirar fuori espressioni del tipo «i nostri ragazzi», mi dava sui nervi.

«Il compagno Dmitrij mi ha detto che quando sei sulla linea deduttiva corretta, gli ostacoli che possono frapporsi all'indagine sono secondari», aggiunse.

«Cosa?!»

«Quello che ho detto, Petra. Cosa c'è da stupirsi tanto?»

«Mi domando come cazzo abbia fatto Silaiev a farle capire una cosa così complicata».

«Non creda, noi due parlavamo».

«In che lingua?»

«Siamo gente del popolo e fra noi ci si capisce».

«Ma non dica fesserie, Garzón!»

«Dico sul serio».

«Allora vuoi dire che la vodka fa miracoli».

«Questo è vero».

Staccai i contatti. Continuare una conversazione simile mi avrebbe solo fatto venire una crisi isterica. Mi infilai gli auricolari e cercai di rilassarmi ascoltando Prokof'ev. Nel frattempo, Garzón negoziava con la hostess una razione doppia dello spaventoso pasto sintetico della compagnia aerea.

 

Atterrammo in perfetto orario, Dopo aver ritirato il bagaglio uscimmo nell'atrio sempre affollato dell'aeroporto di El Prat. Rimasi di sale quando, fra la gente, distinsi il commissario Coronas seguito da due agenti.

«Ma quello è Coronas?» mi chiese, incredulo, il viceispettore.

«Credo che abbiamo sottovalutato la sua incazzatura», risposi.

E invece no, non si trattava di questo. Coronas si precipitò come un fulmine verso di noi e senza nemmeno salutare, proruppe:

«Hanno sequestrato Palafolls».

«Come dice?»

«Sequestrato, assassinato... ancora non lo sappiamo. L'unica cosa certa è che è sparito. Manca da casa da ieri, in facoltà e al commissariato non l'hanno visto... Sparito».

Che bella accoglienza. Adesso sì che era successo il peggio che potevamo immaginare.

 

10

Non potemmo neanche tornare a casa per posare le valigie e fare una doccia. Andammo direttamente in commissariato e ci riunimmo nell'ufficio di Coronas.

«Le cose vanno male, Petra, lo vede da sé. Ditemi cosa avete scoperto».

Glielo raccontai mentre lui mi guardava sempre più spaventato. Tutta quella faccenda della setta superava di gran lunga le sue capacità immaginative. Skopzi, castrazioni rituali, la via di fuga offerta dalla mafia russa... Troppo per la sua mentalità occidentale. E dire che nel mio racconto trasformai padre Belinskij in un bibliotecario esperto in questioni di sette; credo che se gli avessi parlato della sua «santità», lui stesso avrebbe provveduto affinché non ricevessi il mio stipendio a fine mese.

Prima che mi chiedesse spiegazioni per le telefonate rimaste senza risposta, decisi di essere io ad attaccare.

«Ma come diavolo avete fatto a farvi scappare Ivanov?»

«I nostri uomini non riescono a capirlo. Quell'animale se l'è filata pochi secondi prima che arrivassero. Doveva aver sentito qualcosa, o essere stato avvisato da qualcuno all'ultimo momento. Non so come sia stato possibile: era di notte e la baracca del cantiere era circondata, ma lui non c'era già più. Nello stereo suonava ancora un CD e c'era una sigaretta accesa sul portacenere».

«Non prese la macchina?»

«No, fuggì a piedi. Perlustrammo un po' la zona, anche se era buio, e poi lo rifacemmo con più attenzione il giorno dopo. Sono state interpellate tutte le agenzie di autonoleggio dei dintorni. Niente. Sono stati interrogati gli impiegati che facevano il turno di notte alla stazione. Nessuno se ne ricorda. Come se fosse scomparso nel nulla».

«Magnifico!» esclamò ironicamente Garzón.

Ma non c'era niente di magnifico in quel fallimento, non c'era nemmeno posto per l'ironia. Era come avere le mani nell'argilla, far girare il tornio, ma non riuscire a dar forma al vaso. Quel caso era una massa di dati messi insieme malamente. Ciascuna delle soluzioni parziali che eravamo riusciti a individuare, aveva dato luogo a un nuovo problema. Mi sentii responsabile del sequestro di Palafolls. Il mio angelo custode era stato catturato dal tentacolo di una piovra che non aveva niente a che fare con lui. Un'idea davvero poco fortunata da parte mia, mandarlo in facoltà. Professionalmente avevamo colpito nel segno, ma il fattore umano adesso pesava su di me. Di certo, se Palafolls era stato sequestrato, voleva dire che nella sua indagine si era avvicinato a qualcosa che scottava. Non volli nemmeno pensare che potesse essere già morto; questo avrebbe veramente rappresentato una tragedia inutile. Mi rivolsi a Coronas:

«Si sa se ha lasciato qualcosa di scritto sulle sue indagini?»

«Se è riuscito a farlo, noi in commissariato non abbiamo niente».

«Allora ha commesso un errore».

«Dobbiamo supporre che abbia scoperto qualcosa?»

«Io ne sono certa. Avete parlato col suo collega Marqués? Forse lui ne sa qualcosa».

«No, non gli aveva detto niente, non si erano nemmeno visti. È evidente che Palafolls aveva preso molto sul serio il suo  compito, non voleva mettere tutto a repentaglio con confidenze che potessero farlo scoprire».

«E a casa sua? Avete fatto un sopralluogo?»

«Petra, di questo spiacevole incidente siamo venuti al corrente solo adesso. Non abbiamo ancora avuto il tempo di far niente. Sono riuscito solo a chiamare la famiglia per informarla del fatto; il resto, spero che lo faccia lei».

Coronas mi passava la patata bollente. Procedimento per niente insolito, con un po' di fortuna io avrei potuto fare lo stesso con Garzón. Il mio vice aveva una capacità inimitabile nel trattare con le famiglie colpite da disgrazie d'ogni genere. Dava conforto, infondeva speranze... Mentre lui avrebbe fatto il buon samaritano, io sarei passata direttamente agli accertamenti.

E così facemmo. Con ogni probabilità i genitori di Palafolls ignoravano che la scomparsa del figlio era la conseguenza di un ordine partito da me. Altrimenti, non mi avrebbero trattata con tanto affetto e generosità. Mi strinsero la mano con calore e ci offrirono un caffè. Tutte quelle attenzioni mi fecero sentire ancora più in colpa. Mentre Garzón profondeva su di loro parole di incoraggiamento, io chiesi il permesso di perlustrare la sua stanza.

Miguel Palafolls era come un bambino, me ne accorsi subito. Aveva le pareti coperte di manifesti con le foto di muscolosi campioni di karatè e di riproduzioni del marchio dell'FBI. I giovani poliziotti sono pericolosi, pensai, bisogna essere un po' meno entusiasti per lavorare bene. Tutto lasciava intendere che quel ragazzo si fosse fatto trascinare da miti infantili. Cercai febbrilmente nei cassetti del comò, nell'armadio, fra i libri, le riviste e i dischi. Alzai perfino il materasso. Ma non c'era niente, né un nome, né un indirizzo. Se Palafolls avesse scoperto qualcosa, perché diavolo se l'era tenuto per sé? Cosa voleva, appuntarsi al petto tutte le medaglie al merito di servizio, o si credeva davvero una specie di superagente segreto? Tirai fuori tutti i suoi vestiti uno per uno, li frugai. Alla fine chiamai sua madre e gli chiesi quali indumenti avesse indossato il ragazzo negli ultimi giorni, Lei guardò stupefatta il caos che avevo combinato e, esitante, indicò due paia di pantaloni di tela.

«Credo che abbia messo questi, e le camicie, che ho già lavato».

«C'era qualcosa nelle tasche delle camicie?»

Ci pensò un istante.

«Sì, c'era un foglietto».

«L'ha tenuto?»

«Sì. Mio figlio mi dice sempre di non lavare niente prima che lui abbia vuotato le tasche, ma a dir la verità io non gli do retta. Le vuoto io e gli tengo da parte tutto quel che c'è dentro. Ha la brutta abitudine di lasciarci bigliettini, fogli, perfino soldi».

«Signora, la prego, mi dia subito quel foglietto».

Trattenni il respiro finché non tornò con in mano un foglio di taccuino piegato in quattro. Glielo strappai precipitosamente e lo dispiegai senza neanche cercare di sottrarmi al suo sguardo sempre più allarmato. Erano due numeri di telefono. Li mostrai alla madre, nel caso le ricordassero qualcosa, ma non li riconobbe. Interruppi la conversazione di Garzón col signor Palafolls per sottoporli anche a lui, ma nemmeno lui sapeva niente. Quindi me ne andai, quasi senza salutare. Il viceispettore mi raggiunse sulle scale.

«Poteva almeno aspettare un attimo, ha dato una pessima immagine del Corpo davanti ai genitori del ragazzo!»

«Non me ne frega niente! Sono stanca della diplomazia, dell'immagine, delle apparenze. L'unica cosa che mi interessa adesso è risolvere una buona volta questo fottuto caso. Tutto il resto è secondario».

Assentì senza azzardarsi a rispondere. Evidentemente, stava prendendo nota della mia crudeltà mentale. Meglio, così avrebbe finalmente capito che il fattore umano aveva smesso di importarmi. Condividere il dolore altrui era una divagazione, e in quei momenti bisognava assolutamente rimanere in carreggiata. Efficienza e tempismo sarebbero stati da quel momento in poi le parole chiave. Mi assalì il ricordo del viaggio a Mosca. Avevamo sprecato molte ore laggiù: le passeggiate, il sesso, le cenette in allegre taverne... Sebbene non dimenticassi che il lavoro del poliziotto è fatto anche di contatti umani, e come tale è sottoposto a infinite variabili. Una buona metà dei dati su cui ci si basa sono del tutto soggettivi: «Ho notato, ho riconosciuto, mi è parso di vedere, era quasi l'una, erano le sei, l'impermeabile era verde, o forse grigio...». Tutto incerto, tutto momentaneo, tutto verbale. Come l'uomo stesso. Un pensiero scoraggiante, metodi che risvegliavano immediatamente il dubbio. Avevamo perso del tempo a Mosca, e molto anche, ma avevamo trovato quello che cercavamo. Mi voltai verso Garzón.

«E adesso vada subito in commissariato e verifichi questi numeri di telefono», gli dissi. «Io vado a casa, ho bisogno di dormire un paio d'ore se non voglio cadere morta. Poi le darò il cambio e riposerà lei. E l'unica soluzione per poter resistere fino a stasera».

Assentì poco convinto, anche se era più in forma di me. Presi la macchina e corsi a casa: avevo bisogno di un minimo intervallo di tranquillità. Tuttavia, mi aspettava una sgradita sorpresa: seduta sul gradino, accanto alla porta, c'era Julieta. Mi ero completamente dimenticata di lei. Con quella sua aria da hippy scarmigliata e in quella posizione sembrava una mendicante uscita da un libro di Dickens. Mi guardò come un cane bastonato.

«Perché non sei entrata?» le chiesi.

Ma lei non era lì per dare spiegazioni, bensì per chiederne.

«Sapete qualcosa di Miguel?» domandò.

Il mio tentativo di cancellare del tutto il fattore umano era destinato al fallimento.

«Vieni dentro e sediamoci un attimo. Ti faccio un caffè».

«Non voglio entrare. Voglio solo sapere se avete qualche idea di dove si trova Miguel, anche solo un indizio».

Julieta mirava al sodo, ma non mi trovava nella migliore disposizione d'animo.

«Stiamo cominciando a indagare solo adesso».

«Avete qualcosa da cui partire?

«Sì, un paio di numeri di telefono. A meno che tu non ne sappia di più».

«No».

«Aspetta, te li faccio vedere, magari ti sono familiari».

Tirai fuori l'agenda dalla borsa, gli mostrai la mia trascrizione del foglietto di pugno del suo fidanzato. Mi ascoltò con attenzione, rimase un secondo in silenzio, poi scosse subito la testa.

«Sei sicura?»

«Sì».

«E lui non ti ha parlato di niente, non ti ha detto se ha conosciuto qualcuno in facoltà...?»

«Non mi parlava mai di quello che faceva».

«È logico che fosse così. Davvero non la vuoi una tazza di caffè?»

«Voglio solo che lo troviate».

«Lo so, lo so».

«Adesso vado. Non vengo più a far le pulizie. Mi chiami quando saprà qualcosa».

«Non ti preoccupare, lo farò», risposi con tristezza.

Se ne andò, con una faccia che non esprimeva nessuna emozione. La sua gonna indiana di cotonina a fiori si muoveva nell'aria come se stesse per evaporare.

Entrai in casa di pessimo umore. Non mi piaceva affatto che la gente mi ritenesse responsabile del suo dolore. E se oltre a sentirmi accusata dovevo anche rimanere senza aiuto domestico, la cosa si faceva ancora più grave. Meglio non pensarci, dovevo dormire, avevo bisogno di dormire, ero ossessionata dal sonno, avrei potuto cadere a terra priva di conoscenza se non fossi andata a dormire. Mi sdraiai e puntai la sveglia perché suonasse due ore dopo. Prima di abbandonarmi completamente, rividi lo sguardo indefinibile di Julieta. Avrei preferito che mi insultasse, che piangesse, che facesse una scenata in piena regola. E invece niente, si era limitata a mostrarmi quell'espressione indecifrabile. Che andasse al diavolo! pensai, e staccai finalmente ogni contatto.

 

Per quanto Garzón avesse la pelle dura, gli avevo chiesto troppo. Lo trovai ridotto a uno straccio, accasciato sulla sedia, in preda a una stanchezza viscerale.

«Qualche risultato?» domandai.

Mosse la lingua impastata per articolare.

«I numeri appartengono a due famiglie della città: gli Atienza Pérez e i Garcia Bofarull. Entrambe hanno un figlio che frequenta il quarto anno di medicina».

«Bravo, un buon lavoro!»

«Adrian Atienza Pérez era a casa quando ho telefonato. Ho mandato una macchina a prenderlo. Daniel Garcia Bofarull era uscito per giocare a tennis. Ho mandato a casa sua due agenti, di cui uno è Marqués, e appena rientra lo accompagneranno qui. Spero che voglia scusarmi, ma ero troppo stanco per andarci io».

«Ha già fatto fin troppo, Fermín, adesso vada pure a casa».

«Quanto tempo mi dà?»

«Le bastano un paio d'ore?»

«Bastano e avanzano».

Uscì senza neanche dire arrivederci. Doveva avere sulle spalle più di venti ore senza dormire. Bisognava riconoscere che aveva un'eccellente tenuta. Alla sua età resisteva bene tanto alla mancanza di sonno quanto agli eccessi dell'alcol. Se continuava così mi avrebbe seppellita.

Non riuscii a rimanere sola nemmeno per cinque minuti; al quarto, Coronas entrò a chiedermi una copia della foto di Ivanov che avevo portato da Mosca. La presi dal dossier e gliela diedi.

«Mio Dio! È come un cattivo da film muto, sembra il dottor Caligari o qualcuno del genere».

«Infatti, ha esattamente quella faccia».

«Ma uno così lo notano tutti per la strada».

«Appunto. Cosa pensa di fare?»

«Diffondere questa foto attraverso tutti i canali di comunicazione. Dobbiamo fare lo stesso con quella di Miguel Palafolls».

«Ma così saremo sepolti dalle telefonate! Mi domando come faremo a rispondere».

Si strinse nelle spalle e uscì portandosi via la foto. Il suo lavoro finiva lì. Lo invidiai: come tutti i capi aveva ben delimitato il campo delle sue responsabilità.

Non appena aprii la porta del mio ufficio mi trovai davanti il volto di Adrian Atienza. Ebbi subito l'impressione che fosse molto spaventato. A parte questo mi parve un ragazzo normale, un rappresentante della sempre più omologata gioventù. Alto, capelli neri, vestito in modo informale. Lo interrogai andando dritta al nocciolo e lui, a tutta prima, negò di conoscere Palafolls. Dopo quella dichiarazione la sua smorfia di paura, assolutamente non dissimulata, si fece ancor più evidente. Decisi di stare al gioco e gli descrissi fisicamente il giovane agente. Non reagì. Allora gli rivelai che era un poliziotto infiltrato in facoltà. Analizzai minuziosamente l'espressione del suo volto. Mi parve di trovarvi ciò che già sapevo: neppure la minima traccia di sorpresa. Ne ero certa, anche se mi sarebbe piaciuto che fosse presente Garzón per sentire il suo parere. Mi fermai lì. Tenni per me il fatto che il suo numero fosse stato trovato fra le cose di Palafolls. Gli dissi che poteva andarsene, ma che doveva restare reperibile nel caso fosse stato necessario convocarlo di nuovo. Mi parve di notare in lui un certo sollievo mentre varcava la porta d'uscita.

Sembrava evidente che aveva mentito. Sembrava evidente che non poteva trattarsi del capo o del guru di nessuna organizzazione. Era un ragazzotto particolarmente impacciato. Avrebbe potuto sbarazzarsi di noi semplicemente ammettendo che conosceva Palafolls. Che avevano preso un paio di caffè insieme dopo le lezioni, o che avevano avuto uno scambio di appunti. In questo modo probabilmente l'avremmo lasciato stare. Ma non gli era venuto in mente, gli era sembrato più sicuro negare. Era un ingenuo, un ingenuo il cui numero di telefono, per qualche ragione, era finito nella tasca del poliziotto scomparso.

Senza troppe speranze, diedi ordine di sorvegliarlo ventiquattr'ore su ventiquattro. Forse era solo una vittima, uno di quei poveri ragazzi castrati, e non sapeva niente del destino toccato a Miguel Palafolls.

«Come possiamo verificarlo, viceispettore?»

Garzón, che entrava proprio allora nel mio ufficio con una gran faccia da sonno, mi guardò senza comprendere.

«Verificare cosa?»

«Stavo parlando da sola. È riuscito a riposarsi un po' in queste due ore?»

Ignorò il mio interessamento.

«Mi fanno paura le sue domande lasciate in sospeso. Mi dica, cosa vuole verificare?»

«Se Adrian Atienza è stato castrato».

«Vedo che non è andata molto bene con lui».

«Nega di conoscere Palafolls. Ho ordinato di farlo pedinare».

«Lui sa che il nostro agente aveva il suo numero di telefono?»

«No. Di colpo ho avuto l'impressione che quel poveretto non ne sapesse niente, che fosse un semplice membro della setta, castrato e morto di paura».

«È possibile».

«Lei crede che il magistrato...?»

«Se lo tolga dalla testa, nessun pubblico ministero le darà un mandato per calare i pantaloni a quel ragazzo».

«Mi riferivo a una visita medica».

«Ma non ci sono prove contro di lui. E se lei si azzarda a imporgliela lo stesso, gli avvocati le salteranno alla gola».

«Non crede che se mandiamo una bella poliziotta, o un paio di incappucciati nei bagni dell'università...»

«Non dica fesserie, l'unica soluzione che mi viene in mente è indagare sulla sua sessualità interrogando chi lo conosce».

«Non c'è tempo, Fermín, Palafolls è scomparso e ogni ora che passa diminuiscono le possibilità di trovarlo vivo».

«Lo so», disse il viceispettore con voce funerea. «Coronas ha diramato la notizia della scomparsa a tutti i mezzi di comunicazione», aggiunse con una certa speranza.

«Cosa che ci sarà soltanto d'intralcio».

«Però non vedo molte altre vie d'uscita».

«Senta, sono quasi le nove. Contatti gli agenti che ha mandato a casa dei Garcia Bofarull. Può darsi che il ragazzo sia rientrato».

Quando rimasi sola nell'ufficio gli occhi mi si chiudevano. Due ore di sonno erano state sufficienti per darmi una breve proroga prima del crollo totale. Feci per andare alla macchina del caffè, ma in quel momento tornava Garzón con nuove notizie. Daniel Garcia Bofarull non era tornato dal club di tennis. I suoi genitori avevano telefonato li e la signorina della reception li aveva informati che il ragazzo era già uscito da un pezzo. Erano allarmati e volevano sapere perché la polizia desiderasse parlare con lui.

«Stanno venendo in commissariato con i nostri agenti», concluse.

«Allora prenda l'impermeabile e andiamo».

«Ma, ispettore, se le ho detto che stanno venendo qui».

«Non si preoccupi, li riceverà il commissario, gli farà le domande del caso e li tranquillizzerà».

«Passerà un brutto quarto d'ora».

«È un compito che spetta alla sua autorità».

Mi guardò stupito del mio infinito cinismo che, in fondo, per lui rappresentava una liberazione. Completai la mossa:

«E lasci una nota di servizio al commissario. Che dia ai genitori del ragazzo un altro appuntamento per domani alle dieci. Anche noi dobbiamo interrogarli, ma per il momento sarà lui a ricevere la prima ondata di disperazione familiare».

Cinismo a palate, a carrettate, a camionate. L'unico modo per riuscire ancora a cavarsela fra castrazioni rituali, sequestri di agenti e altre insolite calamità.

Raggiungemmo con la massima rapidità il circolo di tennis La Red. La signorina della reception fece il suo dovere e ci informò di quel che sapeva, frenando la sua curiosità.

«L'ho già detto a suo padre per telefono. Il ragazzo era già uscito da almeno due ore quando lui ha telefonato».

«Lei notò qualcosa di speciale, le parve che fosse successo qualcosa di strano?»

«Strano... no, ma dieci minuti prima che uscisse, qualcuno lo chiamò al telefono. Di solito non passiamo le telefonate ai soci per non interrompere le partite, ma dissero che era una cosa molto importante e, dato che Daniel García in quel momento non giocava, ma stava facendo pesi, dissi al sorvegliante di andarlo a chiamare».

«E cosa successe?»

«Niente di straordinario. Il ragazzo arrivò tutto sudato, entrò in cabina e parlò brevemente, poi se ne andò negli spogliatoi. Dopo cinque minuti ne uscì vestito e andò via».

«Lei riuscì a sentire qualcosa della conversazione?»

«No».

«Lo vide preoccupato quando riattaccò?»

«Non saprei... Ma per la verità quando passò davanti a me per uscire mi accorsi che non aveva fatto la doccia e me ne stupii».

«Le suonò familiare la voce dell'uomo al telefono?»

«Non era la voce di un uomo; era una donna».

Osservai la ragazza. Col procedere dell'interrogatorio sembrava sempre più ansiosa. Alla fine non ce la fece più e domandò:

«È successo qualcosa di brutto?»

«Non lo sappiamo ancora. Ci chiami a questo numero, se dovesse telefonare qualcuno chiedendo di lui. Un'altra cosa, Daniel ha un armadietto negli spogliatoi?»

«Sì».

Ci accompagnò e lo fece aprire, ma non conteneva niente di speciale: dopobarba, shampoo e un paio di calzettoni da ginnastica.

Quando tornammo in commissariato capimmo che la fortuna non era dalla nostra parte. I genitori di Daniel erano ancora lì. Eppure Coronas doveva già aver subito il primo impatto, visto il modo in cui ci guardò. Purtroppo, il fatto che avessero già rappresentato il primo atto, non ci esimeva dall'assistere agli altri due. I genitori della buona borghesia tendono sempre a proteggere eccessivamente i loro rampolli, e raramente sfuggono alla tentazione di negare le proprie colpe. Quelli non fecero eccezione. Apparentemente, tutto scorreva nei binari della normalità. La madre lo confermò.

«Ispettore, abbiamo già detto al commissario che nostro figlio è un ragazzo perfettamente normale. C'è un buon dialogo fra noi, ci occupiamo molto di lui, e lui non ci ha mai dato dispiaceri. Quanto agli studi...»

La interruppi brutalmente:

«Signora, se l'ha già detto al commissario Coronas, non è il caso che lo ripeta a me. Risponda a una domanda: suo figlio ce l'ha una fidanzata?»

«No».

«Amicizie femminili?»

«Vede, io per discrezione, non ho mai voluto indagare...»

«In questo caso dovremo farlo noi, perché al club ha telefonato una donna cercando di suo figlio, proprio prima che se ne andasse».

«Me ne occuperò io», disse Coronas, che doveva averne fin sopra i capelli.

«Adesso è necessario che ci accompagniate a casa vostra e ci mostriate la stanza di vostro figlio», proseguii. «Dobbiamo perquisirla; forse troveremo qualche indizio che ci aiuterà a scoprire dov'è».

Mentre seguivamo con la nostra auto l'Audi dei García Bofarull, Garzón mi domandò:

«Crede che Daniel sia morto?»

«Non lo so. Non c'è niente di normale in questa storia. Non avrei mai sospettato che un caso praticamente risolto potesse avere degli strascichi così angosciosi. Ormai tutto è possibile, finché non catturiamo Ivanov».

«Il commissario ha incaricato Marqués di ricevere e filtrare le telefonate di quelli che riconosceranno la sua foto e quella di Miguel. Spero che la cosa gli dia sollievo. Quel povero ragazzo non vive più da quando è sparito il suo collega. Dopo tante ore di pattuglia insieme...!»

«Sì, annoiarsi in compagnia finisce per creare un legame. E come il matrimonio».

Mi guardò con riprovazione, ma non replicò.

Nella stanza di Daniel non trovammo niente che potesse aiutarci. L'unico oggetto che richiamò la nostra attenzione, non essendo così comune fra le cose di un ragazzo, era una Bibbia che giaceva in fondo a un cassetto. La sfogliai e vidi che alcuni versetti erano stati sottolineati.

«Vostro figlio è religioso?» domandai ai García.

Rimasero sorpresi. Tutte le pretese genitoriali di conoscere i loro figli come il palmo della propria mano svanivano alla prima domanda precisa.

«Be', non saprei, siamo una famiglia credente...» divagò il padre.

«L'avevate già vista questa Bibbia?»

La signora Garcia rispose:

«Io non guardo mai nei cassetti di mio figlio. So che ci sono delle madri che lo fanno, ma a me non piace: ho sempre rispettato la sua libertà».

Non avevano mai visto quel libro prima di allora, né avevano la minima idea che il ragazzo potesse essere interessato al mondo religioso. Adesso si sentivano inquieti per la scoperta e si comportavano come se invece di una Bibbia avessimo trovato un'intera annata di Penthouse. La portai via con me come prova indiziaria, e uscii salutandoli concisamente. Garzón rivolse loro qualche parola gentile per compensare la mia asciuttezza. Mentre scendevamo le scale dell'elegante condominio mi rimproverò sottovoce per quell'atteggiamento:

«Non so se è il caso di trattarli con tanta durezza: forse hanno perso loro figlio per sempre».

«Perché suppone che la polizia debba sempre rimediare all'ingiustizia e al dolore? Il nostro dovere è trovare i colpevoli».

«Ma, proprio come un medico nei suoi rapporti col malato deve dimostrare una certa umanità, anche noi...»

«Non mi rompa le scatole, Garzón! Basta con la teoria del poliziotto umano e solidale! Non ha visto in che mondo ci muoviamo? Tutti questi ragazzi finiti nelle maglie di una setta, capaci di farsi castrare o di castrare un compagno, nel più totale silenzio...! Io non mi sento solidale con nessuno, la gente è troppo assurda, troppo irrazionale».

«Questa faccenda la sta mandando fuori di testa».

«Come tutte le faccende in cui le vittime sono anche carnefici».

Mi trattenne per un braccio impedendomi di camminare.

«Petra, quando tutto sarà finito rimetteremo le cose al loro posto».

«È una bella illusione».

L'aria che tirava in commissariato faceva scintille. Coronas ci ricevette.

«Nessuna novità», lo prevenne Garzón prima ancora che facesse delle domande.

«Nemmeno qui abbiamo avuto fortuna. Ho mandato uomini da tutte le parti: negli ospedali, nella zona del club di tennis... Ho allertato tutti i commissariati della città. L'intero reparto è in movimento».

«Come se la cava Marqués con le chiamate?»

«E nell'ufficio ventitré, e a momenti non ce la fa a prenderle tutte. La gente non smette di telefonare».

«Andiamo a vedere».

Marqués cedette il posto a un collega e venne verso di noi con un taccuino.

«Tanto fumo, ispettore».

«Me lo immagino, e tanto allarmismo, anche».

«Ci può giurare. Uno ha chiamato dicendo che credeva di aver visto Palafolls nella coda del cinema Comedia. Abbiamo mandato una pattuglia. Ma quando tutti gli spettatori sono usciti, di Palafolls neanche l'ombra. La maschera ha assicurato che nessuno aveva abbandonato il cinema durante la proiezione».

«Il tipico abbaglio».

«Il resto è ancora peggio: una ragazza ha detto che la faccia di Miguel era uguale a quella di un cantante rock, e una signora ha assicurato che Palafolls da almeno un anno le consegnava a domicilio la spesa del supermercato, si figuri lei».

«Già, capisco».

«Ma chi miete i maggiori successi è Ivanov. Con la faccia che si ritrova stimola l'immaginazione della gente. Chiamano dicendo le più grandi assurdità: che è un loro parente travestito, che lavora in una falegnameria di El Ciot. L'hanno visto dappertutto: sul volo Barcellona-Madrid, a passeggio sulle Ramblas, a mangiare churros in una cremeria...»

«La massa reclama la sua piccola fetta di protagonismo: non può farne a meno».

Marqués replicò tristemente:

«Ho una gran paura che non arriveremo mai a Palafolls».

«Non si scoraggi e vada avanti».

Entrò un agente chiedendo di me.

«Ispettore, c'è una chiamata da Mosca. Gliel'hanno passata nel suo ufficio».

Ci andai di corsa, afferrai il ricevitore e riconobbi subito l'inglese secco e angoloso di Aleksandr Rekov.

«Petra, come stai, va tutto bene?»

«Non proprio, e tu come stai?»

«Non ti chiamo per darti una buona notizia. Ti spiego. Abbiamo tenuto d'occhio Esvrilenko e i suoi uomini come ti avevo promesso. L'altro giorno Silaiev è venuto a sapere una cosa interessante. Uno di loro era stato in un'agenzia di viaggi del centro. Abbiamo verificato che aveva comprato due biglietti aerei con destinazione Barcellona per il giorno sette alle tre del pomeriggio. Quel giorno e a quell'ora siamo andati all'aeroporto per vedere chi s'imbarcava, ma non si è presentato nessuno. Sull'aereo rimasero due posti vuoti».

«E allora?»

«È ovvio che, forse dall'agenzia, qualcuno li ha avvertiti, o forse sapevano già che gli stavamo alle costole, ed è stata tutta una manovra per depistarci: il fatto è che molto probabilmente quel viaggio a Barcellona si farà lo stesso, se non è già avvenuto, ma non sono in grado di dirti chi sia partito, né come né quando».

«E io cosa posso fare?»

«Tenere gli occhi bene aperti, nient'altro. Non mi stupirebbe che a Barcellona ci fossero due russi in più, e non precisamente due turisti».

«Cosa pensi che possano venire a fare qui? Forse togliere dai guai Ivanov?»

«Non lo so, Petra, non lo so».

«Stiamo controllando tutti i voli per Mosca».

«Possono uscire dal paese in qualunque modo, in macchina, in treno, e poi prendere un aereo da Amsterdam o da Parigi. Sarà molto difficile beccarli».

«Ne sono consapevole».

«Mi dispiace di non poterti aiutare di più».

«Mi hai dato un'informazione molto preziosa».

«Mi sarebbe piaciuto darti una bella notizia».

Rimanemmo entrambi in silenzio, una volta conclusa la parte professionale della telefonata. Volevo dirgli qualcosa, ma non sapevo cosa. Per un istante mi sentii male. Alla fine, parlò lui.

«Pensi che le indagini ti porteranno di nuovo a Mosca?»

«Ho paura di no».

«Ti restano ancora un sacco di cose da visitare».

«Monumenti funerari?»

«Molti monumenti funerari! Tantissimi grandi uomini russi sono morti ormai».

«È una bella cosa onorare i morti».

«È la cosa più sublime».

«Anche in Spagna ci sono tombe interessanti».

«Quella di Franco?»

Mi misi a ridere.

«Sì, perché no? Tanto più che è dentro una chiesa. Questo potrebbe costituire un'attrattiva extra».

Rise anche lui, e poi ci fu un altro silenzio. Lo interruppe di nuovo Rekov.

«Petra Delicado, devo riattaccare. Trasmetti i miei saluti e quelli di Silaiev al tuo collega Garzón. Digli che Mosca non è più la stessa senza di lui, e quanto a te...»

«Sì...?»

«Ti porgo i miei auguri di una pronta risoluzione del caso e i segni della mia...»

«Solidarietà professionale?»

«Esatto. Addio, mio caro ispettore Delicado».

«Addio, compagno Rekov».

Riattaccai, sorridendo con piacere. Ebbene, così è la vita, imprevedibile e disseminata di ricordi da tenere nei cassetti. In quel momento avrei dato qualunque cosa pur di incontrare di nuovo Aleksandr Rekov. Ma non volevo raccontarmi delle bugie. Probabilmente non ci saremmo mai più rivisti. Tuttavia, la sua immagine sarebbe sempre rimasta con me, e sarebbe sempre stata legata a Mosca, alla salma di Lenin, alla paura indefinita della sfida, al caso dei peni tagliati. Con l'andar del tempo forse quello mi sarebbe parso il maggior cumulo di spropositi che si potesse immaginare. Sospirai come una cretina e, in un impeto di senso del dovere autoindotto, mi costrinsi a lavorare.

Presi la Bibbia che avevamo trovato a casa del ragazzo, una matita e un pezzo di carta, e mi disposi a studiare i versetti sottolineati dallo scomparso Garcia Bofarull.

Per più di tre ore mi immersi in quel mondo mitico e crudele. Quei testi esercitavano uno strano fascino su di me. Erano magici, totemici, ingarbugliati e al tempo stesso sottilmente chiarificatori. Si trattava senza dubbio di un libro pericoloso. Chiunque avesse aperto le sue pagine con un'idea fissa in testa, avrebbe potuto trovarne la conferma. E, al contrario, chi avesse affrontato quella lettura vergine di concetti, ne avrebbe coniati di suoi con facilità. L'unico modo neutrale di avvicinarvisi era considerarlo come un'opera letteraria, e così risultava un libro bellissimo.

«Gli angeli ti solleveranno fra le braccia affinché il tuo piede non sfiori le pietre», lessi. Ma Daniel non aveva sottolineato quella frase in base a considerazioni estetiche. Dopo un esame delle sue sottolineature mi resi conto che tutti i frammenti messi in rilievo avevano un punto in comune: l'allusione alla purezza:

 

Proverbi 22,11: «Dio ama i puri di cuore, e la grazia sulle labbra aggrada al re». 

Proverbi 20,8-9: «Chi può dire: "Ho il mio cuore puro, sono libero dal mio peccato"?». 

Proverbi 21,8: «La via del perverso è tortuosa, retto invece l'agire dell'innocente». 

Matteo 5,8: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio!». 

Giobbe 11,4: «Tu dici: "La mia condotta è pura, io sono irreprensibile ai tuoi occhi" ». 

Proverbi 20,11: «Il fanciullo manifesta già coi suoi atti se illibata e retta è la sua condotta». 

 

Non c'era il minimo dubbio. Daniel Garcia Bofarull apparteneva alla setta degli skopzi. E per estrapolazione si poteva azzardare l'ipotesi che anche Adrian Atienza Pérez fosse uno skopzi. Era quella la ragione per cui i loro numeri di telefono si trovavano nelle tasche di Palafolls. Se così fosse stato, ciascuno dei due avrebbe potuto essere in contatto con Ivanov e sapere dove si trovava.

Mi facevano male gli occhi e la schiena. Secondo quel che avevo appena letto, l'anima umana non aveva frontiere né limiti, ma evidentemente il corpo sì.

Raggiunsi il centralino dove si trovavano Marqués e Garzón. Lo spettacolo che ebbi davanti mi rese consapevole di quale dovesse essere il mio aspetto. Il viceispettore aveva delle occhiaie che sembravano tasche da marsupiale, e il giovane poliziotto sembrava pronto per andare in pensione. Feci udire la mia voce a volume sostenuto.

«Signori, andiamo tutti a dormire. Le farò dare il cambio, Marqués».

«Posso continuare ancora un po'».

«Lei se ne va a casa subitissimo. Non che mi preoccupi della sua salute, semplicemente penso che ormai il suo rendimento sia nullo».

Mi obbedirono docilmente. Anch'io me ne andai a dormire. Era controproducente lasciarsi dominare dall'ossessione. Otto ore di sonno forse mi avrebbero restituito la sanità mentale che avevo perso fra divinità tonanti, roveti ardenti, figli di Giobbe e lenticchie di Esaù.

Ma non fu possibile, la Provvidenza decise che sei ore dovevano bastare. Alle sei del mattino mi chiamarono dal commissariato. Un muratore di Badalona aveva trovato il corpo di un giovane in un terreno abbandonato. Tutto sembrava indicare che si trattasse di Daniel Garcia Bofarull.

Contrariamente alla mia reazione abituale, fui investita da una crisi d'ira degna di figurare in qualche passo della Bibbia. Feci la doccia trattando la spugna e il sapone come se fossero colpevoli di qualcosa. La prima finì sbattuta contro lo specchio del bagno. Una stupida sostituzione compensatoria? Senza dubbio, ma era ancora più stupido trovarsi così vicino alla soluzione di un caso e vedere allungarsi la scia di cadaveri senza poter fare niente.

Garzón e Coronas mi aspettavano all'Istituto di Anatomia. Il commissario vi si era recato di persona per chiedere al dottor Montalbán di dare priorità assoluta alla nostra nuova vittima. Prima di lasciare il commissariato, aveva dato ordine di intensificare le ricerche di Adrian. Anche lui era in pericolo di vita.

I genitori di Daniel dovevano ancora arrivare per l'identificazione del corpo. Parlai sinceramente con Coronas e gli comunicai la mia intenzione di sottrarmi a quell'incontro. La cosa non gli piacque affatto ma non poté far altro che accettare di riceverli lui, gliel'avevo chiesto in modo troppo delicato perché potesse rispondermi con un ordine deciso. Tuttavia, osservò:

«È incredibile, tutti pensano che una donna poliziotto sia l'ideale per i contatti umani e diplomatici, ma lei è la negazione assoluta».

«Mi credeva anche adattissima a comparire in televisione, e adesso ne vede le conseguenze».

«Può star sicura che senza la sua apparizione tutta questa triste storia non sarebbe mai venuta alla luce. Quel ragazzo si fidò di lei».

«Non sa quanto mi fa piacere, ma la prossima volta spero che sia qualcun altro ad affrontare i media. Smuovere le coscienze è un ruolo che non mi piace affatto».

Scappai a prendere un caffè col viceispettore mentre aveva luogo la drammatica identificazione. Lui ormai ne sapeva più di me della faccenda.

«Com'è morto?» gli chiesi.

«Aveva un profondo taglio nel collo. È morto dissanguato. Il medico legale presente alla rimozione ha detto che la morte risale all'incirca alle tre del mattino. Apparentemente non c'erano tracce di violenza né di tentativi di difesa. Fra poco ne sapremo qualcosa di più, se Montalbán si decide a darci la precedenza».

«Ce la darà».

Spensi la sigaretta nel portacenere. Lasciai cadere le braccia lungo il corpo.

«Non si scoraggi, Petra».

«Non crede che di motivi ce ne siano da vendere? Chi le dice che il prossimo morto non sarà Palafolls? Ormai abbiamo visto che questa gente è capace di tutto».

«Mi sono imposto di pensare che Palafolls sta bene e nessuno riuscirà a smuovermi di lì».

«La forza di volontà non basta, Fermín».

«Però è un solido punto di partenza».

Non ne ero così sicura. Un solido punto di partenza sarebbe stato convincersi che tutto avrebbe funzionato. Per sentirmi un po' meglio, avrei dovuto essere io a infondere ottimismo in Garzón.

La prima e forse unica rivelazione che ci fece Montalbán dopo l'autopsia fu che anche Daniel Garcia Bofarull era stato castrato. La sua era una castrazione perfettamente cicatrizzata che risaliva a mesi prima. Il metodo era quello che conoscevamo: procedimenti chirurgici ortodossi. Quanto alla morte del ragazzo, il responso fu semplice: gli avevano reciso di netto la giugulare. L'assenza del minimo graffio o contusione dimostrava che non si era difeso. Montalbán indicò che l'assassino doveva aver accompagnato la caduta del corpo fino a terra, giacché non si vedevano tracce dell'impatto finale. Questo lasciava pensare che la vittima e il suo assassino si conoscessero.

«Certo che si conoscevano, dottore!»

Mi voltai verso Garzón. «E se non fosse per la telefonata di quella misteriosa donna al club di tennis, il nome del colpevole sarebbe scontato: Sergej Ivanov».

«Crede che Ivanov sapesse che avevamo messo sotto controllo i telefoni di Daniel e Adrian?»

«Ne sono convinta. Gli è mancato il tempo di liquidare il secondo, ma Daniel pagò l'ultima ora di ginnastica a prezzo della vita. Sarebbe stato molto meglio andare ad aspettarlo alla porta del club».

«Nessuno poteva immaginare che i due ragazzi fossero in pericolo».

«Nessuno non significa la polizia, Fermín».

«Bene, d'accordo; ma mi dica: come faceva Ivanov a sapere quel che avevamo scoperto?»

Scossi distrattamente la testa.

«Non lo so. Forse riuscì a far ammettere questa possibilità a Palafolls».

«Palafolls è nelle sue mani dall'altro ieri. Crede che Ivanov avrebbe aspettato tanto per agire?»

Il dottor Montalbán assisteva alla nostra conversazione in cupo silenzio. La sua voce suonò lugubre:

«Il mio referto sarà completo quando avremo i risultati del confronto fra il DNA di Daniel Garcia con quello dei peni in nostro possesso. Calcolate un paio di giorni».

Risolvere il rompicapo anatomico sarebbe stato interessante, ma non cruciale. Per il momento, con tutti gli interrogativi che si affollavano alla nostra mente, non c'era altra strada che far pressione su Adrian Atienza. Parlando col magistrato ottenni un ordine d'arresto formale. Potevo accusarlo di occultamento di prove, di intralcio alla giustizia. Niente per cui fosse lecito trattenerlo più di un paio di giorni. Era scontato che i genitori si sarebbero rivolti immediatamente a un avvocato.

Gli Atienza erano in preda all'orrore più totale. Chiesi loro qualche oggetto su cui potessero essere rimasti resti organici del figlio, giacché il ragazzo non aveva accettato di collaborare. Si trattava di verificare se Adrian fosse stato castrato anche lui. Per non usare quell'espressione dissi alla coppia tremante che il figlio poteva essere stato vittima di una terribile mutilazione. Ma, con eufemismi o senza, non avevano la minima intenzione di facilitarci il compito e, proprio come avevo immaginato, misero l'intera faccenda in mano a un legale, che non volle neppure sentir parlare di analisi del DNA.

Gli interrogatori cui li sottoposi non risultarono di maggiore utilità. Giravamo sempre intorno allo stesso punto senza arrivare alla minima concretezza.

«Le era parso nervoso suo figlio?»

«Non particolarmente».

«Aveva ricevuto telefonate nelle ultime ventiquattro ore?»

«Suppongo di sì».

«Una donna? Qualcuno con un accento straniero?»

«Non saprei dirlo».

«Avremmo dovuto mettergli il telefono sotto controllo!» ruggì Garzón dopo il nostro ultimo incontro con loro.

«È facile dirlo col senno di poi. Tanto più che non avevamo nessuna base legale. In ogni caso, Ivanov è un uomo intelligente: se gli ha telefonato avrà fatto in modo che la chiamata fosse impossibile da localizzare».

«Crede che l'abbia minacciato?»

«È possibile, anche se la morte di Daniel è già una minaccia sufficiente».

«Pensa che sia ancora a Barcellona?»

«Ne sono sicura».

«Questo è il caso più diabolico che ho mai avuto fra le mani!»

«Diabolico è la parola giusta».

«Com'è possibile che quei ragazzi si siano lasciati influenzare al punto da...?»

Garzón era impressionato. Malgrado la sua esperienza, quel caso faceva vacillare tutte le certezze della sua carriera. Nella sua vita di poliziotto si era trovato di fronte alla crudeltà, alla vendetta, all'ambizione, ma quella vendita gratuita dell'anima era qualcosa di nuovo per lui. Aveva ragione, è difficile ammettere che dentro di noi possa abitare il nostro più irrazionale nemico. Cercai di metterla sullo scherzo per tirarlo fuori da quel suo doloroso stupore.

«Prima di andare avanti, le viene mica in mente qualche canzonetta sui cazzi, qualche versetto satanico, un sonetto scollacciato?»

«Stia zitta, Petra, non è il momento di scherzare!»

«Peccato, mi manca la sua vena lirica».

«Non sono dell'umore giusto».

«Fermín».

«Cosa?»

«Non avevamo deciso che Palafolls è vivo?»

«Sì».

«E allora non si perda d'animo».

«Ha ragione».

«Tanto più che per compiere il prossimo passo ne avrà bisogno».

«Quale passo?»

«Dobbiamo fare un interrogatorio approfondito a Adrian, in presenza del suo avvocato. Si faccia venire delle idee se ci riesce, eserciti la sua teatralità. Ogni parola che gli strapperemo potrà esserci preziosa; pensi di essere sotto la minaccia del diavolo in persona».

Sospirò, come valutando quanta realtà ci fosse nelle mie parole. E ce n'era molta: non c'era bisogno di essere particolarmente brillanti per immaginare con chi avevamo a che fare.

 

Adrian Atienza negò, negò tutto il tempo, con resistenza adamantina, con convincimento, con fede. Negò di appartenere ad alcuna setta, di essere stato oggetto di castrazione rituale, di aver collaborato lui stesso alla castrazione di terze persone. Negò e negò: non sapeva chi fosse Ivanov, non conosceva Palafolls. Non poté negare di essere compagno di corso di Daniel, perché era un dato di fatto, ma anche su quell'argomento sostenne di non avere niente da dire. Garzón era disperato, io invece mi aspettavo una cosa del genere. Che fosse per via del voto del silenzio, per paura del russo o per consiglio del suo avvocato, di certo non avrebbe aperto bocca. Feci un ultimo tentativo.

«Non te ne importa niente che dei tuoi amici siano morti, Adrian? Che li abbiano fatti soffrire? Davvero non te ne importa che un poliziotto rischi la morte? È giovane, quasi della tua età, e anche lui ha i genitori, la ragazza, non te ne importa?»

In quel momento il ragazzo si mise a piangere. Vidi uno stretto spiraglio di speranza, ma l'avvocato intervenne.

«Ispettore, in tribunale non la lascerebbero continuare con queste domande. Porre una domanda presuppone che...»

«Lo so, lo so, va bene», lo interruppi. Nel caso mi fossi fatta delle illusioni, Adrian si ricompose e dichiarò con fermezza:

«Non ho niente da dire».

Il viceispettore faceva scintille quando uscimmo di lì.

«Se almeno quel maledetto avvocato...»

«Non si tormenti, con avvocato o senza il ragazzo sarebbe stato zitto lo stesso».

«Per il voto del silenzio? Certo che si è fidato poco Ivanov del voto del silenzio di Daniel!»

«Forse lui era il più debole, o quello che sapeva di più, o forse, se ci fosse riuscito, il russo avrebbe fatto fuori anche lui per maggior sicurezza. Lasci perdere».

«Per quanto tempo pensa che il magistrato ci permetterà di trattenere il ragazzo?»

Mi strinsi nelle spalle. Il mio collega si passò le mani sulla faccia, strofinandosela ripetutamente. Allora,perché non si abbattesse su di noi la pietra tombale dell'inutilità, dissi in tono falsamente entusiasta:

«Andiamo a vedere come vanno le telefonate di Marqués!»

Qualche ora più tardi, ben prima del termine previsto, il dottor Montalbán ci fece pervenire il suo referto: il DNA di Daniel Garcia Bofarull coincideva con quello di uno dei peni non identificati in suo possesso. I pezzi alla fine combaciavano.