1.

Per quanto le nostre grandi imprese possano essere complesse e tecnologicamente avanzate, il tratto più notevole del mondo del lavoro odierno alla fin fine è forse un atteggiamento interiore, un aspetto della nostra mentalità: la diffusa convinzione che il lavoro dovrebbe renderci felici. Il lavoro è al centro di tutte le società, ma la nostra è la prima a credere che potrebbe rivelarsi qualcosa di più di una punizione e una condanna. È la prima a dichiarare che dovremmo cercare di lavorare anche in assenza di una necessità economica per farlo. Il lavoro che abbiamo scelto sembra definire la nostra identità al punto che, quando conosciamo qualcuno, non gli chiediamo tanto da dove viene o chi siano i suoi genitori, ma che lavoro fa, perché pensiamo che la strada verso una vita piena passi necessariamente per un lavoro remunerato.

Non è sempre stato così. Nel quarto secolo a.C. Aristotele inaugurò un atteggiamento destinato a durare due millenni quando proclamò l’insanabile incompatibilità tra gratificazione e attività retribuita. Per il filosofo greco il bisogno economico ci riduce al livello degli schiavi e degli animali. La fatica fisica, come pure l’impegno mentale dedicato alle attività lucrative, provoca la deformità dell’anima. Soltanto vivendo di rendita e senza obblighi i liberi cittadini hanno un’adeguata opportunità di godere dei piaceri più alti, cioè quelli che la musica e la filosofia ci donano.

La cristianità delle origini aggiunse all’idea di Aristotele la dottrina ancora più cupa secondo cui le miserie del lavoro rappresentano l’adeguata e ineliminabile espiazione per i peccati di Adamo. Solo col Rinascimento si comincia a udire una musica nuova. Nelle biografie dei grandi artisti, uomini come Leonardo e Michelangelo, troviamo per la prima volta un elogio delle attività pratiche. Mentre questa prima rivalutazione era esclusivamente limitata al lavoro artistico e solo ai suoi più straordinari rappresentanti, con il tempo arrivò a includere quasi tutte le occupazioni. Alla metà del diciottesimo secolo, in polemica diretta con la posizione aristotelica, Diderot e d’Alembert pubblicarono la loro Encyclopédie in ventotto volumi; l’opera conteneva una gran varietà di articoli che celebravano l’ingegnosità e le gioie della panificazione, della messa a coltura degli asparagi, della produzione di ancore, della stampa dei libri, dell’attività del mugnaio o della gestione di una miniera d’argento. Ad accompagnare il testo c’erano le illustrazioni degli strumenti utilizzati nei diversi campi: pulegge, pinze e morse, attrezzi il cui scopo preciso forse sfuggiva al lettore, che li poteva però riconoscere come mezzi per promuovere attività sapienti e onorevoli. Dopo aver trascorso un mese in una manifattura di aghi in Normandia, lo scrittore Alexandre Deleyre redasse la voce forse più emblematica di tutta l’Encyclopédie, nella quale rispettosamente descrisse i quindici passi necessari per trasformare un pezzo di metallo in uno di quegli agili e spesso trascurati strumenti che si usano per attaccare i bottoni.

Presentata come un sobrio compendio della conoscenza, l’Encyclopédie era in realtà un inno alla nobiltà del lavoro. Diderot rivelò le sue intenzioni all’interno della voce «Arte», schernendo coloro che erano inclini a venerare le sole arti liberali (per Aristotele, la musica e la filosofia) ignorandone gli equivalenti «meccanici» (come la costruzione di orologi e la tessitura della seta): «Le arti liberali si sono celebrate anche troppo da sé; ora potrebbero levare la voce residua per celebrare le arti meccaniche. Spetta alle arti liberali riscattare le arti meccaniche dall’avvilimento in cui i pregiudizi le hanno mantenute tanto a lungo».

I pensatori borghesi del diciottesimo secolo, quindi, ribaltarono completamente la posizione di Aristotele: la soddisfazione che secondo il filosofo greco si identificava con il tempo libero veniva ora trasportata nella sfera del lavoro, mentre le attività che non procuravano alcuna ricompensa materiale venivano private di qualsiasi significato e relegate alle saltuarie attenzioni dei dilettanti. Sembrava ora impossibile essere al contempo oziosi e felici, così come un tempo era parso improbabile, lavorando, poter salvaguardare la propria umanità.

Anche qui è possibile essere felici: «Forgiare un’ancora», dall’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert.

Anche qui è possibile essere felici: «Forgiare un’ancora», dall’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert.

Alcuni aspetti di questa evoluzione dell’atteggiamento nei confronti del lavoro presentano delle curiose analogie con l’evoluzione delle idee sull’amore. Anche in questa sfera la borghesia del diciottesimo secolo accoppiava il piacevole con il necessario. Affermava che non c’era alcuna contraddizione intrinseca tra la passione sessuale e le necessità pratiche dell’allevare i figli in un’unità familiare, e che quindi poteva esserci amore all’interno del matrimonio, proprio come si poteva trovare il piacere nelle attività redditizie.

Dando inizio a un movimento di cui siamo ancora eredi, la borghesia europea fece il passo impressionante di rivendicare a nome sia del lavoro sia del matrimonio le soddisfazioni che fino a quel momento, con pessimismo o forse con realismo, gli aristocratici avevano affidato ai regni secondari degli hobby e delle avventure amorose.

2.

Con in testa questa storia, mi venne la curiosità di incontrare un consulente di carriera, ossia un professionista specializzato nel promuovere il lavoro a sinonimo di autorealizzazione.

Una ricerca su internet mi portò nel sito di una società chiamata Career Counselling International, che prometteva aiuto a chi doveva affrontare «una decisione di grave portata e una scelta occupazionale». Quest’autorevole affermazione m’indusse ad aspettarmi grandi uffici e frotte di impiegati, ma scoprii che in realtà la società occupava uno spazio angusto e senza pretese sul retro di una casa vittoriana, in una decaduta via residenziale nei quartieri meridionali di Londra. La sede era composta da un piccolo ufficio amministrativo e da una sala consulenze, con riproduzioni di Paul Klee alle pareti e vista su un fangoso laghetto di carpe e biancheria stesa su un filo. L’unico impiegato a tempo pieno, Robert Symons, uno psicoterapeuta di cinquantacinque anni, aveva avviato l’attività dodici anni prima e da allora la gestiva insieme alla moglie June, che lo aiutava con l’amministrazione e con i punteggi dei test attitudinali. La coppia doveva avere un’ammirevole devozione per una delle verdure meno amate del repertorio nazionale, perché anche di primo mattino la casa era invasa da un forte odore di cavolo cappuccio, o navone, appena bollito. Symons aveva studiato psicologia all’Università di Bristol, dove aveva subito l’influsso di una scuola di psicologia umanistica che sottolinea la grande importanza della creatività e della realizzazione di sé. Nel tempo libero aveva scritto un libro intitolato Il vero me stesso. La carriera come momento di autoaffermazione che stava cercando di pubblicare da molti anni.

Symons era alto e barbuto, e aveva l’aria di poter abbattere un lupo a mani nude; ma quella possanza fisica contrastava con le sue maniere pazienti da sacerdote. In un’altra epoca avrebbe potuto essere un tranquillo curato di campagna, con un alveare e una tartaruga in giardino, non molto credente, ma capace di sopperire con grande sincerità alle necessità dei malati e dei bisognosi. Aveva occhi così gentili da sembrare aperto a qualsiasi confessione, anche la più inusuale. Neppure la stramberia più estrema sembrava capace di sorprenderlo e di fargli pronunciare un giudizio umiliante. Provai confusamente il desiderio che fosse mio padre.

Per tre giorni la settimana Symons riceveva clienti a casa sua, negli altri due si recava presso varie aziende in giro per il paese, dando consulenze a lavoratori che stavano per essere messi in mobilità o a manager che faticavano a gestire le proprie responsabilità. Teneva anche seminari motivazionali per disoccupati, test psicometrici per colloqui di assunzione e, da un banchetto nelle fiere del lavoro presso le università, offriva sedute ai laureati in procinto di entrare nel mondo lavorativo.

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Decidemmo che avrei osservato il modo in cui lavorava per un certo numero di settimane. L’avrei accompagnato nei suoi viaggi e, una volta ottenute le necessarie autorizzazioni, avrei seguito attraverso un monitor le sedute con i clienti nella sede della sua società. In cambio chiedeva solo che gli segnalassi il nome di un buon agente letterario.

3.

Tre giorni dopo mi accomodai in un piccolo sgabuzzino che faceva da studio, a fissare un monitor in bianco e nero che mostrava gli eventi in corso nella stanza accanto, dove la prima cliente del giorno aveva cominciato a riassumere la sua storia personale e le sue insoddisfazioni professionali con un’incantevole mix di formalità e sincerità. Ero circondato da carte e dossier impilati fino al soffitto, e per terra c’era la borsa da palestra di Symons che emanava un forte odore di scarpe da ginnastica usate di recente. Sentivo la voce della cliente sia dall’altoparlante del monitor sia direttamente attraverso la parete. Era una di quelle voci inglesi cristalline, dall’enunciato perfetto, del genere che si acquisisce crescendo a Walton-upon-Thames e laureandosi in storia al Keble College di Oxford. Attraverso una fessura nella porta scorsi, appeso nel corridoio, il cappotto della cliente, di un ricco cachemire blu picchiettato di gocce d’acqua, con accanto un’elegante borsa in pelle.

Per tre volte la cliente interruppe la sua narrazione, tirandosi indietro i capelli con un gesto improvviso e dicendo: «Mi spiace, tutto questo deve essere di una noia mortale per lei», al che Symons replicava calmo, come se si fosse aspettato quell’uscita fin dall’inizio: «Sono qui solo per lei». Dopo venti minuti di sessione, il terapeuta abbassò la voce quasi a un sussurro e chiese, con calore paterno, che cosa fosse mai accaduto alla bambina spontanea ed entusiasta che la cliente doveva essere stata un tempo. Al che, assolutamente senza preavviso, Carol, trentasette anni, avvocato fiscalista, con la responsabilità di quarantacinque persone in un ufficio vicino alla Bank of England, cominciò a singhiozzare sotto lo sguardo gentile di Symons, mentre in giardino il gatto dei vicini faceva un giro intorno al laghetto delle carpe.

Dopo che Carol se ne fu andata, mentre buttava via un mucchietto di fazzolettini usati e sprimacciava i cuscini sul divano, Symons osservò che spesso i suoi assistiti sono tormentati da una delle illusioni più comuni e perniciose, cioè l’idea che in qualche modo, se le cose fossero andate come dovevano, loro avrebbero dovuto intuire – molto prima della laurea, prima di mettere su famiglia, di aver comprato casa ed essere arrivati ai vertici del loro studio legale – che cosa volevano veramente fare della loro vita. Erano angosciati da una nozione residua di avere, per un qualche errore o una sorta di stupidità, mancato la loro vera «vocazione».

Il termine, curioso e infausto, è entrato in circolazione dapprima in un contesto cristiano, durante il periodo medievale, per indicare il momento traumatico in cui si avvertiva il dovere di dedicarsi agli insegnamenti di Gesù. Ma secondo Symons una versione secolarizzata del concetto è sopravvissuta fino all’età moderna, dove di solito ci tortura con l’aspettativa che il significato della nostra vita a un certo punto ci sarà rivelato in forma chiara e pronta per l’uso, rendendoci a quel punto in permanenza immuni da sensazioni di confusione, invidia e rimpianto.

Symons preferiva una citazione da Motivazione e personalità, dello psicologo Abraham Maslow, che teneva appesa in bagno: «Non è normale sapere quello che vogliamo. Per la psiche è un’impresa rara e difficile».

4.

Quando, la settimana successiva, Carol ritornò indossando una gonna verde e una T-shirt, sembrava più giovane di dieci anni. Symons si scusò per l’odore (sua moglie aveva cucinato purè di navone gratinato al formaggio) e le propose di affrontare un breve esercizio scritto. Le mise davanti tre fogli bianchi intitolati «Cose che mi piacciono» e le diede dieci minuti per compilare una lista di tutto quel che le veniva in mente, che fosse grandioso o irrilevante, mentre lui sarebbe andato a preparare un tè al limone e allo zenzero – poiché aveva sempre osteggiato l’indicazione di Freud che vieta di creare relazioni eccessivamente familiari tra terapeuta e paziente.

Carol riempì i fogli, interrompendosi spesso per guardare fuori dalla finestra. Aveva il genere di bellezza forte, quasi mascolina, che non avrebbe stonato nella moglie di un amministratore coloniale di rango intermedio in Uganda negli anni Venti.

Symons sapeva che era tempo perso cercare di indirizzare la gente verso carriere più soddisfacenti chiedendo loro direttamente che cosa volessero fare. La preoccupazione per i soldi e il prestigio sociale, secondo lui, aveva spento da lunga pezza la capacità dei suoi clienti di pensare seriamente alle proprie opzioni. Preferiva farli tornare a soggetti primari e chiedere loro di produrre associazioni libere intorno a insiemi di interessi che li rallegravano e li emozionavano, senza tentare di inquadrarli in una cornice rigida come quella di una carriera.

Symons aveva un debole per questa metafora: i clienti alla ricerca delle proprie attitudini erano come cacciatori di tesori che setacciavano il terreno con i loro metal detector, con le orecchie tese per sentire quelli che lui chiamava i bip di gioia. C’era chi si era reso conto per la prima volta di nutrire un vero interesse per la poesia non perché avesse udito l’ordine di una voce divina mentre sfogliava un volume di liriche, ma per il bip che aveva percepito osservando una valle tranquilla ricoperta dalla foschia dall’alto di un parcheggio ai margini della città. Oppure poteva capitare che una donna con la passione della politica, ben prima di iscriversi a qualunque partito o di avere una comprensione profonda dell’arte di governare, registrasse un segnale rivelatore mentre riusciva a sanare un dissidio familiare.

Nel caso in questione, i bip di Carol risultarono talmente vari da lasciare perplessi. Le fantasticherie su ciò che le piaceva andavano dalle visite alle chiese antiche, al fare regali, mettere a posto le cose, cenare in un ristorante di pesce gestito da una sua amica a Margate, comprare sedie d’antiquariato e leggere blog di argomento economico in rete.

Carol e Symons dedicarono parecchie sedute all’interpretazione della lista, impegnandosi con il leggero distacco di una coppia di archeologi che hanno il compito di studiare le rovine di un’antica città. Più parlavano del ristorante di pesce, più risultava chiaro che non era il posto in sé ad avere un fascino particolare per Carol; la affascinava perché incarnava l’idea che qualcuno avesse affrontato il rischio di costruirsi un lavoro intorno a un interesse personale. Symons ricavò da questa conversazione la parola «passione», che scrisse su una lavagna bianca appesa sulla porta. Quanto all’interesse di Carol per i blog di argomento economico, col tempo si rivelò che in realtà era basato su un solo blog che si occupava di tematiche di imprenditoria sociale. Symons scrisse sulla lavagna: «affari e altruismo».

Consulente e cliente passarono a concentrarsi sull’invidia. Symons ha un’ammirazione particolare per questo sentimento, rammaricandosi del fatto che la sua utile funzione di allerta per le nostre possibilità venga troppo spesso censurata in nome di un atteggiamento moralista. Senza l’invidia forse non saremmo capaci di riconoscere i nostri desideri. Così Symons diede a Carol altri dieci minuti per scrivere il nome delle persone che invidiava più spesso, aggiungendo, mentre usciva dalla stanza, che non amava il perbenismo e che se su quel pezzo di carta non fossero comparsi almeno due nomi di colleghi o amici, avrebbe capito che Carol era stata emotivamente evasiva.

Mentre guardavo quelle sedute sulla TV a circuito chiuso avevo l’impressione che ciò che accadeva nell’umida stanza accanto avesse portata storica. Symons aveva dedicato tutta la sua vita all’arte di prestare un’attenzione eccezionale ai più impercettibili sentimenti altrui. Dopo millenni in cui l’azione ha avuto la meglio sulla riflessione, e l’intelligenza è stata in gran parte confinata alla disamina di aride idee astratte, finalmente la confusione quotidiana di una persona come tante aveva trovato una sede in cui veniva sottoposta all’esame attento di cui era degna. Tra tutte le aziende tradizionali che si prendono cura di voci molto meno importanti nella gerarchia dei nostri bisogni – imprese che offrono servizi di giardinaggio o di pulizia della casa, di contabilità o informatica – eccone finalmente una dedicata all’interpretazione delle importantissime, ma tanto poco comprensibili, radiotrasmissioni della psiche.

Sul tavolo di Symons c’era la fotografia di Prigione detto Atlante, una scultura incompiuta di Michelangelo conservata nella Galleria dell’Accademia a Firenze. In quel blocco di pietra, imprigionato a metà del suo viaggio tra la materia grezza e il pezzo da museo, una figura umana ancora priva di testa sembra lottare per emergere dal marmo. Quell’oggetto incompleto affascinava Symons, che lo vedeva come una metafora di ciò che, secondo lui, un consulente di carriera dovrebbe aiutarci a fare: per dirla con Nietzsche, dovrebbe farci diventare ciò che siamo.

5.

Dopo un mese che lo frequentavo, Symons mi chiese se mi interessava accompagnarlo in un viaggio di lavoro nel Nord dell’Inghilterra. La prima tappa era Newcastle, dove aveva prenotato uno spazio alla Fiera del lavoro della locale università. Stando alle previsioni, duemila studenti si sarebbero aggirati in una sala vittoriana brulicante di rappresentanti di ogni settore dell’economia, e Symons avrebbe offerto consulenze di mezz’ora con la possibilità di successivi approfondimenti per telefono.

Il treno che partiva da Londra era pieno e il controllore, mosso a pietà al vederci in piedi nel corridoio carichi dei borsoni con dentro i pezzi del banchetto di Symons, ci lasciò sedere in uno scompartimento di prima classe dai morbidi sedili foderati di velluto, dove ci servirono una colazione a base di uova e salsiccia. Symons, tuttavia, non fu affatto rallegrato dal lusso imprevisto, anzi, ciò parve solleticare un suo lato malinconico che in precedenza non avevo notato. Mentre fuori dal finestrino sfilavano le rovine dell’Inghilterra industriale, si mise a recriminare contro la decadenza della cultura e delle buone maniere. Poi, cambiando argomento, prese a dirmi che pochi erano disposti a investire nei suoi servizi, e di quei pochi, pochissimi andavano oltre un’unica seduta introduttiva, mentre altri, per carenza di tempo e denaro, si accontentavano del suo sistema di consulenza basato sui test. Ne deduceva che i suoi connazionali erano in gran maggioranza rassegnati a trascorrere la vita adulta facendo lavori scelti per loro dagli sconsiderati ragazzini che erano a sedici anni; intanto, al di là del corridoio, come per confermare questa analisi, un’adolescente sfogliava languidamente la sezione della rivista «Bella» dedicata alle celebrità.

Arrivammo alla Fiera del lavoro precisamente all’orario di apertura e ci affrettammo a montare il banchetto. Gli studenti affluivano, spesso molto galvanizzati, avanzando in branco e prorompendo regolarmente in minacciosi schiamazzi. Il loro conclamato stato di salute e, in alcuni casi, la loro bellezza facevano sospettare che, in definitiva, la conoscenza e l’esperienza per loro non fossero poi un bene così prezioso.

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Qualche visitatore, passando davanti al banchetto, prendeva una brochure, ma la maggioranza andava di fretta, diretta allo stand dei fornitori dell’esercito o a quello del nostro dirimpettaio, che rappresentava una catena di supermercati. La conferma che la giornata era stata molto stancante ma poco fruttuosa giunse quando, nel tardo pomeriggio, Symons sfogliò una pila di questionari introduttivi che aveva distribuito e scoprì che uno era stato compilato a nome di Søren Kirkegaard. Nella casella intitolata «Quale obiettivo vorrei raggiungere nella mia carriera», il comico in erba aveva scritto: «Rovesciare l’egemonia dei valori pseudocristiani e l’ipocrisia imperante della chiesa danese».

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Quella sera ci ritirammo nel nostro mesto Ibis Hotel, dove la sala da pranzo era chiusa a causa di un allagamento e, dopo un panino al formaggio in una stazione di servizio, andammo a letto presto.

Le cose sembrarono mettersi meglio il giorno dopo, quando andammo a Middlesbrough per raggiungere un’azienda produttrice di cristalli per auto che stava per mettere in mobilità venticinque quadri intermedi. La dirigenza aveva chiesto a Symons di tenere un seminario sul tema «la fiducia in se stessi» durante il quale i quadri in esubero sarebbero stati stimolati, attraverso una serie di esercizi appositamente congegnati, a immaginare un futuro adeguato alle loro esigenze. Durante la seduta del mattino Symons proiettò su uno schermo alcune diapositive: Impegnandomi posso fare tutto quello che desidero. Posso essere forte e smuovere le montagne. Posso darmi degli obiettivi e raggiungerli. Nulla di ciò che ho fatto finora dà la misura delle possibilità che ho dentro di me. Erano accompagnate da un libretto che riportava passaggi delle biografie di uomini e donne famosi che si erano creati la propria fortuna da sé. Sul risguardo c’era una citazione di Leon Battista Alberti: «L’uomo può fare qualunque cosa, purché lo voglia».

Non fu facile assistere al seminario, e più di una volta mi ritrovai a guardare fuori dalla finestra, imbarazzato. Mi turbò particolarmente sentire uno dei presenti che, seguendo le indicazioni di Symons, ripeteva Sono l’artefice del mio destino. Nel bagno, in cui mi rifugiai in cerca di sollievo mentale, cercai di analizzare il mio disagio, ma nel farlo cominciai a considerare con sospetto la mia stessa situazione. Mi resi conto che le parole di Symons mi disturbavano perché riflettevano una verità sgradevole, ma in ultima analisi inevitabile, circa il successo nel mondo moderno. Nelle società del passato, che erano più gerarchiche, il destino del singolo era in gran misura deciso dalla casualità della sua nascita; a fare la differenza tra successo e fallimento non era la capacità di ripetere la frase Posso smuovere le montagne.

Invece, nel moderno mondo meritocratico, con la sua mobilità sociale, la propria affermazione può di fatto essere determinata dalla fiducia in se stessi, dalla fantasia e dalla capacità di convincere gli altri di ciò che ci è dovuto. Una tale possibilità di successo gettava una luce poco lusinghiera sulle filosofie dello stoicismo e della rassegnazione. Sembrava che uno potesse buttar via le proprie opportunità a causa di un superbo disdegno per libri dai titoli quali La volontà di avere successo e di un senso di superiorità nei confronti dei loro volgari slogan d’incoraggiamento. Si poteva esser destinati al fallimento non per mancanza di talento, ma per una specie di orgoglio pessimistico.

Dopo pranzo, Symons riportò i lavoratori in sala riunioni e invitò ciascuno di loro a condividere con gli altri le proprie speranze per il futuro, con l’idea che una confessione pubblica di quel tipo avrebbe funzionato come una promessa fatta a se stessi, assai più difficile da infrangere nei momenti di autostima traballante. Una donna sui quaranta, impiegata in quell’azienda da vent’anni, raccontò che le sarebbe piaciuto aprire una sala da tè nel paesino dove era cresciuta. Il suo entusiasmo era così travolgente e i suoi piani così particolareggiati (alle pareti dovevano essere appese fotografie della piccola Shirley Temple) che era quasi impossibile non sentirsi coinvolti. Concluse dicendo: «Posso smuovere le montagne» e tornò al suo posto tra gli applausi di tutta la sala.

Sentii le lacrime agli occhi. Mi resi conto che, al di là di qualsiasi interpretazione ipercerebrale applicata al nostro modo di funzionare, conserviamo comunque dei bisogni vergognosamente semplici, tra i quali una prodigiosa e continua fame di amore e sostegno. Gli esercizi motivazionali di Symons facevano appello proprio a quella parte delle nostra personalità, quella che non esige una particolare eloquenza né una logica complessa e che perdona le frasi sconclusionate, a patto che siano imbevute di una dose salvifica di speranza.

Verso la fine della giornata Symons coinvolse il suo pubblico in una discussione su quelle che chiamava le voci della disperazione, gli atteggiamenti interiorizzati che pongono l’accento sulla possibilità di fallire. Fu istruttivo notare che molti tra i partecipanti riconducevano quelle voci a un genitore poco solidale, a un insegnante severo, a qualcuno che, decenni prima, li aveva sottoposti a critica o li aveva trascurati. L’uno dopo l’altro, uomini e donne adulti si alzavano per raccontare che, quando arrivavano a malapena alla maniglia della porta, la loro immagine di sé aveva ricevuto un brutto colpo: un insegnante di matematica che li aveva sgridati per la loro inettitudine in algebra, o un padre che aveva esaltato il talento artistico della brava sorellina di turno, suggerendo che loro invece avrebbero fatto meglio a darsi allo sport.

La seduta pareva dimostrare che la formazione di un individuo nei suoi primi anni di vita era un compito importante e delicato quanto gettare le fondamenta di un grattacielo: bastava un minimo errore o una piccola impurità che s’insinuasse nella struttura durante quel periodo e nell’animale umano si generava uno squilibrio che l’avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.

Negare l’importanza di questo genere di traumi infantili significava manifestare la stessa ottusa adesione al senso comune che un tempo condusse i nostri progenitori a deridere l’idea secondo cui una goccia di saliva grande quanto una testa di spillo può ospitare microorganismi letali.

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Visto in questa prospettiva, il peso accordato alla cura psicologica e allo sviluppo dell’autostima dalle moderne teorie pedagogiche non sembrava più il segno che la nostra società avesse abdicato all’esercizio delle proprie facoltà critiche. Al contrario, quest’enfasi pareva perfettamente modulata sulle richieste della vita lavorativa contemporanea, almeno quanto l’educazione allo stoicismo e al coraggio fisico era adeguata alle esigenze dei tempi antichi. In breve, un approccio riconducibile non a semplice gentilezza d’animo, bensì a una necessità pratica, in linea con l’obiettivo di tutti i sistemi educativi del mondo: fare in modo che il giovane possa avere le migliori possibilità di sopravvivenza in un ambiente ostile.

6.

Qualche settimana dopo il nostro ritorno, andai con Symons in un ufficio nel centro di Londra dove una banca americana l’aveva incaricato di sottoporre a una mattinata di test un gruppo di candidati in lizza per una posizione. Symons aveva sperato di integrare la valutazione con un giro di colloqui esplorativi a quattr’occhi, ma la banca non ritenne di investirvi il tempo e le risorse necessarie. I risultati dei test dovevano essere pronti per il giorno dopo, quando si sarebbe deciso a chi dare il lavoro.

Il gruppo dei candidati passò la mattina a compilare il Profilo della personalità di Morrisby, il questionario attitudinale più quotato e usato al mondo. Preso dalla curiosità, mi diedi anch’io alla ricerca dell’eccezione in liste di parole, tentai di risolvere enigmi visivi e di completare analogie quali: «Pesante sta a leggero come a) largo b) giorno c) salto sta a d) mattone e) stretto f) casa». Due giorni dopo il risultato dei miei test arrivò dall’ufficio di Symons in una cartellina elegante, chiaramente destinata a sottolineare l’importanza delle conclusioni cui si era giunti. A confronto con la ricchezza degli scambi psicologici tra Symons e Carol (che nel frattempo si era dimessa dallo studio legale e aveva fatto domanda per una posizione da manager in un ente di beneficenza che si occupava di alloggi), il documento sembrava scritto da un computer. «Il candidato ha dato prova di discrete capacità che probabilmente lo rendono adatto a una carriera di quadro intermedio amministrativo o commerciale» così cominciava il documento, per poi segnalare una vocazione per il marketing e una certa inettitudine con i numeri. «Il suo futuro potrebbe essere in uno di questi settori: diagnostica medica, sfruttamento di riserve petrolifere e di gas, industria dell’intrattenimento».

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Avvertii il desiderio di accettare il responso del test per placare i miei dubbi riguardo al futuro. Allo stesso tempo, però, quel documento non m’ispirava alcuna fiducia, e più ci rimuginavo sopra, più mi sembrava rivelasse alcuni limiti obiettivi delle consulenze di carriera in generale. Ripensai all’odore di cavolo e navone nell’ufficio di Symons. Mi parve strano e triste che, nella nostra società, una cosa del tutto fondamentale nella vita di una persona, almeno in teoria, come la scelta di una vocazione fosse perlopiù affidata a terapeuti marginalizzati, che svolgevano la loro professione in una stanzetta ricavata sul retro di casa loro. Quella che avrebbe dovuto essere una delle professioni più ammirate sulla faccia della terra faticava a ottenere il prestigio concesso a un’agenzia di viaggi.

Quale ruota si muove più velocemente quando il trattore è in moto?

Quale ruota si muove più velocemente quando il trattore è in moto?

Quale tra queste navi identiche ha il carico più pesante?

Quale tra queste navi identiche ha il carico più pesante?

Ma forse quello svilimento era solo un riflesso adeguato di quanto poco, alla fin fine, i terapeuti comprendano la natura umana. Una certa fame di risposte da parte dei potenziali clienti induceva molti di loro a promettere troppo, al modo degli insegnanti di scrittura creativa che, per avidità o buoni sentimenti, danno a intendere a tutti i loro studenti che un giorno potrebbero produrre letteratura di valore, invece di ammettere francamente la verità oscura e inquietante, un vero tabù per le società democratiche, che il grande scrittore, come il lavoratore soddisfatto, resta un evento anomalo e sporadico, immune ai metodi di produzione industriale quanto i tartufi.

La specifica portata degli ostacoli che ci impediscono di realizzare il nostro potenziale è stata descritta da Max Weber quando, nel suo saggio Scienza come vocazione (1918), parlò di Goethe come del tipo di sano genio creativo «che compare una volta ogni cent’anni».

Per il resto della storia, e per la maggioranza di noi, la brillante promessa quasi sempre non verrà mantenuta, non ci procurerà mai incredibili somme di denaro né ci farà creare oggetti o organizzazioni esemplari. Resterà solo una speranza che ci trasciniamo dietro dall’infanzia, o un sogno con cui ci trastulliamo mentre guidiamo lungo l’autostrada e sentiamo i nostri piani aleggiare sull’ampio orizzonte. Costanza straordinaria, intelligenza e fortuna sono indispensabili per ridisegnare la mappa della nostra realtà, e oltre le cime della grandezza sono schierate le infinite collinette popolate dagli innamorati respinti del successo.

Siamo perlopiù bloccati ai margini dell’eccellenza, ossessionati dalla consapevolezza di quanto le siamo vicini, pur restando sempre comprovatamente dalla parte sbagliata della linea di confine; come un bellissimo aereo veloce che, per la mancanza di un piccolissimo componente, si trascina accanto alla pista, più lento di un trattore o di una bicicletta.

Lasciai gli uffici di Symons con una nuova consapevolezza della sconsiderata crudeltà oculatamente celata nella rassicurazione borghese secondo cui chiunque può trovare la felicità grazie al lavoro e all’amore. Non è che queste due entità si dimostrino invariabilmente incapaci di darci soddisfazione: è solo che non lo fanno quasi mai. E quando l’eccezione viene ingannevolmente rappresentata come la regola, le nostre disgrazie personali invece di sembrarci un aspetto quasi inevitabile della vita, ci schiacciano come fossero una maledizione tutta particolare. Negando il posto che spetta nella natura umana al desiderio e all’incompletezza, l’ideologia borghese ci nega la possibilità di una consolazione collettiva per i nostri matrimoni turbolenti e per le nostre ambizioni trascurate, condannandoci invece a un solitario senso di vergogna e persecuzione.

7.

Alla fine dodici agenti letterari lessero il manoscritto di Symons. Tutti risposero gentilmente e con parole di incoraggiamento. Il vero me stesso. La carriera come momento di autoaffermazione resta ancora senza un editore.

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