VII
SULL’ARTE CHE APRE GLI OCCHI
Luogo
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Provenza
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Guida |
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1
Un’estate alcuni amici mi invitarono a trascorrere qualche giorno in una casa di campagna in Provenza. Sapevo che per molti il termine «Provenza» era ricco di associazioni, ma per me significava poco e nel sentirlo pronunciare la mia attenzione si spegneva, convinto com’ero, anche se in maniera del tutto arbitraria, che il luogo non mi fosse affatto congeniale. L’unica cosa che sapevo per certo era che quasi tutte le persone ragionevoli consideravano la Provenza una terra bellissima – «Ah, la Provenza!» sospiravano, in preda a un rispetto reverenziale normalmente riservato all’opera o alle porcellane di Delft.
Presi un volo per Marsiglia e lì noleggiai una piccola Renault con cui raggiungere la casa dei miei ospiti, ai piedi delle colline Alpilles, tra Arles e Saint-Rémy. Uscendo da Marsiglia feci confusione e mi ritrovai alla gigantesca raffineria di Fos-sur-Mer, il cui groviglio di tubi e torri di raffreddamento mi parlava della complessità del processo di produzione di un liquido che ero solito infilare senza pormi troppe domande nel serbatoio della macchina.
Alla fine riuscii a riportarmi sulla N568, che si snodava verso l’interno attraverso i campi di frumento della pianura della Crau. Essendo ancora molto presto decisi di fermarmi fuori St-Martin-de-Crau, a pochi chilometri dalla mia destinazione. Nei pressi di una macchia di ulivi accostai. Tutt’intorno, a parte il frinire delle cicale, regnava il silenzio. Oltre gli ulivi si apriva una distesa di grano delimitata da un filare di cipressi, e al di sopra delle cime dei cipressi si stagliava il profilo irregolare delle Alpilles. Più in alto ancora, il cielo perfettamente azzurro.
Osservai il panorama per un momento. Non ero a caccia di nulla in particolare, né di uccelli predatori, né di case per le vacanze, né di ricordi. Ad animarmi era un impulso semplice ed edonistico: la ricerca della bellezza. «Deliziatemi e rigeneratemi»: questa la tacita sfida che rivolsi agli ulivi, ai cipressi e ai cieli della Provenza. I miei programmi erano molto elastici, i miei occhi disorientati dalla libertà di cui improvvisamente godevano. Venuti meno gli obiettivi che avevano caratterizzato la prima parte della giornata – cercare l’aeroporto, l’uscita giusta da Marsiglia, eccetera – i miei occhi ora vagavano impazienti di oggetto in oggetto, tanto che se una gigantesca matita avesse potuto ridisegnarne il percorso il cielo sarebbe stato presto oscurato da un impossibile garbuglio di segni.
Il paesaggio non era niente male, ma in pochi istanti mi resi conto di non avvertire nulla del fascino che spesso gli veniva ascritto. Più simili a cespugli che non ad alberi, gli ulivi avevano un’aria rachitica e i campi di grano mi ricordavano le distese piatte e monotone del Sud-Est dell’Inghilterra, dove avevo trascorso alcuni infelici anni da studente. In quel momento, dunque, non ebbi sufficiente energia per registrare anche i fienili, la pietra calcarea delle colline e i papaveri che crescevano ai piedi dei cipressi.
Annoiato e scomodo nell’interno in plastica ormai rovente della Renault, riaccesi il motore, partii e quando giunsi dai miei ospiti dichiarai che stavano semplicemente in paradiso.
Poiché in genere troviamo belli i paesaggi con la stessa immediatezza e apparente spontaneità con cui troviamo fredda la neve e dolce lo zucchero, è difficile immaginare di poter fare qualcosa per modificare o ampliare le nostre percezioni. Sembra quasi che tutto sia già stato deciso da qualità intrinseche ai luoghi o da particolari collegamenti all’interno della nostra psiche, e che dunque sia impossibile correggere i nostri gusti geografici così come lo sarebbe impedirci di trovare buono il nostro gelato preferito.
Eppure il gusto estetico potrebbe rivelarsi meno rigido di quanto suggerito dall’analogia. Spesso trascuriamo certi luoghi perché nulla ci ha mai spronato a considerarli degni di interesse, o perché un’associazione casuale e sfortunata ci ha maldisposti nei loro confronti. Un pizzico di attenzione in più alla sfumatura argentea delle foglie o alla struttura dei rami degli ulivi potrebbe per esempio migliorare il nostro rapporto con questi alberi; nuove associazioni potrebbero legarci al grano se solo ci soffermassimo sul pathos di queste fragili e indispensabili spighe che chinano il generoso capo nella brezza; e riusciremmo ad apprezzare meglio i cieli della Provenza se qualcuno ci dicesse, anche in termini molto tecnici, che a contare è la gradazione del loro azzurro.
Forse lo strumento più efficace per arricchire la nostra capacità di osservazione del paesaggio è l’arte figurativa, e dunque possiamo considerare un gran numero di opere come altrettanti veicoli in grado di comunicarci, in buona sostanza, messaggi del tipo: «Guardate il cielo della Provenza, riconsiderate la vostra idea di grano, rendete giustizia agli ulivi». Tra i milioni di particolari che compongono un campo di cereali, per esempio, il capolavoro saprà porre l’accento su quelli in grado di ispirare l’interesse e il senso estetico dello spettatore. Riuscirà perciò a isolare elementi in genere sommersi nella massa dei dati percettivi, conferendo loro piena visibilità e aiutandoci, dopo averceli presentati, a riconoscerli istintivamente nel mondo che ci circonda – o, qualora li avessimo già scoperti da soli, a legittimarci nell’attribuire loro tutta l’importanza che meritano. È come udire improvvisamente una parola che in realtà è già stata ripetuta molte volte in nostra presenza, ma di cui solo ora cogliamo il significato.
E, nella misura in cui viaggiamo in cerca di bellezza, le opere d’arte possono in qualche modo contribuire a influenzare la scelta delle nostre mete.
2
Vincent van Gogh arrivò in Provenza alla fine del febbraio 1888. Aveva trentun anni e solo da otto si dedicava alla pittura, dopo i tentativi falliti di diventare insegnante, quindi prete. Nei due anni precedenti aveva vissuto a Parigi insieme al fratello Theo, commerciante d’arte che lo sosteneva finanziariamente. Dal punto di vista artistico era quasi del tutto privo di formazione, ma era diventato amico di Paul Gauguin e Henri de Toulouse-Lautrec, con i quali esponeva i propri lavori al Café du Tambourin sul boulevard de Clichy.
«Ricordo ancora chiaramente l’eccitazione di quell’inverno, quando lasciai Parigi» scrisse Van Gogh a proposito del viaggio di sedici ore che lo condusse in Provenza. Sceso ad Arles, la città più prospera della regione, nonché centro del commercio delle olive e dell’industria ferroviaria, l’artista trascinò la sua valigia nella neve fresca (venticinque centimetri, una nevicata eccezionale) fino al piccolo Hôtel Carrel, non lontano dai bastioni nord della città, e nonostante il maltempo e la stanza angusta continuò a sentirsi assolutamente entusiasta di quel trasferimento in terra meridionale. «Credo che la vita qui sia un po’ più appagante che in molti altri luoghi» fece presto sapere alla sorella.
Van Gogh sarebbe rimasto ad Arles fino al maggio del 1889, quindici mesi – il suo periodo considerato più grande – durante i quali produsse circa duecento dipinti, cento disegni e duecento lettere. I primi lavori mostrano la città coperta di neve, il cielo azzurro limpido, la terra di un rosa ghiacciato. Ma cinque settimane dopo il suo arrivo giunse anche la primavera, ed egli dipinse quattordici tele di alberi in piena fioritura nei campi alle porte di Arles. All’inizio di maggio si concentrò sul ponte mobile di Langlois, sull’Arles-Bouc Canal, a sud della città, e verso la fine del mese produsse una serie di paesaggi visibili dalla pianura della Crau, in direzione delle Alpilles e delle rovine dell’abbazia di Montmajour, dopodiché invertì la prospettiva e andò ad arrampicarsi tra i ruderi, in cerca di scorci di Arles. A metà giugno la sua attenzione si era già spostata su un nuovo soggetto: il raccolto, tema a cui nel giro di due settimane dedicò una decina di dipinti. Lavorava con straordinaria alacrità: «rapido, rapido, presto e in fretta, come il contadino intento solo alla mietitura sotto il sole cocente». E ancora: «Lavoro anche a mezzogiorno, sotto i raggi del sole, che mi godo come una cicala. Mio Dio, se solo avessi conosciuto queste terre a venticinque anni, anziché approdarvi a trentacinque!»
In seguito, spiegando al fratello le ragioni che lo avevano indotto a lasciare Parigi, Van Gogh parlò del forte desiderio di «dipingere il Sud» e della speranza di aiutare gli altri a «vederlo» tramite i suoi quadri. Per quanto incerto sulla propria capacità di realizzare il progetto, egli non dubitò mai della tenuta dello stesso sul piano teorico: gli artisti potevano cioè dipingere un pezzo di mondo e aprire così gli occhi ad altri perché potessero guardarlo meglio.
Se credeva tanto fermamente nella forza illuminante dell’arte era perché spesso l’aveva vissuta in prima persona. Da quando aveva lasciato la natia Olanda per trasferirsi in Francia gli era capitato soprattutto con la letteratura, ed era immensamente grato ad autori come Balzac, Flaubert, Zola e Maupassant per averlo reso consapevole delle dinamiche che governavano la società e la psicologia francesi. Madame Bovary gli aveva insegnato molte cose sulla vita della borghesia di provincia e Papà Goriot sugli studenti squattrinati e ambiziosi di Parigi, aiutandolo a riconoscere intorno a sé, negli incontri di ogni giorno, i protagonisti di tanti romanzi.
Ma anche la pittura aveva avuto effetti analoghi su di lui, e non di rado Van Gogh dedicò omaggi ai maestri che lo avevano aiutato a cogliere colori e atmosfere particolari. Velázquez, per esempio, aveva arricchito la sua tavolozza di grigi. Moltissime sue tele riproducevano infatti umili interni di abitazioni iberiche dalle pareti di mattoni o di semplice intonaco, dove, in pieno giorno, quando le persiane restavano chiuse per proteggere la casa dal caldo, il colore dominante era un grigio sepolcrale, occasionalmente trafitto, là dove una stecca appariva rotta o un’anta non perfettamente accostata, da un raggio giallo brillante. Non che Velázquez fosse l’inventore di simili effetti: semplicemente, pochi prima di lui avevano avuto l’energia o il talento necessari a coglierli e a trasformarli in esperienza comunicabile. Come un esploratore alle prese con un nuovo continente, Velázquez aveva legato il proprio nome – almeno per quanto riguardava Van Gogh – a una scoperta nel mondo della luce.
Vincent era solito pranzare in alcuni ristorantini del centro di Arles. Spesso anche lì le pareti erano scure, le persiane chiuse e la luce esterna abbacinante. Un giorno scrisse al fratello di essersi imbattuto in un’atmosfera degna di Velázquez: «Mi trovo in un ristorante molto strano. Tutto grigio... di un grigio alla Velázquez, come nelle Filatrici, non manca nemmeno il raggio di sole sottilissimo, intensissimo che come nel quadro penetra da una persiana... In cucina [ci sono] una vecchia e una sguattera bassa e grassa, anch’esse in grigio, bianco, nero... tutte Velázquez».
Van Gogh era convinto che fosse prerogativa di tutti i grandi maestri aiutare lo spettatore a cogliere in maniera più chiara certi aspetti del mondo. Se Velázquez era dunque la sua guida ai grigi e ai rozzi volti di floride cuoche, Monet era la sua guida ai tramonti, Rembrandt alla luce del mattino e Vermeer alle adolescenti di Arles («una Vermeer perfetta» commentò in una lettera al fratello dopo averne incontrata una dalle parti dell’arena). Il cielo sopra il Rodano dopo un acquazzone gli ricordava Hokusai, il frumento Millet e le giovani donne di Saintes-Mairie de la Mer Giotto e Cimabue.
3
Comunque, e fortunatamente per le sue personali ambizioni di pittore, Van Gogh non credeva che gli artisti venuti prima di lui avessero già colto tutto il coglibile della Francia del Sud. Anzi, semmai riteneva che molti avessero mancato di cogliere anche solo l’essenziale: «Buon Dio» esclamava, «ho visto tele di pittori che non rendevano affatto giustizia ai loro soggetti! Ho tante di quelle cose su cui lavorare, qui».
Nessuno aveva per esempio catturato l’aria inconfondibile delle borghesi di mezza età di Arles. «Vi sono donne alla Fragonard, altre alla Renoir. Ma per certe non esistono etichette già viste in pittura [corsivo mio].» Allo stesso modo erano stati ignorati i braccianti che lavoravano nei campi fuori città: «Millet ha risvegliato il nostro sguardo mostrandoci l’uomo che abita la natura. Ma sino a oggi nessuno ha ancora dipinto il vero francese meridionale per noi». «In generale abbiamo forse imparato a vedere il contadino? No, colui che sa farcelo vedere non esiste!»
La Provenza che nel 1888 accolse Van Gogh era soggetto pittorico da oltre un secolo. Tra gli autori provenzali più noti vi erano Fragonard (1732-1806), Constantin (1756-1844), Bidauld (1758-1846), Granet (1775-1849) e Aiguier (1814-1865), tutti pittori realisti che avevano aderito all’idea classica, e sino a quel momento pressoché indiscussa, che il compito dell’artista fosse restituire un’accurata versione su tela del mondo visibile. Essi si erano dunque recati nei campi e sulle colline della Provenza e avevano dipinto versioni riconoscibili dei cipressi, degli alberi, dell’erba, del grano, delle nuvole e dei tori.
Ciononostante, Van Gogh era convinto che la maggioranza di loro non avesse reso giustizia ai soggetti prescelti e non avesse affatto prodotto descrizioni realistiche della Provenza. Possiamo infatti definire realista qualunque tela riesca a comunicare in maniera precisa elementi chiave del mondo; il quale mondo, però, è abbastanza complesso perché due dipinti realisti dello stesso luogo possano apparire alquanto diversi tra loro, a seconda dello stile e del temperamento dell’autore. Due pittori realisti possono dunque sedere davanti alla stessa macchia di ulivi e produrre schizzi diversissimi. Ogni opera realista comporta e ripropone infatti la scelta dei tratti di realtà che si vogliono porre in risalto, e nessun quadro, mai, può catturare l’intero, come ironicamente sottolineava Nietzsche:
IL PITTORE REALISTA
«Fedele in tutto alla natura!» – Ma come ci riesce:
Quando mai la natura sarebbe risolta in un quadro?
Infinito è il più esiguo frammento del mondo! –
Finisce per dipingere soltanto quello che piace a lui.
E che cosa gli piace? Quel che dipingere sa!
Se poi, a nostra volta, apprezziamo il lavoro del pittore, è perché riteniamo abbia selezionato i tratti caratteristici più importanti di una certa scena. Esistono selezioni così riuscite da arrivare a definire un luogo in modo quasi assoluto, tanto che non siamo più liberi di visitarlo senza ripensare costantemente a quel che vi ha trovato quel certo grande artista.
In maniera uguale e opposta, quando protestiamo perché un nostro ritratto «non ci assomiglia affatto» non stiamo in realtà accusando l’artista di averci imbrogliati. Semplicemente sentiamo che il processo di selezione insito in ogni opera d’arte non ha funzionato, e che parti di noi stessi che consideriamo essenziali non hanno ottenuto il dovuto riconoscimento. Potremmo insomma definire la cattiva arte come una serie di scelte sbagliate tra quanto va mostrato e quanto può essere invece tralasciato.
E il fatto che avessero trascurato l’essenziale era proprio il nocciolo della critica di Van Gogh alla maggioranza degli artisti che prima di lui avevano dipinto la Francia del Sud.
4
Guarda caso, nella camera degli ospiti trovai un libro su Van Gogh e poiché quella prima notte ebbi difficoltà a prendere sonno ne lessi diversi capitoli, addormentandomi infine con il volume aperto sulle ginocchia mentre a un angolo della finestra si affacciavano i primi rossori dell’alba.
Svegliatomi tardi, scoprii che i miei amici erano andati a Saint-Rémy e che mi avevano lasciato un biglietto in cui annunciavano il loro ritorno per l’ora di pranzo. In terrazza, su un tavolo di metallo, era apparecchiata la colazione. Mi avventai su tre pains au chocolat e li ingollai in rapida quanto colpevole successione, controllando l’eventuale arrivo di domestici pronti a riferire malignamente l’accaduto ai padroni.
Era una giornata tersa. In un campo vicino, il mistral scompigliava le spighe di frumento. Mi ero seduto nello stesso punto anche il giorno prima, ma solo ora notai la presenza di due grandi cipressi in fondo al giardino, scoperta non estranea a un capitolo del libro su Van Gogh dedicato al modo in cui l’artista aveva trattato il soggetto. Tra il 1888 e il 1889 aveva infatti realizzato numerosi schizzi di filari di cipressi.
«Essi occupano costantemente i miei pensieri» raccontava al fratello, «e sono sbalordito che non siano ancora stati visti come li vedo io. Il cipresso eguaglia per bellezza di linee e proporzione gli obelischi egiziani, e il suo verde ha una qualità così distintiva. È una macchia di nero in un paesaggio soleggiato, ma di una nota di nero tra le più interessanti e difficili da riprodurre esattamente.»
Cosa aveva dunque notato Van Gogh nei cipressi che altri non avevano visto? In parte, il modo in cui oscillavano al vento. Mi diressi in fondo al giardino e, confrontandoli con i dipinti (soprattutto Cipressi e Campo di grano con cipressi, del 1889), ne studiai attentamente il comportamento sotto le raffiche di mistral.
Il fenomeno aveva spiegazioni di ordine architettonico. Diversamente dai pini, i cui rami scendono delicatamente dalla cima dell’albero, le fronde del cipresso puntano dal basso verso l’alto, il tronco è insolitamente breve e l’ultimo terzo della pianta consiste nella sola chioma. Nel caso della quercia, il vento agita i rami ma il tronco resta fermo; nel caso del cipresso, a piegarsi è l’albero intero e, data l’abbondanza delle fronde sparse su tutta la circonferenza del tronco, pare anche piegarsi lungo più di un asse. Da una certa distanza, la mancanza di sincronicità nei suoi movimenti rafforza dunque l’impressione che il cipresso sia scosso da folate provenienti da angoli diversi, e grazie alla sua forma conica (raramente questi alberi superano il metro di diametro) giunge ad assomigliare fortemente a una fiamma nervosa. Tutte cose che Van Gogh notò e riuscì a far notare anche a chi guardava i suoi quadri.
A pochi anni di distanza dal soggiorno provenzale del pittore, Oscar Wilde commentò che a Londra, prima che Whistler la dipingesse, non c’era mai stata la nebbia. Sicuramente neanche nella Francia del Sud dovevano esserci mai stati cipressi, prima che Van Gogh li disegnasse.
Persino gli ulivi erano passati inosservati. Non più tardi del giorno prima io stesso ne avevo liquidato un esemplare dandogli del cespuglio, ma in Olivi con cielo giallo e sole e Oliveto, del 1889, Van Gogh seppe «portare fuori» (cioè porre in primo piano) la forma dei loro tronchi e delle loro foglie. Ora anch’io notavo una spigolosità che prima mi era sfuggita: gli alberi assomigliavano a tridenti conficcati nel suolo dopo un lancio da grande altezza. Simili a braccia flesse pronte a colpire, i rami degli ulivi tradivano una certa ferocia, mentre le foglie toniche e argentee apparivano attente e piene di energia, non come quelle di tanti altri alberi, flaccide come lattughe appese su rastrelliere di rami ignudi.
Con Van Gogh cominciai ad accorgermi che anche i colori della Provenza avevano qualcosa di speciale. Naturalmente le ragioni erano in parte climatiche: il mistral, che dalle Alpi soffia lungo la valle del Rodano, spazza regolarmente il cielo dalle nuvole e dall’umidità, lasciandolo di un azzurro intenso e puro, privo di qualunque traccia di bianco. Contemporaneamente, la falda freatica alta e la buona irrigazione contribuiscono alla crescita di una vegetazione davvero lussureggiante per un clima mediterraneo. In assenza di siccità le piante riescono dunque a trarre il massimo vantaggio dalla loro esposizione alla luce e al calore del mezzogiorno e, come se non bastasse, diversamente da quanto succede nelle regioni tropicali qui non c’è umidità nell’aria a «sporcare» e mescolare i colori di fiori, alberi, cespugli. La combinazione di cielo terso, aria secca, acqua e vegetazione lussureggiante fa sì che la Provenza sia quindi dominata da colori fondamentali vividi e ricchi di contrasti.
Prima di Van Gogh molti pittori avevano di fatto ignorato queste prerogative cromatiche, esprimendosi quasi solo attraverso colori complementari, così come Claude e Poussin avevano loro insegnato. Constantin e Bidauld, per esempio, avevano dipinto la Provenza servendosi esclusivamente di sottili gradazioni di celeste e marrone. Van Gogh era profondamente irritato da una simile mancanza di attenzione alla tavolozza della natura locale. «La maggior parte [dei pittori], non essendo coloristi... non vede il giallo, l’arancione, la nota sulfurea del Sud, e dà del pazzo al pittore che guarda con occhi diversi dai loro.» Egli abbandonò dunque la tecnica del chiaroscuro per inzuppare le sue tele di colori fondamentali, sempre disponendoli in modo tale da esaltare al massimo i contrasti: rosso con verde, giallo con viola, blu con arancione. «I colori qui sono magnifici» scriveva alla sorella. «Quando le foglie sono giovani il verde è brillante, brillante come raramente lo vediamo al nord. E quando si brucia e impolvera non perde nulla della sua bellezza, poiché allora il paesaggio acquista i toni variegati dell’oro: verde oro, giallo oro, rosso oro... E tutto ciò combinato al blu – dal blu reale più intenso dell’acqua, a quello nitido e chiaro dei nontiscordardimé.»
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Fu come se i miei occhi si fossero sintonizzati di colpo sulla lunghezza d’onda cromatica che dominava nelle tele del grande artista: ovunque guardassi intorno a me vedevo ormai solo contrasti e colori fondamentali. Di fianco alla casa c’era un campo violetto di lavanda, e subito accanto una distesa gialla di grano. I tetti degli edifici spiccavano arancioni contro il cielo di un azzurro puro. Prati verdi si stendevano punteggiati di papaveri rossi e incorniciati da oleandri.
Ma una simile ricchezza non era limitata alle ore diurne: Van Gogh aveva dato risalto anche ai colori della notte. I pittori provenzali precedenti avevano sempre rappresentato il cielo notturno come uno sfondo scuro cosparso di minuscoli puntini bianchi. Quando in una serena notte di Provenza andiamo però a sederci all’aperto, lontano dai bagliori dei lampioni e delle case, ci accorgiamo che il firmamento contiene una profusione di colori: tra una stella e l’altra il cielo è blu scuro, violetto, di un verde quasi nero, e le stelle sono giallo, verde o arancione sbiadito e diffondono anelli di luce ben più ampi della loro esile circonferenza. Come spiegava Van Gogh alla sorella: «La notte è ancora più riccamente colorata del giorno... Se solo vi presti attenzione, ti avvedi che talune stelle sono giallo limone, altre emettono un chiarore rosato, altre irradiano aloni verdastri, azzurrini e blu nontiscordardimé. Senza per questo poter rimediare alla cosa, appare chiaro che mettere tanti puntini bianchi su una superficie nera non basta».
5
L’ufficio del turismo di Arles si trova nella zona sud-ovest della città, in un isolato di cemento uguale a tanti altri, e ai visitatori offre la solita scelta di cartine gratuite, consigli sugli alberghi, informazioni su festival ed eventi culturali, sui servizi di babysitteraggio, sulle enoteche con degustazione, sui siti archeologici locali, sui mercati e sui corsi di canoa. Una attrazione spicca però su tutte le altre: «Benvenuti nella terra di Vincent van Gogh» recita un poster con i famosi girasoli appeso nell’ingresso, e le pareti stesse sono decorate da scene della mietitura, frutteti e ulivi.
L’ufficio raccomanda inoltre caldamente il cosiddetto «percorso Van Gogh». In occasione del primo centenario della morte dell’artista, avvenuta nel 1890, la sua presenza nella regione è stata celebrata con una serie di placche – affisse a mo’ di cartello su pali di metallo o inserite in lastre di pietra – nei punti immortalati dal maestro. Sulle placche, dislocate sia in città, sia nei campi di grano e negli uliveti che la circondano, si trovano le foto delle opere corrispondenti e alcune righe di commento. Il percorso si snoda fino a Saint-Rémy, dove, in seguito all’episodio all’orecchio, Van Gogh concluse il suo soggiorno provenzale alla Maison de Santé.
Convinsi dunque i miei ospiti a dedicare un pomeriggio a quella gita artistica e insieme ci recammo all’ufficio del turismo per prendere una cartina. Una volta lì scoprimmo che dal cortile adiacente stava partendo una gita guidata settimanale, e che per una cifra modesta c’erano ancora dei posti liberi. Ci unimmo così a una dozzina di altri entusiasti e per prima cosa fummo condotti in place Lamartine, dove tra l’altro la nostra guida ci disse di chiamarsi Sophie e di essere una studentessa della Sorbona impegnata in una tesi su Van Gogh.
Trovando troppo costoso l’albergo in cui aveva preso alloggio, ai primi di maggio del 1888 il pittore olandese si era trasferito in un’ala di un edificio posto al numero 2 della succitata piazza e noto come «la Casa Gialla».
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In pratica si trattava della metà di una costruzione a doppia facciata, dipinta di giallo dal proprietario che però non aveva terminato gli interni. Fu così che Van Gogh sviluppò un grande interesse per l’arredamento e decise che la sua abitazione doveva essere semplice e uniforme, tutta nei colori del Sud: rossi, verdi, blu, arancioni, gialli verdognoli e lilla. «Intendo trasformarla davvero in una casa d’artista – niente di prezioso, ma tutto, dalle sedie ai quadri, dovrà avere carattere» disse al fratello. «In quanto ai letti, ne ho comprati di quelli grandi campagnoli, a due piazze, e ho eliminato quelli in ferro. Ciò contribuisce a creare un’atmosfera di solidità, tranquillità e durata.» E, completati gli arredi, così comunicava esultante alla sorella: «L’esterno della mia casa è giallo come il burro fresco, con abbaglianti persiane verdi, e se ne sta in pieno sole in una piazza che ha un giardino verde con platani, oleandri e acacie. Dentro invece è tutta d’intonaco bianco e i pavimenti sono di mattoni arancioni. Sopra di essa c’è il cielo azzurro intenso. Qui posso vivere e respirare, meditare e dipingere».
Purtroppo Sophie non aveva molto da mostrarci, poiché la Casa Gialla era andata distrutta durante la Seconda guerra mondiale e sostituita da un ostello per studenti assolutamente oppresso dal gigantesco supermercato Monoprix che gli sorgeva accanto. Proseguimmo quindi per Saint-Rémy, dove trascorremmo più di un’ora nei campi circostanti il manicomio dove Van Gogh aveva vissuto e continuato a dipingere. Sophie aveva con sé un grosso volume rivestito da una copertina di plastica contenente le riproduzioni dei più importanti quadri provenzali; spesso, nei punti in cui Van Gogh si era fermato a dipingere, si fermava a propria volta e lo sollevava, mentre noi ci guardavamo intorno. A un certo punto, le spalle rivolte alle Alpilles, ci mostrò Olivi con le Alpilles sullo sfondo (giugno 1889), e noi ammirammo prima la vista, quindi il quadro del maestro.
D’un tratto però nel gruppo vi fu un moto di dissenso. Un australiano con un enorme cappello fermo accanto a me si girò verso la compagna, una donnina dalla chioma arruffata, e disse: «Be’, a me non sembra poi tanto simile».
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Van Gogh aveva previsto e temuto accuse di quel genere. Alla sorella scriveva che più di un suo quadro era stato accolto da commenti del tipo: «’Hm, strano davvero’ per non parlare di quelli che lo trovano un aborto o assolutamente repellente». I motivi di simili critiche non erano certo un mistero: i muri delle sue case non sempre apparivano diritti, il sole non sempre era giallo, né l’erba sempre verde, e spesso nei suoi alberi c’era un eccesso di movimento. «Ho forse giocato troppo scombinando la realtà dei colori» gli capitò di ammettere, e in modo analogo scombinava linee, proporzioni, ombre e toni.
Così facendo, tuttavia, Van Gogh rendeva solo più esplicito un processo che coinvolge qualunque artista: il dover scegliere quali aspetti della realtà includere e quali escludere dalla propria opera. Come Nietzsche ben sapeva, la realtà stessa è infinita e l’arte non potrà mai rappresentarla per intero. Ciò che rendeva Van Gogh particolare e insolito nel panorama degli artisti provenzali era dunque la sua scelta degli elementi importanti. Un pittore come Constantin, per esempio, aveva dedicato sforzi enormi al tentativo di rispettare la scala delle proporzioni, mentre Van Gogh, sebbene fortemente interessato al raggiungimento di una «verosimiglianza», insisteva che non era certo preoccupandosi delle proporzioni che sarebbe riuscito a comunicare i dati importanti relativi al Sud. La sua arte, come ironicamente disse al fratello, comportava «una verosimiglianza diversa da quella dei prodotti del fotografo timorato di Dio». Proprio per ottenere maggiore evidenza, la parte di realtà che lo interessava richiedeva a volte la distorsione, l’omissione e la sostituzione dei colori, ma nonostante questo a contare per lui era sempre il reale – la «verosimiglianza». Pur di raggiungere un realismo più profondo egli era disposto a sacrificare il realismo naïf, come il poeta che, sebbene meno fattuale e informativo di un giornalista nel descrivere un evento, può comunque rivelare verità che nell’interpretazione letterale del giornalista non troverebbero mai posto.
Van Gogh articolava diffusamente l’idea in una lettera indirizzata al fratello nel settembre del 1888, parlando di un progetto di ritratto: «Anziché tentare di riprodurre esattamente ciò che ho davanti agli occhi, per esprimermi appieno uso il colore in maniera più arbitraria... Sento che devo fornirti qualche esempio. Mi piacerebbe eseguire il ritratto di un amico artista, un grande sognatore che scrive così come canta l’usignolo, poiché questa è la sua natura [si tratta di Poeta, dei primi del settembre 1888]. Egli sarà biondo. Desidero mettere nel mio dipinto tutta la stima e l’amore che ho per lui [corsivo mio]. E dunque, per cominciare, lo dipingo così com’è, con la fedeltà di cui sono capace. Ma il quadro non è ancora finito. Per terminarlo sarò il colorista arbitrario. Ne esagererò la biondezza, ricorrendo pure a toni aranciati, cromati e giallo limone pallidi. Dietro la testa, al posto della solita parete, dipingerò l’infinito, un semplice sfondo del blu più ricco e intenso che riuscirò a concepire, e grazie a questo semplice accostamento della testa chiara, luminosa, contro lo sfondo blu intenso otterrò un effetto misterioso, come quello di una stella nelle profondità di un cielo azzurro... Oh, mio caro... e le persone perbene leggeranno l’esagerazione esclusivamente come una caricatura».
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Il percorso Van Gogh, Saint-Rémy-de-Provence
Qualche settimana più tardi, Van Gogh iniziò un’altra «caricatura»: «Probabilmente stasera attaccherò con gli interni del caffè dove ceno alla luce delle lampade a gas» riferì al fratello. «È quel che si dice un ’café de nuit’ (sono piuttosto comuni, da queste parti), sta aperto tutta la notte. I disperati possono venire qui se gli mancano i soldi per pagarsi un alloggio, o se hanno bevuto troppo perché li facciano entrare.» Nel dipingere quello che sarebbe diventato Caffè di notte Van Gogh rinunciò a particolari elementi della «realtà» in nome di altri: non riprodusse, per esempio, la giusta prospettiva o lo schema cromatico del caffè, e lasciò che le lampadine si trasformassero in funghi luminescenti, che le sedie avessero schienali arcuati e il pavimento risultasse deformato. Eppure desiderava sempre rendere un’idea veritiera del luogo, idea che forse, seguendo le regole auree dell’arte, non avrebbe potuto esprimere altrettanto efficacemente.
6
Le critiche dell’australiano si rivelarono un caso isolato nel gruppo. Quasi tutti, in preda a un nuovo e accresciuto rispetto per Van Gogh e i paesaggi che aveva dipinto, lasciammo che Sophie ci erudisse con le sue spiegazioni. Ma il mio entusiasmo personale era inficiato dal ricordo di una massima eccezionalmente secca e incisiva scritta da Pascal alcuni secoli prima del viaggio meridionale del pittore olandese:
Quale vanità è mai la pittura che suscita ammirazione per la somiglianza delle cose, di cui non si ammirano affatto gli originali.
Pensées, 40
Per quanto imbarazzante, era vero che prima di trovarmi davanti ai quadri di Van Gogh non avevo affatto ammirato la Provenza, e tuttavia come presa in giro degli amanti dell’arte la massima di Pascal rischiava di trascurare due punti importanti. Ammesso e non concesso che i pittori si limitino a riprodurre esattamente quanto hanno dinanzi agli occhi, apprezzare su tela un paesaggio che già conosciamo e non amiamo nella realtà suona decisamente assurdo e pretenzioso. Se funzionasse così, infatti, le uniche cose che ammireremmo in un dipinto sarebbero l’abilità tecnica necessaria a realizzarlo e il nome famoso dell’autore – nel qual caso potremmo facilmente concordare con la descrizione pascaliana della pittura come qualcosa di essenzialmente vano. Ma, verità ben nota a Nietzsche, i pittori non si limitano affatto a riprodurre. Semmai, essi selezionano ed evidenziano, e suscitano autentica ammirazione solo nella misura in cui la loro versione della realtà è in grado di dare risalto a caratteristiche importanti della realtà stessa.
Nulla ci costringe inoltre a tornare indifferenti nei riguardi di un luogo non appena il quadro che lo dipinge esce dal nostro campo visivo, possibilità cui Pascal sembra invece alludere. La capacità di apprezzamento può benissimo trasferirsi dall’arte al mondo e, anche se certe cose le scopriamo prima su tela, siamo liberi di gustarle anche in seguito, ritrovandoci nel luogo in cui la tela è stata dipinta. Possiamo insomma continuare a vedere i cipressi anche dopo e oltre i quadri di Van Gogh.
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La Provenza non è l’unica regione che ho iniziato ad apprezzare e a esplorare per merito dell’arte. Mi era già capitato in Germania, dove sull’onda di Alice nelle città, di Wim Wenders, avevo visitato le grandi aree industriali, mentre le foto di Andreas Gursky mi avevano insegnato a guardare con interesse la pancia dei cavalcavia autostradali, e il documentario Robinson in Space, di Patrick Keiller, si era tradotto in una vacanza per fabbriche, vie commerciali e centri d’affari nel Sud dell’Inghilterra.
Riconoscendo che il paesaggio locale avrebbe avuto maggiori possibilità di conquistarci se lo avessimo osservato prima attraverso i quadri di un grande pittore, l’ufficio del turismo di Arles non aveva fatto altro che sfruttare il rapporto da sempre esistente tra l’arte e il desiderio di viaggiare, rapporto già esplicito in tanti altri paesi e mediato dai più vari settori della creatività.
A questo proposito la Gran Bretagna si pone come esempio antico e significativo. Molti storici sostengono infatti che la campagna inglese, scozzese e gallese sia stata trascurata fino alla seconda metà del Settecento. Per secoli luoghi come la valle del Wye, le Highlands scozzesi, il Lake District, considerati in seguito indiscutibili meraviglie naturali, sono stati ignorati, quando non addirittura disprezzati. Intorno al 1720 Daniel Defoe descrisse il Lake District come una terra «spaventosa e desolata», mentre nel suo Journey to the Western Isles of Scotland Samuel Johnson disse che le Highlands erano «spoglie», penosamente prive di «vegetazione decorativa», nonché «una immensa distesa irrimediabilmente sterile». E quando Boswell tentò di consolarlo facendogli notare l’imponenza di una montagna, a Glenshiel, Johnson ribatté infastidito: «No, non è altro che una grossa protuberanza».
Chi poteva permettersi di viaggiare si recava all’estero. La meta più gettonata era l’Italia, in particolare Roma, Napoli e le campagne circostanti, e probabilmente non è una coincidenza che queste stesse località comparissero tanto spesso nelle opere d’arte predilette dall’aristocrazia inglese – i poemi di Orazio e Virgilio, le tele di Claude e Poussin. La campagna romana e la costa napoletana venivano spesso dipinte all’alba o al crepuscolo, il cielo appariva solcato da vaporose nuvolette dai bordi rosa e dorati e subito lo spettatore immaginava che fosse – o che sarebbe stata – una giornata di grande caldo. Nei quadri l’aria era immota, il silenzio interrotto solo dal rinfrescante gorgoglio di un ruscello o da un rumore di remi nell’acqua. Qua e là giovani pastorelle saltellavano nei prati, o sedevano a guardare un gregge o un bimbo dai riccioli d’oro. Contemplare simili scene da una casa nella piovosa campagna inglese metteva certamente voglia di attraversare la Manica alla prima occasione buona. Come Joseph Addison osservò nel 1712: «Le Opere della Natura ci appaiono più piacevoli, quanto più esse ricordano quelle dell’Arte».
Purtroppo le opere della natura inglese dovettero attendere a lungo perché l’arte contribuisse a stabilire richiami e somiglianze significative. Nel Settecento, tuttavia, il vuoto venne gradualmente colmato e con strabiliante sincronicità gli inglesi superarono la riluttanza ormai storica a viaggiare in casa propria. Nel 1727 il poeta James Thomson pubblicò Le stagioni, celebrazione della vita campestre e dei paesaggi del Sud dell’Inghilterra, e il successo dell’opera contribuì a rendere popolari anche quelle di altri «poeti contadini», come Stephen Duck, Robert Burns e John Clare. Anche la pittura rivolse il proprio interesse alla campagna: Lord Shelburne commissionò a Thomas Gainsborough e a George Barrett una serie di paesaggi per la sua residenza di Bowood, nel Wiltshire, dichiarandosi intenzionato a «porre le basi per una scuola paesaggista inglese», mentre Richard Wilson si concentrava sul Tamigi nei pressi di Twickenham, Thomas Hearne sul Goodrich Castle, Philip James de Loutherbourg sull’abbazia di Tintern e Thomas Smith su Derwentwater e Windermere.
Questo processo fu seguito da un’immediata e parallela esplosione del turismo locale. Per la prima volta la valle del Wye si riempì di visitatori inglesi, così come i monti del Galles del Nord, il Lake District e le Highlands scozzesi: storia che pare confermare in tutto e per tutto la teoria secondo cui tendiamo a cercare angoli particolari di mondo solo dopo che qualcuno li ha già immortalati o descritti per noi.
Naturalmente si tratta di una teoria esagerata, così esagerata da arrivare a suggerire che nessuno a Londra si fosse mai accorto della nebbia prima di Whistler, o dei cipressi in Provenza prima di Van Gogh. L’arte da sola non basta a creare entusiasmi, né nasce da sentimenti di cui i non artisti siano privi: semmai contribuisce ad alimentare le passioni e ad aumentare la nostra consapevolezza di emozioni che fino a un certo momento possiamo aver vissuto in maniera superficiale o affrettata.
Quanto basta comunque – cosa che l’ufficio del turismo di Arles sembrava aver ben compreso – a influenzare la nostra scelta per le vacanze dell’anno prossimo.
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