13.

Delphine.

«Sì, capita che qualcuno mi guardi, anzi, a dire il vero mi guardano tutti qui, ma penso che lo facciano perché stanno al volante per giorni interi e di donne ne vedono poche, giusto quelle sui cartelloni pubblicitari, o quelle che passano per strada.

«Io devo avere il pregio di star ferma. Non ferma del tutto, s’intende, ma almeno di muovermi poco, giusto quel che serve per spostarmi dietro il bancone a recuperare le cose, quelle che mi chiedono, la birra, i panini, e poi esco dal bancone e gliele porto anche ai tavoli, le cose, così mi vedono più vicina di qualunque cartellone o di qualunque altra che passi per strada.

«Ormai non ci faccio più caso, è normale, ma una volta mi sembrava importante. All’inizio credevo di avere qualcosa fuori posto, una macchia sulla camicetta, i capelli messi strani, qualcosa, insomma.

«Tutte le volte che passava di qua si fermava e si sedeva lì, proprio dove sta lei adesso, ordinava da mangiare, anche se l’ora era passata da un pezzo, poi cominciava a guardarmi, ordinato, metodico, come se quello fosse lo scopo del suo viaggiare su e giù per la strada costiera.

«Lei lo sa cos’è uno sguardo metodico? No? Glielo spiego io. Uno sguardo metodico è un modo di guardare che non lascia niente di inesplorato, è uno sguardo che scava, che tocca, che non si può fermare con niente, neanche con le mani, perché se cerchi di farlo le solleva e le sposta, le tue mani, con una gentilezza inesorabile da cui non ti puoi difendere.

“Mi chiamo Byron” mi disse una volta che gli portai la cena al tavolo.

“Non gliel’ho chiesto” risposi.

“Era un inglese importante, un poeta, lo sapeva?” continuò lui.

«Feci per andare via, ma il suo sguardo mi fermò: “Non dia retta a questi bifolchi, loro mi chiamano Bygon, sì, ha capito bene, come quella roba per ammazzare le mosche”.

«Io volevo andar via, ma lui mi prese il polso, premendolo contro il tavolo e la sua faccia era così vicino alla mia pancia che mi sembrava di sentire il suo respiro attraverso il vestito e mi spaventai un po’ pensando che in fondo non mi dispiaceva.

«Dietro al piazzale della benzina parcheggiano i camion, la notte, e gli autisti ci dormono dentro. Prima di coricarsi fanno la fila davanti ai bagni con in mano l’asciugamano e lo spazzolino da denti. Non te lo aspetti da uomini così, che tengano così tanto allo stato delle loro dentature, intendo, tutti in fila, come ragazzini in collegio.

«Quando chiudo il bar mi trattengo ancora un po’. C’è sempre qualcosa da mettere a posto. Feci così anche quella sera, poi mi tolsi il grembiule e spensi le luci.

«Lui mi aspettava sul retro. Non lo vidi subito, perché aveva scelto un posto lontano dalla luce. Se ne stava lì e mi aspettava. Con la coda dell’occhio vedevo la brace della sua sigaretta: “Di’ qualcosa” pensavo, “non dire niente... lasciami andare via... chiamami... non chiamarmi... seguimi, fai in fretta, prima che arrivi agli scalini di casa... accelerare il passo, devo accelerare il passo, un passo dopo l’altro, senza fermarmi, velocemente...”

«In quel momento vidi la sua sigaretta tracciare un semicerchio perfetto nell’aria e atterrare da qualche parte vicino ai miei piedi.

«Per me fu come un segnale, un ordine in codice che m’intimava di fermarmi e aspettarlo, e mentre mi spingeva contro il muro e io gli dicevo che no, non poteva farlo, ma intanto lo tiravo verso di me e lasciavo andare le sue mani dovunque volessero andare, mi chiedevo perché continuasse a chiamarmi per nome e chi mai glielo avesse detto il mio nome; Delphine, il mio nome».