1.
Samuel Taylor ha trascorso buona parte degli ultimi due anni in un campo di grano nell’Anglia orientale, a dipingere sempre la stessa quercia in una varietà di luci e situazioni climatiche diverse. L’ha fatto lo scorso inverno con mezzo metro di neve e d’estate, alle tre del mattino, sdraiato supino nell’erba a ritrarre i rami superiori dell’albero alla luce della luna del solstizio.
Di norma, nelle giornate estive questo artista sconosciuto di mezza età carica l’auto, pronto per andare al lavoro, alle sette del mattino. Vive in una cadente casetta a schiera nel centro di Colchester, una città di centomila abitanti a una novantina di chilometri a nord-est di Londra. La sua Citroën, traballante e ammaccata, ha raggiunto un tale livello di decrepitudine da sembrare immortale. Sul sedile posteriore, in disordine come dopo uno scontro frontale, ci sono tele, cavalletti, prodotti insettifughi, panini stantii, una borsa di pennelli e una scatola di colori. C’è anche una vecchia valigia piena di sciarpe e maglioni, perché chi dipinge all’aria aperta di solito conosce la storia di Cézanne, che si prese un’infreddatura al mattino, mentre ritraeva un passero in un campo di Aix-en-Provence, e al tramonto era morto.
La strada che esce da Colchester porta Taylor attraverso un paesaggio deturpato da magazzini e cantieri. Il traffico di pendolari è impaziente e iracondo. Di fronte alla stazione ferroviaria, al centro di una rotonda, c’è un vecchio melo selvatico, improbabile superstite dei lavori stradali che hanno spacciato i suoi compagni. A dodici chilometri di distanza dalla città, Taylor lascia la strada principale e svolta in una stradina di campagna poco trafficata. Erbacce alte un metro si piegano e scompaiono, come pettinate, sotto il paraurti anteriore. Taylor trova il posto in cui di solito lascia l’auto e, a una quindicina di metri dall’albero, prepara il suo campo base in una radura in mezzo al grano.
Si pensa che la quercia abbia circa duecentocinquanta anni. Già ospitava storni e allodole quando Jane Austen era bambina e Giorgio III governava le colonie d’America.
2.
Per uno che ha dimestichezza con i dipinti sotto forma di oggetti completi e rifiniti appesi nei musei, è una sorpresa scoprire l’incredibile massa di equipaggiamento ingombrante e sporco necessario per crearli. Taylor possiede oltre cento tipi di pennelli, inclusi alcuni in pelo di cinghiale con punta a lingua di gatto, in pelo di martora, tondi, pennelli da barba, morbidi pennelli giapponesi da acquerello e pennellesse di tasso fatte a mano.
Accanto ai pennelli, Taylor dispone di un assortimento non meno eterogeneo di tubetti di colore ammaccati, che, nel loro insieme, costituiscono il suo alfabeto pittorico. È difficile credere che questi ingredienti possano essere combinati per creare un’allodola meticolosamente particolareggiata, o foglie primaverili e rami coperti di licheni. Impasti che, maneggiati senza abilità, si trasformerebbero in una poltiglia brunastra verranno domati e disposti in modo da riprodurre le sfumature del cielo e della terra.
Col tempo, nulla più ricorderà la materia originaria della pittura. Le scure macchie magenta sulle dita dell’artista, le chiazze rosse sulle sue scarpe, il verde appiccicoso e le strisciate blu sulle sue tavolozze svaniranno, lasciando i dipinti a cavarsela da soli, muti riguardo alle proprie origini materiali quanto strade di campagna appena tracciate. Lo spettacolo di Taylor al lavoro aiuta a ricordare che persino il Perugino e il Mantegna, noti di solito solo come nomi disincarnati nella storia dell’arte europea, un tempo erano esseri in carne e ossa che stendevano pittura su pezzi di legno usando ciuffi di setole di maiale fissati su bastoncini, e che a fine giornata tornavano a casa dalla bottega macchiati dei colori che avevano usato per dar forma a soffici nubi serenamente sospese sul capo dei loro Bambin Gesù.
3.
Taylor riprende a lavorare a uno studio dei rami bassi sulla sinistra dell’albero che ha cominciato tre settimane fa. Tra il pollice e l’indice tiene un pennello di martora di cui intinge la punta in una goccia di olio color magenta o terra di siena naturale che, più tardi, visti da lontano, si fonderanno nella perfetta riproduzione di una foglia al sole di mezzogiorno. Alti sul campo volano due falchi in attesa che un coniglio si muova tra il grano.
Le figlie della borghesia locale, che spesso percorrono a cavallo la stradina accanto all’albero, tendono a distogliere lo sguardo da quell’artista scarmigliato, affaccendato attorno al suo cavalletto, anche se, a mo’ di compensazione, arriva sempre un cenno amichevole dal barbone locale che, i calzoni sorretti da un pezzo di corda, vaga in questa zona lanciando insulti osceni contro un governo che si è sciolto da almeno un decennio.
Taylor ha visto l’albero per la prima volta tre anni fa, mentre faceva una passeggiata in campagna dopo la morte della sua compagna. Si era appoggiato al recinto che corre accanto alla pianta ed era stato sopraffatto dalla sensazione che qualcosa, in quell’albero così comune, lo pregasse di essere tradotto in pittura, e che se solo fosse stato capace di rendergli giustizia, la sua vita sarebbe stata in un certo qual senso riscattata e le sue disgrazie sublimate.
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L’albero visto da un aliante a 300 metri di altezza.
Non di rado Taylor si scorda di mangiare mentre lavora. In quei momenti è solo uno spirito e una mano che si muove su un quadrato di tela. Passato e futuro scompaiono quando lui è interamente assorbito dal compito di mischiare gli oli, di controllare che il colore corrisponda al mondo reale e di collocarlo nel posto che gli è stato assegnato nell’abbozzo. Gli insetti possono passeggiargli indisturbati sulla mano o accamparglisi temporaneamente sul collo o in un orecchio. Non sono più le dieci del mattino, non è più luglio; c’è solo l’albero davanti a lui e le nuvole sopra di lui, il sole che attraversa lento il cielo e quel minuscolo spazio tra un ramo e l’altro che richiederà l’intera giornata per essere completato.
Taylor è tormentato da un senso di responsabilità nei confronti dell’aspetto esteriore delle cose. Resta sveglio tutta la notte per quella che considera un’ingiustizia verso il colore del grano o una maldestra linea di contatto tra due lembi di cielo. Il lavoro spesso induce in lui un umore teso e silenzioso, che lo accompagna per le strade di Colchester. Per gli altri, tuttavia, è difficile empatizzare con le sue preoccupazioni, perché pochi sentono l’impulso di condividere lo strazio provocato da un errore nello stendere un po’ di pigmento su un pezzo qualunque di tela.
Il suo lavoro progredisce lentamente: può passare cinque mesi su una tela di venti centimetri quadrati. Ma il suo stile minuzioso è in realtà il risultato di oltre vent’anni di ricerca. Gli ci sono voluti tre anni solo per stabilire come rendere al meglio i movimenti del grano agitato da un soffio di vento, e anche di più per usare efficacemente il colore. Mentre una decina d’anni fa avrebbe utilizzato almeno dieci tonalità diverse di verde per dipingere le fronde dell’albero, adesso gliene bastano tre, eppure quelle foglie sembrano tanto più fitte, lussureggianti e mobili grazie a questa riduzione della complessità.
Taylor ha trovato i suoi maestri sulle pareti dei musei. I grandi del passato sono i suoi generosi insegnanti. Capita spesso che uno di loro comunichi un importante insegnamento tecnico a questo allievo nato cinque secoli dopo. Le opere che a volte, per i normali visitatori di gallerie, costituiscono un intrattenimento passivo, per gli artisti sono manuali viventi.
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Fu il Ritratto d’uomo con la manica blu di Tiziano (1501) a insegnare a Taylor come dipingere le foglie. Non fu neppure l’intero quadro a calamitare la sua attenzione durante le centinaia di ore che vi trascorse davanti, dentro la National Gallery di Londra. Il volto dell’uomo non lo interessava, ciò che lo affascinava era la manica blu, più precisamente il modo in cui Tiziano era riuscito a rendere un lembo di stoffa allo stesso tempo pesante e arioso, nonostante lavorasse con pochissimi colori. Tiziano gli ha insegnato la parsimonia, e come alludere alle cose invece di spiegarle. Gli ha insegnato che nel dipinto di un albero non ci dovrebbe essere la storia di ogni singola foglia, ma della massa dinamica dell’insieme. Ci sono solo cinque blu nella manica di Tiziano: il genio sta nella scelta attenta e nella combinazione accorta di queste tinte, cosicché mentre le pieghe più in basso sembrano schiacciate e vuote, quelle superiori tradiscono la presenza del braccio così chiaramente che sembra quasi possibile allungare la mano e stringerne la forma.
4.
Per definire il posto occupato da Tiziano nella storia della pittura, Taylor usa il più alto encomio a sua disposizione: un artista capace di guardare un pezzo di stoffa come se non ne avesse mai visto prima uno simile.
La descrizione perfetta, secondo la concezione di Taylor, è il cardine della pittura. A sentir lui, il cielo non è mai semplicemente blu. Nella zona più vicina al sole, nella parte alta della tela, usa il blu ultramarino a cui aggiunge sempre più turchese man mano che il pennello scende verso la terra. A 25 gradi vi mescola piccole quantità di giallo nichel titanio e di magenta finché, all’orizzonte, non resta che una soffice nebbiolina bianca.
Taylor ha accettato i limiti dell’impresa che si è prefisso. Il saggio che ha scritto per presentare una mostra di dipinti realizzati nel corso di cinque anni si apre con la seguente dichiarazione: «Per la maggior parte della mia vita adulta ho osservato alcuni elementi del mondo materiale. In particolare nell’ultimo decennio mi sono interessato a come cambia la luce quando si guarda verso il sole e poi se ne allontana lo sguardo»; è il sunto di un’ambizione che sta a metà tra l’autolesionismo e la megalomania.
L’anno precedente, in un umido gennaio, per due settimane Taylor si è sporto fuori dalle sue coperte impermeabili ai piedi della quercia per abbozzare studi di foglie e rami, di vermi e insetti. Quell’inverno dalla quercia erano cadute circa 180.000 foglie, destinate a essere divorate, a un ritmo impercettibilmente lento, dalle centinaia di milioni di batteri che vivono attorno alle radici. Taylor ha dipinto l’habitat grigio-bruno di collemboli, rotiferi, anguillule, lombrichi, millepiedi, falsi scorpioni, lumache e chiocciole. Ha anche intrapreso uno studio ravvicinato del lichene che si diffonde sulla corteccia, perché si è sentito attratto da quel fungo dopo aver scoperto il suo status di epifita, cioè di organismo che cresce su qualcos’altro senza nutrirsene. Ha osservato uno stelo di attaccamani, una pianta alta, nota ai botanici come Galium aparine, le cui foglie hanno i bordi provvisti di minuscoli uncini rivestiti di schiuma di larva della sputacchina, la secrezione spumosa prodotta dalle larve di questo insetto per proteggersi dai predatori mentre succhiano la linfa dell’ospite.
Il vocabolario specialistico della botanica è caro a Taylor. È un segno di attenzione e di un sodalizio capace di dare la giusta importanza ai particolari. Ai suoi occhi i termini tecnici non ci allontanano dal mondo naturale, ma anzi ci aiutano a aderire con maggior fedeltà ai suoi fenomeni più preziosi e specifici.
5.
Sta per finire una giornata estiva eccezionalmente calda. Taylor è nel suo campo, e si prepara a lavorare per tutta la notte.
La luna sta sorgendo sopra il vicino villaggio di West Bergolt, una veduta che Taylor ha trascorso quattro anni e mezzo a dipingere, prima di passare alle più ricche possibilità offerte da un singolo albero. Si sorprende ancora di quanto sia difficile identificare il preciso momento in cui la luna compare nel cielo. Dapprima si nasconde tra le luci di città distanti e, di lì, arriva furtivamente al suo posto – un puntino piccolo, ma potente, che ora comincia ad ardere, proprio sopra un bosco lontano. Mentre sale subisce una costante trasformazione cromatica: all’inizio è di un viola aranciato, dieci minuti dopo perde l’alone magenta e, alla fine, contro un cielo sempre più nero, scolora dal giallo fino a un bianco puro abbagliante.
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Lentamente gli occhi di Taylor si adattano all’oscurità. La preponderanza del verde nel cielo notturno gli dà l’impressione di essere dentro a un acquario. Pochi chilometri più in là in una casa si accende una luce. Una stella dal colore arancione-fucsia appare all’orizzonte, mentre più in basso le foglie degli alberi ondeggiano nella brezza, come coralli in una corrente subacquea. Taylor accende la pila tascabile che porta appesa al collo per illuminare la scatola dei colori e il cavalletto.
Mentre la notte avanza, il mondo umano gradualmente si ritira, lasciando il pittore da solo con gli insetti e il gioco dei raggi di luna sul grano. Taylor pensa che la sua arte nasca dal rispetto per tutto ciò che è diverso da noi e che ci sovrasta, un rispetto che spera di comunicare agli altri. Non ha mai desiderato ritrarre l’opera degli uomini, le loro fabbriche, le loro strade, i loro circuiti elettrici. Il suo interesse è sollecitato da ciò che, per essere compreso, richiede un particolare sforzo di empatia e immaginazione perché non l’abbiamo costruito noi, da un ambiente naturale che è imprevedibile in modo unico, perché alla lettera non è mai stato visto prima. Lo sguardo devoto che rivolge all’albero è un tentativo di mettere da un canto l’io e di riconoscere tutto ciò che è diverso da noi e ci supera, a partire da quella sagoma antica nel buio, con il suo garbuglio di rami, le migliaia di piccole foglie rigide e un notevole distacco dal dramma umano.
6.
Può sembrare esagerato chiamare «studio» la piccola estensione della camera da letto al primo piano che Taylor ha tappezzato di studi della quercia nei vari momenti del giorno e dell’anno.
Nonostante le sue modeste dimensioni, è uno spazio particolarmente piacevole. Sono pochi i lavori in cui le fatiche di un anno possono essere rapidamente percorse con un’occhiata a quattro pareti; e ci sono concesse ancor meno possibilità di radunare in un luogo tutta la nostra intelligenza e la nostra sensibilità. Gli sforzi che facciamo, di solito, non hanno un durevole corrispettivo materiale. Siamo diluiti in giganteschi, intangibili progetti collettivi, al punto di non ricordare che cosa abbiamo fatto l’anno scorso. E ci assale un dubbio anche più profondo quando ci chiediamo cosa resterà di noi e a che cosa siamo serviti veramente. Ci rendiamo conto delle nostre energie perdute nella commozione di una festa per il pensionamento.
Niente del genere per gli artigiani, che trasformano una parte del mondo con le loro mani e possono vedere il lavoro come un’emanazione del proprio essere, fare un passo indietro alla fine della giornata o della vita, indicare un oggetto – che sia una tela squadrata, una sedia o una brocca – ed eleggerlo a stabile ricettacolo delle proprie abilità, sceglierlo come resoconto accurato degli anni vissuti e quindi sentirsi racchiusi in un unico luogo, invece che dispersi in progetti evaporati da molto tempo in un nulla che nessuno può più vedere o sentire.
Taylor sa di creare cose che gli sopravvivranno. Davanti alla sua tela diventa quello che non può essere nel corso normale della sua esistenza. Non è sempre un osservatore così percettivo e attento. Prova disagio nella vita sociale. In presenza degli altri si sente imbarazzato e tende a mascherare le sue ansie dietro un’esagerata ilarità. Non è neppure un uomo importante. Il suo viaggio è stato ostacolato dalle tipiche difficoltà inglesi. Gli avanzamenti sociali che in altri paesi sarebbero potuti arrivare più agevolmente – riuscire a lasciarsi alle spalle le umili origini provinciali, affermando la propria identità artistica nei circoli culturali e intellettuali – sono stati difficili da ottenere e restano conquiste precarie.
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Eppure, quando sta davanti al cavalletto, può dire, senza sembrare arrogante, di sapere come si dipinge. In quei momenti suoi pari non sono più i compagni con cui beve nei pub locali, e lui stesso non è più solo lo squattrinato figlio di un postino e della commessa di un negozio di scarpe: è amico intimo ed erede di Tiziano.
7.
In primavera, dopo tre anni di lavoro, Taylor aiuta un trasportatore a caricare su un camioncino trentadue studi della quercia. Sono diretti a una galleria d’arte ai margini della capitale, dove grandi torri commerciali bruscamente cedono il passo a strade dalle forme irregolari, bordeggiate di piccoli uffici e negozietti. I dipinti saranno appesi alle pareti del pianterreno e del seminterrato della galleria, mentre la grande vetrina che dà sul marciapiede sarà interamente destinata a un’unica tela alta dodici centimetri, raffigurante l’albero all’inizio dell’autunno.
La quercia sembra bizzarramente fuori posto in questo paesaggio duro, con folle che si dirigono frettolose verso gli uffici, gru che incombono alte e aerei che s’incrociano ancora più su, puntando sugli aeroporti a est e a ovest. C’è chi si prende un caffè o un panino, chi compra giornali o si fa rinnovare i tacchi delle scarpe, soddisfacendo i propri bisogni essenziali e pratici. Mentre si svolgono tali attività, sembra abbastanza logico chiedersi a cosa esattamente serva l’arte di Taylor.
Ci aiuta a notare quello che abbiamo già visto. I ritratti dell’albero hanno il compito di solleticare e attirare la nostra attenzione. In un certo senso li si può paragonare a cartelloni pubblicitari, anche se invece di costringerci a pensare a una specifica marca di margarina o alle tariffe scontate di una certa linea aerea, ci invitano a contemplare il senso della natura, il ciclo annuale di crescita e decadimento, le tortuosità del regno vegetale e animale, e il nostro perduto legame con la terra e le facoltà salvifiche di modeste macchie di colore. Potremmo definire arte qualsiasi cosa spinga i nostri pensieri in direzioni importanti e tuttavia trascurate.
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In ogni caso Taylor guarda con diffidenza ai tentativi di riassumere l’arte in parole. È convinto che un dipinto di valore renda inadeguato qualsiasi commento, perché deve impressionare e colpire i sensi piuttosto che le facoltà logiche. Per descrivere la particolarità dell’opera artistica cita la definizione hegeliana della pittura e della musica come generi dedicati alla «rappresentazione sensibile delle idee». Tali arti «sensibili» ci sono necessarie, dice Hegel, perché molte verità importanti si imprimono nella nostra coscienza solo se viene data loro forma nella materia dei sensi e degli affetti. A volte ci serve una canzone, ad esempio, per farci sentire nelle viscere che è importante perdonare gli altri, idea che magari in precedenza abbiamo approvato in modo puramente meccanico e inerte dopo averla letta in un trattato politico; così a volte solo di fronte a un bel quadro che ritrae una quercia siamo in condizione di sentire, e non semplicemente accettare come di dovere, il significato del mondo naturale.
Le grandi opere d’arte hanno la capacità di attivare la memoria. Fissano ciò che è fuggevole: la rinfrescante ombra di una quercia in un caldo pomeriggio estivo senza vento; il colore dorato delle foglie nei primi giorni d’autunno; la stoica tristezza di un albero nudo, intravisto da un treno, sullo sfondo di un greve cielo grigio. Ma sono anche gli aspetti dimenticati della nostra psiche ciò a cui i dipinti sembrano collegarsi per vie misteriose. Possono essere i desideri mai formulati a sorprenderci negli alberi, e nel colore offuscato di un cielo estivo possiamo riconoscere il nostro io di adolescenti.
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8.
Le vendite procedono a rilento nella galleria durante le otto settimane seguenti. La stampa nazionale non ha recensito la mostra: è difficile comprare quadri quando sappiamo così poco di ciò che ne pensa chi ha potere e prestigio.
Eppure qualcuno arriva dalla strada, senza appuntamento, per un acquisto d’impulso. Un albero è venduto all’ora di pranzo a un impiegato della Deutsche Bank, un altro a uno stampatore di Bow, un terzo a una coppia di turisti di Melbourne, che si è persa mentre cercava la Liverpool Street Station.
Durante l’ultima settimana dell’esposizione, la quercia più piccola di tutte, alta solo una decina di centimetri, viene acquistata da una dentista di Milton Keynes. Susan l’appende in soggiorno, dove il dipinto dovrà convivere, e competere per un poco di attenzione, con la televisione, un set di cammelli di legno comprati a Luxor e il villaggio di Noddy e dell’orso Tessie.
A Susan piace mostrare il quadro agli amici, e non per far sfoggio di ricchezza o di rango. In un senso che non le è del tutto chiaro, desidera dire agli altri che lei è un poco come quel quadro. Conosceva bene quell’albero. Ci passava davanti per andare a scuola durante l’infanzia nel Somerset. Era l’albero che vedeva nelle sue gite in bicicletta nella campagna intorno a Durham, quando andava all’università. Quello che sorgeva in un campo di fronte all’ospedale dove aveva dato alla luce il suo primo figlio.
Come un’icona moderna e secolare, l’albero crea intorno a sé un campo magnetico, suggerendo in chi lo guarda un atteggiamento e un codice di condotta adeguati. Le normali faccende quotidiane di solito condizionano senza tregua ciò che accade in salotto. La televisione è uno schermo geloso. Noddy non perde quasi mai occasione di farsi sentire. Eppure, di tanto in tanto, a notte fonda, quando il resto della famiglia è a dormire, Susan si attarda qualche momento davanti al dipinto e ha l’impressione che, in modi sottili, il quadro s’intoni alla sua personalità, riuscendo così a recuperare un senso accresciuto della propria storia e umanità.
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9.
L’esposizione si chiude. Con un ritardo di due anni Taylor ne ha ricavato l’equivalente dei guadagni di un anno di lavoro di un idraulico di scarso successo. C’è un lato poco pratico negli esseri umani, particolarmente disposti a fare sacrifici allo scopo di creare oggetti che siano più ricchi di grazia e intelligenza di quanto loro non riescano normalmente a essere.
Taylor affronta imperturbabile la propria sorte. Di recente ha visitato un villaggio a nord di Colchester per vedere un affluente del fiume Colne. Ha deciso che il suo prossimo progetto riguarderà l’acqua. Ha in mente di accamparsi su un molo dove, per un certo numero di anni, dipingerà il fiume in una varietà di umori e luci.
«Hai mai guardato l’acqua?» mi chiede. «Guardata come si deve, intendo, come se non l’avessi mai vista prima?»
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