Alicia Giménez-Bartlett

Messaggeri  

dell'oscurità 

(Mensajeros de la oscuridad)
 

1999

 

 

Traduzione di Maria Nicola 

 

 

 

01

Tutto successe per colpa della dannata televisione. Be', questo è un po' esagerato, diciamo che la mia implicazione in quella diabolica faccenda avvenne a causa, e qui non cambio nemmeno una virgola, della dannata televisione. Anche se forse dovrei essere più onesta e confessarlo: in fondo, fui io la principale responsabile. Responsabile di cosa? Di essere apparsa sul maledetto schermo. Perché? Forse per non aver saputo resistere al suo magnetico influsso sulle volontà. Questa fu una delle ragioni, ma non la principale. La verità è che mi lasciai tentare, con la pretesa, per di più, di fare bella figura. Un bel giorno il commissario mi chiamò nel suo ufficio e attaccò una delle sue prediche: i tempi sono cambiati, l'immagine della polizia non può essere presa alla leggera, certe cose ogni giorno diventano più importanti... Capii subito che quanto stava per chiedermi non rientrava nelle mie mansioni. Non che ci sia niente di meraviglioso nelle mie capacità deduttive, solo che quando il commissario vuol farti fare qualcosa che ti tocca per dovere, il suo stile è sbraitare un ordine e finito lì. E infatti, era come avevo pensato. Dopo le prime divagazioni teoriche, mi informò che in un programma televisivo volevano intervistare qualcuno del reparto. Avevano lasciato scegliere a lui chi dovesse partecipare e, naturalmente, il suo ragionamento non era stato per niente originale, proprio il ragionamento che sono stufa di sentirmi ripetere, che mi scoccia, che mi offende, che mi trapana il cervello, che mi riduce i neuroni in polvere siderale, vale a dire: «Una donna fa sempre buona impressione». Sembro convinta di quel che dico, vero? E invece, malgrado tutto accettai. La vanità, sempre in agguato dietro l'angolo, mi persuase che avrei fatto bene ad accettare e che, misurando le parole, forse sarei riuscita a dare del Corpo di polizia un'impressione non troppo meschina.

E così fu. Il giorno della mia apparizione divistica, venne a prendermi un autista della televisione e ci avviammo verso gli studi di Sant Cugat. Lì sarei stata intervistata da Pepe Pedrell, un giornalista che si era conquistato una certa fama grazie ai suoi incontri televisivi con personaggi insoliti. Niente è più insolito di un poliziotto disposto a far conversazione e, come Pedrell si affrettò a ricordare, ancora di più se si trattava di una donna. Ormai pienamente convinta dell'eccezionalità delle mie gonadi, e dopo una generica chiacchierata, passammo all'intervista propriamente detta.

Può anche darsi che i personaggi invitati in trasmissione non fossero dei più comuni, ma certamente le domande non brillavano per originalità. Io, all'inizio, rispondevo con una certa timidezza, ma dopo cinque o sei risposte cominciai a sentirmi a mio agio in quell'habitat a me così estraneo. Quel silenzio tutt'intorno, l'attenzione concentrata sulle mie parole... non so cosa mi prese, ma devo ammettere che mi sentii come Gloria Swanson all'apice della carriera, e come un'autentica diva mi comportai. Cercai di essere brillante, rilassai l'espressione del viso, civettai con la telecamera e con il conduttore, cercai di mostrarmi umana, sincera, affettuosa col delinquente, rigorosa nell'applicazione della legge... Mi trovavo così bene e mi sentivo così immedesimata nella parte, che quando la telecamera si spense avrei dato qualunque cosa per avere ancora spazio, un briciolo di protagonismo in più, almeno una scena madre alla Margherita Gautier, quando esala fra sbocchi di sangue delicate parole d'amore.

Una volta a casa, mi pentii. Non era stata tutta una solenne stronzata? Non avevo esagerato? Non mi ero inventata un carisma di cui in realtà mancavo totalmente? In collera con me stessa per essermi lasciata lusingare e per avere in un certo senso perduto la mia dignità, me ne andai a letto fra minacciose nubi di malumore. Del tutto ingiustificato, però. Una reazione stupida che avrei potuto risparmiarmi, visto che il giorno dopo, al mio arrivo in commissariato fui accolta da autentico entusiasmo popolare. Tanto per cominciare, i piantoni sulla porta mi applaudirono. Mi voltai per vedere se mi seguisse qualche personalità, ma l'applauso era proprio per me. «Caspita, ispettore, certo che una bella donna come lei...!». Mi intenerii come una scema: «Bella?». «Un gran pezzo di donna, se permette». A loro ero piaciuta. Ma non erano gli unici. Via via che avanzavo lungo il corridoio mi fermavo ad ogni passo per raccogliere dimostrazioni di entusiasmo. I complimenti avevano curiosamente un taglio tecnico e professionale, uno stile che dimostrava fino a che punto la gente comune dominasse il linguaggio dei media. «Che padronanza dell'inquadratura!» mi sparò un collega ispettore. «La telecamera la adora!» disse una segretaria. E, al colmo del virtuosismo, la signora delle pulizie esclamò: «Come domina lei l'obiettivo ce n'è poche!». Senza dubbio tutti erano a parte dei segreti della dea televisione. Lo stesso commissario mi chiamò nel suo ufficio per congratularsi con me, compiaciutissimo dell'immagine del Corpo che avevo saputo trasmettere e, tirando sempre acqua al suo mulino, osservò: «Io l'avevo capito subito che lei era la persona ideale». Confusa e con un lieve capogiro mi infilai nel mio ufficio fuggendo all'improvvisa notorietà. Ma lì mi aspettava Garzón con un sorriso sornione che collegava le due orecchie come un acquedotto. «Dovremo metterle tre stelle sulla porta del camerino?» domandò, e poi continuò sullo stesso tono: «Parlo col suo agente o posso rivolgermi direttamente a lei?». Quando lo vidi avviato verso una terza domanda fiorita di sarcasmo, sbottai in un: «Non rompa, Garzón! », che era la formula magica tante volte utilizzata per mettere a tacere le sue prese per il culo. Allora il mio caro amico e collega si mise a ridere e si congratulò sinceramente, con la frase che mi fece più piacere di tutte: «È andata molto bene», mi disse. E io, lusingata e rincretinita, gli credetti.

Non furono quelli gli ultimi momenti di gloria. Tre giorni dopo, l'ondata del mio successo si manifestò sotto forma di tempesta epistolare. In seguito all'intervista cominciarono ad arrivare al commissariato montagne di lettere. Si distinguevano perfettamente dal resto della corrispondenza perché il mio nome compariva sulle buste come: «Petra Delicado Gonzálvez», col secondo cognome sbagliato, così come era apparso sullo schermo: in realtà io mi chiamo González. Presi l'abitudine, finché durò quell'alluvione, di riservare alle lettere l'ultima ora della giornata, quando ormai non avevo più niente da fare. Garzón veniva nel mio ufficio a riordinare le carte, mentre io mi dedicavo a quell'incombenza. Lo faceva perché provava una gran curiosità, e io, di tanto in tanto, per saziargliela, gli leggevo qualche pezzo qua e là o commentavo le stranezze che via via mi cadevano sotto gli occhi. A dir la verità ero spaventata dalle reazioni che può suscitare la maledetta scatola mediatica, e dalla gran disparità di sentimenti che un'apparizione televisiva può risvegliare in chi la vede da casa. Quel pomeriggio, con Garzón seduto all'altra scrivania e assorto nelle sue cose, lessi ad alta voce il seguente frammento: «Mio padre ha subito diversi processi giudiziari per furto ed è stato in carcere. La polizia non l'ha mai trattato bene. Vedendo lei in televisione sono sicura che forse ora sarebbe diverso. Un sincero abbraccio: Mari Carmen».

Garzón mi guardò.

«Non ci posso credere» disse.

«Nemmeno io» risposi.

Per fortuna c'erano altre lettere meno colpevolizzanti. «La sua camicetta era graziosissima», mi diceva una signora. E un signore di Bilbao affermava: «Conduco una statistica privata sulla frequenza con cui gli intervistati nei programmi televisivi usano l'espressione "di conseguenza". E spaventoso, mi creda. Devo farle i miei complimenti perché lei non l'ha usata nemmeno una volta». Il viceispettore si fece una risata mentre pinzava documenti senza pietà.

«La gente è strana, vero, Garzón?»

«Il mondo è bello perché è vario, ispettore».

Fra tutta la corrispondenza accumulata spiccava un pacchettino. Non ci feci troppo caso perché ne avevo già ricevuto uno il giorno prima. Una vecchietta mi aveva mandato in regalo un fazzoletto ricamato con le sue mani. Mi aveva commossa. In ogni caso un pacchetto attira sempre l'attenzione, perciò dopo aver aperto qualche altra lettera gli diedi la precedenza. Di piccole dimensioni e avvolto in normalissima carta da pacchi, ostentava nell'indirizzo l'inequivocabile errore che lo classificava fra le missive dei miei ammiratori. Tolto l'imballaggio, comparve una scatoletta di plastica nera. La aprii e vidi che il suo contenuto era accuratamente ricoperto da uno strato di ovatta. Un gioiello? Lo scostai e... quello che vidi mi fece ritrarre istintivamente le dita come quando, voltando una pietra, si trova un brutto insetto ripugnante. Muta, sempre più a disagio, cercai di identificare quel che avevo davanti. Era un sacchettino di plastica trasparente, nuovo e senza sgualciture, che racchiudeva qualcosa di simile a... Cominciai ad avvertire una leggera nausea che mi stringeva lo stomaco.

«Garzón, può venire un momento?» mormorai. Garzón, distratto, rispose con un muggito interrogativo.

«Mmm?»

«Garzón, venga, per favore».

Si tolse gli occhiali di tartaruga e si avvicinò svogliatamente alla mia scrivania.

«Le dispiace dare un'occhiata a questa cosa?»dissi, sentendomi mancare.

Il viceispettore si avvicinò senza troppo interesse e guardò. Lo osservai e vidi nella sua reazione la stessa inconsapevole ripugnanza che la mia faccia doveva aver espresso qualche secondo prima.

«Che roba è?» domandò, con le sopracciglia aggrottate dallo schifo e dalla perplessità.

«Non lo so, era in un pacchetto che ho appena aperto».

Passarono alcuni interminabili minuti. L'oggetto esercitava su di noi un'evidente fascinazione. Era... era qualcosa di difficile da descrivere, non aveva una forma precisa, era come un brandello allungato di una materia evidentemente organica. Di un colore fra il ceruleo e il violaceo, galleggiava in un liquido incolore. Garzón fece un movimento verso la scatola, che io interruppi con apprensione: «Non lo tocchi!». Ma lui si limitò a sfiorarla lievemente con una biro. Il sacchettino si mosse e il suo misterioso contenuto dimostrò di avere peso ed elasticità. Il viceispettore ripeté l'operazione. Poi, grattandosi con insistenza la guancia, sentenziò:

«Petra, o io sto diventando completamente pazzo oppure questa roba non è altro che un pene umano».

Fui presa da un leggero tremore.

«Di questo si tratta, vero? di un pene amputato. Lo avevo pensato anch'io».

Di colpo il viceispettore Garzón cadde in preda a un'agitazione incontenibile. Correndo a destra e a sinistra senza apparente motivo, balbettava:

«Ma non è possibile! Bisogna fare qualcosa! Di chi è questo pene? Magari è ancora possibile reimpiantarlo!»

Era come se avesse subito un'improvvisa perdita del senso logico. Lo fermai:

«Ma cosa sta dicendo, Fermín?»

Lui era sempre più agitato.

«Certo, Petra, l'ho letto un mucchio di volte sui giornali: anche se viene tagliato via possono farlo funzionare di nuovo!»

Lo presi per un braccio e lo obbligai a guardarmi:

«Insomma, torni alla realtà! Questo è possibile solo se la cosa è appena avvenuta. E poi, Fermín, reimpiantarlo a chi?»

Fu come se, passato lo sbalordimento, tornasse alla ragione. Si calmò e guardò di nuovo quella triste spoglia.

«Ma siamo sicuri che sia quello che sembra a noi?»

Senza dubbio il buon Garzón era vittima di una sindrome che io ben conoscevo. Molte volte ero rimasta scioccata leggendo sui giornali quali reazioni susciti negli uomini un'evirazione traumatica. Le équipe mediche si galvanizzavano, era una corsa contro il tempo per portare a termine l'intervento di reimpianto; perfino i miei colleghi, normalmente abbastanza passivi quando si trattava di un delinquente, prendevano parte alla gara per salvare il membro reciso. Deve essere un retaggio atavico che unisce i maschi, una solidarietà innata di fronte al totemico strumento.

«Andiamo piano, viceispettore». Cercai la carta da imballaggio che avevo buttato nel cestino e la esaminai. Nessun mittente. Il mio nome e il mio indirizzo erano scritti con asettici caratteri da computer. Mi soffermai di nuovo sull'errore nel mio cognome. In effetti, quel regalino sorprendente veniva da qualche spettatore della mia intervista. Posai accuratamente l'involto sul tavolo. «Che gliene pare, viceispettore, andiamo a fare una visitina al nostro commissario? Di sicuro gli piacerà dare un'occhiata a questo piccolo omaggio».

«Miseria. Spero che non stia prendendo il suo caffè pomeridiano, è la volta che si strozza».

Il commissario non ebbe bisogno del caffè per strozzarsi. Lo invitammo a venire nel mio ufficio, per evitare di toccare la scatola, e quando l'ebbe davanti la sua reazione immediata fu identica alla nostra, un moto di repulsione. Eppure, un attimo dopo, il suo commento oscillò singolarmente fra la mistica e il turpiloquio.

«Dio onnipotente!» esclamò. «Sembra un cazzo!»

Giunti a questo punto, nessuno osava più dire niente. Quel pacchetto troneggiante sulla mia scrivania esercitava un influsso intimidatorio. Alla fine il commissario fece quel che doveva: chiese che venisse qualcuno dal laboratorio d'analisi. Poco dopo uno dei nostri uomini si portò via la scatola prendendola con le pinze, e anche la carta da imballaggio. Non ci sarebbe voluto molto per avere i primi risultati sulle impronte. Una volta liberi da quell'imbarazzante oggetto, un'aria di mistero invase la stanza. Eravamo perplessi.

«Ma dove sarà il resto?»

«Quale resto?»

«Il resto dell'uomo».

Il commissario e il viceispettore furono percorsi da un visibile brivido.

«Può essere morto, oppure ancora vivo».

«Può essere un pazzo che si è automutilato vedendola in televisione».

Diedi un balzo.

«Perché qualcuno avrebbe dovuto fare una cosa simile?»

«Perché quel qualcuno è matto e si è innamorato di lei. Capisce che è un amore impossibile e le manda il suo pene: è l'unico modo per far sì che quella parte del suo corpo sia vicina all'amata».

Guardai il commissario più volte. Mi era sempre parso un uomo comune, preoccupato unicamente dalle beghe interne del servizio. E invece no, il commissario Coronas aveva, come quasi tutti, un romanzo nel cassetto che affiorava quando lo richiedeva l'occasione. Cercai di metterla sul ridere.

«Commissario, capisco che per innamorarsi di me bisogna essere un po' matti, ma non fino a questo punto!»

«Non dica fesserie, Petra, ci sono un sacco di squilibrati in giro. È una cosa che ho sempre pensato: lei ha idea del potere che esercita la televisione? Nessuno può immaginare le reazioni di chi riceve messaggi e immagini nell'intimità della propria casa, dov'è possibile abbandonarsi a ogni genere di follia».

«Sì, e in più bisogna riconoscere che lei stava benissimo con quella giacca blu scuro», aggiunse Garzón.

Vidi che, sempre sulla base di retaggi atavici, l'evirazione maschile gettava comunque un'ombra di generico sospetto sulla donna.

«Signori, questo non mi sembra molto professionale».

Il commissario reagì.

«No, non lo è, dicevo per dire. Veniamo ai fatti. Fra poco riceveremo una relazione preliminare dalla scientifica. Domattina lei, Garzón, andrà a parlare col magistrato, è necessario aprire un'indagine. Stasera metta sottosopra il pronto soccorso di tutti gli ospedali: è molto probabile che qualcuno sia capitato lì mezzo dissanguato».

«Ah sì? Dopo essere andato alla posta a spedire il pacchetto?»

«Non mi confonda le idee, per il momento. Questo è quel che bisogna fare. A proposito, fra un'ora voglio sulla mia scrivania le pratiche degli incarichi che state svolgendo, tutti e due. Li affiderò ad altri colleghi, mentre voi, per ovvi motivi, vi occuperete di questa faccenda».

«Sissignore», si affrettò a dire Garzón in stile militaresco. Già da un po' desiderava che questo caso non ci sfuggisse dalle mani.

E dopo aver mandato all'aria la pacifica organizzazione della nostra vita, il commissario Coronas fece per andarsene, soddisfatto del suo energico intervento. Ma poi tornò indietro come se si fosse dimenticato di aggiungere al mio destino un'ulteriore complicazione.

«Ah, e finché le cose non si chiariscono, le metto una scorta davanti a casa, Petra».

A quel punto non ci vidi più.

«Cosa?! Ah, no, commissario, neanche per sogno, non ne vedo la necessità!»

«Lei non la vede ma io sì. Non dimentichi che è lei la destinataria del pacchetto. Non mi piacerebbe affatto che un pazzo furioso, capace di castrarsi in un attacco di follia, le facesse la posta».

«Ma commissario, è ridicolo! So benissimo cavarmela da sola, e poi...»

«Non ci sono ma che tengano. Io do un ordine, lei lo accetta e basta».

Uscì, con aria da padre autoritario che veglia per il bene dei suoi figli. Rimasi sola con Garzón. Il furbastro riusciva a trattenere a stento il sorriso, felice che qualcuno finalmente mi avesse messa a posto.

«Tutto questo è assurdo!» esclamai.

«Il commissario ha ragione», disse il viceispettore a bassa voce.

«Come, ha ragione? Tutta questa storia del pazzo autolesionista se l'è inventata lui, non ha né capo né coda. Sa cosa sta succedendo in realtà? Che sta diventando di moda il paternalismo verso le povere donne indifese, e mezze sceme, per di più».

Garzón si stava limando le unghie sui pantaloni. Sembrava lo scolaretto che assiste all'ennesima ramanzina del maestro nevrotico.

«A lei, Fermín, tutto questo sembra divertente perché non la riguarda. Sono io che dovrò sopportare la rottura di scatole di un paio di agenti davanti alla porta. Perché è così che si fa, vero?»

«Dipende da come gli gira, al commissario. Può destinarle perfino un ispettore. Magari anche uno squadrone di ussari che levino le spade in suo onore ogni volta che esce di casa». Scoppiò a ridere senza ritegno.

«Molto divertente. Ma adesso faccia il favore di muoversi e di eseguire gli ordini. E si prepari, Garzón, perché ce ne sarà di lavoro per lei, provvederò personalmente».

Garzón uscì senza prendermi minimamente sul serio. A quel punto la mia autorità era completamente calpestata.

Me ne andai a casa su tutte le furie. Così è la vita del salariato che occupa un posto intermedio nella scala del potere. Giri gli occhi un secondo e si abbatte su di te il peso dei superiori in nome delle più svariate ragioni: per motivi di grado, di sicurezza, di correttezza... per qualunque cosa, bisognava chinare il capo. L'unica soluzione è prendersela con chi sta sotto. Classico, triste: un meccanismo quasi demenziale.

Mi preparai un bel bagno agli aromi di frutta e accesi la radio a tutto volume. L'idea che qualcuno stesse sorvegliando la porta di casa mia mi dava sui nervi.

Era un fatto psicologico, lo sapevo bene, ma proprio per questo il mio fastidio aveva radici profonde. Odiavo fin da piccola la sensazione di non essere mai completamente sola. Desideravo che i miei genitori andassero a teatro o a cena con amici per avere la casa tutta per me. A scuola, quando una di quelle suore barbose ci ricordava la costante presenza dell'Angelo Custode, io mi sentivo morire. Ricordo perfino che certe sere, prima di andare a letto, aprivo la finestra e scuotevo fuori la giacca del pigiama come per scacciare un moscone. Con quel metodo ingenuo e infantile nutrivo la speranza di convincere l'angelo a volarsene via. Un tratto nevrotico? Lo so, ma se a quarant'anni non ti sei riconciliata con le tue stranezze significa che gli altri sono riusciti a diluire il tuo cervello nella mediocrità, e io ero certa che questo non fosse il mio caso.

Due mesi prima avevo cambiato donna di servizio. L'impagabile Azucena aveva dovuto andarsene. Lei stessa mi aveva presentato la sua sostituta, Julieta, una ragazza di una ventina d'anni. Nulla era sostanzialmente cambiato nella mia vita, tranne l'alimentazione. Julieta, l'avevo già constatato dal suo aspetto nel breve tempo in cui la vedevo, era una specie di hippy tardiva fissata con l'alimentazione naturale, l'ambientalismo e chissà quali altri innocui settarismi moderni. Scomparvero dai fornelli le sostanziose lenticchie stufate di Azucena, e dal microonde i salamini arrosto. Julieta cominciò timidamente con frittatine alle erbe aromatiche e, visto che io non le dicevo niente, mise a frutto le sue abilità macrobiotiche. Ormai, rientrando,trovavo indefinibili zuppe di alghe, con bigliettini di Julieta che decantavano le virtù dietetiche delle sue creazioni. Non osavo chiederle di cambiare perché, per essere sincera, i suoi piatti mi piacevano e, per di più, avevo notato dalla taglia dei vestiti che mi stavo trasformando in una silfide senza nessuno sforzo particolare.

Quella sera trovai nel microonde una specie di piccolo basco marroncino su un letto di patate. Andai a vedere il messaggio che Julieta mi aveva lasciato sulla porta del frigo, sotto una calamita. Almeno avrei capito cosa stavo per mangiare. «Questo è un hamburger di glutine di grano. Il glutine è la carne dei vegetariani, ricca di proteine e di energia. Spero che le piaccia». Era il colmo. Mi proposi di telefonarle il giorno dopo e di chiederle esplicitamente di comprare una succosa bistecca con l'osso. Ma forse la mia era solo una reazione dovuta al malumore. Cercai di tranquillizzarmi, feci scaldare lo pseudo-hamburger e mi sedetti a mangiare. Perfino col malumore dovetti riconoscere che era buono. Annaffiato con un bicchiere di Rioja mi parve addirittura delizioso. Forse non era così una cattiva idea convertirsi al vegetarianismo e lasciare in pace le povere mucche. Sì, decisamente mi ero lasciata trascinare dal malumore. Ma ne avevo i motivi. La scena vissuta in commissariato mi appariva assurda e spettrale. Perché Garzón e Coronas avevano cominciato a parlare del caso come se il caso esistesse? Niente faceva supporre che quello fosse un caso. Avevo ricevuto un pene da un donatore anonimo. Ma, eravamo sicuri che quello fosse un pene vero e non una ricostruzione fatta con qualche materiale idoneo allo scopo? Poteva trattarsi di un semplice scherzo di cattivo gusto, o forse qualcuno conservava quel pene in ibernazione e... Insomma, continuando a pensare a quell'episodio avrei finito col riempirmi la testa di assurdità perché, questo era chiaro, il punto di partenza era assurdo. O non è assurdo, forse, ricevere un presente come quello?

Aprii un libro e mi sdraiai sul sofà, però non riuscivo a concentrarmi. Spensi tutte le luci e guardai dalla finestra con discrezione. Sì, porca miseria, eccoli lì, due sbirri seduti in macchina! E ben davanti alla porta, mancava solo che mettessero un cartello. Quel commissario era un nevrastenico, aveva visto troppi film di serie B. Non avevo il diritto di rifiutare una scorta notturna? Avrei fatto bene a consultare il codice di procedura, anche se dubitavo seriamente che esistesse alcuna legislazione in merito, non era una situazione comune. Accesi di nuovo la luce, ma a un tratto vidi che arrivava un'altra macchina, e istintivamente la spensi; forse mandavano rinforzi. Era un falso allarme, la macchina proseguì e si perse dietro l'angolo. Accesi di nuovo la luce. Tornai al libro, decisa a leggere con più tranquillità malgrado il furore che mi agitava. Suonò il telefono.

«Ispettore, sta bene?»

«Con chi parlo?»

«Ah, mi scusi! Sono io, cioè, sono il sergente Marqués. Siamo qui davanti, e visto che accendeva e spegneva tanto la luce pensavamo che ci stesse facendo dei segnali».

Inspirai profondamente e contai fino a tre.

«Sergente, mi faccia il favore, venite tutti e due alla porta, vi apro».

«Ai suoi ordini, ispettore, ma è sicura di star bene?»

«Sì, diavolo, certo che sto bene!»

Adesso sapevo che il passatempo preferito di tutti i poliziotti, indipendentemente dal compito e dal grado, erano, effettivamente, i film di serie B. Quando vidi il sergente e il suo aiutante l'incazzatura si stemperò, e in realtà quasi mi commossi. Erano due ragazzi giovani e spilungoni con aria da cherubini più che da sbirri. Mi guardarono con rispetto. Marqués cominciò a scusarsi ma io lo interruppi. Li invitai a entrare.

«Chi vi ha dato ordine di sorvegliare il mio domicilio?»

«Il commissario in persona, ispettore».

«E se io vi dicessi di andarvene non potreste farlo, vero?»

Si guardarono l'un l'altro senza capire.

«No, certo», proseguii. «Sentite, adesso vi dico cosa faremo. La verità è che non sto correndo nessun pericolo reale. Il commissario vi ha dato quest'ordine per un eccesso di prudenza e per attenersi scrupolosamente alle forme, ma io vi assicuro che non esiste alcun rischio. Di modo che toglietemi la macchina da davanti alla porta, parcheggiatela un po' più in là e rilassatevi. Potete anche mettervi a dormire».

«Di questo non se ne parla», esclamò convinto il sergente. «Al massimo lo faremo a turno».

«Molto bene. E cosa fa di solito quello che rimane sveglio?»

«Io ascolto la hit parade in cuffia», disse timidamente il più giovane, che risultò chiamarsi Palafolls.

«Io preferisco pensare ai fatti miei», puntualizzò Marqués.

«Perfetto, allora ognuno per sé, e non preoccupatevi se accendo o spengo la luce, se ci sono rumori strani o cigolano le porte. D'accordo?»

«E se sentiamo un grido, ispettore?» domandò il più giovane in perfetta innocenza. Marqués gli rifilò una mal dissimulata gomitata nelle costole e io risposi con una pazienza da maestra d'asilo.

«Non preoccupatevi, se vedo un topo cercherò di trattenermi». Feci due passi in direzione della porta e, temendo di essere stata antipatica, aggiunsi: «Posso offrirvi qualcosa, un bicchiere di latte, un caffè?»

«No, grazie, ispettore, non vogliamo disturbare».

Uscirono mansueti come bambini che avessero bussato per una questua. Temetti perfino che nel frattempo gli avessero rubato la macchina. Coronas aveva fatto la sua bella figura. Naturalmente, non mi aveva messo sulla porta un paio di poliziotti esperti da prima linea. In questo modo faceva il suo dovere e chi s'è visto s'è visto; perché sembrava evidente che con quel bel paio avrei potuto prendermi più pugnalate della Madonna dei Sette Dolori, lui si sarebbe sgravato di ogni responsabilità. Mi misi a letto, a disagio, ma ero così stanca che subito mi addormentai.

Mentirei se dicessi che il giorno dopo non arrivai in commissariato con un nodo allo stomaco dalla curiosità. Avevamo davvero un caso o era stato tutto un fuoco di paglia? Non appena mi dissero che il commissario mi stava aspettando nel suo ufficio capii che molto probabilmente sì, il caso c'era. Nell'ufficio mi aspettava anche Garzón.

«Si sieda, ispettore», ordinò Coronas con fare da ministro plenipotenziario. «Adesso abbiamo i primi dati delle indagini preliminari. Esponga i fatti, Fermín».

Garzón aprì una cartellina come se avesse bisogno di leggere, ma subito si dimenticò di tutta la commedia e passò a dare le sue spiegazioni.

«Per cominciare bisogna dire che l'oggetto contenuto nella scatola è realmente un pene. Il magistrato ha aperto un procedimento giudiziario e fra un'ora il dottor Joaquin Montalbán si metterà al lavoro all'Istituto di Anatomia Forense. Ha detto che, se vogliamo, possiamo assistere a un primo esame per raccogliere le impressioni più generali. Quanto alle impronte, nell'involucro esterno ce ne sono fin troppe, assolutamente inutilizzabili ai fini dell'indagine, ma sulla scatoletta neanche una, tranne quelle che ha lasciato lei, ispettore, quando l'ha presa in mano nell'aprire il pacco. Il suo nome e l'indirizzo del commissariato sono in normalissimi caratteri da computer, probabilmente clonato, e la stampa è stata effettuata con una stampante a getto d'inchiostro, come ce ne sono migliaia. Il pacco, affrancato per un valore molto superiore al necessario, è stato infilato in una normale buca delle lettere, e poi consegnato all'Ufficio delle Poste Centrali, di cui porta il timbro. Probabilmente il gran numero di francobolli si deve al fatto che il mittente non voleva rivolgersi a un ufficio postale per la spedizione, ovviamente per non essere riconosciuto, e affinché sul pacchetto non figurasse il timbro di un ufficio decentrato, che avrebbe specificato un luogo di provenienza. Mettendo molti francobolli era sicuro che il pacchetto sarebbe arrivato e non si esponeva a nessun rischio. Mi segue, ispettore?»

«Come un cane», mormorai.

«Vale a dire...» continuò Garzón, ormai completamente immedesimato nel ruolo di oratore, «che abbiamo totale premeditazione da parte del mittente. Cosa che, a dir la verità, non promette niente di buono».

«Negli ultimi giorni c'è stato qualche omicidio con evirazione?»

«Negli ultimi giorni no, e nemmeno negli ultimi mesi, ispettore. Se c'è qualche morto evirato dobbiamo ancora scoprirlo. Abbiamo consultato anche i registri dove vengono annotati gli arti amputati, ma non risulta niente. Per essere ben sicuri, stanotte, io e gli uomini gentilmente messi a mia disposizione dal commissario ci siamo fatti tutti gli ospedali della città, e di evirazioni accidentali o chirurgiche, nemmeno l'ombra».

Coronas intervenne, visibilmente soddisfatto dallo stile dialettico del mio collega.

«Date le strane caratteristiche iniziali del caso, il magistrato prega di mantenere la maggiore discrezione. In altre parole, se vedete un giornalista per la strada, cambiate marciapiede, e se vi viene ancora dietro,raccontategli una palla qualunque. I giudici sono stufi che i giornali alimentino curiosità morbose».

«Può darsi che non sia facile toglierseli di torno».

«Eppure provateci. Avete portato le cartelle degli incarichi che avevate per le mani? Vi dirò su quali potete continuare a lavorare e quali verranno passati ad altri. Cercherò di lasciarvi abbastanza liberi, non voglio che questa storia diventi più grossa di quello che è. Come vi stavo dicendo, è di quelle che possono attirare l'attenzione pubblica; e una storia interessante che non si risolve è l'occasione perfetta per chi vuole darci contro. È chiaro? Allora intesi».

«E la scorta notturna che mi ha messo, commissario?»

«La lasci lì ancora qualche giorno. Sembra quasi che le dia fastidio!»

«Psicologicamente mi dà fastidio».

«Se entro una settimana le cose saranno più tranquille, gliela toglierò. Nel frattempo lasci perdere la psicologia e sotto col lavoro».

Lasciai che si vedesse la mia irritazione. Allora Coronas aggiunse:

«E non sia così testarda e così individualista! Questo in un poliziotto è molto negativo».

Garzón, in corridoio, non riuscì a nascondere il piacere infantile di vedermi vittima di un cazziatone. E, per di più, testarda e individualista erano due epiteti che lui avrebbe sottoscritto in ogni momento. Era felice. Lo aggredii.

«A parte ridere sotto i baffi, non ha un piano da comunicarmi?»

Non si prese neppure il fastidio di negare. Tirò fuori un'agendina bisunta che aveva sempre in tasca e lesse:

«Alle undici si effettuerà l'autopsia della spoglia. Crede che dovremo assistere?»

«Certamente. Nel frattempo andiamo a far colazione».

Garzón ed io eravamo sempre contenti di collaborare, ma questa volta notavo in lui la stessa resistenza che sentivo in me. Non c'era niente in particolare che potesse inasprire la situazione, ma come per un temporale ancora lontano, a entrambi doleva qualche osso. Senza dubbio i motivi erano da ricercarsi nel simbolico e nell'irrazionale. E cosa potevamo volere di più simbolico di quell'autentico reperto freudiano conservato sotto spirito? Quel maledetto pacchettino minacciava di risvegliare i nostri più reconditi fantasmi; cosa che, per poco che fossimo intelligenti, dovevamo evitare a tutti i costi. Ma era un po' presto per parlarne a freddo, non sarebbero mancate le occasioni per approfondire.

Facemmo colazione nel bar di fronte all'Istituto di Anatomia. Il viceispettore era convinto che il caso fosse già risolto.

Com'era sua abitudine, si mise senza nessuna logica a fare il punto della situazione.

«Questo è un pazzo che ha flippato per lei, ispettore, vedrà. Qualche parente o vicino di casa lo troverà mezzo dissanguato. Lo porteranno all'ospedale, ci avvertiranno dal pronto soccorso e tutto finirà lì. Non sarà una storia lunga».

Io ero troppo abituata alle sue ricostruzioni preliminari per cercare di contraddirlo.

«Sembra che lei abbia molta esperienza in fatto di peni senza padrone», commentai.

«In questo no, ma in tipi solitari sì, ispettore. Mi creda, c'è molta gente fuori di testa in giro, uomini e donne che hanno un lato oscuro. Si immagini sola in una stanza, sola con le sue ossessioni, con le sue allucinazioni... fin dove può arrivare? Magari, vista dal di fuori, certa gente ha un aspetto perfettamente normale. E invece no, non tutti i pazzi sono comodamente archiviati nei reparti psichiatrici».

Garzón si accorse del mio raccapriccio. Mi conosceva abbastanza per sapere che quel tipo di cose mi impressionava. E io lo conoscevo abbastanza per sapere che, anche dopo essersene accorto, avrebbe continuato come se niente fosse. E continuò:

«Ho avuto esperienze non da poco in questo senso. Una notte, a Salamanca, ci chiamarono i vigili. Qualcuno aveva telefonato perché da ore sentiva dei colpi nel muro e non riusciva a dormire. Ma le guardie temettero qualcosa di strano e ci chiesero di andarci anche noi. Dovemmo forzare la porta dell'appartamento, perché si udivano come dei gemiti. Cazzo, ispettore, fui io il primo a entrare e quella era una scena dantesca! Il muro era pieno di macchie di sangue, e in mezzo alla stanza c'era uno, nudo, con la testa spaccata. Bastò una breve ispezione per convincerci che non vi era stata aggressione. Quel tizio era un povero pazzo, ispettore, e in preda a un attacco di follia aveva passato la notte a dare testate contro il muro. Fu qualcosa di orrendo, davvero».

Mi accorsi che il boccone di croissant non mi andava né su né giù. Dovetti bere un buon sorso di caffè per riuscire a deglutire. Garzón mi osservava malefico, e vedendo che avevo superato il suo racconto senza perdere la compostezza, insistette:

«E ricordo un'altra volta in cui mi toccò aiutare un suicida solitario che...»

Ottenne quel che voleva, mi saltarono i nervi.

«Senta, Fermín, se vuole che mi immagini un tizio seduto di fronte alla mia immagine televisiva farsi a fettine rantolando, bene, c'è riuscito, me lo sto immaginando. Il povero squilibrato si innamora di me a prima vista, lascia da parte il sacchetto dei popcorn e si mette al lavoro. Poi, convinto che io possa apprezzare la cortesia, fa questo complicatissimo pacchettino senza lasciare una sola impronta, e se ne esce a infilarlo nella buca. E tutto questo perdendo litri di sangue! Il che è ancora più eroico e prova la profondità del suo amore».

«Stavo solo facendo congetture, ispettore, non si agiti. Ma non creda che tutto quel che dico siano fesserie! Se mi figuro un uomo solitario e infelice è perché penso all'immagine che lei ha dato nell'intervista».

«Che immagine ho dato?»

«Soprattutto materna»

«Materna?!»

«Tutta quella comprensione per i delinquenti e per quelli che soffrono, il suo sorriso tranquillo, l'affermazione che la polizia non è più quella di un tempo, che ora si preoccupa soprattutto di essere al servizio del cittadino, di vegliare su di lui... Materna, ispettore, materna».

«Crede che abbia esagerato?»

«Non voglio dire questo, a me è piaciuta. Voglio dire che il tipo che le ha mandato quel regalo deve averla percepita come una madre protettiva. È una cosa che bisogna tener presente».

Pagai il conto mostrando indifferenza, ma ero leggermente turbata. Quel che diceva Garzón non era poi così assurdo. Mi infastidiva enormemente riconoscerlo, ma era vero, una madre protettiva non era un'interpretazione sbagliata. Cosa avesse potuto suggerire al nostro amico rimaneva un mistero. Si trattava di un ex detenuto che, avendo conosciuto una polizia ben diversa da quella mia versione edulcorata, voleva darmi una lezione? Ma, perché un pene tagliato, e di chi? Se né all'obitorio, né negli ospedali vi erano morti o vivi privi di membro virile, quello da dove saltava fuori? Sembrava un rompicapo in cui disponessimo di un solo pezzo, anche se fondamentale. Solo l'autopsia avrebbe potuto gettare un po' di luce.

Quando arrivammo all'Istituto di Anatomia il dottor Montalbán ci stava già aspettando. Era un uomo maturo, sereno, con una faccia bonaria che l'avrebbe reso più adatto per la specializzazione in pediatria che in medicina legale. Ma forse, guardandolo con attenzione negli occhi, si poteva cogliere in lui quel non so che di logoro e amaro proprio di coloro che vedono ogni giorno gli uomini alla fine e non al principio.

Ci fece entrare nell'anticamera della sala anatomica, dove ci vennero forniti camici e mascherine. Garzón, con la sua, sembrava un sommozzatore. Ci raccogliemmo intorno al tavolo di dissezione, e il dottor Montalbán, data l'insolita situazione, ironizzò con buon gusto:

«Vediamo cos'ha da dirci il nostro piccolo cadaverino».

Aprì la scatola con le mani guantate e procedette a sistemare la bustina di plastica sulla superficie asettica. Il pacchetto ondeggiò in modo inquietante. Dal vassoio degli strumenti Montalbán scelse delle forbici e, mettendo la busta su una piccola bacinella, ne tagliò uno dei lati dall'alto in basso. Automaticamente il liquido fuoriuscì. Una volta che si fu raccolto nel recipiente, si sentì un odore forte e sgradevole.

«Formalina», sentenziò prontamente il medico legale.

«Allora non è alcol?»

«Formalina. Formaldeide al quaranta per cento. È la cosa migliore per conservare qualunque preparato anatomico».

Proseguì nel suo lavoro. Raccolse campioni dei tessuti e li dispose in piccoli recipienti che sarebbero stati inviati al laboratorio per determinare il gruppo sanguigno e il DNA. Il pene, sotto le sue mani esperte, sembrava adesso un grosso verme senza vita. Montalbán lo esaminò da vicino e ne sollevò la base con delle pinze.

«Si tratta del membro di un uomo giovane, ed è curioso perché...». Rimase zitto.

Gli occhi cespugliosi di Garzón mi guardavano impazienti. La mascherina mi impediva di vedere la sua espressione. Montalbán continuò a eseguire un gran numero di manovre minuziose. Alla fine mi azzardai a domandare:

«Cosa c'è di curioso, dottor Montalbán?»

Pareva pronto a esprimere un verdetto.

«È curioso, ma non ci sono dubbi: io direi che questo pene è stato asportato con procedimenti chirurgici ortodossi. Vedo perfettamente la linea sottile del bisturi, l'inizio dell'incisione ad angolo vivo, la fine precisa. Poi tutta la ferita è stata tamponata».

«Niente di accidentale, allora».

«Assolutamente no. Altrimenti l'unica possibilità è che sia stato reciso di netto con uno strumento molto affilato, ma anche questo sarebbe impossibile. È tagliato esattamente alla base. In un'aggressione non sarebbe mai stato possibile. L'angolo di inserzione del membro sulla pelvi avrebbe impedito di esercitare la forza necessaria. Mi spiego?»

Vi fu un silenzio dubbioso.

«Vediamo, immagini un tagliere e un grosso coltello tipo mannaia da macellaio. Sistemando il pene sulla superficie e dando un forte impulso alla lama si potrebbe ottenere un taglio con queste caratteristiche; ma mi dica, in quale posizione dovrebbe essere un uomo perché si possa fare una cosa simile? è quasi impossibile: il taglio si produrrebbe più in basso, mai a questa altezza».

«Sì», risposi con convinzione. Guardai Garzón. Aveva la fronte imperlata di grosse gocce di sudore. «Ha capito, viceispettore?» domandai cortesemente.

«Sì», mormorò lui con un filo di voce.

«Questa circostanza e la natura dell'incisione indicano con strettissimo margine di errore che la vittima è stata evirata chirurgicamente», proseguì Montalbán. «Il procedimento seguito è stato probabilmente quello di legare con un laccio la base del pene per bloccare l'afflusso di sangue. Forse è per questo che presenta un segno bluastro alla base. Dopo l'incisione, è necessario praticare un nodo ai legamenti per evitarne la retrazione e più tardi introdurre un catetere nell'uretra perché cicatrizzi aperta. Alla fine la ferita deve essere cauterizzata».

«La complessità della manovra sembra indicare che solo un medico avrebbe potuto farlo».

Montalbán si allontanò dal tavolo e si liberò della mascherina, ci fece segno di togliercela anche noi per poter parlare a faccia scoperta. Dopo il disvelamento vidi l'espressione meditabonda del medico e il volto pallido e sconvolto del mio collega.

«Andiamo, ispettore, io non ho detto questo. Sapere se l'abbia fatto davvero un medico è completamente al di fuori delle mie competenze. Potrebbe essere stato un infermiere, uno studente di medicina, un biologo abituato alle preparazioni da laboratorio... perfino qualcuno estraneo agli ambienti medici che ci sappia fare. Le assicuro che nell'esercizio della mia professione ho visto cose stupefacenti in questo senso. Una volta mi capitò il caso di un capostazione che aveva dovuto tagliare il braccio di uno scambista. C'era stato un incidente e il braccio di quell'uomo era stato quasi strappato via. Il capostazione, vedendo che i soccorsi avrebbero impiegato troppo tempo ad arrivare, completò l'amputazione del braccio, evitò la setticemia, fermò l'emorragia e conservò l'arto in frigorifero. All'arrivo dell'ambulanza non restava altro da fare che provvedere al trasporto. Vidi quel lavoro, eseguito senza nemmeno gli strumenti adatti, e rimasi allibito. Era perfetto, nessun chirurgo l'avrebbe fatto meglio. Bisogna dire che l'amputazione è una manovra relativamente facile, ancora più facile quanto più è ridotta la parte che viene amputata. Un'altra cosa è l'innesto, capite?»

«Tuttavia, lei ritiene che il taglio sia stato fatto con un bisturi».

«Sono quasi sicuro che siano stati usati strumenti chirurgici, ma nemmeno questo significa che sia stato un chirurgo a usarli. Vi sono negozi di materiale sanitario aperti a chiunque».

«E cosa mi dice della formalina?»

«Lo stesso. Non esiste un preparato commerciale, ma le farmacie la vendono sfusa».

«Senza ricetta, senza che si sappia l'uso che se ne vuol fare?»

«Avete dei figli che vanno a scuola? Evidentemente no. I miei hanno comprato migliaia di volte flaconcini di formalina dietro indicazione dell'insegnante. Dissezionano rane nel laboratorio di scienze, conservano cavallette per dei mesi... Qualunque scuola o istituto, qualunque professore o studente, chiunque può essere consumatore abituale di formalina. Ovviamente, le farmacie non gliene vendono una botte per tenerci un cadavere dentro, ma una modica quantità sì, una quantità molto maggiore di quella contenuta nel nostro sacchettino».

«C'è qualcos'altro che potrebbe essere di uso medico, dottore, la stessa bustina di plastica, la scatoletta che la conteneva?»

Montalbán negò con la testa. Mi girai verso Garzón e vidi che vacillava.

«Si sente male, Fermín?»

«Credo di sì», rispose con voce esanime. «Se volete scusarmi... la aspetterò al bar, ispettore, ho un po' di nausea».

Rimasi sconcertata nel vederlo uscire. Montalbán sorrise.

«Cosa gli succede?» dissi, «è un uomo abituato a queste cose, ha visto un'infinità di autopsie, forse...»

Il medico mi interruppe, comprensivo e paterno.

«Non so se se ne rende conto, ispettore, ma il pene rappresenta per gli uomini qualcosa di molto particolare. Le immagini mentali della sua perdita vengono vissute in modo molto nitido. Provi a parlare di evirazione davanti a un uditorio maschile e vedrà che istintivamente tutti chiudono le gambe».

«Mi fa piacere che lo dica, dottore, avevo finito per pensare che fossero fantasie frutto del mio eccesso di zelo femminista».

«Può darsi che sia vero anche questo».

Mi guardò maliziosamente e si mise a ridere. Mi piaceva quel medico legale. Era un uomo eclettico, sereno, ponderato. Se non avesse avuto sette figli e un'adorabile moglie gli avrei proposto di sposarmi.

«C'è un'altra cosa molto importante, dottore. È in grado di stabilire se questo membro sia stato asportato a un uomo vivo o a un cadavere?»

«Certo che si può stabilire. Ritengo che l'uomo a cui è stato tagliato fosse ancora vivo al momento del fatto. Vi si può riscontrare infatti quella che noi chiamiamo reazione vitale: c'è stata coagulazione e retrazione dei tessuti. Non sappiamo se sia morto durante o dopo l'evirazione, ma in partenza non si trattava di un cadavere, di questo può essere sicura».

«Quindi è esclusa l'ipotesi che sia stato rubato in un'aula di anatomia».

«Pensava a uno scherzo da studenti?

«È un'ipotesi che va presa in considerazione».

«Sì, ma la scarti pure, i cadaveri usati ad anatomia sono dei vecchiumi che a volte rimangono per anni immersi in vasche di formalina. Sono induriti come suole di scarpe e hanno un colore molto particolare, qualcosa che ricorda la pergamena. Le assicuro che non ne verrebbe fuori mai un pene così, fresco come una rosa».

«Crede sia stato tagliato da poco?»

«Non saprei dirglielo esattamente: la formalina fissa i tessuti e ciò toglie valore al reperto. L'unica cosa certa è che è stato messo in formalina poco dopo essere stato asportato, diciamo entro le ventiquattro ore. A partire da quel momento comincia la decomposizione e qui non ne vedo alcun segno».

«C'è altro che possa aggiungere a questo parere, dottore?»

«Non molto. Entro un paio di giorni avremo delle analisi più precise condotte al microscopio; chissà che non venga fuori qualcosa che a me è sfuggito. In più sapremo il gruppo sanguigno e il DNA. Avete qualche indiziato?»

«No, assolutamente nessuno».

«Allora, per il momento, questi dati vi serviranno a poco. Sa bene che sono utili solo se usati comparativamente per determinare l'identità di qualcuno, ma se non ci sono né una vittima né un possibile carnefice... avremo un pene e un'identità biologica fantasma: non molto, vero? Anche se più avanti forse vi potranno servire, quando troverete un cadavere o avrete una lista di sospetti».

«Questo non è molto incoraggiante».

«Le confesso che è la prima volta che faccio un lavoro come questo, ispettore. Mi sembra tutto davvero strano».

«Lo è: abbiamo poche piste e non sembra ragionevole che non si trovi negli ospedali un uomo a cui sia stato asportato il pene per motivi terapeutici».

«L'ablazione del pene è un'operazione rarissima. In genere la si fa solo in caso di cancro localizzato. Ha domandato se ne sia stata effettuata una negli ultimi mesi?»

«Il viceispettore ha cercato in tutti gli ospedali senza nessun risultato. Semplicemente, un intervento del genere non c'è stato».

«È molto infrequente, come le ho detto».

«Dottor Montalbán, dove vanno a finire le parti asportate durante gli interventi chirurgici?»

«In una fossa comune. È obbligatorio registrarle su un foglio apposito che viene trasmesso all'ufficio anagrafe, anche se talvolta qualcosa può sfuggire. Avete guardato anche lì?»

«Sì, sapevamo dell'esistenza del registro e l'abbiamo consultato, ma senza alcun risultato. Se fosse saltato fuori un pene in quegli elenchi avremmo sospettato che qualcuno l'avesse registrato senza poi effettuare l'incinerazione, ma non è così».

«Insisterò specificamente perché venga effettuata la ricerca di cellule cancerose nei tessuti. Non mi viene in mente altro, anche se per la verità non mi sembra che possa servire a molto. Un bell'imbroglio vi è capitato!»

«Ci può giurare, dottore, di quest'individuo sappiamo solo che era di sesso maschile».

«E magari è un pene posticcio impiantato a Casablanca», disse fra le risate. Poi, enigmatico e più serio, aggiunse: «Povero viceispettore, se è così sensibile all'argomento, sarà dura per lui! Si immagina le battute che gli toccherà sopportare finché dureranno le indagini?»

«Io mi asterrò dal fargliene».

«Sarà gentile da parte sua».

Osservai la sua faccia bonaria. Perché un uomo così simpatico doveva occuparsi di morti quando avrebbe fatto la delizia di qualunque paziente? Ah, la vita è così, tutto sembra fatto apposta per funzionare al contrario.

Trovai Garzón al bar di fronte che cercava di riprendersi dal trauma genitale. Gli riassunsi quel che mi aveva detto Montalbán e presi anch'io un caffè. Aveva un aspetto migliore, per lo meno la sua faccia aveva ritrovato il colore abituale. Cercai di non dare importanza alla sua defezione.

«Si sente meglio, Fermín? Non mi stupisce che le sia venuto un capogiro, là dentro faceva un caldo...»

Ma lui non sembrava aver bisogno di un alibi, perché disse:

«Il caldo non c'entra, è stato quel benedetto medico con le sue spiegazioni. Come si può essere così crudi? "Si immagini un tagliere...". Dio mio, non era mica necessaria un'immagine così esatta!»

«Be', ma io così ho capito molto bene».

«Certo, lei sì!»

Si avvicinò il cameriere con un vassoio e cantilenò ossequioso: «Qualche pasta, signori, un cannolo caldo appena fatto?»

Il viceispettore fece un gesto di rifiuto e distolse la vista.

«Non me ne parli! Per almeno un mese non riuscirò a mangiare né salsicce né asparagi né cannoli, niente che abbia una forma allungata!»

«Non starà esagerando?»

«Mi fa venire la pelle d'oca questa storia. Un cadavere è un'altra cosa; ma pensare alla possibilità che uno se ne vada in giro senza cazzo per la città... o che sia morto dissanguato perché gliel'hanno tagliato... cosa crede che abbiamo davanti, ispettore?»

«Sinceramente, non lo so. Il parere del medico legale mi ha lasciata sconcertata».

«Anche a me. La cosa più logica era pensare che gliel'avessero tagliato con la violenza. Ero arrivato a immaginare qualche ragazza che avesse avuto il coraggio di castrare il suo violentatore. Per questo nessuno dei due avrebbe denunciato la cosa alla polizia, sarebbero stati colpevoli entrambi. E poi la tipa, in una dimostrazione plateale, l'avrebbe spedito a lei».

«Vede bene che questo è impossibile».

«E se la ragazza era infermiera e minacciandolo col coltello l'ha costretto a seguirla in qualche posto dove potesse operarlo?»

Non credevo alle mie orecchie, Garzón era completamente partito.

«Ha mai pensato di dedicarsi alla letteratura poliziesca?»

Chiese una ciambella al cameriere senza rispondermi.

«Tutto questo casino mi ha fatto venir fame».

«Mangi e lasci stare le fantasie. Non c'è niente da fare finché non avremo i risultati delle analisi».

Ma non fu così facile farlo star zitto, gli piaceva elucubrare. Pensò alla teoria del violentatore, pensò a un serial killer che avesse appena cominciato. Mi tempestò di mistiche considerazioni sui matti che si credono angeli asessuati. Sono convinta che, alla fine, stava dando libero sfogo ai suoi neuroni solo per distrarsi, ma mi ero proposta di lasciarlo fare e così feci. Se davvero l'argomento delle castrazioni lo faceva soffrire, era meglio che scaricasse la tensione in modo inoffensivo.

Guidando verso il commissariato riflettei anch'io su quella faccenda. Anche a me piacevano le scommesse, ma ero molto più scettica di Garzón. L'ipotesi della vendetta mi pareva improbabile. Chi mai con i tempi che corrono rischierebbe di finire in galera per una questione di principio? Cos'è in fondo la vendetta se non una soddisfazione emotiva che prescinde dal denaro e dal mondo delle cose? Troppo fuori moda, perfino romantico al giorno d'oggi. E la storia del serial killer? Neanche per idea, quelle erano cose da sceneggiatori hollywoodiani dal cervello prosciugato. Il mio scetticismo feroce mi spingeva a concepire il crimine come qualcosa che permette di ottenere un beneficio tangibile, o come un fatto accaduto accidentalmente che deve essere nascosto. Tutta la letteratura del viceispettore, tutta quella concezione estetica del male mi sembrava inconcepibile in uno schifo di società come la nostra. Se davvero fossero esistiti assassini così poetici da voler diventare come gli angeli, o fanciulle giustiziere, allora sarebbe stato meglio mettersi dalla loro parte invece di fare i poliziotti. Ma avevo una gran paura che i colpevoli andassero ricercati nelle fila della normalità. Anche se a dire il vero, perfino a me cominciava a sembrare eccessiva la pretesa di trattare a tutti i costi in modo razionale una faccenda così oscura. Forse il viceispettore aveva ragione ed esisteva un mondo nascosto, sotterraneo, un universo solitario e raccapricciante che apparteneva al lato oscuro dell'uomo? Oppure la società non era altro che un insieme di pratiche comuni, un compendio di comportamenti omologabili? No, può darsi che mi desse più tranquillità affermarlo, ma non era così. Dovevo considerare la mia vena razionalista come la base di ogni deduzione, ma senza scartare quella tenebra perturbante di cui parlava Garzón.

Assorta nei miei pensieri ero arrivata fino a casa, avevo aperto la porta e avevo perfino sistemato le mie cose sul tavolo della cucina per lavorare ancora un po'. C'erano altre faccende di ordinaria amministrazione da sistemare, ma mi rendevo conto che il pene asportato cominciava ad agire come un punto focale capace di attirare tutta la mia attenzione. Succede sempre così con i casi che suscitano la vera passione investigativa: cominci come se si trattasse di un lavoro come un altro e all'improvviso c'è qualcosa che si stacca dall'insieme, una specie di virus, una scintilla di fuoco intenso che finisce per consumarti dalla testa ai piedi. Solo allora capii che mi trovavo di fronte a una di quelle situazioni ed ebbi un brivido. C'è qualcosa di stimolante e di pericoloso in questa sensazione. E io la sentii fino in fondo, viva e dolorosa come un fiammifero che bruciasse lentamente sulla mia pelle.

Lavorai e lavorai cercando di non pensare a niente, e ci riuscii, visto che quasi mi dimenticai di cenare. Erano le undici quando decisi di prepararmi una frittata al formaggio e di bermi un bel bicchiere di yogurt. Stavo sbattendo le uova con impeto guerresco e all'improvviso mi ricordai di loro. Erano ancora lì? Andai alla finestra, diedi un'occhiata ed eccoli, i due paladini padroni e signori della mia sicurezza. Provai subito il fastidio psicologico-urticante di non sentirmi sola. Una simile precauzione continuava a sembrarmi il colmo del ridicolo. Immaginai quei due poveretti a bere Coca-Cola dalla lattina e a guardare verso la mia porta con sempre minore interesse. Chissà se il commissario gli aveva detto la ragione precisa per cui adesso erano appostati davanti a casa mia? Provai curiosità. Uscii in strada e feci loro cenno di avvicinarsi. Scesero immediatamente dalla macchina e vennero con passo leggero, con la mano destra sospettosamente infilata dentro la giacca. Si erano spaventati, avrei dovuto immaginarlo.

«Sta bene, ispettore?»

«Benissimo, e voi?»

Rimasero indecisi dinanzi alla mia risposta informale.

«Avevo pensato che magari avreste voglia di prendere un caffè».

Si guardarono l'un l'altro con soddisfazione.

«Se lei è così gentile da invitarci...»

Visti sotto la chiara luce della cucina mi parvero ancora più giovani. Il sergente era robusto e dai lineamenti scolpiti nella pietra. Palafolls non doveva avere più di ventun anni, data la delicatezza del suo bel viso. Preparai un caffè mentre chiacchieravamo del più e del meno. Si vedeva che erano contenti del mio invito. Posai tre tazze fumanti sul tavolo e un appetitoso plum-cake industriale. Per seguire il modello tipico di ospitalità di un superiore con i suoi subordinati adesso avrei dovuto chiedere a quei ragazzi delle loro famiglie, delle fidanzate e di tutta la loro vita personale. Ma non avevo nessuna voglia di infilarmi in quei meandri paternalisti, e così, senza altri preamboli, sparai:

«Sapete esattamente perché siete qui?»

Il sergente Marqués mi fissò negli occhi come per chiedermi di non creare dei problemi.

«Noi eseguiamo gli ordini del commissario, che...»

«Lo so, lo so! Ma ditemi, il commissario vi ha raccontato qualcosa del caso a cui sto lavorando?»

«Be', sì, ispettore. Ci ha detto che uno che lei ha messo in galera è appena uscito. Dice che è meglio che teniamo d'occhio casa sua per qualche giorno, dovesse mai venire qui a farle qualche scherzo».

«Già», dissi pensierosa. Era chiaro che, in fondo, per Coronas quello non era un caso davvero importante. Secondo lui tutto si sarebbe presto chiarito nel migliore dei modi. Era ovvio che, nel frattempo, intendeva condurre la cosa con discrezione. Così avrebbe evitato curiosità e chiacchiere interne, assicurandosi il segreto anche all'esterno. Molto abile, il commissario. Bene, almeno quel paio di agenti era servito per farmi un quadro generale di ciò che ci si aspettava da noi. Sarebbe stato meglio porre un freno alla passione investigativa e spegnere le fantasie di Garzón. Nessuno ci avrebbe messo fretta, di modo che, superata la fase dell'impegno personale, non avremmo dedicato troppo tempo a quel caso. Mi sentii più tranquilla.

«Prendete un altro po' di dolce».

«No, grazie, ispettore, lei è molto gentile ma dobbiamo tornare al lavoro».

«Be', ma state lavorando anche adesso! Seduti qui con me mi state sorvegliando da vicino».

Questa frase dovette farli sentire ridicoli. Tirarono per le lunghe nell'andarsene. Io ero soddisfatta di quel che avevo appurato, o forse, ora che ci penso, cercavo di trovare qualcosa che dissipasse la mia ossessione per il caso del pene.

Andai a letto che era già molto tardi e continuai a leggere ancora per un po'. Fui sorpresa nel sentire suonare il telefono verso le due del mattino. Alzai il ricevitore. Dopo il terzo «pronto» nessuno aveva risposto. Rimasi in silenzio attaccata al microfono. Poco dopo, chiunque fosse riattaccò. Un errore? Rimasi lì a pensare senza sapere bene a cosa. Poi mi alzai al buio e andai alla finestra. I miei salvatori erano sempre parcheggiati nello stesso posto. Vidi la piccola luce di un fiammifero acceso, e la punta incandescente di una sigaretta. Che non avessi davvero bisogno di loro?

 

02

Nei giorni successivi nessuno parlò più del pene reciso. Ci occupavamo degli altri incarichi che ci erano stati assegnati in margine a quel caso e cercavamo di non menzionarlo mai nei nostri discorsi. Tuttavia, sia io sia Garzón attendevamo il risultato delle analisi con una punta d'impazienza. Glielo leggevo chiaramente in faccia. Correva subito a guardare i messaggi che si accumulavano in nostra assenza, e se qualcuno lo chiamava al telefono si precipitava a rispondere con visibile celerità. Di tanto in tanto passava nel mio ufficio e domandava: «E allora, qualche novità?» senza esplicitare l'oggetto del suo interesse. «Niente, niente, va tutto benissimo», rispondevo io con enfasi fittizia. Ma entrambi sapevamo che quella diabolica reliquia era all'origine delle nostre controllate inquietudini.

Eppure tutte quelle aspettative si rivelarono esagerate. Quando finalmente il dottor Montalbán ci fece avere i risultati, ci ritrovammo in mano il DNA di un soggetto e il suo gruppo sanguigno, zero positivo, ma assolutamente niente di più. Non erano state trovate tracce di sostanze estranee né segni di alcuna malattia. In una parola, il fantasma era ancora acquattato nell'ombra. Dalla delusione del viceispettore capii fino a che punto l'affaire avesse tenuto occupata la sua mente. Buttò bruscamente il pacchetto di sigarette sulla scrivania.

«C'è da diventare matti! Tanti progressi scientifici per cosa? Non servono assolutamente a niente.

«Se ne rallegri, se così non fosse risolverebbero tutto giudici e medici. Di cosa vivremmo noi due?»

«Potremmo mettere su un ristorante».

Lo guardai con poca convinzione.

«Si svegli, Fermín, siamo condannati a questo lavoro!»

«Io non lo direi con tanta sicurezza. Se lo immagina come dev'essere bello gestire una trattoria? Robusti tavoli di legno, un camino in un angolo per l'inverno e piatti di rustica terraglia. Una buona cantina piena di vini e deliziose specialità da spilluzzicare: salamini piccanti, peperoncini sott'olio, frittatine, insalate miste...»

«Non sarà che lei ha fame?»

«Ma perché non prende mai sul serio le mie aspirazioni?»

«Sinceramente... non mi aveva mai detto che stava pensando di fare l'oste».

«Solo perché so che non lo farò, però mi piacerebbe... le assicuro che mi piacerebbe davvero. C'è un che di sano e positivo nel dare da mangiare agli altri. Vivremmo in un ambiente allegro, umano. Casseruole che fumano, gente che ride in buona compagnia...»

«Ha nostalgia del mondo normale?»

«Certo che ce l'ho! Sono troppi anni che vivo circondato di ladri e mafiosi. Sempre l'oscurità, il male, il delitto, l'orrore. E come se non bastasse, adesso anche questa storia macabra del pene».

«Macabra è la parola giusta, ha proprio ragione».

«E cosa possiamo fare noi, ispettore?»

«Non molto, temo. Faremo un altro giro degli ospedali, più che altro per avere la coscienza a posto, raccomandando di tenere gli occhi bene aperti e il nostro numero di telefono a portata di mano. Staremo dietro a tutti i cadaveri che salteranno fuori e... nient'altro».

Garzón non era soddisfatto, vedeva avvicinarsi sempre più il momento in cui quell'embrione di caso sarebbe stato sonoramente chiuso d'ufficio. Niente corpo, niente caso, per prudenza il pene sarebbe rimasto ancora un po' all'Istituto di Anatomia Forense, caso mai fosse possibile un'identificazione, e poi il magistrato avrebbe chiuso l'inchiesta e tutto sarebbe stato dimenticato. Anche a me dava profondamente fastidio che questo potesse succedere, mi hanno sempre mandata in bestia le situazioni inspiegabili. E poi, il mio coinvolgimento nei fatti era molto particolare, non bisognava dimenticare che ero io la destinataria di quel lugubre pacchetto. Il viceispettore aveva la delusione dipinta sulla faccia, l'inquietudine riflessa negli occhi.

«C'è un assassino che se la spassa tranquillamente e a noi tocca occuparci di faccende di ordinaria amministrazione».

«È questo che la preoccupa veramente, o le dà soltanto fastidio lasciare un lavoro a metà?»

«Non mi è mai piaciuto uscire dal cinema a metà film, o dover cambiare programma all'ultimo momento».

«Sì, anche a me, ma non bisogna confondere questa sensazione con l'inquietudine per un possibile assassinio. Al momento, non ci sono morti su cui indagare».

«E se cominciasse a ricevere pacchetti con altri pezzi dello stesso individuo?»

«Quando mi arriveranno le orecchie comincerò a sospettare».

«Questo è molto divertente, ispettore, ma la logica ci insegna che le cose non succedono per caso, c'è sempre un concatenarsi di conseguenze dopo un'azione di partenza».

«Bel ragionamento, Garzón, ma non possiamo perderci in un mare di congetture. E poi, chi le ha detto che la vita è logica?»

«Eppure deve esserci una spiegazione. E se dietro tutto questo ci fosse un traffico di organi? Non potrebbe essere stato un pentito a mandarle questo piccolo campione? E cosa ne dice di un medico solitario, squilibrato e strambo che ha voluto togliersi la soddisfazione di un'operazione truculenta?»

Schiacciai la sigaretta nel portacenere decisa a porre fine a quell'escalation di spropositi. Sorrisi con una smorfia per dire:

«E se una signora, stanca di preparare la cena al marito, avesse deciso di cucinargli un salsicciotto diverso dal solito e gliel'avesse tagliato? E se l'invio del pacchettino fosse il risultato di una di quelle scommesse maschili che cominciano con: «Ci scommetto la minchia che... »?»

Il viceispettore mi guardò con odio selvaggio.

«Le ho già detto che non la trovo molto divertente oggi. Credo che andrò a ridere da un'altra parte. Col suo permesso, me ne vado a lavorare alle nostre cose».

Si allontanò più orgoglioso di un generale da operetta. Non mi aspettavo quella reazione, e dire che avevo tutti gli elementi per prevederla. Garzón era, fino al midollo, un uomo passionale, e naturalmente si annoiava, caspita se si annoiava, come uno sventurato animale condannato a starsene chiuso nella gabbia di uno zoo invece che nella vastità della savana. Una vita fatta prevalentemente di routine l'aveva trasformato in un avido cacciatore di sensazioni sull'orlo della pensione. Per questo, dopo aver assaggiato il miele del mistero non voleva saperne di tornare alla solita minestra. Come poteva anche solo pensare di mettere su un ristorante? Quel sogno di serenità quotidiana si sarebbe dissolto come una bolla di sapone quando un cliente gli avesse ordinato lo stesso piatto per la seconda volta. No, Garzón aveva la stoffa dell'uomo d'azione, ma io non ero passata come lui attraverso mille esperienze poliziesche, e i casi semplici e di ordinaria amministrazione li vivevo ancora come una benedizione del cielo. Gli sarebbe passata.

Tornò la tranquillità nel nostro lavoro. Qualche volta nei giorni seguenti il commissario si informò se ci fossero novità, ma non capitava mai nulla che potesse avere a che fare col pene misterioso. Furono trovati un paio di cadaveri fuori città, ai quali i nostri uomini si affrettarono ad abbassare i pantaloni con impudicizia, ma entrambi erano integri come mamma li aveva fatti. Io finii per dimenticarmi un po' di quella storia e giunsi a pensare che certo di peni ne erano caduti di più nelle guerre goyesche. Smisi di ricevere corrispondenza relativa a quella trasmissione e, per colmo di fortuna, il commissario ritirò finalmente la scorta davanti a casa mia. Una sera Marqués e Palafolls vennero a salutarmi dicendo che era stato un piacere proteggermi.

Con soddisfazione li vidi allontanarsi e me ne andai a dormire tranquilla per la prima volta in parecchi giorni.

Se fossi stata panettiera o cuoca, o sarta o portinaia, l'aspirazione a vivere in pace sarebbe stata ragionevole e normale. Però ero un poliziotto, l'avevo deciso in un momento di pazzia, e quindi non posso lamentarmi se quella calma non durò. Una mattina di novembre, con tutta la fredda bruma concentrata sulla punta rossa del mio naso, arrivai in ufficio per mettermi al lavoro. Constatai con scarsa gioia l'insufficiente calore irradiato dal termosifone e, dopo aver guardato dalla finestra senza alcun motivo, com'ero solita fare prima di mettermi all'opera, mi diressi decisa verso la scrivania. Ed eccolo lì, in cima al mucchietto della posta quotidiana, come se nessuno si fosse stupito che arrivasse in commissariato un pacchetto come quello. Lo vidi da lontano e non ebbi il coraggio di avvicinarmi. Quattro passi mi separavano dal fatidico pacchetto, ma ormai ero così sicura del suo contenuto che, come in un incubo, le mie gambe rallentarono e non avrei più saputo dire se stessi camminando oppure no. Sempre come in un incubo, mi passai una mano sulla faccia, e alla fine, improvvisamente indignata con me stessa per quella reazione, coprii la breve distanza con la determinazione di un generale del Terzo Reich. Non c'era il minimo dubbio: il mio nome, l'indirizzo, i caratteri con cui erano stampati, la forma del pacco, le sue dimensioni, il colore della carta da imballaggio. Se avessi seguito i miei riflessi patologici non sarei mai riuscita a raccogliere e nemmeno a toccare quell'affare, ma dovevo farlo. Lì, sulla mia scrivania, si trovava senza dubbio il reperto numero due. Erano le orecchie, finalmente? mi domandai. O questa volta si sarebbe trattato di un organo interno: un fegato, un pancreas, un cuore? Mi stavo addentrando tutta sola in un crescendo di orrori. «Basta!» esclamai fra me e me, «devo agire». Agii, lasciandomi trasportare dall'essere autoritario che tutti abbiamo dentro di noi, o come un militare, o come le due cose insieme, se queste non fossero già di per sé la stessa cosa. «Che i tuoi movimenti siano preceduti da un rotolare di teste», pensai e, in preda a un impeto dittatoriale, uscii in corridoio gridando:

«Chi cazzo ha portato qui questa roba?»

I decapitandi ci misero un bel po' a rendersi conto della situazione, e quando mi rivolsi all'agente di turno in portineria ne ricavai una risposta commovente nella sua normalità.

«Il postino, ispettore», rispose come se parlasse a una paziente appena evasa da un ospedale psichiatrico.

«Il postino?» insistei.

«Si, il postino, stamattina presto. Sul pacchetto c'era il suo nome ed è passato senza problemi per il metal detector, quindi io...»

«E lei non sa che questo pacchetto è diverso dagli altri?»

Scosse il capo come uno strano bambino in divisa. Rimasta a corto di argomenti, gli ordinai, con la massima pazienza:

«Mi chiami il viceispettore Garzón».

Garzón entrò nel mio ufficio tranquillo e serafico come se tornasse da un picnic, ma immediatamente lo vide. Gli occhi gli si allargarono e brillarono di una luce piena di entusiasmo. Non ebbi il minimo dubbio: il mio vice era contento di riprendere in mano quella storia.

«Quando è arrivato?» domandò.

«Con la posta di stamattina».

Non si concesse nemmeno una domanda in più.

«Lo apra», disse, assorto come un giocatore di scacchi.

«Fermín, non crede che sarebbe più indicato portarlo al laboratorio e farlo aprire lì?»

«E se contiene solo ritagli di giornale? No, non se ne parla, è arrivato a suo nome, lo apra».

L'impazienza e la divorante curiosità lo spinsero a impugnare il comando che il panico mi sottraeva. Mi tremavano le mani mentre strappavo le strisce di nastro adesivo. La mia immaginazione galoppava fino all'assurdo: un fegato, un dito, magari una trachea sanguinolenta? Tolsi la carta. La scatoletta aveva esattamente la stessa forma, lo stesso colore. Rimasi per un momento in sospeso e vidi il viceispettore, fuori di sé, che precedendomi toglieva il coperchio.

«Dio santo!» mormorò.

Io non avevo parole. Non era un esofago né un naso né una milza, era, rattrappito e triste, un pene molto simile al precedente.

«Dio santo!» ripeté il mio collega.

Trascorse un intero minuto prima che riuscissimo a staccare lo sguardo dall'oggetto della nostra attenzione. Finalmente il viceispettore partì sgommando a tutta velocità.

«Gliel'avevo detto, ispettore, gliel'avevo detto, non poteva finire qui!»

«Non riesco a immaginare cosa stia succedendo».

«Questo è il lavoro di un serial killer, di uno psicopatico, di una bestia immonda, di un degenerato. Ero sicuro che il caso era soltanto cominciato, Petra, e noi qui a fare gli impiegatucci e a occuparci di cazzate. Adesso basta, bisogna fare in fretta! Io mi incarico dei preliminari col magistrato e il commissario, lei va subito a informarsi se è stato trovato qualche morto o se c'è qualche denuncia di scomparsa».

Uscì sparato dal mio ufficio portandosi via il sinistro pacchettino. Comandava lui, perché io ormai ero praticamente una zombie. Cosa me ne importava! Devo riconoscere che mi ero spaventata, che il coinvolgimento personale mi frenava e mi riempiva di dubbi, perché non solo stavano comparendo incomprensibili peni tagliati, ma qualcuno li stava mandando proprio a me. Perché?

Alle sette di quello stesso giorno, sbrigate le formalità iniziali, Garzón ed io ci trovammo all'Istituto di Anatomia. Lui era riuscito a convincere il dottor Montalbán a mettere da parte tutto il resto e a far subito l'autopsia del nostro pene. Aveva mosso mari e monti, il viceispettore. Perfino Coronas, persuaso dalla sua insistenza e concitazione, aveva acconsentito a rilevarci da ogni altro incarico. Da parte sua, il magistrato continuava a insistere: confidenzialità e discrezione, non potevamo permetterci un solo titolo sui giornali, che avrebbe scatenato un putiferio, né una «breve» di cronaca, per non parlare della televisione. Restava ancora da vedere fino a che punto saremmo stati capaci di controllare l'incombente alluvione di curiosità morbosa.

Montalbán era più serio della prima volta. Si rendeva conto dell'importanza che quella faccenda poteva assumere. Era consapevole inoltre del fatto che, in un'oscurità così fitta, il suo referto assumeva particolare rilevanza. In effetti, le mie prime ricerche sui morti e gli scomparsi avevano avuto esito negativo. Era stata denunciata l'assenza di un paio di donne, automaticamente escluse, e di un vecchio squilibrato che si pensava non avrebbe tardato a ricomparire. Morti: una ragazza di overdose e nessun altro. Per questo il medico legale si concentrò come se, invece di tagliuzzare un pene senza vita, stesse eseguendo un trapianto della valvola mitrale. Io, più tranquilla, assistevo all'intervento senza sperare troppo in nuove rivelazioni.

«Come l'altra volta», disse dopo il primo esame oculare. «Questo è il pene di un uomo giovane conservato sotto formalina. Confezionato sottovuoto esattamente con lo stesso procedimento dell'altro». Esaminò l'incisione all'estremità e decretò: «Anche questo asportato con metodi chirurgici, mediante un bisturi».

«Non vede nessuna differenza?»

«Sì, quelle morfologiche proprie di un altro individuo. Le vedrete anche voi, vado a prendere l'altro pene amputato, l'abbiamo ancora qui». In una delle vetrine della sala vi erano dei preparati sotto formalina in recipienti tutti più o meno simili. Lui prese il pene e ce lo portò. «Vedete? Il precedente è un po' più lungo, questo ha un diametro maggiore... ma, in sostanza, se guardate la linea del taglio voi stessi potete vedere che è stata fatta esattamente allo stesso modo. Non ci sono differenze sostanziali. Adesso vediamo se...»

All'improvviso qualcosa richiamò la sua attenzione. Si chinò sul piccolo reperto. «E questo? Cos'è?»

Il viceispettore saltò su come un ragazzo impaziente.

«Cosa c'è, dottor Montalbán?»

Ma il medico non lo sentiva nemmeno. Insisté:

«Ha trovato qualcosa di interessante?

Dovetti dargli una gomitata perché la smettesse di assillarlo.

«Credo che... be', senza alcun dubbio questo è un punto di sutura. Guardate».

Sollevò con le pinze l'estremità inferiore del membro. Vi si vedeva un minuscolo punto di filo trasparente che cominciava e finiva lì.

«Sì, è un punto di catgut».

«Cos'è il catgut?» domandò Garzón.

«Un filo chirurgico diverso da quello di seta, più moderno. I punti si riassorbono, non è necessario toglierli. Si usa in ogni genere di operazioni».

Capii che il mio collega stava per fare un'altra domanda e lo pregai di tacere con un dito sulle labbra. Era da tempo che non lo vedevo così esaltato e così rompiscatole. Ma non era il momento per gli interrogatori, il dottore era ancora tutto preso dal suo lavoro, accigliato e con un'espressione per niente soddisfatta.

«Quel che non capisco è... insomma, non capisco come mai un punto dato proprio qui; voglio dire, è un punto isolato e lì dove si trova non serve a niente, è del tutto inutile. Non riesco a immaginare il motivo per cui l'abbiano fatto: non sutura, non unisce niente, non chiude nessuna incisione, nessuna piccola lacerazione... Diciamo che la sua presenza non ha alcuna ragione medica». Alzò gli occhi e la sua vista ci mise un attimo ad adattarsi alla distanza normale. Pareva incuriosito quanto noi. «Lei cosa ne pensa, ispettore?»

«Non lo so, dottore, non lo so. Mi dica, per il catgut vale lo stesso discorso che per la formalina o i bisturi? Si può comprare facilmente?»

«Ma... scarti le farmacie, senz'altro, ma come materiale chirurgico... Anche se, a dir la verità, credo che sarebbe un po' più complicato... a meno che... Non lo so, ispettore, questo è un bel problema! Pensare che qualcuno si faccia un corredo completo di materiale medico, che pratichi un'incisione perfetta, che dia un punto di sutura e tagli i capi del filo esattamente secondo le regole, io credo che forse...»

«Forse queste coincidenze tutte insieme possono far pensare che non si tratti di un caso e che ci sia di mezzo un medico, non è vero?»

«Un medico è dire troppo, ve l'ho già accennato la volta scorsa. Io allargherei il campo e vi includerei chiunque abbia rapporti con la professione: infermieri, studenti, assistenti di sala operatoria... e anche medici, sì».

L'orgoglio corporativo lo spingeva ad accampare una serie di riserve, ma aveva ragione, non potevamo fissarci su una congettura viziata fin dal principio. Intervenne Garzón.

«Mi dica, se non ci sono ragioni mediche per la presenza di questo punto, perché avrebbero dovuto darlo, secondo lei?»

«Non saprei, Garzón, forse si è trattato di una prova, forse...»

«Di una disattenzione?»

«No, per niente. Noi medici possiamo essere disattenti, e senza dubbio anche voi avrete sentito raccontare storie di bende o forbici dimenticate dai chirurghi nel corpo di un paziente, ma questa non è la norma. E poi, in questo caso l'ipotesi è assurda, se il punto è stato dato lì è perché lì lo si voleva dare, non chiedetemi la ragione. Quanto all'esecuzione... è perfetta, niente da dire».

Ci guardammo tutti e tre con aria costernata. Erano tutti lì i passi avanti compiuti con quell'autopsia? Era presto per dire se circoscrivendo le indagini all'ambiente medico avremmo avuto risultati significativi, però un progresso l'avevamo fatto.

«Lei come si muoverebbe, dottore? C'è un modo per sapere se queste evirazioni siano state praticate in un ospedale?»

«Non ne ho idea. Posso solo dirvi che a Barcellona ci sono molti ospedali, una gran quantità di specialisti, un esercito di chirurghi, una legione di infermieri... Se avete già avvertito i reparti di andrologia e di pronto soccorso suppongo che rimangano poche vie ancora aperte».

«Daremo un'occhiata in giro, parleremo con i primari, con i caposala di chirurgia, con chi si occupa di far seppellire i resti amputati... Qualcosa verrà pur fuori».

Montalbán mi guardò con comprensione.

«Non vi invidio, cari miei; è come entrare in un bosco di notte con l'unica guida di un fiammifero».

Ma mentiva. Aveva tutta l'aria di essere così incuriosito che ci avrebbe volentieri accompagnati in quella spedizione, invece di rimanersene fra i suoi barattoli di marmellata cadaverica. Infatti, quando uscimmo ci pregò di comunicargli qualunque sospetto o novità.

Garzón era assorto come un mistico. Non mi guardava né si accorgeva di niente. A un tratto disse quel che pensava.

«Capirei se uno psicopatico tenesse un corpo in formalina e ce ne mandasse un pezzetto ogni tanto, ma che ci arrivi un altro pene non ha proprio nessuna logica».

«La mente gioca dei brutti tiri. Lei aveva quell'idea in testa e il nuovo pacchetto gliel'ha mandata all'aria. Ma questo significa soltanto che la sua idea era sbagliata».

«No, ispettore, questo innalza il grado di complessità, quindi è molto meno probabile. Si rende conto di quanto sia difficile uccidere due uomini senza che saltino fuori i corpi e senza che nessuno denunci la loro scomparsa? E se questi uomini mutilati sono ancora vivi, mi può spiegare perché non si fanno sentire?»

«Ci deve essere qualcosa di infamante nella loro evirazione, forse una punizione, una minaccia, un regolamento di conti. Se parlano, li ammazzano; questo spiegherebbe il loro silenzio».

«Una castrazione chirurgica come vendetta non mi sembra tanto normale. Quanto alla punizione... è già più verosimile. Sembra qualcosa di stampo mafioso».

«Ma la mafia agisce in Spagna?»

«La mafia italiana, no; ma qualche trust di droga...»

«In questo caso, perché li manderebbero a me i loro trofei?»

«Forse nel tentativo di sottolineare la punizione, di renderla più umiliante. Magari vogliono fare in modo che i castratori tengano la bocca chiusa».

«E dove lo trovano un medico per fare queste schifezze?»

«Ha sentito cos'ha detto il dottore, non è necessario che sia precisamente un medico; e poi, se è vero quel che stiamo dicendo, entreremmo in un'altra dimensione. Quella gente dispone di mezzi, soldi, contatti internazionali; trovare un infermiere non sarebbe un problema».

«Troppo sofisticato».

«Non creda. È l'unico modo per non farli morire dissanguati, per non farceli trovare mezzi morti da qualche parte. Li sequestrano, o li raggirano se sono dell'organizzazione, e dopo averli narcotizzati, li sottopongono all'operazione. Quando si svegliano e sono fuori pericolo, li lasciano andare».

Tutti i miei neuroni entrarono in stato d'allarme. Sì, perché no? Era un'ipotesi più che accettabile.

«Suona bene, viceispettore, è plausibile. Si metta in contatto con la Squadra Narcotici e si faccia raccontare come stanno le cose nel loro settore: movimenti degli ultimi mesi, gruppi attivi a Barcellona, rivalità conclamate, qualche soffiata che abbiano ricevuto... Non dimentichi di chiedere la massima discrezione».

«Dovrò pur raccontare l'indispensabile».

«Glielo racconti, ma che non esca di lì».

«Molto bene, ispettore, non c'è problema. La faccenda comincia a farsi interessante. Se lo immagina se, per una volta, avessimo in mano un grosso caso? Il fatto è che quelli della Narcotici vorrebbero metterci il naso».

L'orgoglio professionale maschile mi ha sempre riempita di curiosità. Gli uomini danno un'importanza esagerata ai livelli gerarchici, non tollerano di scendere di un solo gradino. Era anche vero che il viceispettore aveva bisogno di qualche soddisfazione personale. Dalla traumatica morte di Valentina, la sua fidanzata, non si era più ripreso. Appariva tranquillo e rilassato, questo sì, ma senza nessun entusiasmo. Io cercavo di farlo parlare delle sue cose e di incoraggiarlo, ma inutilmente: la sua vita privata languiva sotto i minimi storici. Conduceva un ordinato trantran, a volte andava al cinema, aveva un paio di amici... Aveva ripreso i contatti con Pepe, il mio secondo ex marito, e passava molte delle ore libere al banco del suo bar. Pepe si era risposato, ma sua moglie era un'odiosa giornalista rampante che non aveva troppo tempo da dedicargli. Se non altro era stato abbastanza lungimirante da rendersi conto che non gli conveniva abbandonare il suo lavoro né allontanarsi dall'ambiente dell'Efemérides, il suo curioso locale. Era da tanto che non ci vedevamo, benché Garzón cercasse sempre di trascinarmi a bere un bicchiere con lui, cosa che non avevo mai fatto. Senza saperne bene la ragione cercavo di sottrarmi al passato. Mescolata ai ricordi vi era la mia immagine precedente, e non mi piaceva confrontarmici, nemmeno con il distacco che il tempo porta con sé. Adesso ero una donna serena e misurata, dotata di uno scetticismo feroce che mi serviva da protezione e da faro esistenziale. In ogni caso, ero contenta che Garzón si sentisse stimolato da quel gran movimento di peni. Era di questo che aveva bisogno per ritrovare la sua autostima, un bell'incarico importante, smascherare una banda di narcotrafficanti, dare la caccia a un assassino sanguinario? A dire il vero non era molto: c'è chi ha bisogno di un amore appassionato, di avere un corpo perfetto o di muovere miliardi a Wall Street.

Passai il pomeriggio incontrando tre direttori sanitari che avevamo già visto un mese prima. Mi mostrarono tutto quel che volevo e con la loro insistenza finirono per convincermi che era virtualmente impossibile che qualcuno del personale ospedaliero avesse utilizzato una sala operatoria per i suoi scopi. Visitai anche l'inceneritore dei rifiuti organici di ciascun ospedale, ed ebbi modo di constatare con quanto ordine, prontezza e accuratezza nella registrazione venivano svolte le operazioni di routine. Chiesi di essere presentata ai primari dei reparti di andrologia e urologia, le specialità più vicine alle parti anatomiche in nostro possesso. Nessuno di loro manifestò il minimo dubbio sull'equilibrio e la normalità delle persone che lavoravano sotto di loro. Anche se quella visita risultò fin dall'inizio infruttuosa, non potevo esimermi dal ripeterla in tutti gli ospedali della mia lista. Ma non tutti nello stesso giorno, pensai, decidendo di concedermi un po' di respiro, e mi diressi verso casa prima del solito. Sognavo un po' di lettura, un dito di brandy, un pasto leggero e il completo affondare del mio corpo e del mio spirito fra le molle del divano.

Infilai l'ultima curva prima di arrivare a casa, contenta dell'indulgenza che mi ero concessa, cosa che non sono solita fare. Ma la gioia e i sogni di pace sfumarono non appena avvistai una macchina ben nota proprio davanti alla porta. Erano loro? Non Io erano? Il cuore prese a battermi forte, ma non per molto, perché all'improvviso mi si fermò quasi del tutto nel vedere la mia domestica Julieta in compagnia di Marqués e Palafolls. Chiacchieravano, cianciavano e ridevano, si divertivano, nella miglior tradizione ottocentesca della schermaglia fra soldatini e servette. Lei teneva la porta spalancata e si metteva in mostra sulla soglia. Loro, fuori, si appoggiavano alternativamente su un piede e sull'altro mangiandosela con gli occhi. Non si accorsero nemmeno del mio arrivo e solo lo sbattere della portiera, quando scesi dalla macchina, li riscosse dalla loro contemplazione.

«Signora Delicado!» esclamò Julieta, che era l'unica voltata verso di me. Allora i due ragazzi si girarono e scattarono sull'attenti come alla parata della Hispanidad.

«Agli ordini, ispettore!» abbaiarono all'unisono. Io ero di un umore pessimo.

«Ciao, Julieta. E voi, cosa diavolo ci fate qui?»

«Siamo appena arrivati, ispettore. Stavamo facendo qualche domanda sulla sicurezza della casa, non si sa mai...»

«Salite in macchina e andatevene».

«Vede, ispettore, il commissario Coronas ci ha ordinato di...»

«Me ne frego dei suoi ordini! Adesso fate quello che vi ordino io».

La ferocia del mio tono e quell'impensabile insubordinazione nei confronti del commissario tolsero loro ogni velleità di rispondere.

«Agli ordini!» ragliarono in un attacco di follia militaresca.

Scapparono. Io cercai di calmarmi un minimo e affrontai la faccia terrorizzata di Julieta, che non mi aveva mai vista nell'esercizio delle mie funzioni.

«Gesù!» mormorò e, non volendo mettersi nei guai, corse in cucina a tutta velocità. In tre passi mi piantai davanti al telefono e feci il numero. Non ci mise molto a rispondere.

«Commissario Coronas? Sono Petra Delicado».

«Buongiorno, Petra, come sta?

«Incazzata nera, come vuole che stia. Può spiegarmi perché mi ha messo di nuovo la scorta notturna?»

«Sapevo che si sarebbe arrabbiata, ma non ho potuto fare altrimenti. Lei ha ricevuto un altro pacchetto, e sa bene cosa dice il regolamento sulla sicurezza degli agenti».

«Il regolamento, Coronas, il regolamento? Vuole che le spieghi con cosa ci puliamo il culo tutti i giorni?»

«Non c'è bisogno di essere volgari».

«Lo sa cos'è uno sciopero bianco, commissario? Vuole davvero costringermi, per una cazzata del genere, a passare i prossimi mesi applicando il regolamento alla lettera?»

«Va bene, Petra, va bene, lei è testarda come un mulo. Le toglierò la scorta se vuole, ma dovrò informare i miei superiori, perché non voglio avere nessuna responsabilità su di lei».

«D'accordo, la ringrazio».

«E adesso mi chieda scusa per il tono che ha usato».

«Mi scusi, commissario, ero un po' nervosa».

«Meno male che lo era solo un po'! La smetta di rompermi le scatole, farò dire ai ragazzi che possono andare a casa».

Cazzo. Se avesse saputo che i ragazzi erano già a chilometri di distanza... Tirai un sospiro di stanchezza e di sollievo. Allora sentii bussare timidamente alla porta del soggiorno. Era Julieta, che metteva la testa dentro.

«Signora Delicado? Io ho finito. Le ho lasciato la cena nel microonde: un fagottino di spinaci e un'insalata di soia».

«E tu perché continui a darmi da mangiare erbaggi? Non puoi comprare una bella bistecca?»

«Sì, signora, sì, sì, domani lo faccio, non si preoccupi».

Era terrorizzata. Magari temeva che tirassi fuori l'arma d'ordinanza e le sparassi. Da quanto tempo durava la  comunella con i miei guardiani? Era tutto così ridicolo. Ridicola la decisione di Coronas, ridicolo il caso che si prospettava, ridicola la mia esplosione di collera. Non sarebbe stato facile rimettermi da quell'incazzatura. Ci provai somministrandomi un whisky terapeutico.

I giorni seguenti si svolsero fra accertamenti che finirono per diventare una routine. Malgrado l'aiuto prestatoci dai colleghi della Narcotici non si intravedevano schiarite. Il procedimento di tagliare un pene e mandarlo alla polizia non sembrava caratteristico della gente con cui avevano a che fare. Come vendetta era improbabile, e come regolamento di conti appariva cervellotico e senza precedenti, troppo sofisticato. Quando spacciatori o trafficanti decidevano di dare una lezione, non mettevano certo di mezzo la polizia né ricorrevano a chirurghi per fare il lavoro sporco. Quanto alle bande rivali... per violento che fosse lo scontro, mai avrebbero inviato delle prove alle forze dell'ordine. E nemmeno quadrava quel giochetto misterioso dei pacchettini spediti in serie rimanendo acquattati nell'ombra. No, quelli non erano tipi da Delikatessen del delitto e avrebbero sempre avuto una propensione per la bassa macelleria. Comunque, passammo tutte le ore libere con i colleghi della Narcotici, assistendoli nelle verifiche di schedario, nell'esame delle foto segnaletiche e degli ultimi arresti. Senza alcun risultato. Scendemmo perfino in strada per interrogare dei ragazzi che potevano essere sospetti. Mi resi conto che alla Narcotici stavano facendo l'impossibile per venirci incontro e darci una mano, ma che svolgevano le indagini senza convinzione. Gliene fui grata e li invidiai, almeno loro avevano un campo d'azione ben delimitato, un terreno solido, reale su cui poggiare i piedi. Cercavano droga e avevano a che fare con individui che agivano con un movente economico. Noi non godevamo di simili vantaggi. Di fatto, potevamo trovarci fra le mani qualunque cosa, da un pazzo omicida a un'organizzazione dagli scopi sinistri.

Parallelamente a queste indagini, Garzón ed io procedevamo, un po' a singhiozzo, con gli interrogatori in ospedale. Ci eravamo già fatti degli amici nell'ambiente medico. Tanto che il mio vice, dotato di una faccia tosta considerevole, si era fatto visitare di straforo da uno specialista per curarsi il mal di schiena. Ma dal punto di vista poliziesco non ne veniva fuori un bel niente. Come poteva essere altrimenti? Parlavamo con chirurghi che escludevano qualunque possibilità di errore o di insubordinazione, con infermiere che davano assoluta conferma dell'ordine imperante nei reparti a loro carico, con sorveglianti che sostenevano di aver sempre fatto il loro dovere. E sembrava logico, oltretutto: qual è il medico svitato che si infila di nascosto in sala operatoria per eseguire un'evirazione? E chi avrebbe convinto a far da palo? E cosa ne avrebbe fatto del «paziente» una volta portata a termine l'ablazione? Ma soprattutto, perché? I medici non se ne vanno in giro a tagliare cazzi e a mandarli alla gente come se fossero inviti per il tè.

Ormai stava diventando un'abitudine, i preliminari dei casi difficili mi mettevano di pessimo umore. Sapevo, ne avevo sempre la chiara consapevolezza, che erano passi tanto imprescindibili quanto inutili, ma mai mi parvero inutili come quella volta. Col nostro caravanserraglio di medici e drogati non riuscivamo a far altro che a divagare, giacché entrambe le linee investigative si basavano su ipotesi non dimostrate. Il mio malumore non esplose più sotto forma di accessi d'ira, ma parlavo poco e nemmeno ascoltavo i discorsi di Garzón, quando facevamo una pausa per prenderci un caffè. Lui se ne accorgeva e, saggiamente, mi lasciava in pace. Per questo, dopo una lunga via crucis sempre uguale, entrò una mattina nel mio ufficio con una faccia contentissima per dire:

«Ispettore, mi hanno appena comunicato una cosa che le interesserà. Ieri sera è stata denunciata la scomparsa di un ragazzo. Che gliene pare?»

Mi guardava come se mi avesse appena regalato un mazzo di fiori.

«Per Dio, Garzón, se la sentono...! Mi dica dove e chi ha sporto denuncia». Balzai immediatamente in piedi e cercai con impazienza la giacca.

«Lo vede? Sapevo che aveva solo bisogno di entrare in azione», disse lui.

«Io pensavo che quel bisogno ce l'avesse lei».

«Per me, più che di un bisogno si tratta di un piacere».