Cotto, il tipo era cotto a puntino. Non voglio dire cotto o fritto nel senso metaforico di innamorato o spacciato, mi riferisco a cotto in senso stretto, come può esserlo un'aragosta buttata in pentola o un pollo al cartoccio. Morto era morto, naturalmente, ma ci sono molti modi per morire, e questo era senz'altro insolito. Aveva le palpebre contratte e la pelle... lasciamo stare, uno spettacolo davvero sgradevole. Era rimasto tutta la notte nella sauna di quella palestra col termostato al massimo. La porta chiusa da fuori, la chiave infilata nella serratura. Un incidente? Qualcuno l'aveva chiuso dentro senza accorgersene? Improbabile, tanto meno con quella temperatura insostenibile. Il medico legale disse che il cuore aveva ceduto; meglio per lui. All'inizio la vista del corpo mi impressionò moltissimo, poi... in fondo tutti i morti hanno qualcosa in comune, sia che muoiano di morte violenta, sia che defungano tranquillamente nel loro letto. C'è da dire che quello era brutto all'inverosimile, ma doveva esserlo stato anche da crudo. Sulla trentina, carnagione olivastra, lineamenti grossolani. Si chiamava Pepe Ruiz. Faceva il buttafuori in una discoteca. «Ossia il figlio di puttana» aveva sentenziato il viceispettore Garzón. «Li conosco bene, gente che si crede chissà cosa, galli da combattimento. A quelli gli basta una divisa e una pistola al fianco per sentirsi Gary Cooper, o Superman, magari. Specialisti in risse, soprattutto nel crearle quando non ci sono».
La proprietaria della palestra confermò il ritratto del mio collega. «Un tipo un po' difficile» si limitò a diagnosticare all'inizio, ma poi rincarò la dose. In palestra nessuno ne poteva più di quello lì. Attaccabrighe, presuntuoso, provocatore... Aveva avuto da ridire con altri soci, erano volate parole grosse. Una volta aveva tirato un peso addosso all'istruttore. Aveva il vizio di girellare intorno alle donne che facevano ginnastica, guardandole senza la minima discrezione. Non stava simpatico a nessuno e, per di più, era sempre l'ultimo ad andarsene. Insomma, nessuno avrebbe fatto dire una messa di suffragio per lui; ma di qui a pensare che qualcuno fosse arrivato ad ammazzarlo... La proprietaria non l'aveva allontanato per non creare problemi, ma lo aveva ammonito più di una volta. Non era difficile capire che non avesse tanta voglia di affrontare un energumeno simile. Tutti attribuivano il suo comportamento a rozzezza e carattere instabile, era quasi un borderline. Garzón mi chiese spiegazioni su questo termine. Fu facile da spiegare:
«È una parola inglese che serve per non dire apertamente che uno è mezzo matto».
Gli piacque moltissimo. Che lingua caritatevole, l'inglese! Borderline. Menti che si trovano sulla linea di confine fra la normalità e la demenza. Garzón mi disse che l'avrebbe di sicuro adottata, con tutti i borderline che ci sono a questo mondo...
L'ucciso non era sposato e viveva con la madre vedova. Andammo a trovare la signora a casa sua, un appartamentino proletario disseminato di fiori secchi e centrini. Era una vecchia, ed era ridotta malissimo. Normale. Piangeva come una Maddalena, le avevano ammazzato il suo borderline. Secondo la visione materna il ragazzo non aveva niente che non andasse. Gentile, lavoratore, delicato. Violento? Mai! Solo che per lavoro era costretto a tenere a bada tanta gentaglia. Alla fine tutti capivano che era un pezzo di pane. Non aveva la fidanzata perché si era dedicato anima e corpo alle cure di sua madre. Era il migliore dei figlioli. Cominciavo a essere stufa di vederla piangere. Non è mai un bello spettacolo veder piangere una vecchia, si finisce per provare disgusto. Mi tolsi dai piedi prima che potei. Quella donna mi chiedeva giustizia, come se ce l'avessi in tasca. Al massimo avrei potuto offrirle una sigaretta. Garzón, più buono di me, continuò ad ascoltarla per un bel pezzo.
«Una madre è sempre una madre» mi disse dopo.
«Per fortuna, anche le madri muoiono» gli risposi.
Si scandalizzò, tanto per cambiare. Trovava inconcepibile che io, una donna, mettessi in dubbio certi valori. Gli pareva una contraddizione, o una pura e semplice provocazione, tanto per rompergli le scatole, cosa che, devo ammetterlo, facevo spesso e volentieri.
La prima cosa da prendere in considerazione erano gli elementi materiali. Il luogo. Piccola sauna sita nello spogliatoio maschile, provvista di serratura che poteva essere chiusa sia da dentro che da fuori. È evidente che quando c'era qualcuno dentro, nessuno avrebbe dovuto chiudere da fuori. Di impronte digitali, nemmeno l'ombra. Per le donne c'era una sauna a parte in un altro spogliatoio. L'assassino avrebbe potuto essere uno qualunque dei soci maschi presenti nel-la palestra la sera precedente, con maggiori probabilità per chi se ne era andato più tardi. La donna delle pulizie, che cominciava il suo giro alle dieci, non aveva visto niente. Puliva la sauna una sola volta alla settimana, negli altri giorni non la apriva nemmeno. Non si era accorta del caldo che proveniva da lì dentro? Scarmigliata, ancora giovane, non troppo carina, aveva l'aria di una che ha già i suoi problemi, e non solo di manutenzione. Non era nelle sue abitudini perdere tempo, e nemmeno si permetteva il lusso di essere curiosa. La padrona della palestra mi disse che aveva quattro figli e un marito alcolizzato. Compresi la sua mancanza di partecipazione. La sauna comunicava con l'esterno per mezzo di un finestrino posto all'altezza degli occhi. Chiunque avrebbe potuto affacciarsi per vedere se qualcosa bollisse in pentola, ma nessuno l'aveva fatto. Secondo Garzón, questo rafforzava l'ipotesi che chi aveva commesso il fatto se ne fosse andato all'ora di chiusura. Se Ruiz fosse stato lì dentro da molto tempo, qualcuno avrebbe finito per accorgersene.
«Tenga conto del fattore discrezione» obiettai al mio vice. «Quando uno sa che in un luogo chiuso c'è della gente nuda, può essere imbarazzante mettersi a guardare».
Garzón ci pensò su.
«E poi» aggiunsi, «mi pare che per i signori uomini fare una cosa simile comporti il rischio di essere considerati un po' finocchi, come se si andasse in cerca di qualcosa».
«Non mi era venuto in mente, ma anche se fosse come dice lei, qualcuno avrebbe potuto aver bisogno della sauna, o stupirsi del fatto che rimanesse accesa tanto a lungo. Impossibile che nessuno si sia accorto di niente».
Era abbastanza chiaro come potevano essere andate le cose: la vittima era entrata in sauna di propria iniziativa, lasciando la chiave inserita nella serratura. Una volta dentro, si era addormentata. Poi qualcuno aveva scoperto l'angioletto, aveva dato un giro alla chiave, aveva alzato la temperatura al massimo, e se ne era andato. Perché il borderline non aveva gridato o non aveva cercato di uscire? Forse per pura stupidità, anche se era più plausibile supporre che fosse svenuto per il caldo, e che fosse passato dal sonno alla morte nella più tranquilla inconsapevolezza.
A quel punto era altrettanto chiaro quel che dovevamo fare. Ordinai a Garzón di verificare chi si fosse trovato nella palestra a partire dalle sei. Compito facilissimo, visto che un apparecchio elettronico rilevava il numero di tessera di ogni socio sia all'ingresso che all'uscita. E poi c'era la signorina della reception, che smontava alle dieci, una ragazza molto carina che non la finiva più di piangere. La cosa mi stupì tanto che le chiesi come mai.
«Non mi piace che la gente muoia» fu la sua risposta. Mi commosse, con i suoi occhioni azzurri, quell'aria così giovane... È facile provare pietà per i belli. Questo dimostra che la vecchiaia e la bruttezza non smuovono il cuore, e che sbaglia chi si illude che delle miserie umane gliene importi davvero a qualcuno. Ebbene, la testimonianza della sconsolata receptionist coincideva con il tabulato della macchina: undici soci di sesso maschile erano entrati in palestra a partire dalle sei. Sette di loro se ne erano andati un'ora dopo, al termine della lezione di corpo libero. Quattro, quindi, erano rimasti fino a tardi. Uno era uscito alle otto, un altro alle otto e mezzo, e gli ultimi due se ne erano andati quasi insieme, alle nove meno un quarto.
Scartammo, tanto per cominciare, il manipolo della lezione di ginnastica. Alle sette di sera era ancora molto presto perché la loro testimonianza sulla sauna potesse essere presa in considerazione. Decidemmo di cominciare interrogando i penultimi due. Quello che era uscito alle otto era un liceale con la faccia spruzzata di lentiggini. Credo che, complessivamente, fece più domande lui di Garzón. Sospettate già di qualcuno? Credete che si tratti di una vendetta personale? Conoscete i poliziotti che hanno arrestato lo stupratore dell'Ensanche? Ma la polizia si serve di internet? Sveglio, il ragazzino, avrebbe dovuto condurle lui le indagini. Solo che, venuto il momento di dire qualcosa di preciso, si tirò indietro. Non ricordava se la sauna fosse in funzione quando era entrato nello spogliatoio, né se ci fosse qualcuno dentro; non aveva neppure visto la vittima, quella sera; insomma, l'unico punto a suo favore era la curiosità. Lo lasciammo andar via senza timori. Sono ancora pochi i baby-killer in Spagna; ci vogliono molti anni di civiltà sofisticata per raggiungere buoni risultati in questo campo.
Il socio delle otto e mezzo era un karateka che si allenava ogni giorno alle macchine per conto suo. Di bassa statura, robusto come un pilastro di chiesa romanica, non si fece pregare quando gli venne chiesto di dare dimostrazione della sua arte. Prima lanciò un pugno in aria a tale velocità da far pensare che non si fosse nemmeno mosso. Poi eseguì qualche passo di danza in stato di assoluta concentrazione, per concludere la piroetta scagliando una gamba al di sopra della spalla. Fummo sul punto di applaudire. Stentava a credere che due poliziotti come noi non conoscessero le arti marziali. Per attenuare il senso di inferiorità gli rispondemmo che disponevamo di armi psicologiche. Parve accontentarsi di questa spiegazione. Quando gli chiedemmo se avesse mai avuto da dire con Pepe Ruiz, sorrise della nostra ignoranza.
«Il karateka deve evitare qualunque manifestazione di violenza o scontro verbale. Se mai perdessimo il controllo, potremmo uccidere qualcuno con un colpo solo». Aveva visto la vittima pavoneggiarsi, gonfiare i bicipiti davanti alle signorine, lanciare sguardi di commiserazione ai ragazzi meno robusti. Poteva anche essere mezzo matto, ma aveva abbastanza sale in zucca da non attaccare briga con chi poteva avere la meglio su di lui. Sì, era verosimile che un appassionato di karate, imbevuto di mistica marziale, non desse troppo retta a quel bullo di quartiere, e non avesse alcun motivo per assassinarlo. Per sistemarlo a dovere, gli sarebbe bastato uno dei suoi fulminei cazzotti orientali.
Determinata l'assenza di movente, sondammo la sua memoria alla ricerca di particolari utili; e fummo fortunati, visto che ricordava di aver notato la sauna in funzione, quando era uscito. Lui stesso aveva avuto l'idea di entrare in sauna, quella sera, ma poi aveva preferito rinunciare. «Rilassa troppo il tono dei muscoli, sapete» disse, guardando Garzón con complicità. Il mio sottoposto gli restituì uno sguardo da vero esperto, come se anche lui avesse passato una vita intera attento alla consistenza della sua massa muscolare.
Bene, se il karateka non aveva ragioni per commettere l'omicidio, non ne aveva nemmeno per mentire, il che ci portava a una conclusione più solida: la porta era stata chiusa a chiave nell'ultima ora e mezzo di apertura al pubblico, fra le otto e mezzo e le dieci. Inoltre, anche se gli ultimi due soci se ne erano andati alle nove meno un quarto, rimanevano fra i possibili sospetti la signora delle pulizie e l'istruttore.
Benissimo, stavamo delimitando il terreno. Decidemmo quindi di interrogare gli ultimi due clienti della palestra. Mi divorava l'ansia di vedere che razza di personaggi ci saremmo trovati davanti. È un'emozione che mi assale spesso, anche quando apro la buca delle lettere ogni mattina. Mi dà una trafittura fugace ma potente, come se l'ignoto potesse riservarmi affascinanti sorprese e trasformare la routine quotidiana in qualcosa di esaltante. Di solito i miei presentimenti non si avverano mai, le persone che interrogo si dimostrano banalissime e noiose, la buca mi offre solo estratti conto e bollette della luce. E così fu anche il giorno successivo. Persone banalissime e noiose? Forse esagero. A pensarci bene non erano neanche tanto male.
Incontrammo per primo Mateo Serrano, dirigente di una multinazionale, uomo dall'aria superimpegnata. Quarantenne elegante, distinto, era riuscito a forza di palestra a conservare un ventre piatto e pettorali sviluppati che gonfiavano la sua giacca italiana in modo assai attraente. Appariva infastidito e restio a parlare. Non credo che fosse rimasto granché impressionato dalla morte di quel poveraccio, gli rincresceva molto di più dover perdere tempo per quell'interrogatorio. Era di quelli che deplorano che un suicida abbia scelto proprio il loro treno per buttarcisi sotto, solo per via del ritardo. Infatti era seccato di essersi iscritto a una palestra che ammetteva soci del livello di Pepe Ruiz. «L'unico vantaggio è la vicinanza al lavoro» si giustificò. Dopo avergli concesso un margine di tempo sufficiente per sciorinare la sua lista di lamentele, partii con le domande. Di lì in poi le lamentele si tinsero di indignazione. Se aveva mai parlato con la vittima? Assurdo! Discussioni? Parole grosse? Mi guardò come se stessi scherzando. A dire il vero era difficile immaginarsi un uomo del genere impegnato in discussioni da portineria. Ogni volta che menzionavamo il morto, la sua espressione, tipica di chi si trova in presenza di un ragno, di un rettile o di una qualunque bestiaccia schifosa, sembrava di-mostrare che diceva la verità. Si sa che non ci si mette a discutere con i ragni, ci si limita a scansarli, o ad allontanarli con un colpo di giornale, nel suo caso il Financial Times. Certo che l'aveva visto spesso, ma non aveva mai avviato con lui il minimo accenno di conversazione, non gli diceva nemmeno «buongiorno». Quando gli domandammo se prima di andarsene avesse notato la sua presenza nella sauna, rispose con un laconico «non ci ho fatto caso».
Prendemmo provvisoriamente per buona la sua dichiarazione, e passammo all'indiziato successivo. Si trattava dell'esatto opposto. Trent'anni, barbuto, aspetto tranquillo, spiritualeggiante, occhi ingenui. Psicologo diurno presso un ospedale. Anteponendo la curiosità al dovere, mi feci spiegare il perché di quella precisazione sul carattere diurno del suo lavoro. Forse l'essere umano ha problemi psichici diversi a seconda che sia notte o che splenda il sole? Sorrise comprensivo. No, «diurno» vuol dire soltanto che le visite sono ambulatoriali. Data la sua giovane età, non aveva ancora l'esperienza necessaria per occuparsi dei ricoverati. Il che non significava che sulla mente umana non la sapesse lunga. Fece un ritratto molto preciso di quella del morto.
«Si notava chiaramente che era un uomo pieno di conflitti, non troppo dotato intellettivamente».
«Un borderline?» lo interruppe Garzón, facendosi bello della nozione appresa.
«Forse sarebbe eccessivo definirlo in questo modo, ma senza dubbio aveva una capacità di raziocinio limitata, così come uno scarso controllo emozionale. Col suo comportamento aggressivo non faceva che attirare l'attenzione sulle sue difficoltà relazionali e affettive. Scommetto che non aveva una fidanzata, vero?»
«Così pare».
«Tipico, sono individui insicuri, ma consapevoli dei loro limiti. Se fosse riuscito a crearsi un legame, presto o tardi la sua partner si sarebbe vergognata di lui. Il timore di essere feriti spinge spesso questi individui ad attaccare per primi. È il loro modo di chiedere aiuto».
«Porca puttana!» esclamò Garzón, forse un po' fuori registro.
«E della psicologia dell'assassino, si è fatto già un'idea?» chiesi.
«No di certo, se voi non mi dite chi è...»
«Gli americani costruiscono i profili psicologici dell'assassino a partire dalle modalità del delitto...»
«È un compito davvero arduo, ispettore. Le assicuro che qui i servizi sanitari non ci chiedono tanto».
Ero sul punto di scusarmi umilmente, quando mi ricordai che quel tizio, psicologo o pompiere che fosse, non era lì in qualità di esperto, ma di indiziato. Cambiai tono e passai a verificare quali possibili offese avesse potuto subire da parte di Pepe Ruiz. Non ottenni nulla. La pazienza e la competenza professionale l'avevano sempre tenuto ben lontano da ogni spunto di discussione.
«Che cosa potevo avere contro di lui? Non se l'è mai presa con me, e poi, a parte salutarlo, non gli parlavo mai».
«L'ha visto entrare in sauna quella sera?»
Sarebbe stato troppo bello. No, non l'aveva visto, ma aveva avuto l'impressione che fosse rimasto in sala pesi fin dopo le nove, ad allenarsi. Insomma, se la versione dell'interrogato non era interessata, Ruiz doveva essere andato negli spogliatoi verso le nove e un quarto ed essere entrato in sauna poco dopo, per non uscirne più.
«Crede che menta, lo psicologo?» mi domandò Garzón, non appena se ne fu andato. Non si può negare che uno psicologo sia la persona meglio attrezzata per mentire: conoscenza delle reazioni altrui, controllo delle proprie... Il problema era il movente. Garzón convenne con me che stavamo ricercando motivazioni troppo elementari per la complessità dimostrata dai nostri indiziati. Era impensabile che un manager di alto livello potesse mettersi nei guai per reagire a un insulto o a un ceffone... A meno che non ci fosse un movente sotterraneo. Sulla base di questa premessa si potevano ipotizzare storie piuttosto sinistre: che il manager coprisse una tresca omosessuale con la vittima, che lo psicologo l'avesse avuto come paziente e volesse nascondere qualche episodio vergognoso...
«Indaghi sulla vita di quei due, viceispettore».
Mentre verificavamo se ci fossero altarini da scoprire, non dovevamo perdere di vista i moventi più rudimentali: il vaffanculo e la sberla. Fra i pochi indiziati a disposizione, il principe della scazzottatura era senz'altro l'istruttore. Lui sì che aveva avuto pubblici scontri con Ruiz, l'aveva ripreso per il suo atteggiamento, l'aveva zittito più volte e, nel battibecco sovrano di cui ci era stato riferito, era stato oggetto dell'aggressione più violenta che la vittima si fosse mai permessa: il lancio di un manubrio da tre chili. Il culturista non nascose il suo malanimo nei confronti del defunto.
«Ne avevo piene le tasche di lui» dichiarò. «Oltre al fatto che cercava sempre la zuffa, che dava fastidio alla gente, che faceva di tutto per mettersi in mostra, c'erano sere che mi toccava uscire alle nove e mezzo per colpa sua».
«E come mai?»
«All'ultima ora si allenano le ragazze di una squadra di hockey. Allenamento complementare. Lui era sempre lì a dar fastidio, faceva il galletto, le spogliava con gli occhi. Qualcuna si è perfino lamentata perché l'aveva sorpreso a ficcare il naso negli spogliatoi. Quando vedevo che faceva il cretino, mi toccava rimanere lì finché non se ne andavano loro».
«Le ragazze non c'erano la sera del crimine?»
«Certo che c'erano».
«E perché, allora, lei non è rimasto?»
«Senta, nessuno mi ha mai chiesto di proteggerle, se rimanevo lo facevo per un mio senso di responsabilità, e mica sempre. Quella sera c'era una partita di calcio alla tele, lei capisce...»
Capivo.
«Quindi le ultime ad andar via sono state le ragazze».
«Sì, e quel bastardo, che però non è più uscito».
Garzón, lo ricondusse all'ordine. «Si ricordi che stiamo parlando di un morto».
«È vero, un bastardo morto non è nemmeno più un bastardo».
Vero, anche se brutale. Mister muscolo non andava tanto per il sottile. Tanto che con la sua testimonianza non faceva che disegnare vistose frecce che lo indicavano come colpevole. Seguite la linea tratteggiata, scoprirete l'assassino. Eppure il movente era un po' troppo schematico, secondo la mia opinione, e anche secondo quella di Garzón. Tanto più che se lo scopo era solo quello di dare una lezione a un cretino, un pugno di quel tizio sarebbe bastato a sistemare per le feste anche il gigante Golia. No, quella montagna di muscoli non aveva nessun bisogno di uccidere. E il sistema della sauna non si addiceva alla sua personalità, la cottura a fuoco lento, i visceri al dente, il progressivo scoppiettio della carne arrostita.
Rimaneva la donna delle pulizie, così sprovveduta, così intimorita, così distratta. Quando si presentò per l'interrogatorio, non la finiva più di appellarsi a Dio.
«Ah, Dio mio! Che cosa orribile! Un morto! Ah, Dio mio!»
Ma Dio non sembrava averla tenuta in gran conto al momento di fare le parti di felicità fra i mortali. Malgrado la giovane età, era sposata da una decina d'anni e aveva quattro figli. Suo marito era un muratore disoccupato che, tanto per completare il quadro degno di un romanzo di Zola, alzava troppo il gomito. Non lo trovava mai a casa quando rientrava a notte fonda, dopo aver pulito la palestra e un bar. Ci sono molte storie così nel mondo, lo so; eppure, quando la lista delle sventure si fa smisurata, certe cose mi sanno sempre di finzione. Mi ricordano i romanzi d'appendice. Vorrei poter credere che questa mia tendenza si debba a puro senso estetico, più che a volgare cinismo. In ogni caso, interruppi l'alluvione delle sue tribolazioni ottenendo uno sguardo di rimprovero di Garzón, e la invitai a concentrarsi sul caso dell'uomo andato arrosto. Non so se ci riuscii, perché fra una risposta e l'altra continuò a nominare il nome di Dio invano e a piangere calde lacrime. Ma almeno riuscì a dirci che ricordava di aver visto la sauna in funzione quando aveva pulito gli spogliatoi maschili. Non se ne era stupita più di tanto, dato che qualche sera veniva lasciata accesa perché fosse già pronta per il mattino dopo. Non aveva notato se dentro ci fosse qualcuno. Ma aveva passato uno straccio imbevuto di cera sulla porta, cancellando, come già avevamo rilevato, ogni impronta digitale. La chiave nella serratura? Sì, era lì. Quando aveva lasciato il lavoro, verso la mezzanotte, era convinta che non ci fosse più nessuno in palestra, quindi aveva spento le luci e aveva chiuso come al solito. E la tuta verde fluorescente appesa a un gancio? Non ci aveva fatto caso. La gente ha il vizio di lasciare sempre la sua roba in giro. Se dopo qualche giorno nessuno viene a riprendersela, finisce in un baule degli oggetti smarriti in attesa che il legittimo proprietario la reclami. La padrona ce ne diede conferma. Ci aprì un baule pieno zeppo delle cianfrusaglie più disparate e si diffuse sui tipici aneddoti di scarpe, protesi dentarie, lozioni per capelli e bambini in fasce che sembrano non essere mai appartenuti a nessuno.
Comunque, mentre quella brava donna rassettava i locali, non lontano da lei, dalle sue mani, dal suo respiro, il galletto aveva cominciato a rosolare. Qualche ora più tardi il suo aspetto non sarebbe stato diverso da quello di una pernice farcita, di un fagiano in salmì, di una beccaccia allo spiedo. «Uccel che vola, in casseruola», dice un crudele proverbio spagnolo. Nella vita capita più o meno lo stesso: come ti spuntano le ali c'è sempre qualcuno col fucile spianato pronto a buttarti giù. In che direzione aveva cercato di volare Pepe Ruiz? Quale errore aveva commesso? La differenza fra lui e altri pollastri era che, dalla sua morte, nemmeno un povero bracconiere aveva tratto vantaggio.
Qualche giorno dopo, con le indagini ancora in alto mare, Garzón se ne arrivò in commissariato con una cartellina di cuoio sotto il braccio. Fece scorrere la zip con gesto teatrale e mi squadernò sul tavolo due fogli dattiloscritti.
«Ecco tutto quel che sono riuscito a mettere insieme su quei due».
Si riferiva allo psicologo e al manager. Mi immersi nella lettura. A prima vista, la vita del manager sembrava limpida come acqua di fonte. Era scapolo. Abitava in un appartamento dell'Ensanche dove riceveva di tanto in tanto le visite di qualche fidanzata. Forse si celava in lui una belva sanguinaria, ma fino a quel momento nulla sembrava indicarlo. C'era da aspettarselo, sarebbe apparso molto più interessante se avesse avuto una doppia vita. Quanto allo psicologo, conviveva con una ricercatrice universitaria. L'unica attività che macchiava la sua vita integerrima consisteva nella sporadica frequentazione di un bingo, cosa che poteva essere considerata piuttosto grave, dato il tipo. Debiti di gioco con il morto? Per carità! Avventurarsi su una pista simile sarebbe stato pura fantascienza poliziesca. No, era impensabile. Per il momento avevamo una sola ragione per sospettare di due personaggi del genere: erano stati gli ultimi a lasciare gli spogliatoi maschili. Poteva essere una ragione sufficiente? Per nulla, tanto più che non erano stati materialmente gli ultimi a uscire dalla palestra. I tabulati concedevano questo privilegio alle ragazze della squadra di hockey.
«Ma alle donne è proibito entrare negli spogliatoi degli uomini» argomentò con ingenuità Garzón.
Potevamo forse limitare le nostre indagini basandoci su una proibizione tanto convenzionale? Pare che anche uccidere sia proibito. Che cos'eravamo, poliziotti svizzeri, bobbies che tirano giù dall'albero il gatto della vecchietta, boy scout?
Riaprimmo il dossier, effettuammo le opportune verifiche. Sì, la sera del crimine la squadra femminile era rimasta in palestra fin quasi alle dieci. Il movente? Quello che avevamo sempre considerato fin dall'inizio: rabbia nei confronti di Ruiz. E quella rabbia poteva essersi scatenata per un motivo assai di moda nel mondo moderno: la molestia sessuale.
«Ma come si può molestare tutta una squadra?» protestò, armato di logica, il povero Garzón. Eppure non era così impensabile, poteva essersi trattato di provocazioni, di esibizionismo, di intimidazioni... Niente che potesse condurre a un vero e proprio rapporto sessuale. Un giorno una ragazza, il giorno dopo un'altra, sguardi furtivi... frasi oscene... Forse non sarebbe bastato a giustificare un assassinio, ma è forse lecito riconoscere che esistono fondati motivi per uccidere?
Garzón continuò a fare da Grillo Parlante:
«Si uccide in un momento di follia, ma un gruppo intero non può impazzire tutto insieme».
Non mi parve un'obiezione ragionevole: sono tanti gli elementi che possono trascinare un gruppo: l'esaltazione, la furia, la suggestione... Il mio collega non voleva saperne, l'ipotesi si scontrava con la sua concezione idealizzata della femminilità.
«Delle ragazze così giovani, così fragili, prendersela con un tipo così difficile, e poi un omicidio è una cosa brutale... non so».
Lo interruppi: «Ma lei c'è mai stato in uno spogliatoio femminile?»
«Mai» fu costretto a rispondere.
«Be', è uno spettacolo che merita, glielo assicuro. Donne che girano nude senza nessun pudore, commenti di una crudezza inverosimile, per lo più sugli uomini... perfino le signore più borghesi trovano da dire la loro. Mutande e reggiseni appesi in bella vista, gente che chiede i tampax in prestito... Ma le più disinibite sono le ragazze degli ambienti sportivi, carne da palestra fin da piccolissime. Concentrazioni di squadra, canti goliardici sui pullman, franchezza sessuale, sghignazzate e giochi pesanti, battaglie dei cuscini negli alberghi... Non sto dicendo che questo basti a fare di loro delle assassine, però è possibile che siano entrate negli spogliatoi maschili con l'intenzione di mettere un bel-lo spavento al borderline. Poi la faccenda avrà preso una piega diversa».
Garzón annuiva assorto. Pensai di averlo moderatamente convinto, anche se non era facile infrangere il suo grazioso quadretto di vestali che suonano la lira ai giochi olimpici.
Affrontammo l'interrogatorio delle ragazze con una strategia accuratamente studiata. Sicuri che avrebbero adottato una difesa di gruppo, ci preparammo a innescare una dinamica collettiva che facesse affiorare la verità. Per evitare l'effetto «Fuente Ovejuna»{3} , non avremmo agito spietatamente, ma con calma filosofica, dando per scontata fin dall'inizio la loro colpevolezza.
Le ragazze erano sette, nessuna sopra i vent'anni, tutte in identica tuta azzurra. Apparivano sfuggenti, nervose, spaesate, ciascuna ostinata a fissare un punto diverso del pavimento. Attaccai con la mia arringa, sintetica e del tutto priva di passione:
«Abbiamo le prove che siete state voi a uccidere Pepe Ruiz. Se qualcuna vuole raccontarmi com'è successo, questo è il momento. Siete in troppe, e non sarà difficile scoprire come sono andate le cose, anche se non parlate. Solo che sarò costretta a mandarvi dal giudice in gruppo, e vedrà lui il da farsi».
Seguì un silenzio elettrico, scandito da movimenti minimi.
«Come potete immaginare, non ho intenzione di perdere tempo; poco importa chi di voi ha avuto l'idea, chi l'ha chiuso dentro e chi ha alzato il termostato; ma voglio darvi l'opportunità di essere voi per prime a dirlo, soprattutto per offrirvi un certo vantaggio legale. Non è lo stesso confessare davanti alla polizia e venire interrogati da un giudice dopo essersi rifiutati di rispondere».
Una delle ragazze contrasse il viso in una smorfia e scoppiò a piangere. Pensai che di lì in poi sarebbe partita una girandola di accuse reciproche, ma mi sbagliavo. Il capitano della squadra, ragazza coraggiosa e animata da spirito di solidarietà, non permise al gruppo di lasciarsi andare. Alzò la voce con decisione.
«L'ho chiuso dentro io. Tutte le altre erano d'accordo» disse.
All'assolo di pianto si unirono due o tre voci. Lei continuò senza esitazioni:
«Ma non abbiamo alzato la temperatura. Quando ce ne siamo andate il termostato era al livello normale».
Le chiesi di spiegarsi meglio. Altre voci si unirono al racconto, il che non fece che rendere più difficile la comprensione, ma visto che non si trattava di un romanzo di John Le Carré, la faccenda si chiarì abbastanza in fretta. Le ragazze avevano sopportato un mucchio di brutti scherzi da parte di quel tipaccio, finché non avevano deciso di dargli una lezione.
«All'inizio l'idea era quella di entrare negli spogliatoi degli uomini quando tutti fossero andati via, tirar fuori un coltello e dirgli che gli avremmo tagliato le palle».
Garzón sussultò di fronte a tanta crudezza verbale.
«Ma poi, quando siamo entrate, ci siamo accorte che era in sauna e che si era addormentato, proprio da scemo. Allora abbiamo pensato di chiuderlo dentro. Tutt'al più ci sarebbe rimasto fino all'arrivo della donna delle pulizie. Si meritava ben di peggio».
Garzón girellò intorno alla portavoce della squadra.
«E poi magari avete alzato la temperatura senza pensarci».
La ragazza si ribellò all'istante.
«Senta, non siamo così pazze, sappiamo fin dove può arrivare uno scherzo».
«Però, se pensavate che la donna delle pulizie l'avrebbe liberato...»
«Comunque a nessuna di noi è saltato in mente di alzare la temperatura».
«Eppure il termostato era al massimo, e la donna delle pulizie non se ne è accorta. Vi è andata male».
«Come, non se ne è accorta ? Ma lei lo sa che caldo fa negli spogliatoi quando la sauna è al massimo ? Be', nessuno la alza mai così tanto, ma noi, per gioco, qualche volta ci abbiamo provato. La temperatura sale a una velocità incredibile, e in pochissimo tempo il legno scotta».
Guardai Garzón. Lui, colto da un'identica illuminazione, guardò me.
Rimandammo le ragazze a casa. Garzón era convinto che Pepe Ruiz, se non si fosse addormentato, magari se la sarebbe cavata più a buon prezzo, ma in giro per il mondo ci sarebbe stato un eunuco in più. Non riesco ancora a capire come avesse fatto a passare così rapidamente dall'immagine angelicata delle dolci fanciulle al quadro a tinte fosche delle virago castratrici. Ma il mio collega è così, sempre da un estremo all'altro. In ogni caso l'insinuazione del capitano della squadra era più che ragionevole. Se la sauna scaldava così tanto, chiunque avrebbe dovuto accorgersi che qualcosa non andava.
Chiedemmo alla padrona della palestra chi avesse spento la sauna la mattina dopo, e lei ci confermò di averlo fatto lei stessa, trovando il cadavere di Ruiz.
«Era molto calda?»
«Ma certo, era rimasta accesa tutta la notte».
«Non può raggiungere quella temperatura in breve tempo?»
Si arruffò una frangetta molto spiritosa.
«A dire la verità, non lo so. A nessuno di noi è mai venuto in mente di alzare il termostato al massimo».
Bene, ormai era chiaro quello che dovevamo fare. Andammo nello spogliatoio degli uomini. Girammo sul massimo la manopola del termostato. Le ragazze della squadra di hockey erano uscite alle nove. La donna delle pulizie arrivava alle dieci. Ci sedemmo ad aspettare. Accendemmo una sigaretta, in barba al divieto.
«Lei ci crede?» mi domandò all'improvviso Garzón. «Lei crede che quelle ragazze avrebbero osato minacciarlo di tagliargli le palle?»
«Non vedo perché avrebbero dovuto reprimersi. Lui non le lasciava in pace».
«Ma, ispettore, in questo modo si sarebbero messe al suo livello».
«Be', l'uguaglianza è anche questo, no? Non crederà che noi donne dobbiamo volere la parità solo nel bene».
«Io la pensavo così».
«Be', si sbagliava».
Mi accorsi che mi guardava di traverso, mentre allentava il nodo della cravatta. Subito dopo fui io a liberarmi del foulard. Poi Garzón slacciò i primi bottoni della camicia, mentre io mi rimboccavo le maniche fino ai gomiti. Non ci fu bisogno che passasse un'altra mezz'ora, né che il nostro strip-tease arrivasse al nudo integrale, per capire che nel giro di pochi minuti lì dentro non si sarebbe potuto respirare. Mi alzai e andai a toccare la parete della sauna.
«Lei lo passerebbe uno straccio per la polvere qui sopra?» domandai al mio collega.
Lui fece di no con la testa, poi disse: «E se lo facessi, non potrei certo far finta di niente».
Escludere la donna delle pulizie dalle possibili «vittime» delle molestie di Pepe Ruiz era stata una leggerezza. Prima di interrogarla un'altra volta, e per non ricadere in errori di omissione, feci preparare una lista con gli orari di uscita del morto negli ultimi due mesi. Avremmo dovuto arrivarci prima: Ruiz usciva spesso dopo le dieci. Non potevamo sapere esattamente a che ora, perché l'orologio marcatempo non era stato programmato per segnare i passaggi oltre l'orario di apertura della palestra. Nel tabulato, in questi casi, compariva solo la scritta «AFTER HOURS» (l'apparecchio era di fabbricazione svedese). In ogni caso Ruiz avrebbe avuto più di un'occasione per dar fastidio a quella donna, e anche pesantemente, visto che erano soli nei locali.
Questa volta la osservai bene. Occhi un po' allucinati, mani screpolate dai detersivi, capelli rovinati dalle permanenti, un volto che avrebbe potuto anche essere gradevole se non fosse stato appesantito dalla stanchezza e dalle disillusioni. Si sedette a spalle curve, gravata da qualcosa di non detto. Aveva paura, ma era come se quel secondo interrogatorio non la sorprendesse, forse era abituata ad aspettarsi sempre il peggio. Si guardava i piedi calzati da scarpe malfatte. Cercai il suo nome fra le mie carte.
«Rosario...» le dissi. «La chiamano Rosario?»
«Mi chiamano Charo» rispose.
«Charo, c'è qualcosa che non quadra nella sua dichiarazione. Vede, noi abbiamo verificato che la sauna doveva essere molto calda quando lei ha fatto le pulizie. È strano che non l'abbia notato, che non abbia abbassato il termostato, che non abbia guardato se dentro ci fosse qualcuno».
«Non me ne sono accorta» disse.
«Non si è accorta che scottava?»
«No».
«Però nessuno è entrato o è rimasto nella palestra dopo che lei è andata via. Le porte non sono state forzate, e nemmeno le finestre, quindi mi dica lei come possiamo spiegarcelo».
«Io la sauna l'ho pulita da fuori, e non mi sono accorta di niente».
«Vuole che le dimostriamo che non è possibile?»
Se ne stava lì con lo sguardo fisso sulle sue scarpe da quattro soldi. Feci un cenno a Garzón. Ci trasferimmo tutti e tre negli spogliatoi maschili. Chiesi all'indiziata di sedersi, poi si sedette anche Garzón. Accesi la sauna al massimo e mi sistemai accanto a loro, ad aspettare. Offrii una sigaretta al mio collega, e poi a lei, che rifiutò. Noi due fumammo in silenzio. Avevamo deciso di sospendere l'interrogatorio per tutto il tempo, di non fare nessun commento, di non parlare. Il primo quarto d'ora passò con una certa calma. La donna non si mosse, aveva trovato una posizione ieratica che si sforzò di mantenere. Poi il caldo cominciò a farsi sentire. Mi sbottonai il golfino. Dopo venti minuti, Garzón mi chiese il permesso di togliersi la giacca. Glielo concessi. Dopo mezz'ora, lo spogliatoio era un forno. Sul volto della donna scorrevano gocce di sudore. Manteneva la stessa posizione, ma aveva stretto i pugni. Io ero pronta a resistere fino alla fine. Mi alzai in piedi lentamente e, senza un solo gesto di impazienza, raggiunsi la parete di legno e la toccai. Staccai la mano come se mi fossi scottata, esagerando un po' il gesto. Allora vidi che gli occhi della donna mi fissavano, velati dal terrore.
«Si avvicini, venga a toccare anche lei, Charo, per favore».
Lei parlò con voce alterata, titubante.
«Magari ho toccato il termostato con lo straccio per la polvere, senza farlo apposta».
Scossi la testa.
«No, guardi. C'è un dispositivo di sicurezza. Bisogna premere con una certa forza, prima di girare la manopola. È impossibile che capiti per caso. La prego di raccontarci cos'è successo, a costo di rimanere tutti e tre qui per un'ora intera».
Lei scoppiò in un pianto convulso, coprendosi la faccia con le mani. Garzón, sudato come un pugile, fece il gesto di alzarsi per spegnere la sauna. Lo fermai con un braccio.
«Allora, pensa di parlare?»
Lei annuì. Il viceispettore partì sparato verso la manopola e la portò sullo zero.
«Stava per venirmi un collasso» dichiarò in tono drammatico.
Chi avrebbe mai pensato a un delitto passionale? Mia madre diceva sempre «Dio li fa e poi li accoppia». «Per ogni pentola, c'è il suo coperchio» diceva la madre di Garzón. Grazie a tanta saggezza materna, riuscimmo ad abituarci all'idea che quel povero disgraziato di un attaccabrighe psicolabile avesse potuto sedurre la nostra indiziata, al punto da renderla capace di uccidere. Forse la loro era una storia semplice, forse no; se non altro era intelligibile e coerente. Pepe Ruiz aveva fatto un'eccezione con Rosario. Non l'aveva molestata, non aveva cercato di intimidirla con scherzi di cattivo gusto o proposte oscene. Al contrario, le si era avvicinato con delicatezza, le aveva dato ascolto, aveva cercato di consolarla per le sue sventure matrimoniali e, alla fine, le aveva parlato d'amore. Come mai un cambiamento simile nella sua personalità? La donna delle pulizie era categorica su questo punto:
«Io fin dall'inizio l'avevo trattato normalmente, gli avevo portato rispetto. Lui aveva i suoi motivi per comportarsi male con la gente. Non penserete che fosse una bestia. Tutti lo guardavano dall'alto in basso, lo evitavano e ridevano. Lo prendevano per il culo, gli facevano le battutine: "Quanti quintali hai tirato su oggi? La prossima volta non venire qui, vai ai mercati generali!". Pensavano che fosse mezzo scemo, ma lui capiva tutto, sapeva che gli altri lo trattavano come un cretino».
Lei e Ruiz si vedevano quasi tutte le sere nella solitudine della palestra. Charo sfogava con lui le tensioni della sua vita miserabile, lui prometteva di portarla verso un mondo migliore. Naturalmente il suo errore era stato quello di promettere qualcosa che era al di sopra delle sue possibilità: allontanarla dal marito, occuparsi dei suoi figli... L'errore di Charo era stato ancora più grave: ci aveva creduto.
«La colpa è tutta di sua madre!» ci gridò in faccia con incredibile energia. «Lui era come un bambino, e lei lo teneva sotto. Quando lui le ha detto che volevamo andare a vivere insieme, quella donna ha cominciato a fare il diavolo a quattro e, non so come, è riuscita a mettermelo contro».
«Gli ha fatto cambiare idea?»
«Pepe non voleva più parlarmi. Quella stronza gli aveva ficcato in testa un mucchio di idee assurde. Che io cercavo solo di approfittare di lui, che volevo fregarlo, portargli via i soldi... Non le andava giù che il figlio si staccasse dalle sue gonne».
«Per questo l'hai ucciso?»
«Non l'ho ucciso. La sauna era chiusa a chiave quando sono arrivata. E poi c'è un termostato anche dentro, avrebbe potuto abbassare la temperatura da solo».
«Ma si era addormentato».
«Avrebbe potuto svegliarsi per il caldo».
«Sono tutte supposizioni, Charo. Il fatto è che non si è svegliato, e che, a causa di quello che hai fatto tu, adesso è morto».
«Ma sono state le ragazze a chiuderlo dentro».
«Se questo ti consola...»
«Non sono un'assassina, ma portatemi pure in prigione, se ci tenete, così finalmente potrò riposare».
Esulava dalle nostre competenze stabilire se la rea confessa fosse un'assassina o no. Spettava al giudice, a tu per tu con i suoi codici e la sua coscienza. Il nostro compito, per fortuna, finiva lì. Era un sollievo non essere costretti ad andare più a fondo in un caso simile. I delitti passionali sono, già di per sé, un bell'imbroglio. Questo, per di più, aveva risvolti così poco brillanti.
Che bella storia d'amore! I protagonisti non somigliavano precisamente a Romeo e Giulietta, Paolo e Francesca, Abelardo ed Eloisa. Due poveracci strapazzati dalla vita, rintronati, disprezzati, messi da parte, senza qualità, senza bellezza, senza fortuna. Ma nessuno poteva mettere in dubbio che la loro fosse stata, in fin dei conti, una storia d'amore. Un amore miserabile, forse, una passione priva di grandezza epica o poetica, senza grazia, senza afflato divino, senza spirito di trasgressione. Si incontravano in palestra qualche volta alla settimana, cercavano il rifugio della sauna, dello sgabuzzino delle scope, giacevano su una panca, si appoggiavano al cavallo per i salti. Si amavano e si parlavano, dandosi un po' di conforto, dico io. Ma perché mai l'amore dev'essere necessariamente bello, incorniciabile in un dipinto, confezionabile in un romanzo, musicabile in una sinfonia? Niente affatto, ci sono amori che fanno ribrezzo, e che finiscono malissimo. Io, però, preferisco pensare che, per quanto spregevole sia la loro natura, gli amanti trovino sempre un attimo di gloria nel vivere la loro passione. Certo, quello psicolabile era finito come un salsicciotto alla griglia, ma nelle sue particelle carbonizzate doveva esservi pure un po' di polvere innamorata. Quanto alla sua amante, sarebbe finita in galera, dove finalmente, come lei stessa aveva detto, avrebbe potuto riposare. In quelle ore di pace le sarebbero tornate alla mente le parole di tenerezza scambiate in passato e avrebbe potuto ricordarle come la cosa più bella che le fosse mai capitata in vita sua.
Epilogo
«Letteratura da quattro soldi, ispettore» sentenziò Garzón, quando lo resi partecipe delle mie riflessioni filosofiche sul caso appena risolto.
«E allora, lei, che conclusione ne trae?»
«Che le donne sono un pericolo costante».
«Accidenti!»
«Quel povero diavolo l'hanno tolto di mezzo fra donne, dando una bella dimostrazione di crudeltà».
«Guardi, viceispettore, che la crudeltà femminile è roba da attrici col bocchino d'avorio. Alle donne delle pulizie con il marito alcolizzato rimane solo la disperazione».
«Tutto questo mi va molto bene, Petra, ma non si può uccidere».
Lo fissai schioccando la lingua.
«Che cosa vuol fare adesso, recitarmi le Tavole della Legge?»
Scoppiò a ridere.
«Non pretendo certo di essere Dio in terra, anche se qualche miracolo lo so fare anch'io, modestamente».
«Per esempio?»
«Per esempio trasformare l'acqua in whisky..».
Risi di cuore.
«Che gliene pare se lasciamo perdere questo orrendo commissariato e ce ne scappiamo al bar?»
Naturalmente, accettai. Immagino che Garzón sia irrecuperabile alla causa femminile, se pure una causa simile esiste davvero. Mi sa che ormai le cause per cui vale la pena di battersi sono sempre meno, e quelle poche che rimangono sono perse in partenza. In ogni caso non avevo nessuna intenzione di fare la figura della suffragetta col cappellino a fiori e il cartello appeso al collo. Così, attraversai la strada con lui in direzione della Jarra de Oro per buttar giù un paio di bicchieri senza spirito polemico. Brindammo alla salute delle donne, degli uomini, degli amori di bassa lega, degli psicolabili e, quando ormai eravamo davvero brilli, brindammo anche ai dieci comandamenti e perfino a Dio.