1.

Dando le spalle alla Torre di Londra, guardando oltre il Tamigi, si può notare un gruppo di nuovi palazzi di uffici allineati lungo la sponda meridionale. Per costruirli ci sono voluti solo sei mesi – sono un assemblaggio di strutture di acciaio con un semplice rivestimento di vetro brunito – eppure non sembrano fare davvero parte della città perché, stranamente puliti e incontaminati dalla storia che li circonda, hanno un’aria di ottimismo non autoctona, più adatta al centro di Toronto o di Cleveland. Subito alla loro sinistra, in uno spiazzo con alberi e fontane curato da privati, comitive di studenti stranieri arrivano in pullman per fotografare il fiume, mentre gli operatori finanziari, con un buco in agenda a causa del bonus imprevisto di un treno puntuale o di una strada libera, siedono sulle panchine guardando i messaggi trasmessi invisibilmente ai loro cellulari dall’aria luminosa del mattino.

Un logo discreto in cima a una delle torri è l’unico segnale visibile che abbiamo raggiunto la sede centrale europea di una delle più grandi società di revisione contabile del mondo. Nonostante tale reticenza, l’edificio concede al passante curioso di spiare liberamente ciò che accade all’interno. Gli impiegati, forse più consapevoli di godere di una vista spettacolare che non di essere loro stessi uno spettacolo, riposano i piedi scalzi su scatole di toner, consumano il pranzo alla finestra senza imbarazzi, si dondolano sulle sedie ergonomiche, si riuniscono in cerchio per misteriose attività di gruppo e scrivono acronimi sulle lavagne in sale piene di colleghi dall’aria concentrata – azioni che si svolgono dietro tripli vetri come in un inquietante film muto, accompagnato solo dalla colonna sonora dei gabbiani, del traffico fluviale e del vento che arriva da est.

All’ingresso si trova una hall fatta apposta perché ogni nuovo arrivato provi l’impulso irresistibile di rovesciare all’indietro la testa per seguire una successione di piani che sembra salire all’infinito e, facendolo, si soffermi a pensare – come un tempo i costruttori di cattedrali speravano accadesse nelle loro navate a volta – al rispetto dovuto a chi è responsabile della creazione e della gestione di un tale colosso. Tuttavia, diversamente che a Chartres, qui non è del tutto chiaro a che cosa si dovrebbe rendere omaggio. Forse al duro lavoro, alla precisione, a una certa spietatezza e alle sorprendenti complicazioni del processo di revisione dei conti. Una targa affissa a una parete dichiara: CI PIACE LA GENTE CHE DIMOSTRA INTEGRITÀ, ENERGIA ED ENTUSIASMO.

A giudicare dal numero di persone sedute nei divani di cuoio rosso della hall, non capita di rado che gli appuntamenti si facciano un po’ sospirare, per insinuare surrettiziamente l’impressione dell’importanza dell’ospite ai piani superiori. Una receptionist, consapevole della solennità del proprio ruolo quanto dovevano esserlo le sacerdotesse del tempio di Delfi, ha l’incarico di svolgere una breve cerimonia di iniziazione: ti fornisce il badge e ti indirizza al divano con la vaga promessa che poi verrà a salvarti. Ti vengono offerte copie omaggio di giornali e bottiglie d’acqua blasonate con il nome dell’azienda. Aspettare sembra la più antica delle attività umane: risale fino ai senatori che passeggiavano avanti e indietro davanti all’ingresso della residenza imperiale nell’antica Roma, e ai mercanti in fila per vedere il califfo nei palazzi rivestiti di marmo della Cordova medievale. Sullo sfondo, una schiera di ascensori emette di tanto in tanto dei segnali sonori, mentre le guardie giurate sorvegliano i tornelli sperando che un alterco interrompa la noia della giornata.

Come nella sala d’attesa del medico, viene la tentazione di scrutare gli altri visitatori e di chiedersi quali siano i problemi che li hanno portati qui. Di certo non saranno semplici. I revisori contabili non sono al servizio dei bisogni superficiali della vita. Il loro lavoro non esisteva neppure agli inizi della storia delle attività economiche; nacque solo dopo che milioni di persone furono raccolte nelle città e suddivise in falangi industriali; fino ad allora, infatti, la contabilità occupava soltanto qualche momento sporadico al bancone sul retro, alla luce di una candela. L’avvento degli specialisti votati esclusivamente alle finanze, incapaci di pescare, di costruire una casa o di cucire un cappotto, ma interamente dedicati a fornire risposte in materia di ammortamento, profitti di investimento e transaction tax, sembra il culmine della lunga storia della divisione del lavoro che cominciò nell’antico Egitto tremila anni fa e che, almeno in casi come questo, ha generato profitti spettacolari e qualche caratteristico effetto collaterale psicologico.

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Tutto nell’edificio sembra elegante e tenuto bene. Assenti le ragnatele endemiche nel mondo normale. Uomini e donne percorrono i corridoi e le passerelle sospese con l’aria di avere uno scopo. Cinquemila impiegati sono ripartiti in divisioni chiamate Revisioni, Tasse, Banche, Mercati di capitali, Immobiliare, Consulenza sulla gestione dei rischi. Sono coadiuvati da duecento persone in staff che sistemano le sedie, portano i biscotti durante gli incontri con i clienti, smistano le email e pinzano i badge identificativi. Un magazzino di cancelleria, con una sorveglianza più prodigiosa della caverna di Aladino, vanta una fornitura di tremila evidenziatori che potrebbero tracciare un nastro di inchiostro giallo fluorescente intorno al pianeta e che t’invitano a pensare ai vari angoli del mondo e alle diverse situazioni in cui si esauriranno; uno di loro, che so io, si seccherà in un albergo di Kiev, dopo aver evidenziato i punti salienti di un documento di cinquecento pagine intitolato «Costo medio ponderato del capitale nell’industria mineraria del rame».

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A chi la considera dall’esterno, l’attività di revisione dei conti potrebbe sembrare sinonimo di tedio burocratico, ma visto da vicino questo particolare agglomerato di talenti matematici offre all’osservatore un caso esemplare del discreto fascino degli uffici, con il loro attraente miscuglio di cameratismo, intelligenza e futilità. La casa madre sulle rive del Tamigi è lo sfondo di una serie di comportamenti peculiari almeno quanto quelli che un etnografo potrebbe scoprire tra i clan di Samoa.

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Ho deciso di passare qualche tempo nella torre di vetro dei revisori come pure nella casa di uno di loro, per scattare un’istantanea della loro giornata media.

2.

Sono le sei di un mattino di fine luglio, in un paese a cinquanta chilometri dall’ufficio, nella campagna del Berkshire. Definire «sonno» il processo che sta per giungere alla fine a causa della spietata insistenza di un ronzio elettronico non rende neanche lontanamente l’idea di quel che è successo nelle ultime sette ore, cioè da quando una delle contabili di cui seguo le tracce ha perso contatto con il proprio io conscio mentre guardava un servizio al telegiornale regionale ed è stata accolta tra le braccia di Morfeo. Magari sembrava solo stesa sotto un piumone, in una stanza quieta, a parte l’occasionale scorrere di fari di auto sul soffitto, e invece si era imbarcata in un viaggio turbolento popolato di facce ed emozioni inattese.

Era tornata al liceo, e quel giorno c’era un compito in classe di algebra. Sedeva accanto a un ragazzo che era anche, e senza alcuna contraddizione apparente, un collega del reparto Prodotti per la vendita al dettaglio. Poi c’era la coda al supermercato e la regina gridava che qualcuno le aveva rubato gli orecchini, scena che si dissolveva in un incontro su un traghetto con un fidanzato perso di vista da dieci anni, ma che le parlava della fine del loro rapporto con una precisione che la sognatrice, da sveglia, non avrebbe mai potuto esibire. È incredibile quanto riusciamo a sembrare tranquilli visti dall’esterno, con al massimo un braccio o una gamba che si muovono appena di tanto in tanto, mentre viaggiamo su quel treno fantasma.

Una volta che la sveglia è suonata, la contabile non può fare altro che dirigersi in bagno, senza rendere alcun omaggio alle proprie visioni. Associazioni affettive e desideri irrealizzabili sono messi a tacere e l’io si ricompone in un’entità a prima vista coerente, con impegni costanti nel tempo e un futuro programmato. Eppure, nel torpore mattutino, per qualche attimo si ha la sensazione di essere ancora a metà tra i due mondi, con parti di sé che si attardano nel sogno e parti più severe che si danno da fare con rubinetti e spazzolino da denti. Col passare del tempo il ponte levatoio che ci collega alla notte è ritirato, un attimo dopo resta solo il rumore dell’acqua che scorre e, su uno scaffale accanto alla finestra, una boccetta su cui è scritta a grandi lettere l’implicita affermazione della supremazia della realtà diurna: la familiare eppure non banale dicitura «Shampoo e balsamo, due in uno».

Com’era silenziosa la nazione fino a cinque minuti prima, eppure quanto asciugar di capelli, annodar di cravatte, quante ricerche di chiavi, rimozioni di macchie e urlate al coniuge si svolgeranno nei prossimi trenta minuti, mentre ciò che accade nella casa della contabile viene replicato in centinaia di migliaia di altre case dentro un cerchio gigante tracciato intorno alla capitale, da Folkestone ad Aylesbury, da Haslemere a Chelmsford. Suonano sveglie a Rottingdean e a Harwich, sveglie appoggiate su scaffali di abete e su comodini col ripiano in marmo, sveglie che vibrano e altre che fanno partire gli annunci di giornalisti la cui voce flautata illustra l’andamento di cicloni e valute.

Una volta lavata e vestita, ecco la contabile davanti a un piatto di cereali, poi di gran carriera una borsa e l’impermeabile per la camminata nell’aria gelida fino alla stazione. Fuori sembra meraviglioso che il mondo naturale esista ancora e abbia l’aria di essere indisturbato e sereno, così indifferente ai problemi umani, con un cielo nuovo che ha spazzato via le burrasche di ieri e non porta rancori, una scena di innocente bellezza che incoraggia il tentativo di scovare in sé riserve di energia e buon umore.

Il treno arriverà in orario, dice il cartellone alla stazione, e la contabile cammina fino in fondo alla banchina, sotto arcate vittoriane inzuppate da strati decennali di intonaco, passando davanti a manifesti che pubblicizzano spettacoli nel West End e gite in giornata ai castelli storici. In alto passa un aeroplano, veterano di partenze persino più mattutine, forse con a bordo un bambino che, in quel preciso istante, guarda e giù vede, racchiusa nei confini del finestrino, l’intera tratta della linea ferroviaria che si snoda dalla costa fino alla capitale. A terra invece, in lontananza, ondeggiando appena da un lato all’altro, con le luci di testa accese e scintille che sprizzano da sotto le ruote, un treno in livrea verde si presenta allo sguardo, lanciando un fischio da trenino giocattolo nell’ampio orizzonte.

Entrare nello scompartimento è come interrompere una funzione religiosa. L’aria fredda disturba i sogni a occhi aperti che, iniziati molte stazioni prima, si erano rinvigoriti mentre il treno attraversava i campi di grano. I passeggeri già accomodati non alzano gli occhi né danno alcun segno diretto di essersi accorti della nuova arrivata, ma si tradiscono risistemando di scatto le membra per consentirle di avanzare, strizzandosi, fino a uno degli ultimi posti a sedere rimasti liberi. Il treno riparte, riattaccando il suo ritmico clangore su rotaie posate un secolo e mezzo fa, quando la capitale cominciava a buttar giù dal letto lavoratori di villaggi lontani, le cui fattorie fuori dal paese segnavano per gli abitanti i confini del mondo noto.

Il silenzio nello scompartimento ha qualcosa di forzato, considerando che siamo una specie per natura socievole. Eppure è molto più compassionevole, da parte dei pendolari, fingere di essere sprofondati in altre faccende anziché rivelare in pieno come si esaminano, si giudicano e si disapprovano reciprocamente. Alcuni azzardano un’occhiata, furtivi come uccellini che beccano il grano. Ma solo in caso di incidente ferroviario saprebbero per certo chi erano i compagni di viaggio, e quali piccoli ingranaggi dell’economia della nazione erano seduti in tutta innocenza al di là del corridoio un attimo prima dell’impatto: gente che lavora negli alberghi, nei ministeri, in cliniche di chirurgia plastica, in serre di frutta e in aziende produttrici di biglietti di auguri.

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Tutt’intorno si leggono i giornali. Naturalmente il punto non è ottenere nuove informazioni, ma costringere la mente a uscire dalla modalità introspettiva indotta dal sonno. Sfogliare il giornale è come mettersi una conchiglia accanto all’orecchio ed essere travolti dal mugghiare dell’umanità. Oggi c’è un articolo su un uomo che si è addormentato al volante dell’auto dopo essere stato sveglio fino a tardi per coltivare peccaminose relazioni online: è uscito di strada su una sopraelevata, uccidendo i cinque membri di una famiglia che viveva in un caravan. Un altro articolo parla di una studentessa universitaria bella e promettente, sparita dopo una festa e trovata a pezzi nel retro di un camioncino cinque giorni dopo. Un terzo ricostruisce nei particolari l’affaire tra un’istruttrice di tennis e un suo allievo tredicenne. Questi servizi, così smaccatamente demenziali e catastrofici, danno una paradossale consolazione, perché ci aiutano a sentirci sani e fortunati al confronto. Possiamo alzare gli occhi dal giornale ed esperire un nuovo senso di sollievo per le nostre prevedibili routine; possiamo sentirci grati per come abbiamo tenuto sotto stretta sorveglianza i nostri desideri, e orgogliosi per la moderazione di cui abbiamo dato prova evitando di avvelenare i colleghi e inumare il coniuge sotto la veranda.

Quadretti familiari scorrono davanti ai finestrini: una centrale elettrica, uno spiazzo di terreno abbandonato, un deposito della posta, un boschetto di alberi vetusti, un gruppo di scolare in uniformi grigie e azzurre, una massa di nubi cumuliformi in arrivo da occidente, un centro commerciale al di là di un’autostrada, biancheria stesa che ondeggia e poi, gradualmente, il retro delle villette di periferia, che preannunciano l’arrivo del treno nel centro di Londra.

Nel palazzo dei revisori gli impiegati stanno già cominciando a scorrere attraverso le porte di vetro rinforzato. Sono usciti da scompartimenti ferroviari a Victoria, a Farringdon, a London Bridge o a Waterloo, hanno guidato in galleria, sono stati sballottati da autobus diesel, hanno attraversato di corsa i saloni degli aeroporti, fatto jogging nei parchi e sono andati in bicicletta per colline e vie centrali, senza lasciar mai intendere al resto del mondo il centro della ragnatela verso la quale accorrevano. E quale varietà di colazioni hanno mangiato! Biscotti danesi, l’avanzo del pollo al curry della sera prima, salsicce, uova alla scozzese, tazze di Cheerios e di Coco Pops dai nomi baldanzosi per infondere speranza nei loro consumatori pendolari.

Gli impiegati salgono ai piani superiori senza guardarsi intorno. Sentirsi come a casa propria in ufficio significa non notare la strana scultura in argento all’ingresso e aver dimenticato come ci era sembrato estraneo quel posto il primo giorno. L’inizio del lavoro significa la fine della libertà, ma anche del dubbio, dell’intensità e dei desideri imprevedibili. Le diecimila possibilità che erano a disposizione della contabile si sono ridotte a una piacevole manciata. Ha un biglietto da visita che distribuisce durante le riunioni e che dice agli altri – e, cosa forse più importante, ricorda a lei stessa – che è una senior manager di un’area di affari, piuttosto che una vaporosa e temporanea coscienza in un universo accidentale. Com’è appagante essere tenuti insieme da quel che pensano i colleghi, invece di essere costretti a contemplare, nella solitudine delle ore del mattino, tutto quello che avremmo potuto essere e invece non saremo mai. In agenda ha un incontro con una squadra di broker assicurativi tra mezz’ora, quindi ha tempo di prendersi muffin e caffè al bar. L’inizio della giornata lavorativa in ufficio ha fatto svanire la nostalgia come il sole ha fatto evaporare lo strato di foschia. La vita non è più misteriosa, triste, incantata, commovente, stupefacente o malinconica; è uno scenario pratico in cui compiere azioni oculate.

3.

In una sala riunioni al settimo piano si sono riunite dieci persone per discutere come procede il controllo interno di un’azienda di Birminghan che produce contenitori di plastica per l’industria alimentare. La gerarchia dei partecipanti va da un socio dell’azienda, in maniche di camicia a capotavola, fino al pivello in un vistoso completo a righe, che ha finito l’università l’estate scorsa. I presenti si scambiano battute e prese in giro simpatiche, come accade tra un maestro e un gruppo di allievi spavaldi ma rispettosi. «Allora, hai visto la partita ieri?» chiede il socio al giovanotto alla sua destra, dai capelli accuratamente acconciati a punte con il gel. «Si capisce, Robinson, ma il prossimo weekend vi faremo passare la voglia di sorridere» ribatte l’altro.

Per tutto il mese i cinque membri junior del team contabile si sono trasferiti, durante la settimana lavorativa, nella periferia meridionale di Birminghan, in un hotel vicino al cliente. Durante il giorno lavoravano negli uffici amministrativi, vagliando documenti e testando i dati sui loro portatili. La sera frequentavano lo Star of India, il ristorante bengalese di fronte all’albergo, al di là di una strada a doppia corsia. Il regolamento dei viaggi prevede che il personale con qualifica inferiore a quella di manager per la cena abbia diritto a un rimborso massimo di 20,50 sterline.

Non è facile incoraggiare i contabili a parlare a ruota libera del proprio lavoro. Hanno la sensazione che qualsiasi curiosità manifestata dal profano nasconda una nuova presa in giro, dopo tutte quelle che devono essersi sorbiti fin dal momento in cui, il giorno della laurea, hanno reso nota la carriera che intendevano intraprendere. Ma, perseverando, l’atteggiamento riflessivo e autocritico a poco a poco cede il passo a un più sincero orgoglio perché sanno di padroneggiare un mestiere labirintico.

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Chiacchiero con Emily Wan. Ha ventott’anni e si è trasferita di recente a Londra dalla filiale di Shanghai, dove era stata assunta dopo essersi laureata con voti eccezionali presso l’università Jiao Tong. Paragona lo svolgimento del controllo interno a un lavoro di falegnameria. Il capitalismo non potrebbe funzionare senza di lei, dice sorridendo. Le procedure utilizzate per gli audit sono identiche in tutto il mondo, per consentire ai contabili di lavorare senza intoppi con i colleghi stranieri, come accade ai piloti. Le regole sono state codificate in una bibbia di quattromila pagine, intitolata Global Audit Methodology, che mi porto a letto da leggere. A Birmingham ogni membro del team è stato incaricato di verificare una diversa voce del bilancio del cliente: uno ne esamina il libro cespiti, un altro i debiti, un terzo le passività, un quarto i creditori e un quinto gli accantonamenti. Alla fine del controllo il senior partner firmerà seicento moduli che attestano con valore legale l’accuratezza dei conti presentati, consentendo così ai potenziali investitori di avere sufficiente fiducia da imbarcare il loro denaro per lunghi e intangibili viaggi digitali in direzione dell’azienda.

Al momento il team sta studiando dei metodi per valutare l’affidabilità del sistema di fatturazione. Stanno mappando il flusso di cento milioni di sterline nelle tubazioni interne del cliente nell’arco dei sei mesi precedenti. A causa di un documento mancante c’è stato un irritante ritardo nella certificazione.

Anche se la distinzione tra natura e artificio spesso svanisce a un esame ravvicinato, siamo innegabilmente lontani dalla condizione umana quale si manifestò per la prima volta nella Rift Valley africana circa 250.000 anni fa. È difficile non ammirare tanta dedizione per le clausole scritte in piccolo. Livelli di impegno che nelle società del passato erano esclusivi delle campagne militari e dei deliri religiosi sono stati incanalati verso il ricamo numerico. Sarà anche vero che la storia si fonda su vicende di eroismo e dramma, ma in fin dei conti pochi tra noi finiscono in mari aperti, mentre la maggioranza resta al porto, a contare le corde e a sgarbugliare le catene delle ancore.

È indubbio che la contabilità dà ai suoi professionisti una particolare visione del mondo. I contabili non mi chiedono come o perché uno si metta a scrivere libri, ma se l’imponibile a volume è pagabile in più anni o deve essere saldato integralmente al momento della pubblicazione. Sono come chirurghi urologici che ti vedono sempre essenzialmente come un rene.

Quel che colpisce maggiormente è che sembrano non sentire la mancanza di un lavoro che possa in qualche modo aspirare a lasciare un’eredità durevole. Hanno la libertà interiore di esercitare la loro intelligenza al modo in cui gli autisti di taxi utilizzano il loro senso dell’orientamento: vanno dovunque il cliente chieda loro di andare. Una settimana devono occuparsi delle finanze di una piattaforma petrolifera, la successiva delle passività fiscali di un supermercato o di una fabbrica di fibre ottiche. Non ambiscono alla fama presso il vasto pubblico e non annoteranno le loro riflessioni per un futuro indifferente ed effimero. Sono abbastanza equilibrati da essere scesi a patti con l’oblio. Hanno accettato con grazia che la revisione dei conti offre scarse opportunità di immortalità.

4.

In una sala da conferenze al pianterreno, ventiquattro nuove reclute sono alla loro seconda settimana di corso pratico di contabilità aziendale. La settimana scorsa hanno ricevuto un’infarinatura sui principi dei report finanziari e questa settimana verranno istruiti sui meccanismi dei sistemi assicurativi aziendali. Nel tentativo di tenerli su di morale, l’azienda prima li ha portati in pullman in un hotel elegante fuori Londra, dove hanno incontrato il presidente, poi in un centro benessere per un pomeriggio di trattamenti e massaggi. Inoltre sono stati anche presentati allo psicoterapeuta aziendale, all’addetto al servizio di lavanderia, al direttore dei servizi informatici e al capo dell’associazione dei revisori gay e lesbiche, i cui membri si ritrovano per un aperitivo il primo martedì di ogni mese. E ora, poiché gli allievi hanno seguito una lezione per più di un’ora e mezzo e molti di loro danno segni di affaticamento, il tutor del corso decide di lasciarli liberi di assaggiare le brioche e la pasticceria danese al buffet appena fuori dall’aula.

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Per la maggior parte della storia dell’umanità, lo strumento necessario per indurre i sottoposti a svolgere il proprio lavoro con energia e destrezza è stata la frusta. Fintanto che i lavoratori dovevano solo chinarsi e recuperare le spighe di grano cadute a terra o trascinare pietre dalla cava fin sopra una collina, li si poteva colpire spesso e duramente, con impunità e profitto. Ma quando comparvero mansioni che, per essere svolte adeguatamente, richiedevano esecutori con un notevole livello di soddisfazione, invece di persone semplicemente terrorizzate o rassegnate, si dovettero riscrivere le regole del lavoro retribuito. Nel momento in cui fu evidente che una persona incaricata di asportare un tumore cerebrale, redigere documenti di valore legale o vendere edifici con convinzione non poteva essere triste o rancorosa, riluttante o infuriata senza recare danno al risultato, il benessere mentale degli impiegati cominciò a diventare oggetto di supremo interesse per i dirigenti.

I lavori negli uffici di vetro sparsi per il mondo non possono essere imposti con la paura da un potere esterno. Le torri di guardia sono inutili quando si tratta di incoraggiare il personale a impegnare le proprie facoltà più nobili nell’abbozzo di scadenziari di dilazioni fiscali; è indispensabile invece che i manager gestiscano i loro sottoposti con un rispetto paziente e dispendioso. Questi dirigenti hanno dovuto rinunciare alla spregiudicatezza degli armatori del diciottesimo secolo, invidiabilmente liberi di scaraventare gli schiavi nel bel mezzo dell’Atlantico ai primi segni di scorbuto. I nuovi rappresentanti dell’autorità devono far funzionare la nursery aziendale e, ai raduni mensili, chiedere con passione ai subordinati se amano ancora il loro lavoro.

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Responsabile di rivestire con un guanto di velluto il pugno di ferro dell’autorità è Jane Axtell, che dal sesto piano dirige il Dipartimento risorse umane dell’azienda di revisione dei conti. Di recente ha organizzato una gara di pittura di paesaggio per liberare la costipata creatività dei contabili, e al momento, nel tentativo di rinvigorire il morale delle truppe, è impegnata a tappezzare i corridoi e le sale d’attesa di targhe intitolate: I NOSTRI VALORI. CHI SIAMO E COSA RAPPRESENTIAMO.

Certamente un diarista come Saint-Simon avrebbe avuto meno da riferire sulla corte di Luigi XIV se la Axtell fosse stata presente a Versailles. Grazie a lei l’azienda ha adottato una politica di tolleranza zero verso le prepotenze e i pettegolezzi, ha inaugurato una linea aperta ventiquattro ore su ventiquattro per impiegati angosciati, un forum in cui si può dare voce a lamentele contro i colleghi e una procedura che consente al dirigente di informare con tatto il suo sottoposto che gli puzza l’alito.

Alla base di queste innovazioni è la convinzione che le dinamiche del posto di lavoro siano complesse e insospettabilmente intense quanto le relazioni familiari, con la difficoltà supplementare che mentre le famiglie sono uno scenario notorio e legittimo per isterismi degni della Medea, la vita d’ufficio di norma procede dietro una maschera di allegria vuota, che lascia i protagonisti gravemente impreparati a gestire la furia e l’infelicità di continuo generata in loro dai colleghi.

Per quanto le strategie elaborate dal Dipartimento risorse umane possano sembrare forzate, è precisamente l’artificiosità a garantirne il successo, perché il tono studiato dei seminari fuori sede e degli esercizi di feedback di gruppo consentono ai lavoratori di protestare virilmente che non hanno proprio niente da imparare da quel genere di attività. Poi, come ospiti di una festa che all’inizio scherniscono la proposta del padrone di casa di fare una partita a Pictionary, a volte anche loro scoprono con sorpresa che nel gioco riescono a incanalare le loro ostilità, a riconoscere le loro emozioni e a sfuggire alla tortura delle chiacchiere insincere.

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Ci sono, va detto, pochi precedenti storici per la professione della Axtell e per il lessico che l’accompagna («relazionarsi al cliente», «avere un brand personale»), carenza che potrebbe condurre a giudicare il tutto come un male evitabile. Ma sarebbe un fraintendimento dell’assoluta peculiarità dell’ufficio contemporaneo: una fabbrica di idee in cui è essenziale che decine di migliaia di impiegati comunichino adeguatamente tra loro per soddisfare i bisogni di clienti aggressivi ed esigenti e, di conseguenza, un’entità estremamente vulnerabile a lotte intestine, al meschino occultamento di informazioni, all’insorgere di risentimenti inveleniti sull’iniquità dei dislivelli salariali, alla comparsa di forfora sui colletti dei manager, all’assenza di congiuntivi nelle comunicazioni aziendali e a strette di mano sudate in occasione di contratti decisivi. È, insomma, una comunità non indifferente ai balsami collettivi inoculati con discrezione nelle serate di karaoke e nell’elezione dell’impiegato del mese, che premiano i vincitori con una crociera sul fiume o un pranzo nella saletta dei dirigenti in compagnia del presidente.

5.

A più riprese ho provato a incontrarlo, questo presidente, ma prima era in Russia, poi in India, infine negli Stati Uniti, perdipiù in un periodo in cui sono quasi certo di averlo visto entrare in uno degli ascensori degli uffici londinesi. Poi per un altro periodo era ai piani superiori, ma troppo impegnato per potermi ricevere, sinché, finalmente, mi è stata concessa una mezz’ora per parlare con lui del futuro dell’azienda e delle sfide che la sua professione dovrà affrontare.

Sediamo l’uno di fronte all’altro in una stanza spoglia, con il capo delle Relazioni esterne a farci da chaperon, anche se non è chiaro a cosa serva la sua presenza se non a rinforzare l’idea che devo muovermi con delicatezza.

Un tocco di superficiale giovialità non riesce a mascherare l’insofferenza del presidente nei confronti degli scrittori. Quella mattina, come ogni giorno feriale, si è alzato alle cinque, è uscito a correre per quaranta minuti ed è arrivato alla scrivania prima delle sette. Esercita la sua sovranità su dodicimila persone e il suo regno si estende a uffici in Danimarca, Camerun, India, Senegal, Svezia, Scozia, Albania, Irlanda del Nord, Moldavia e Sudafrica.

Eppure, nonostante la carica, ha rinunciato a quasi ogni simbolo e orpello di autorità. Tutti ne parlano chiamandolo per nome. Non ha un aereo né un autista. Ha una segretaria in comune con qualcun altro. Va a lavorare in treno. Non ha neppure un ufficio tutto suo. Gli architetti gliene avevano progettato uno con vista sul Tower Bridge, ma lui ha voluto tenersi una postazione normale, a una scrivania non diversa da quella degli altri dipendenti. L’unico tratto distintivo è un pezzo di plastica laminata, a destra del telefono, su cui è impressa una citazione tratta da un discorso di Theodore Roosevelt in cui lo statista parlava del bisogno proprio di ogni essere umano di tendere all’eccellenza: «E, se non la ottiene, almeno fallisce osando molto, tal che il suo posto non sarà mai accanto a quello delle anime timide e fredde che non conoscono né la vittoria né la sconfitta».

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Guardando la mobilia del presidente mi torna in mente la poesia di W.H. Auden, I manager (1948).

 

Quando si stava peggio, non si stava così male:

un posto al vertice

lo si occupava con piacere; il successo

significava parecchio – tempo libero

e pranzi luculliani; altri palazzi pieni di ancora altri

oggetti; libri, ragazze, cavalli

più di quanti se ne potevano contare,

ed esser portati lungo la salita guardando

gli altri che camminano

 

Ma Auden sapeva come sarebbe andata a finire, per i dirigenti. Nei tempi moderni, si chiedeva,

 

ci sarà un pittore

che ne ritragga uno sorgere trionfante da un lago

a cavallo di un delfino, nudo

protetto da un ombrello di cherubini?

 

Naturalmente il potere non è del tutto scomparso; è stato solo riconfigurato. Mascherandosi da normale dipendente il presidente gioca la sua carta migliore per salvaguardare la propria supremazia. I subordinati ammirano la sincerità con cui finge di condividere il loro destino, mentre dentro di sé egli sa benissimo che solo un’esibizione convincente di normalità potrà evitargli di dover mai tornare normale.

Il presidente è anche stato costretto a rinunciare alla prerogativa di urlare ordini. Non può redarguire i neolaureati dell’INSEAD-Wharton. L’unico strumento che gli è rimasto è la persuasione. Perciò tre o quattro volte al mese sale sul podio in vari angoli del suo impero, si toglie la giacca, abbraccia con lo sguardo un pubblico di tremila contabili e, sullo sfondo di slogan in PowerPoint, spiega loro che sono dei professionisti ammirevoli, per poi lasciar cadere astutamente una raccomandazione affinché migliorino i loro metodi, con il tono umile e supplicante di un predicatore in un’epoca di fede in declino.

È evidente che il successo nel suo lavoro in ultima analisi non dipende tanto dalle sue azioni, quanto dalla sua fortuna nell’allineare la rotta dell’azienda alle correnti favorevoli della storia economica. È come un generale su un campo di battaglia che tenta vanamente di conservare una parvenza di controllo in mezzo a un caos di sporadiche deflagrazioni.

Forse il presidente ha percepito il mio pensiero. Non considera l’intervista come l’occasione per fornirmi informazioni utili, bensì come un insidioso esame della sua abilità di scansare qualsiasi pronunciamento possa poi ritorcerglisi contro – in altre parole della sua capacità di essere il più noioso possibile. Continua a discorrere con lo stesso tono affabile ma impersonale che potrebbe usare per arringare una folla. Gli chiedo di parlarmi del futuro dell’azienda. «Nessuno nega che ci aspettano sfide importanti. Ma nessuno dubita neppure per un istante che ci si apriranno anche delle fantastiche opportunità.» Che cosa desidera per i suoi dipendenti? «Tutti i nostri impiegati e partner vogliono sentirsi parte di un’organizzazione vincente, redditizia, un’organizzazione che guadagna fette di mercato e che crea quindi opportunità per tutti i suoi membri.» Gli piace viaggiare? «Abbiamo la fortuna di essere parte di un proficuo business globale, ma dobbiamo fare di più per dedicarci interamente alla nostra organizzazione globale e al mercato globale.» In che cosa la sua azienda è diversa dalle concorrenti? «Agli occhi dei clienti i nostri impiegati sono il nostro brand, e una specifica esperienza per ogni cliente può essere creata solo se le persone che lavorano con noi vivono i nostri valori.»

Dopo venti minuti di questa solfa ho la tentazione di chiedergli quand’è stata l’ultima volta che l’intestino gli ha creato un imbarazzo durante una riunione. Ma forse parla così non tanto perché desideri serbare i suoi segreti, quanto perché anni di circumnavigazione del globo, passati a respirare aria condizionata e a presiedere convention, hanno prosciugato la sua personalità. Magari sono dieci anni che non lo lasciano in pace in una stanza senza niente da fare. Ho sentito la noia trasformarsi in pietà per uno che, in altre circostanze, dovrebbe essere ben poco da compatire.

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6.

Arriva l’ora di pranzo, portando con sé l’odore seducente di frittura che sale dall’atrio fino ai piani superiori. Gli impiegati esaminano via intranet il menu della mensa. Il venerdì c’è «frittura del giorno con salsa tartara e fetta di limone», il mercoledì si va di curry e il giovedì c’è un «arrosto con contorno». Per evitare ritardi inattesi agli avventori, una webcam trasmette in diretta immagini della coda.

Comunque non tutti riescono a staccare durante il pranzo. Proprio in cima all’edificio, in una serie di sale da pranzo dirigenziali, i top manager sono impegnati nel difficile compito di assicurarsi parcelle milionarie dai rappresentanti delle più grandi aziende del paese, mentre fingono di interessarsi solo alle loro recenti vacanze e all’educazione dei figli. Anche se le cifre in ballo sono incomparabilmente superiori a quelle di cui si occupa un normale commerciante o un venditore che al telefono va a caccia di clienti nello sporco regno inferiore, i partner conoscono l’arte di assumere un’aria serena e distaccata da medici o docenti universitari.

Mark, il partner che pranza nell’ala orientale, ha messo a punto la sua tecnica durante un corso intitolato «Comunicazione con il cliente» che aveva come obiettivo lo sviluppo delle CCC, le Cinque Capacità Chiave dei partecipanti: sicurezza, spirito commerciale, comunicazione, capacità e impegno. Il corso si teneva in un hotel ai margini di un bosco fuori Northampton dove, durante la sessione serale, un paio di volpi sbirciarono da una finestra Mark che, seduto al tavolo con il suo piatto di carta e le posate di plastica, si esercitava a cenare in compagnia di un cliente immaginario.

Ora ne ha davanti uno in carne e ossa, di nome Arun, il capo del dipartimento finanziario del terzo produttore britannico di forniture per dentisti. La conversazione arranca. La prima portata non è ancora arrivata e i due hanno già parlato di cricket, del lago di Como, delle gare di Formula Uno, della relativa inefficienza dei pannelli solari e dei piccioni di Londra. Mark oggi si sente particolarmente stanco perché ieri sera è tornato tardi da un seminario dedicato all’industria petrolifera, che si teneva al Marriott Hotel di Aberdeen. L’incontro era incentrato sulle modalità con cui si possono usare i forward swap e le forward options per cauzionare prestiti, e gli anticipi di cassa per finanziare i costi di sviluppo. Per fortuna dalla finestra si gode una veduta fantastica e parecchi minuti possono essere dedicati a stabilire qual è il Lloyd Building. Ci sono anche quadri alle pareti. L’azienda ama l’arte e, al momento del trasferimento nella nuova sede, un’agenzia ha avuto l’incarico di munire quasi ogni spazio con opere intriganti e provocatorie di giovani artisti. La sala da pranzo sfoggia, come da manuale, la grande fotografia di una mucca che sembra sul punto di buttarsi in un fangoso fiume bruno. Forse è ambientata in India; forse la mucca vuole suicidarsi.

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Nel frattempo Guilherme fa la ronda. Quarantadue anni, nato a Bagé in Brasile, è stato ingaggiato da una società esterna di catering per servire ai tavoli durante i pranzi e le riunioni serali. A suo tempo ha conosciuto gli alti dirigenti dell’Axon Group, della Braveheart Investments, della Dama Petroleum, dell’Indago Petroleum, dell’Omega Diagnostic Group e della Zytronics PLC – anche se sarebbe più corretto dire che è stato nella stessa stanza in cui erano loro per un breve periodo di tempo, perché è probabile che nessuno ricordi questo aitante uomo dagli occhi bruni, padre di sei figli, che una volta ha offerto loro un panino pescandolo da un cestino d’argento.

Come prima portata, oggi, ci sono le linguine all’astice, seguite da filetto di tonno con rösti di patate. Se assumi Mark per pensare al posto tuo ti costa cinquecento sterline all’ora, mentre Guilherme vien via per sette sterline – una differenza spiegabile non solo con la storia e la diversa prosperità dei paesi nativi dei due, ma anche con i tre anni che Mark ha trascorso a prepararsi per la laurea in legge, gli altri due che ha trascorso al BPP College a King’s Cross per acquisire padronanza dei PAR (Principles of Auditing and Reporting), la sua tessera dell’Association of Chartered Certified Accountants e gli altri quindici anni di duro lavoro mentre passava da associato a manager, da manager a senior manager e finalmente da partner a senior partner.

Molti mesi dopo, con l’aiuto dei biglietti per Così fan tutte e dell’invito al vernissage di una mostra di paesaggi di Renoir, Arun finalmente verrà incontro alle richieste di denaro così ben presentate da Mark. Per parte sua, Guilherme sarà rimpatriato contro la sua volontà allo scadere del visto.

7.

Il momento del dopo pranzo è stranamente silenzioso, come se la memoria ancestrale della siesta sopisse le normali energie della giornata. Al settimo piano gli impiegati siedono alle loro scrivanie, concentrati sulla tastiera e sui documenti. A tratti le stampanti prendono vita ronzando, eruttando pagine che emettono il calore magicamente intenso e durevole di bagel appena sfornati.

A dispetto della predominante regolarità della sistemazione open space, dove le scrivanie sono identificate solo da secchi acronimi come ML6W.246, gli impiegati sono riusciti a dare una patina di individualità alle loro postazioni di lavoro. Ci sono le foto di famiglia appese alle bacheche di feltro, e ogni tanto una tazza o un boccale che rendono omaggio a squadre sportive o a destinazioni turistiche. Chinandosi a terra si potrebbe vedere quanti si sono tolti le scarpe e strofinano i piedi avanti e indietro sulla moquette, movimento che non solo consente di godersi la piacevole frizione delle fibre ricche di nylon attraverso il cotone, ma offre anche la sensazione di una microscopica infrazione delle regole, creando un angolo di intimità casalinga nel regno del lavoro.

I veterani dell’ufficio sono maestri nell’addomesticare l’ambiente. Sanno dove nascondere il cibo nella cucina comune e come scegliere il momento giusto per andare in bagno senza essere costretti a conversare, da lavandino a lavandino, con il collega accanto al quale sono stati seduti nell’atmosfera odorosa e tesa del cubicolo. Attacchi di attività produttiva sono intervallati da accordi per la cena, aggiornamenti sulle vicende sentimentali e analisi spietate delle ultime bravate delle celebrità del mondo del cinema o del crimine. Sono pochissimi, nell’arco di una giornata, i momenti in cui si fanno veramente i soldi, mentre molti sono quelli dedicati ai sogni a occhi aperti e al rilassamento.

Oltre le finestre, la gente passeggia lungo il fiume in abbigliamento informale. La loro libertà suscita domande sul senso ultimo del lavoro che viene eseguito dentro gli uffici. Le grandi domande, tuttavia, hanno la tendenza a sembrare irrilevanti quando si è nel bel mezzo di un’attività: stai solo preparando un documento per l’incontro delle quattro, perché te l’ha chiesto André o perché serve a Katrin per una presentazione a Bangalore. Anche in questo caso i contabili riassumono magistralmente il significato delle nostre vite lavorative. L’azienda ricava la fetta più cospicua dei suoi guadagni dall’abilità con cui le persone che vi lavorano preparano resoconti di fine anno che, dopo una lunga serie di preamboli su attività operative, quote di capitale, prestiti e passività, affermano che in sostanza l’ultima annata potrebbe essere riassunta come segue:

 

Anno corrente (in £)

Anno precedente (in £)

Fatturato

50.739.954

30.719.640

Utile lordo

10.305.392

7.003.417

Tali numeri esprimono riguardo alla vita dell’ufficio una verità non meno irrefutabile, eppure in fin dei conti non meno inessenziale o irritante dell’orgoglio con cui un biologo evolutivo ci ricorda che lo scopo dell’esistenza consiste nella riproduzione dei geni. L’aridità dei resoconti di fine anno non fa che evidenziare la misura in cui produrre guadagni è in realtà una scusa per fare altre cose, come alzarsi dal letto al mattino, parlare autorevolmente davanti a immagini proiettate, collegare portatili in stanze d’albergo all’estero, tenere presentazioni che analizzano le quote di mercato e ardere di desiderio alla vista della gonna pantalone ad altezza ginocchio di Kathy. Molto prima di aver guadagnato quattrini, siamo diventati consapevoli della necessità di tenerci occupati, abbiamo capito la soddisfazione che dà mettere mattone su mattone, versare l’acqua dentro e fuori dalle cisterne e spostare la sabbia da una buca all’altra, senza darci pensiero dello scopo ultimo delle nostre azioni.

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8.

Quanto a quella gonna pantalone, Kathy è la segretaria ventiduenne del direttore della Divisione vendite Nord Europa. Oggi sta preparando un itinerario per il tour della Scandinavia che il suo capo farà tra due settimane. Sulla scrivania ha una copia di Scopri Copenaghen. Gli ha prenotato una stanza tranquilla, ai piani alti dell’Hotel Imperial, in centro, e ha fissato alle 7.30 una colazione di lavoro con i capi della filiale locale, inclusi Søren Strøm, Lasse Skov Kristensen e Morten Stokholm Buhl.

Ma Kathy è probabilmente l’unica persona nei paraggi che riesca a concentrarsi su qualcosa di diverso dal volto o dalla figura di Kathy. I pensieri che la sua bellezza provoca sono così inappropriati e persistenti che è facile finire per trattarla con modi bruschi e impazienti, passibili di essere scambiati per indifferenza o addirittura maleducazione. Eppure il codice di condotta dell’azienda afferma esplicitamente: «Non vi è alcuna tolleranza verso la molestia sessuale sul posto di lavoro. La definizione di molestia sessuale include commenti oltraggiosi sull’aspetto fisico, osservazioni volgari, domande sulla vita sessuale e contatti fisici che violino la dignità di una persona o che rendano il suo ambiente lavorativo intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».

A prima vista il codice sembra ammirevolmente del tutto finalizzato alla tutela dei diritti di persone innocenti. Ma forse c’è una componente più cinica e meno altruistica in quell’implacabile paragrafo, forse quel che in realtà si vuole proteggere non è un particolare essere umano oggetto di attenzioni oscene, quanto piuttosto l’azienda stessa. Le emozioni suscitate dagli short di Kathy sono sediziose perché minacciano di sovvertire l’intera ragion d’essere dell’azienda. Rischiano di svelare una verità sgradevole, giacché potremmo pensare che fare sesso è molto più interessante di lavorare.

La gelosia dell’azienda non ci coglie affatto di sorpresa. Tutte le società della storia hanno dovuto regolare l’impulso sessuale per far sì che le persone combinassero qualcosa. È solo un’ingenua fiducia nella nostra apertura mentale a impedirci di riconoscere quanta vecchia, sana repressione sessuale si annidi nei nostri codici di condotta professionale.

Eppure, allo stesso tempo, tale repressione ha un effetto paradossale sulla sessualità, perché è un tratto essenziale della natura dell’erotismo il suo prosperare tanto più intensamente laddove più lo si proibisce. Nel quattordicesimo secolo era difficile trovare luoghi maggiormente carichi di sensualità dei conventi della Madre di Dio, proprio come oggi ci sono poche ambientazioni più libidinose degli open space laminati delle nostre aziende. Per il mondo moderno l’ufficio è divenuto quel che il monastero era per la cristianità medievale: un luogo dedicato alla castità con una capacità ineguagliabile di stuzzicare il desiderio.

Se queste due istituzioni hanno comminato pene severe per chi si abbandona a un comportamento trasgressivo è perché custodivano e custodiscono i valori più preziosi delle rispettive società coeve: gli insegnamenti di Cristo da una parte e il denaro dall’altra. Il denaro sta all’ufficio come Dio al convento. Poco importa che il desiderio fisico sia condannato con il gergo della molestia sessuale o tirando in ballo il peccato e il diavolo, in entrambi i casi si tratta di un’eresia che osa rinnegare i fini canonici, implicitamente affermando con impudenza che, a questo mondo, potrebbero esserci cose più preziose e travolgenti della quotazione in borsa e del Redentore.

La repressione ha pagato con tanto di interessi quanto meno in un ambito: com’era prevedibile l’ufficio e il convento sono straordinariamente popolari nell’immaginario dei pornografi. Non dovremmo sorprenderci scoprendo che i romanzi erotici dell’inizio della modernità erano in gran parte incentrati su gozzoviglie e flagellazioni tra rappresentanti del clero, durante i vespri e nelle cappelle, proprio come la pornografia odierna in internet è ossessionata da fellatio e sodomie tra impiegati, sullo sfondo di postazioni di lavoro e computer.

9.

Verso le sei l’ufficio comincia a svuotarsi e, un’ora dopo, è rimasto solo chi deve finire presentazioni e report urgenti, talvolta con la prospettiva di passare la notte alla scrivania, con una pausa verso l’una per Coca e pizza.

Il sole si avvicina all’orizzonte gettando una luce arancione sulle vetrate della torre. Che cosa si è combinato oggi? Un impiegato ha spiegato a un cliente le ricadute fiscali dell’importazione di mele dalla Slovenia. Un altro ha scritto un documento che confronta le tasse sulla vendita in cinque paesi dell’Africa occidentale. Un terzo ha distribuito badge e ha smistato trecento chiamate in entrata. Senza dubbio parecchie di queste attività perderanno un po’ della loro importanza con il passare del tempo. Fra tre anni la pagina dell’agenda di questo pomeriggio del 29 luglio sarà forse quasi inintelligibile, pur essendo così precisamente suddivisa in incalzanti blocchi di un’ora dedicati a incontri con colleghi i cui nomi e volti saranno diventati sempre più indistinti.

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Un impiegato dei servizi di consulenza si avvia verso la stazione di London Bridge a prendere il treno che lo riporterà nel Kent, facendo prima una tappa a un supermercato per una bottiglia di vino e un petto di pollo in salsa al formaggio. Per tutto il giorno non ha messo il naso fuori dall’ufficio, preso com’era a preparare tabulati di analisi degli investimenti di una ditta americana di diagnostica medica e a rispondere a email dei colleghi impegnati in un progetto a Denver. Quando esce dall’atrio con aria condizionata si stupisce sentendo che fuori fa caldo, vedendo l’aspetto atemporale del fiume e scoprendo quante persone di ogni taglia e qualità sono vive là fuori.

In via eccezionale questa sera il treno gli concede un mezzo scompartimento tutto per lui. È da dodici anni che fa sempre lo stesso percorso. Mentre la luce estiva si assottiglia, quando l’odore dell’erba tagliata penetra attraverso i finestrini dalla campagna circostante, l’impiegato si lascia prendere da un sentimento di nostalgia. Appoggia i piedi sul sedile davanti e si lascia trasportare a quelle altre sere che somigliavano tanto a questa, che avevano la stessa temperatura e luminosità, ma in cui sua madre era ancora viva, i suoi figli non erano ancora nati, lui non aveva ancora divorziato. Considera ciò che nella sua vita c’è stato di difficile, non necessario e deplorevole; ma è come se guardasse la faccenda da lontano, con una valutazione calma e lucida delle proprie imperfezioni e delle opportunità perdute, come se la sua propria vita non fosse altro che un brutto film sentimentale e lui ne fosse il protagonista, mezzo simpatico e mezzo insopportabile. Ha raggiunto l’età dei ricordi anche se in questo momento, in una delle case sparpagliate là fuori, c’è un ragazzo di sedici anni per il quale questa sarà la calda estate per antonomasia, l’estate del desiderio e della scoperta, quella che tra trent’anni ricorderà su un treno che ancora non è stato costruito e che ancora riposa sotto forma di vena di ferro nella terra rossa del Deserto Occidentale australiano.

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Il suo appartamento è tranquillo e colpevole. Nulla qui si è mosso mentre, sulle rive del Tamigi, il contabile aveva una riunione con l’IT o mentre si sforzava di mantenere la calma parlando con un sottoposto. Nota l’asciugamano che ha buttato di fretta sul divano dopo la doccia del mattino. La difficoltà sta nel sapere come chiudere una giornata di questo tipo. La mente si è caricata al massimo per concentrarsi sulle interazioni professionali. Ora c’è solo il silenzio e il lampeggiare dell’orologio sfasato del microonde. Al contabile sembra di aver giocato a un computer game che ha spietatamente messo alla prova i suoi riflessi solo per poi spegnersi improvvisamente. È agitato e inquieto e allo stesso tempo esausto e fragile. Non ha la forza di dedicarsi a nulla di impegnativo. Ovviamente leggere è impossibile, perché un libro autentico richiederebbe non solo tempo, ma anche uno spazio emotivo libero al cui interno lasciare emergere e dipanare libere associazioni e ansie. Forse nella sua vita riuscirà a fare solo una cosa bene.

E in questa particolare combinazione di stanchezza ed energia nervosa l’unica soluzione che funzioni è il vino. La civiltà dell’ufficio non starebbe in piedi senza le partenze forzate e gli atterraggi agevolati da caffè e alcol. L’approdo finale avviene sotto la guida benevola di un Cabernet cileno e dell’ipnotico, del tutto indifferente replay di crimini e cataclismi quotidiani al telegiornale della sera.