01
Di solito mi divertono le battute di Garzón, anzi, quasi sempre. In genere prende spunto, con umorismo crudo, dai casi a cui stiamo lavorando. Niente da obiettare. Ormai non esiste più nulla di sacro a questo mondo, e non vedo perché debba essere considerato tale l'esercizio della nostra professione. Eppure, nella primissima fase di un'indagine per omicidio, con il cadavere ancora steso nel luogo del delitto, la sua ironia mi mette un po' a disagio. Sarà che ha più esperienza di me, e quindi anche la pellaccia più dura.
Quella mattina, aprendo il passaporto del tizio che avevamo appena trovato secco, gli saltò in mente di dire: «Rimantas. Ma che diavolo di nome è, Rimantas? Incredibile! Se lo immagina uno con un nome così, qui in Spagna? Non la finirebbero più di prenderlo in giro: Rimantas, sei un manta! Rimantas el esgarramantas». {1} Una battuta dopo l'altra.
Sì, me lo immaginavo, lo stesso genere di battute che stava facendo lui con «el manta» rapidamente avviato al rigor mortis. Lessi i dati del morto sperando che le spiritosaggini del mio sottoposto fossero finite lì. «Rimantas Laztsdelis. Nazionalità lituana. Nato il 20 luglio 1967». Guardai il cadavere. Era un biondo longilineo, di corporatura atletica, in abiti sportivi con mocassini ai piedi. I tratti del volto non si vedevano molto bene perché il proiettile che l'aveva ucciso gli aveva spappolato parte di una guancia e il naso. Nella mano destra, rigida come un uncino, c'era una pistola.
«E allora?» mi chiese Garzón, ansioso che lo mettessi a parte delle mie prime impressioni.
«Be', tutto sembra indicare che abbia cercato di assalire qualcuno con l'arma in pugno, che ci sia stata una colluttazione, e che lo sparo sia partito nella direzione sbagliata».
«Giusto. E che quel qualcuno se la sia data a gambe, dimostrando di non avere la coscienza a posto. Di certo non era un normale cittadino».
«Perché, i cittadini normali hanno la coscienza a posto, secondo lei?»
«Abbastanza da chiamare la polizia e riferire il fatto. Se uno subisce un tentativo di rapina, si vede spianare davanti una pistola e ha pure il fegato di cercare di strapparla al suo assalitore, la cosa più logica è che denunci il fatto».
«Intende dire che chi ha fegato ha la coscienza a posto?»
Mi guardò storto.
«Caro il mio capo, non mi faccia dire quello che non ho detto, lei sa benissimo che cosa intendo».
«E non sarà che la nazionalità del morto, un immigrato dell'Est, le fa immediatamente pensare a rapine e regolamenti di conti? Voglio dire, non starà applicando pregiudizi xenofobi alle sue deduzioni?»
«Senta, Petra, non cominciamo! Se la balistica ce lo conferma, quest'angioletto è stato ucciso con la pistola che aveva in mano, e uno che se ne va in giro con la pistola, da qualunque paese venga, ha una storia dietro».
«Tutti abbiamo una storia dietro, a volte anche più losca del peggior regolamento di conti».
Garzón sbuffò, irritato. Mi diverte moltissimo mandarlo fuori dai gangheri, per me è come uno sport, oltre che il modo migliore per fargli abbassare la cresta quando è troppo sicuro di qualcosa.
Il medico legale, indaffarato col morto ai nostri piedi, assisteva alla nostra conversazione un tantino perplesso. Alzò un dito per chiedere la parola.
«Se avete finito di discutere, ne approfitterei per dirvi che questo signore è morto intorno all'una di notte. Il colpo che gli ha fatto saltare mezza faccia è stato sparato quasi a bruciapelo, di modo che questa, quasi sicuramente, è l'arma omicida. Ci sono i segni di una colluttazione, che però non può essere durata a lungo, o comunque non è stata molto violenta. Questo è tutto quanto posso ricavare da una prima osservazione, i risultati dell'autopsia li avrete fra una settimana. E ora, se volete, potete continuare a far della filosofia».
Era chiaro che il nostro piccolo dibattito deduttivo gli era sembrato una sfilza di scempiaggini; non si era nemmeno fatto scrupolo di farcelo capire. Ma si sa che i medici legali sono piuttosto intolleranti, è tipico di chi tratta con pazienti che non hanno la possibilità di protestare.
Ci spostammo un po' lungo la via, che era una traversa della Diagonal, in una zona di uffici. Lì, praticamente, non abitava nessuno. Il corpo si trovava a una ventina di metri dall'ingresso di un parcheggio sotterraneo. Il custode, in servizio al momento dei fatti, non aveva visto niente, non aveva sentito niente, e nemmeno ricordava se qualche macchina avesse lasciato il parcheggio intorno all'ora del delitto. Stava facendo un giro ai piani inferiori per accertarsi che tutto fosse in ordine, aveva detto. Va' a sapere! Secondo il vice-ispettore, diffidente fino al midollo, probabilmente stava dormendo come un ghiro nel suo gabbiotto o chiuso in macchina. Ci facemmo consegnare la videocassetta che riportava tutti i movimenti di ingresso e di uscita. Se l'assassino fosse entrato nel parcheggio prima di essere aggredito da Rimantas, la sua macchina avrebbe dovuto trovarsi ancora lì.
Fortuna volle che saltasse fuori una testimone. Dolores Ortega, addetta alle pulizie negli uffici di una compagnia assicurativa, si avvicinò al nostro piccolo assembramento poliziesco per informarci che, intorno all'una di notte, aveva sentito dei rumori, da lei subito identificati come spari.
«Si è affacciata alla finestra per guardare?»
Gli occhi stanchi della donna presero vita per guardarmi increduli.
«Io?»
«Non ha detto di aver sentito degli spari?»
«Appunto! Non sono così curiosa da rischiare la vita. E meno male che non ho guardato, perché se avessi visto l'assassino adesso mi toccherebbe dirlo, così lui verrebbe a cercarmi e due spari me li beccherei anch'io!»
Quella risposta metteva in chiaro due cose. Primo: che il viceispettore aveva torto. In caso di delitto, il cittadino normale tende a darsela a gambe per non mettersi nei guai. Secondo: il popolo spagnolo vede troppi telefilm americani.
Comunque, un'informazione l'avevamo ricavata: gli spari erano stati due. Uno dei proiettili era finito dentro il cranio del lituano. E l'altro? L'assassino era ferito? Questo ci avrebbe facilitato enormemente le cose, perché chi è ferito di solito finisce all'ospedale, e gli ospedali avvertono la polizia. Garzón corse a informarsi, mentre io ordinavo agli agenti un secondo sopralluogo sulla scena del delitto in cerca di una pallottola vagante. Un'ora dopo, Garzón tornò con la coda fra le gambe. Nessun pronto soccorso, nessun ambulatorio aveva accolto un ferito da arma da fuoco nelle ultime ore. Sarebbe stato troppo bello. Ma la delusione non durò a lungo perché, due ore dopo, i nostri ragazzi trovarono il secondo proiettile. Era finito fra il cordolo del marciapiede e l'asfalto, a pochi centimetri da un tombino. Trattandolo con somma delicatezza, quasi fosse un neonato, lo infilarono in una busta trasparente. Gli esperti di balistica avrebbero avuto da dire la loro.
Bene, il piccolo caos che segue al rinvenimento di un cadavere cominciava a prendere forma. I proiettili, pronti per l'esame. Il referto medico, in preparazione. Le prove e le testimonianze, rilevate. Mancava solo la rimozione del corpo, che venne ordinata dal giudice quando ormai cominciava ad albeggiare. Rimanemmo a guardare mentre lo infilavano nell'ambulanza.
«Addio, Rimantas, carretera y manta!» {2} disse il viceispettore, chiudendo la scena a modo suo.
02
Fu un caso difficile, me lo ricordo perfettamente; eppure, di indizi da cui partire ne avevamo parecchi. L'autopsia confermò le prime impressioni del medico: il proiettile nel cranio di Rimantas veniva dalla pistola che aveva in mano. Anche l'altro proiettile, quello rinvenuto in strada, era stato sparato con quell'arma. Gli esperti vi trovarono tracce di vernice nera, dal che era logico dedurre che fosse rimbalzato o avesse perforato la carrozzeria di un'auto prima di andare a conficcarsi nell'asfalto. Per di più, la telecamera di sicurezza del parcheggio aveva ripreso una Golf GTI di colore scuro in uscita dalla rampa pochi minuti prima dell'una, proprio quando doveva essere morto il lituano. Il video non permetteva di vedere la targa, né il volto del conducente. La ricostruzione logica dei fatti che elaborai con Garzón non ammetteva dubbi né alternative. Il morto era in strada quando la Golf era uscita dal parcheggio; di sicuro la stava aspettando. Non era stata un'aggressione casuale. Il conducente si era allontanato di una ventina di metri dall'ingresso del parcheggio, raggiungendo il lituano. Poi si era fermato ed era sceso dal veicolo: dal foro d'ingresso del proiettile nel volto era possibile dedurre che chi aveva sparato era in piedi. I due avevano lottato brevemente, senza troppa energia, e nella colluttazione l'arma aveva sparato due volte, uccidendo il Laztsdelis al secondo colpo. Quindi la vittima dell'aggressione, e probabile omicida, era fuggita. Sulla pistola non c'erano altre impronte oltre a quelle lasciate dal lituano nell'impugnarla. Evidentemente, l'assassino le aveva cancellate prima di andarsene. Altrimenti, se non le sue, in altri punti della pistola sarebbero comparse quelle dello stesso Rimantas.
«Magnifico!» disse il viceispettore. «Facile come bere un bicchier d'acqua».
«Be', mi dispiace dirle che a me l'acqua non piace, e che può sempre andare di traverso».
«Non capisco dove voglia arrivare».
«Volevo solo dire che può essere più complicato di quanto non sembri».
«Per prima cosa, bisogna trovare la macchina».
«Lasci perdere, non è mica una Rolls Royce, che ce ne saranno quattro in tutta Barcellona, ma una macchina di serie, e di un modello piuttosto vecchio. E non mi dica che possiamo andare a chiedere a tutti i carrozzieri della città se hanno dovuto riparare un foro di proiettile».
«Non pensavo a questo, lo so che non si finirebbe mai, ma può darsi che un meccanico onesto, se gli capita una cosa del genere, avvisi la polizia».
«Sì, uno di quei normali cittadini con la coscienza a posto».
«Ce ne sono, ispettore, non creda. E poi l'assassino potrebbe anche essersi sbarazzato della macchina. Dovremmo rivolgerci ai venditori di auto usate».
«Perché disturbarci? Tanto, se hanno la coscienza a posto, ci chiameranno loro».
«E va bene, ispettore, d'accordo! Cosa vuole che le dica? Che non verremo mai a capo di niente, che è un caso senza soluzione, che la gente è cattiva per natura? Visto che oggi è così negativa, magari l'idea le sorride».
«Diciamo che ho più fede nel passaporto della vittima, che può portarci a una scheda bell'e pronta».
«Bene, questo sì che è come bere un bicchier d'acqua!»
«Lei è proprio fissato con quest'acqua, ha problemi renali?»
«Non la prenda così, ispettore. Chissà che non le faccia bene un bel bicchier d'acqua ogni tanto. Dicono che rilassi. E purifica, anche. Porta via un sacco di tossine, soprattutto a digiuno».
«La pianti, Garzón!»
Ridacchiava sotto i baffi come un pessimo attore nella parte del cattivo. Anche lui sapeva come pungermi sul vivo, e quando ci riusciva era al settimo cielo. Sembravamo due bambini, certe volte, niente di simile a quel che si aspetta la gente da due audaci poliziotti impegnati nella lotta contro il crimine.
Non bevvi nessun bicchier d'acqua, ma non potei fare a meno di cantar vittoria quando ci dissero che Laztsdelis era schedato. Era stato mercenario e aveva combattuto in varie guerre su e giù per diversi continenti. Come disse Garzón appena vide la foto: «un vero angioletto». Era stato beccato due anni prima per una faccenda di droga. Poca roba. Tre mesi alla Modelo, poi non aveva più avuto problemi con la giustizia. Risultava assunto regolarmente presso un'azienda di spedizioni e recapiti. Era domiciliato in città.
«Cominceremo con una visitina a casa sua».
«Gliel'avevo detto, ispettore, stiamo andando a gonfie vele!»
Ringraziai che Garzón fosse passato dall'acqua potabile alla navigazione, argomento più interessante.
Il rifugio del nostro soldato di ventura si trovava nel Raval, presso una vedova, tale Matea Dominguez, che faceva l'affittacamere in spregio di ogni norma igienica e fiscale. Aveva cinque stanze malandate che affittava agli immigrati. La diffidenza con cui ci ricevette la diceva lunga sull'irregolarità dei suoi affari. Si ricordava perfettamente di Rimantas.
«Sì, è rimasto qui sei mesi. All'inizio non aveva un soldo, era sempre in ritardo con i pagamenti. Ma poi deve aver trovato un lavoro o qualcosa del genere, e stava bene. Si vedeva che stava bene. Alla fine se ne è andato, avrà trovato un posto per stare da solo. È sempre così: i bianchi, russi, polacchi, rumeni che siano, in qualche modo se la cavano. Gli altri, manco a parlarne, marocchini, neri... un disastro».
L'indignazione mi offuscò la vista per un attimo. Ma mi trattenni, preferivo aspettare.
«Che vita faceva Rimantas Laztsdelis?»
«Una vita normale. Usciva al mattino presto e tornava alla sera. Era onesto, mi ha perfino raccontato di essere stato in prigione, ma diceva che uno sbaglio simile non l'avrebbe fatto mai più».
«Vedeva gente?»
«No».
«Riceveva telefonate?»
«No. Non so niente di lui, nemmeno dove sia andato a stare. Era un tipo riservato».
Con lo stesso tono che avevo usato per interrogarla, le ordinai:
«Mi faccia vedere le stanze».
Ci mise un po' a reagire, quasi come Garzón, che mi guardava con tanto d'occhi.
«Il fatto è...» tergiversò.
«Non si preoccupi, le troverò da sola. O vuole che chiediamo un mandato al giudice?»
Infilai il corridoio e cominciai ad aprire una porta dopo l'altra. Proprio come avevo immaginato, c'erano brande disastrate in ogni angolo, così vicine che ci si potevano ammucchiare più persone. Qualche magrebino che stava dormendo tirò su la testa di scatto sentendomi entrare. Protestai con la vecchia:
«Una cosa del genere non solo è disumana, ma anche illegale».
Lei poggiò i pugni sui fianchi e mi rispose con furia:
«C'è gente che affitta i letti a ore, perfino i balconi, affittano; la mia pensione non sarà una meraviglia, ma loro ci vengono e mi ringraziano pure. Andate a vedere se da un'altra parte trovate di meglio!»
Uscita da quell'antro, mi sfogai col viceispettore:
«Eccola, la sua cittadina con la coscienza a posto!»
Lui, sapendo che c'ero rimasta davvero male, disse soltanto: «Lasci perdere, Petra, e andiamo avanti con le indagini».
03
In macchina, mentre ci dirigevamo verso l'azienda di spedizioni presso cui aveva lavorato il lituano, non spiccicammo parola. La visita a quella miserabile pensione mi aveva messa di pessimo umore. Il mio collega, che mi conosceva bene, decise di tirarmi su il morale.
«Perché non ci fermiamo e prendiamo una birretta?»
Accettai. Mi sedetti con lui e rimasi in perfetto silenzio. Garzón tentò di farmi parlare.
«Le ha dato fastidio quello che abbiamo visto lì dentro, vero?»
«Lei non sa quanto. Nessuno si preoccupa di certi abusi, li lasciamo passare come se niente fosse».
«Se vuole, quando torniamo in commissariato, stendiamo un bel verbale su quella donna».
«No, lasciamo stare, non servirebbe a niente. Ce ne saranno cento altri che fanno le stesse cose. Quello che non sopporto è il genere umano, Garzón».
«Capisco. Solo che non vedo cosa ci possa fare, a meno che non scriva una lettera di reclamo al Creatore...»
«L'avrò fatto mille volte, solo che non so che indirizzo mettere sulla busta».
Garzón sorrise con una certa tristezza, forse anche lui aveva qualche lettera senza indirizzo nel cassetto. Impugnò il suo boccale di birra e mi sfidò a finirlo in un sorso. Sarebbe una bugia se dicessi che, sebbene nel frattempo il genere umano non avesse certo avuto il tempo di cambiare, quando misi giù il boccale vuoto mi sentivo già un po' meglio.
L'azienda presso la quale aveva lavorato Laztsdelis era un'importante multinazionale. Lui guidava un furgone che effettuava dieci corse giornaliere da e per l'aeroporto. Viaggiava sempre solo. Depositava il carico e ripartiva. Era stato selezionato e assunto direttamente dal capo del personale, una certa dottoressa Ventura. Chiedemmo al responsabile che ci aveva accolti di parlare con lei. Lui non oppose nessuna obiezione, le nostre indagini non lo preoccupavano affatto. In fin dei conti Rimantas non lavorava più lì da sei mesi.
La dottoressa Ventura era un'affascinante signora bionda sulla quarantina. Per noi era la seconda persona che avesse conosciuto il morto, ma non aveva niente a che vedere con la vecchia strega del Raval. Sulla sua scrivania campeggiava una foto che la ritraeva in jeans, insieme al marito e ai tre figli, nel giardino di una bella casa a schiera di notevoli dimensioni. Lo stereotipo della donna manager.
«Rimantas Laztsdelis, certo. Me lo ricordo benissimo, anche senza aprire la scheda. Mi aveva colpito il nome».
Cercò in un grosso dossier un numero che aveva reperito al computer. Tirò fuori una cartellina alla quale era stata pinzata una foto del morto. Meglio di quella segnaletica dei nostri archivi. Aveva un'espressione impertinente ed era, tutto sommato, un bell'uomo. Le chiesi di lasciarci la foto.
«L'aveva colpita qualcos'altro, a parte il nome?»
«Non molto, a dire il vero. Sembrava un uomo molto sicuro di sé, e pensai che fosse un buon lavoratore. A quanto vedo qui, non mi ero sbagliata. Il suo rendimento era buono e non ha mai dato alcun problema».
«Perché se ne è andato?»
Guardò ancora le carte.
«Ha dato le dimissioni. Diceva di aver trovato un altro lavoro, meglio pagato. Bisogna ammettere che lo stipendio che percepiva da noi non era granché».
«Si occupa sempre lei dei colloqui di selezione del personale?»
«In genere solo per i quadri medi. Degli altri si occupano i miei assistenti. Ma di tanto in tanto scelgo una domanda a caso e me ne occupo io. È una forma di controllo. Per il lavoratore è come vincere alla lotteria».
«O come ricevere un'ispezione della guardia di finanza».
Lei rise.
«No, le assicuro che sono più morbida dei miei sottoposti. E poi posso permettermi di tener conto di aspetti umani che loro sono tenuti a ignorare. Per esempio, avevo letto sulla scheda che quell'uomo aveva precedenti penali. Ma non mi sono lasciata condizionare negativamente. Le assicuro che i miei assistenti sarebbero stati più fiscali».
Cosa potevo pensare? Forse l'ignoranza e la povertà creano miseria morale. Quella donna, nella sua efficienza, si dimostrava più umana della vedova della pensione. Non mi andava di riconoscerlo, ma era così. Ci congedò con eleganza e uscimmo di lì con una fotocopia di tutta la documentazione sul lituano, oltre alla sua fotografia.
Quest'ultima ci fu molto utile, perché non eravamo ancora risaliti in macchina che Garzón mi disse:
«Adesso potremmo fare una visitina a Dalmacia Sirvent».
«Cos'è, una marca di liquore?»
«No, caro ispettore, è una delle nostre confidenti. Una vera specialista quando si tratta di gente dell'Est. Non c'è russo o polacco che lei non conosca».
«Caspita, non sapevo che ci fosse tanta specializzazione nel mondo dei confidenti!»
«È un mondo che le sfugge, Petra. In fondo, per lei, è un po' troppo volgare».
«Mi sta accusando di classismo?»
«Ma si immagini, l'accusa spetta al giudice».
Ormai Garzón sapeva tutto di me, e non si lasciava scappare l'occasione di prendermi in giro. Faceva bene, tanto era solo questione di tempo e io avrei fatto lo stesso con lui.
La storia di Dalmacia Sirvent mi affascinò. A quanto mi raccontò il viceispettore, il vero confidente era il marito, un certo Pascual Sanchez. Ma il poveretto aveva avuto un colpo apoplettico, un paio d'anni prima. Da allora in poi lei l'aveva sostituito approfittando delle sue conoscenze.
«Allucinante» dissi.
«Non vedo il perché. In fondo le mogli dei tassisti prendono il volante se ce n'è bisogno. Per i confidenti è un po' lo stesso. Qualunque cosa, pur di non perdere la licenza».
«Mi sembra ugualmente incredibile».
«Petra, si svegli, siamo nella realtà, che supera sempre i film. Quei due, che hanno già una certa età, gestiscono un baraccio nel Barrio Chino. Le assicuro che con quello che prendono da noi se la cavano piuttosto bene. Preferiscono fare così piuttosto che darsi a qualche attività illegale. E le assicuro che quella Dalmacia si è dimostrata una dritta, non è da meno del marito».
«Una specialista, no?»
«Rida pure quanto vuole, ma al giorno d'oggi la specializzazione è tutto. Pascual Sanchez ha avuto il fiuto di diventare una vera enciclopedia delle mafie post-comuniste. Di confidenti sulla droga o sul traffico di armi ce ne sono a bizzeffe».
No, non mi sarei mai abituata a quel sottobosco che lavorava per la polizia: informatori, spioni, avvocatucci di mezza tacca... Garzón aveva ragione, era una fauna che non avrei mai invitato a prendere il tè a casa mia. Anche se devo ammettere che dopo aver conosciuto Dalmacia cambiai idea. Quella confidente consorte era un caso davvero speciale.
04
Dalmacia guidava "il taxi" del marito con perizia sbalorditiva. Non appena il mio collega le fece il nome di Rimantas, fu chiaro dalla sua espressione che non le suonava affatto nuovo.
«Bel nome, vero?»
Il viceispettore sfoderò l'abituale rudezza che usava con i confidenti, fossero o no degli specialisti.
«Dalmacia, su, abbiamo fretta. Per ogni minuto che ci fai perdere, la cifra scende».
«Ecco, proprio qui la volevo. Mio marito l'avete preso in giro tutta la vita; lui è troppo buono, ma io... io voglio una proposta precisa prima ancora di cominciare a parlare. E si esprima in euro per favore, che la peseta me la son già dimenticata».
«Va bene. Ti mando un'ispezione al bar e poi ti pago un quarto della multa che ti becchi».
«È questo il modo di trattare una povera donna col marito invalido?»
«Forza, povera donna, parla».
«Va bene. Qualcosa so e qualcosa posso venirlo a sapere. Sono mille per quello che so, e mille per quello che riesco a scoprire».
«Seicento, non un euro di più».
«Settecentocinquanta».
«Affare fatto. E adesso sbrigati. E se quello che dici non ci serve, non vedi un soldo. O, se ti sembra più moderno, un centesimo di euro».
«Va bene. Quel Rimantas ci veniva qualche volta qui al bar, anche se saranno sei mesi che non lo vediamo. Veniva con una ragazza, straniera come lui, forse russa. Non so come si chiamava né chi era. Bella, bionda, una che si notava».
«Questo non vale settecentocinquanta euro».
«So che abitava in una pensione da poveracci del Raval, da una vedova. E so che circa sei mesi fa, le ultime volte che l'ho visto, si era trovato un altro posto».
«Questo lo sappiamo anche noi. La vedova si chiama Matea Domínguez. Le tue informazioni sono come il giornale di ieri. Buono per incartarci le uova».
«Ma io so dove abita adesso. Lo sapete anche voi?»
«Ce lo siamo scordato. Qual è l'indirizzo?»
«Questo sì che vale settecentocinquanta euro. Voglio vederli, però, prima di dirvelo».
Garzón tirò fuori il portafogli e le mise in mano i soldi. Lei li contò senza nessun imbarazzo.
«Calle Princesa 56, terzo piano, porta B. Lui l'aveva segnato su un tovagliolino di carta per la russa. Io, guarda caso, gli stavo servendo una birra, e non me lo sono fatto scappare«.
«Il caso è sempre dalla tua parte, vero, Dalmacia? Sei fantastica. Però ricordati di una cosa: fa parte dell'accordo. Se fra una settimana non ci chiami per dirci che hai trovato qualcosa di nuovo, non solo non vedrai un euro di più, ma ti mandiamo un'ispezione. Non so ancora se dell'ufficio del lavoro o di quello d'igiene, e vediamo cosa salta fuori. Voglio sapere chi è quella ragazza e cosa diavolo stava combinando Rimantas».
«Non è giusto».
«Ogni tanto la giustizia colpisce quelli che sono sempre benedetti dal caso. Per questo si chiama giustizia».
Uscimmo dal bar. Io non avevo aperto bocca, se non per la sorpresa. Il viceispettore se l'era cavata da maestro.
«Pensa veramente di essere così duro, Fermín?»
«Non lo so, credo di no. Ma è meglio che i confidenti abbiano sempre ben chiaro che gli sbirri sono peggio di loro. Se no chiederebbero tutti di entrare in polizia e, furbi come sono, ci porterebbero via il lavoro in quattro e quattr'otto».
La fede del viceispettore nell'onestà del genere umano aveva le sue zone grigie, almeno riguardo alla polizia. Lo apprezzai. L'autocritica è alla base di ogni saggezza.
Raggiungemmo rapidamente il commissariato per preparare la visita in pompa magna a casa della vittima. Ci servivano un mandato giudiziario e una pattuglia che ci aprisse la porta e mettesse i sigilli. E poi un fotografo e quelli delle impronte. Mentre aspettavamo che tutto fosse pronto, Garzón canticchiava euforico.
«Va tutto bene, Petra. Tutto benissimo. Vedrà che questo caso viene via liscio come l'olio. Olio di frantoio appena spremuto».
Non si poteva certo dire che il mio collega fosse a corto di similitudini. Certo, i suoi paragoni non erano fra i più originali, ma l'ispirazione poetica non è mai stata fra i requisiti fondamentali di un poliziotto.
Entrammo, dunque, con tutto l'equipaggiamento di rigore, in casa del defunto Rimantas Laztsdelis. Un posticino niente male. Mentre i tecnici cercavano impronte da tutte le parti, Garzón ed io facemmo un giro per le stanze.
«Be', non sarà il Taj Mahal, ma bisogna ammettere che il nostro amico ne aveva fatti di progressi dai tempi della pensione!» esclamai.
«Progressi come questi si fanno solo nel mondo della droga, Petra. Ne sono quasi sicuro. Bisognerà sentire un confidente specializzato in narcotici».
«Non precipitiamo. Magari il suo nuovo lavoro, così ben pagato, era nel campo delle armi. In fondo era pur sempre un soldato».
«Troppo, per un Rimantas del genere, mi creda. Di sicuro quello era diventato un pusher coi fiocchi. Alla fine tutto si risolve sempre nel modo più scontato. Mi creda, ispettore, è così».
«Calma, Fermín, calma».
Ma non c'era modo di calmarlo. Andava da una stanza all'altra di quel vasto appartamento come un indemoniato. Cercammo dappertutto delle carte, anche se il lituano non sembrava molto portato alla scrittura. E nemmeno i suoi effetti personali dicevano granché. Roba banale: poster di film di guerra americani, numeri del «National Geographic», manubri di varie dimensioni per farsi i muscoli, un buon assortimento di alcolici. Finalmente, in fondo a un cassetto, comparve un'arma. Era una pistola facilmente reperibile sul mercato nero, come quella che l'aveva ucciso. Non c'era da stupirsi che di pistole ne avesse due, trattandosi di un ex mercenario.
«Dirò ai ragazzi di frugare bene dappertutto, devono esserci anche dei soldi, nascosti da qualche parte».
A un tratto qualcosa sul muro attirò la mia attenzione. O meglio, qualcosa che non c'era più. Quattro forellini indicavano che fino a poco tempo prima un foglio era stato fissato alla parete con le puntine. In base alle dimensioni del rettangolo vuoto, cercammo di trovarlo. Un'ora dopo comparve fra gli eleganti pigiami del lituano. Era la fotografia di una bella ragazza bionda, con quattro forellini agli angoli. Forse avevamo trovato la russa di cui ci aveva parlato la nostra confidente.
Garzón si lasciò andare a un classico, rivisitato a modo suo: «Cherchez la femme! come disse il profeta, o era il poeta?»
«Nessuno dei due, temo» fu la mia risposta.
05
Qualche migliaio di euro spuntò da sotto il televisore. Una conferma che il lavoro svolto dal lituano negli ultimi mesi tanto legale non era. C'era da dubitarne? No. Ma lo svolgimento di un'indagine richiede delle prove, e quel denaro era una prova consistente.
Garzón ed io ci lanciammo subito nel nostro gioco di deduzioni, che secondo il manuale del perfetto poliziotto non dovrebbe mai essere affrontato senza una base solida da cui partire.
«O droga, o armi, ispettore. Non ci sono alternative. Bisogna partire di qui» disse il mio vice.
«Trattandosi di un immigrato con precedenti penali, mi sembra un'affermazione azzardata. Lei sa che poteva anche lavorare in nero: come operaio, come guardiano, per esempio. Ci sono molti piccoli imprenditori senza scrupoli che pur di risparmiare sui contributi di un lavoratore...»
«Mi scusi, ispettore, ma non la seguo. Lei crede che i piccoli imprenditori senza scrupoli che assumono gli immigrati in nero gli diano tanto da permettersi una casa come questa?»
«Be', però, se lo usava per i regolamenti di conti...»
«Miseria, Petra, ma in questo caso più che un imprenditore sarebbe un padrino! No, in Spagna non ci arriviamo a un'organizzazione di questo genere».
«La avverto che il nostro paese sta facendo passi da gigante, ultimamente. In fatto di delitti non abbiamo niente da invidiare ai paesi più avanzati».
«Mi dia retta, ispettore: o neve o tuoni. Droga o armi, perché lei capisca. E ora, col suo permesso, chiamerei subito le squadre corrispondenti perché si mettano a cercare informazioni».
«Molto bene, proceda. Nel frattempo io verifico se questo bel faccino ce l'abbiamo anche noi in archivio».
«Ma perché l'avrà tolta dal muro?»
«Non so, forse una rottura sentimentale».
«Allora spero che non si siano mollati da troppo tempo, altrimenti la ragazza non saprà più niente di cosa combinava il suo ex».
«Quindi pensa che la troveremo, vero, viceispettore?»
«Lo sa che sono ottimista per principio».
I tre giorni che seguirono furono di paralisi assoluta. Altro che ottimismo. Le vie che tentammo non ci portarono da nessuna parte. Alla Narcotici non c'era nessuna scheda su Laztsdelis, e nessuno, in tutta la polizia spagnola, aveva mai sentito parlare di lui in relazione al traffico di armi. Le impronte rinvenute nel suo appartamento non comparivano in nessun archivio, e delle due pistole sequestrate non si riuscì a determinare la provenienza. Per completare quel deserto totale, neppure la foto della ragazza fece fiorire un nome sugli schermi dei nostri computer. Il mio umore stava peggiorando: un caso che pareva una passeggiata si stava trasformando in una spedizione di survival. C'erano piste e strade da seguire, certo, ma tutte finivano per perdersi fra le dune: da sei mesi, le orme di Rimantas erano scomparse.
Fortunatamente non infierii sul viceispettore bersagliandolo di frecciate sul suo incrollabile ottimismo, perché dopo quattro giorni di semidisperazione telefonò nel mio ufficio Dalmacia Sirvent. La nostra informatrice aveva qualcosa di nuovo da dirci, ma voleva un appuntamento, niente soffiate telefoniche: era disposta a vuotare il sacco, ma il sacco vuoto doveva tornare a casa sua pieno di euro. Prendemmo appuntamento con lei in un bar del Paralelo. La pagammo profumatamente, e solo allora parlò:
«Mi dicono che quel tizio era pulito. Niente droga, niente casini. E questa è una. L'altra è che so un posto dove potete trovare la bionda. Sicuro al novantanove per cento».
«L'indirizzo di casa sua?»
«No, un phone center di calle Valencia, di quelli dove vanno gli immigrati per telefonare. Lei ci va quasi ogni giorno. E so anche come si chiama: Elena Vitova. È russa, e pulita. Non cercatela nei vostri archivi, fatica sprecata».
«È questa qui?» chiese Garzón, tirando fuori la foto.
«Sì, proprio lei. E adesso, signori, io scappo. E quasi ora di pranzo e non ho ancora fatto le tortillas di patate per il bar. La vita è dura, per chi lavora».
E così dicendo, se ne uscì a razzo, cosa che facemmo anche noi un attimo dopo. Il phone center di calle Valencia era diventato un obiettivo di vitale importanza.
Garzón mostrò subito la foto al tizio al banco. Questi annuì. Sì, quella ragazza veniva quasi ogni giorno. No, quel giorno non era ancora passata. Capimmo subito che da quel momento in poi la macchina sarebbe diventata una casa per noi. Com'era prevedibile, il phone center non registrava alcun dato degli utenti, quindi non c'era altro da fare che aspettare. E aspettammo, fino all'esasperazione, fino all'estenuazione. Dopo sei ore, visto che non si era ancora fatta viva, chiedemmo l'aiuto di due agenti che, muniti di foto anche loro, ci dessero il cambio per permetterci di riposare. Ma il riposo fu relativo, almeno nel mio caso, perché l'immagine della russa continuò a perseguitarmi nel sonno.
Alle undici del mattino del terzo giorno, la bionda si degnò di comparire. Avevo tanto desiderato vederla che quando successe mi parve di avere davanti un fantasma. Ma era lei, e Garzón me lo confermò quando gli rifilai una gomitata, muta com'ero per l'emozione. Scendemmo dalla macchina, lasciammo che facesse la sua chiamata, in modo da poterla controllare, e l'abbordammo quando stava per uscire.
Era molto bella, ma quando le rivelammo la nostra identità di poliziotti, il suo volto slavo assunse l'inespressività di una maschera. Alle nostre prime domande rispose sempre di no: non conosceva Rimantas Laztsdelis, quindi era ben difficile che avesse avuto alcun rapporto, sentimentale o di altro tipo, con lui. Ma la sua reazione a una frase brutale del viceispettore bastò a smentire tutto quel che aveva detto.
«Rimantas è morto, l'hanno assassinato. Lo sapeva?»
In quel momento si mise a piangere. Fu necessario aspettare che si calmasse per continuare l'interrogatorio. Alla fine accettò di parlare. Era stata la ragazza del lituano per quasi un anno. Anche se non vivevano insieme, si vedevano ogni giorno. Tutto era andato bene, fino a otto mesi prima. Poi lui, di colpo, le aveva detto di punto in bianco che non l'amava più e aveva smesso di vederla. Non sapeva nemmeno dove fosse andato ad abitare.
«Che cosa combinava, Rimantas?»
«Non lo so».
«Insomma, Elena, si tratta di capire chi può averlo assassinato. Parli per favore».
Inaspettatamente, andò su tutte le furie.
«Vi dico che non lo so! Gli è successo qualcosa dentro».
«Ma noi vogliamo sapere cos'è successo fuori! Chi vedeva, come viveva, che genere di lavoro faceva».
«Lavoro! Finché tirava avanti come capitava, tutto è andato bene. La nostra storia ha cominciato a rovinarsi quando ha trovato un lavoro onesto, come gli aveva consigliato la polizia quando è uscito di prigione. È andato in quella ditta per un colloquio; anch'io avevo mandato la domanda, e il colloquio l'hanno fatto anche a me; volevamo fare una vita tranquilla, ma lui l'hanno preso, e me no. Ho dovuto andare a lavorare da un'altra parte, dieci ore al giorno, dieci ore al giorno anche lui, e la nostra storia ha smesso di funzionare. Poi, di colpo, mi ha piantata».
06
A quel punto dell'interrogatorio sentii una nettissima trafittura di allarme. Garzón aveva già pronta la domanda successiva, ma io, mossa da un impulso irrazionale, gli imposi con un cenno di lasciar fare a me.
«Chi le ha fatto quel colloquio di lavoro?»
«Una donna».
«Il capo del personale?»
«Quella troia! Quella i colloqui non li faceva a tutti, ma è toccata proprio a me. Gli altri mi hanno detto che se ti capitava lei, non c'era niente da fare; era una dura, non gliene fregava niente delle nostre difficoltà. Ma io non ci ho voluto credere, e le ho raccontato la verità, pensando che era una donna, che le avrei fatto pena e mi avrebbe dato una mano. Ma avevano ragione loro».
«E qual era questa verità?»
«Io, in Russia, ho un figlio di tre anni. Le ho detto che volevo farlo venire qui, e allora lei ha chiuso il colloquio. Ha detto che non potevano permettersi di assumere delle ragazze madri. Troppe assenze, troppa instabilità».
«Può descrivermi quella donna?»
«Alta, abbastanza bella. C'era una foto col marito e i figli sulla scrivania. Ma che io volessi vivere col mio non gliene importava un accidente».
Chiesi per la russa un fermo cautelare e per il momento considerai terminate le domande.
Non appena fummo di nuovo in macchina, cominciarono quelle di Garzón.
«Che cosa la colpisce, ispettore? Che quella ragazza volesse lavorare nella stessa ditta del morto?»
«Mi colpisce che l'unica persona che avevo considerato per bene fosse una disgraziata totale. Bisognerebbe sospettare per principio di chi si mostra comprensivo con i deboli, Garzón».
«Sempre a generalizzare, lei!»
Carmen Ventura ci ricevette tutta sorrisi come la prima volta.
«In cosa posso esservi utile?»
Ci offriva la sua collaborazione aprendo le braccia in un gesto quasi materno.
«Dottoressa Ventura, la mia domanda sarà molto precisa: lei possiede una Golf GTI nera di circa quattro anni?»
Le labbra le si tesero in modo quasi impercettibile.
«Be', ora non più. L'avevo, ma l'ho cambiata da poco. Non che io tenga agli status-symbol, ma lei sa che quando si ricoprono certi ruoli bisogna pur badare alle apparenze, e quella macchina era ormai troppo malconcia. Adesso ho una piccola Audi, che va benissimo».
«E dov'è la Golf, adesso?»
«Non capisco cosa mi stia chiedendo. Me ne sono liberata, logicamente».
«L'ha venduta?»
Il labbro superiore aveva cominciato a tremarle.
«No, a dir la verità ho deciso di lasciarla nell'autorimessa della mia casa di campagna. È una casa che ho ereditato dai miei, ma non ci andiamo quasi mai. A volte ci vado da sola con i bambini, e ho pensato che avere una macchina a disposizione anche lì avrebbe potuto farmi comodo».
«Mi sbaglierò, ma ho l'impressione che lei ci sia andata quindici giorni fa soltanto per lasciare l'auto».
Ora le tremavano anche le mani.
«Ispettore Delicado, tutto questo è assurdo, veramente, io...»
«Dottoressa Ventura, vuole costringerci ad andare a vedere? Dobbiamo proprio fare tutta la pantomima, arrivare fin lì solo per trovare quello che stavamo cercando: una Golf GTI di colore nero con un foro di proiettile calibro 357 Magnum nella carrozzeria? Non ci costringa a farlo senza prima aver confessato, non le conviene».
Balbettava, aveva perso il controllo...
«Ma io... vedete...»
«Lei, signora Ventura, ha incontrato Rimantas Laztsdelis per un colloquio di selezione del personale. E l'ha assunto perché le piaceva. Ha avviato una relazione con lui. Era la sua amante. E la cosa è arrivata al punto che lui, per evitare sospetti, si è visto costretto ad abbandonare il lavoro. Di lì in poi, lui ha cominciato sistematicamente a ricattarla, minacciandola di rendere pubblica la vostra storia. Mi sbaglio?»
Piangeva senza fare rumore.
«Si sbaglia. Io ero innamorata, e lo era anche lui, ma ho preferito che lasciasse il lavoro. Dovevo pure aiutarlo».
«E l'ha aiutato bene, bisogna riconoscerlo. O l'eredità dei suoi genitori era una bella fortuna, oppure è molto probabile che nei conti dell'azienda salti fuori qualche ammanco, non è così?»
Negò con decisione.
«No! Io non ho mai toccato niente che non fosse mio! Avevo un fondo di risparmio, tutto veniva di lì».
«Finché non l'ha prosciugato. Ma il suo amante chiedeva ancora soldi. E visto che non sapeva più come procurarseli, l'ha ucciso. Non le rimaneva altra soluzione, se voleva evitare lo scandalo. Sapeva perfettamente che tipo era, capacissimo di andare fino in fondo».
Lei batté istericamente sul tavolo con i pugni.
«No, no, le dico che non è andata così! Negli otto mesi che siamo stati insieme lui non mi ha mai chiesto un centesimo! Ero io a provvedere. Eravamo veramente innamorati. Soltanto dopo, alla fine, sì, mi ha minacciata; ormai era abituato a vivere in un certo modo, ma io non volevo lasciare la mia famiglia, anche se lui me lo chiedeva... Forse se avessi...»
«D'accordo, lei ci dà la sua versione della storia, la conosce meglio di me. Ma il finale è sempre lo stesso. Ha telefonato a Rimantas e gli ha detto che gli avrebbe consegnato ancora del denaro, sottratto alla ditta. Gli ha dato appuntamento in una via piena di uffici, dove sapeva bene che a quell'ora non sarebbe passato nessuno. È entrata con la macchina in un parcheggio sotterraneo perché nessuno la vedesse aspettare in strada. Se gli avesse dato appuntamento in un posto più isolato, lui avrebbe potuto sospettare qualcosa. Quando è arrivato, lui l'ha chiamata col cellulare. Lei è uscita con la macchina, si è fermata ed è scesa. Gli si è avvicinata e ha aperto le braccia per riceverlo. Sapeva perfettamente che Rimantas girava sempre armato e dove portava la pistola. Gliel'ha sfilata dalla tasca con la massima facilità e, come lui stesso doveva averle insegnato, ha tolto la sicura e ha sparato. Poi gli ha fatto qualche graffio alla svelta e gli ha messo un po' in disordine i vestiti per lasciare qualche segno di lotta. Quindi ha pulito per bene la pistola e gliel'ha ficcata in mano. Facile e veloce. Nessuno l'ha vista. Un lavoro pulito. Chi mai avrebbe potuto sospettare di una donna manager come lei? Nessuno. E lui aveva alle spalle una storia sufficientemente torbida da depistare le indagini».
Si era coperta il volto con le mani. I singhiozzi soffocati la facevano sussultare. Di colpo, intervenne Garzón:
«Ma perché non l'ha ucciso nell'appartamento?»
«Io lì dentro non ci sono mai andata. Non volevo rischiare che qualcuno mi vedesse. Ci incontravamo in albergo, sempre uno diverso. Avevo così paura di perdere la mia famiglia, e adesso... ecco come sono finita! Ma lui mi amava, o almeno mi aveva amata, prima di perdere la testa».
«Le credo. Aveva lasciato la sua fidanzata per lei».
«Allora era vero! Non gli credevo quando me lo diceva».
«Sì, era vero. Più tardi glielo spiegherò meglio, se le interessa. Ma adesso deve comparire davanti a un giudice».
Garzón ed io avevamo finito. Andammo a prendere una birra. Il caso era chiuso.
«Quella donna le ha fatto pena, vero, Petra?»
«Bah, un minimo di magnanimità non guasta! Non riusciva ad ammettere di essere stata ingannata. Ricattata sì, ma almeno con amore... Secondo me quello era soltanto uno stronzo che credeva di aver trovato il sistema per vivere senza lavorare».
«Ecco. Mi ha fregato un'altra volta. Non capisco mai cos'ha davvero in testa, lei».
«Meglio così, Fermín. Molto meglio».
E brindammo con tutto il cuore, come tante altre volte.