I

SULL’ASPETTATIVA

 

 

 

 

Luoghi

 

 

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Hammersmith
Londra

 

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Barbados

 

 

 

 

Guida

 

 

 

J.K. Huysmans

 

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1

 

Difficile dire con esattezza quando fosse arrivato l’inverno. Il declino era stato graduale, come quello di un uomo verso la vecchiaia, poco evidente nell’immediato succedersi dei giorni finché la stagione era diventata una realtà impietosa e innegabile. Dopo un calo nelle temperature serali, arrivarono giorni di pioggia ininterrotta, confuse folate di vento atlantico, umidità, e infine la caduta delle foglie e lo spostamento all’indietro delle lancette dell’orologio – benché non mancassero le tregue, le mattine in cui si poteva uscire di casa senza cappotto e il cielo era terso e luminoso. Si trattava, tuttavia, di falsi segni di ripresa in un paziente già condannato. A dicembre, infatti, la nuova stagione era ormai consolidata e la città regolarmente oppressa da cieli plumbei e minacciosi, come nei quadri del Mantegna o del Veronese, sfondi perfetti per una crocifissione del Cristo o per una giornata al calduccio sotto le coperte. Il parco del quartiere si era trasformato in una squallida distesa di acqua e fango, illuminata la notte da lampioni ambrati rigati di pioggia. Una sera, passando di là sotto un acquazzone, ripensai a quando, in piena afa estiva, ero andato a sdraiarmi su quelle aiuole, i piedi nudi che sfioravano l’erba, e a come quel contatto diretto con la terra mi avesse dato un senso di libertà e socievolezza, a come l’estate riuscisse ad abbattere i normali confini tra l’aperto e il chiuso e a farmi sentire a casa mia tanto nel vasto mondo quanto nella mia camera da letto.

Ora però il parco era tornato un luogo estraneo, il manto erboso una truce arena sotto la pioggia incessante. Se già provavo una vaga tristezza, se già temevo che felicità e armonia fossero irraggiungibili, i miei sentimenti parvero trovare conferma nei mattoni scuri e fradici delle case e nel cielo basso sfumato di arancione dai lampioni.

Tali circostanze climatiche, sommate a una serie di fatti accaduti nello stesso periodo (e che sembravano a loro volta confermare la sentenza di Chamfort secondo cui un uomo dovrebbe ingoiare ogni mattina un rospo per essere sicuro di non dover affrontare nulla di più orribile nella giornata che lo attende), finirono per rendermi oltremodo sensibile all’arrivo, un pomeriggio tardi, di un accattivante quanto non richiesto dépliant intitolato «Inverno al sole». In copertina campeggiava una fila di palme, molte delle quali si protendevano quasi orizzontali su una spiaggia di sabbia finissima orlata da un mare turchese, e sullo sfondo si stagliavano colline dove subito immaginai celarsi cascate e freschi ripari all’ombra di olezzanti alberi da frutto. Le fotografie all’interno mi ricordavano i quadri di Tahiti che William Hodges aveva riportato con sé dal viaggio con il capitano Cook e che mostravano una laguna tropicale dove, nella morbida luce del crepuscolo, giovani sorridenti saltellavano spensierate (e scalze) tra il lussureggiante fogliame; immagini che, esibite per la prima volta da Hodges alla Royal Academy di Londra nel rigido inverno del 1776, avevano suscitato grande meraviglia – nonché ispirato innumerevoli rappresentazioni successive dell’idillio tropicale, comprese quelle di «Inverno al sole».

Gli autori del dépliant avevano oscuramente intuito con quanta facilità i loro lettori avrebbero potuto trasformarsi in altrettante prede grazie a semplici fotografie il cui potere era un insulto per l’intelligenza e per qualunque nozione di libero arbitrio: scatti sovraesposti di palme slanciate, cieli cristallini e spiagge bianche. A contatto con questi elementi, anche i lettori normalmente capaci di prudenza e scetticismo regredivano a un’innocenza e a un ottimismo primordiali. Il desiderio indotto dal dépliant costituiva una dimostrazione, commovente e patetica al tempo stesso, di quanto i progetti (o la vita intera) siano in realtà esposti all’influenza delle immagini di felicità più rozze e scontate, e di come un lungo e costoso viaggio possa prendere le mosse dalla mera vista di una fotografia di una palma dolcemente inclinata nella brezza tropicale.

Decisi insomma di partire per l’isola di Barbados.

 

 

2

 

Se la nostra esistenza si svolge all’insegna della ricerca della felicità, forse poche cose meglio dei viaggi riescono a svelarci le dinamiche di questa impresa – completa di tutto il suo ardore e di tutti i suoi paradossi. Benché in maniera indiretta, infatti, i viaggi contengono una chiave di lettura del senso della vita che va oltre le costrizioni imposte dal lavoro e dalla lotta per la sopravvivenza; ciononostante raramente vengono considerati stimolanti sul piano filosofico poiché sembrano richiedere considerazioni di ordine eminentemente pratico. Veniamo così inondati di consigli sul dove, ma poco o nulla ci viene domandato circa il come e il perché del nostro andare. Eppure l’arte di viaggiare pone una serie di interrogativi nient’affatto semplici o banali, e il cui studio potrebbe modestamente contribuire alla comprensione di ciò che i filosofi greci indicavano con la bella espressione eudaimonia, ovvero felicità.

 

 

3

 

Uno di questi interrogativi concerne la relazione tra l’aspettativa del viaggio e la sua realtà. Mi è capitato di leggere Controcorrente, romanzo del 1884 di J.K. Huysmans, il cui fiacco e misantropo eroe, il nobile Des Esseintes, attende con trepidazione un viaggio a Londra e nel frattempo si abbandona a un’analisi oltremodo pessimistica della differenza che passa tra le nostre aspettative su un luogo e quanto può verificarvisi una volta che lo abbiamo raggiunto.

Il duca Des Esseintes abitava da solo in una grande villa alle porte di Parigi e raramente usciva, per non imbattersi in quella che considerava la bruttezza e la stupidità del prossimo. Da giovane si era infatti avventurato sino a un vicino villaggio e in quella visita di poche ore aveva sentito crescere dentro di sé il disgusto per gli altri; così aveva deciso di trascorrere i suoi giorni in solitudine, a letto nello studio, leggendo i classici della letteratura e rimuginando malevoli pensieri sull’umanità tutta. Un mattino presto, tuttavia, il duca aveva stupito se stesso provando l’intenso desiderio di recarsi a Londra, un desiderio che lo aveva assalito mentre leggeva accanto al fuoco un volume di Dickens. Il libro gli aveva evocato e impresso nella mente visioni della vita inglese, verso cui si era sentito sempre più attratto. Incapace di dominare l’entusiasmo, ordinò alla servitù di preparare i bagagli, indossò un completo di tweed grigio, un paio di stivaletti alla caviglia con stringhe, una piccola bombetta e una mantella Inverness color carta da zucchero e salì sul primo treno per Parigi. Per ingannare il tempo che lo separava dalla coincidenza per Londra si recò da Galignani, la libreria inglese in rue de Rivoli, dove acquistò una guida di Londra Baedeker. Piacevolmente perso nelle fantasticherie indotte dalle vivide descrizioni delle attrazioni londinesi, si trasferì in una vicina osteria dall’atmosfera dickensiana frequentata soprattutto da inglesi. Subito ripensò alle scene in cui la piccola Dorrit, Dora Copperfield, e Ruth, la sorella di Tom Pinch, sedevano in stanze simili, luminose e accoglienti; uno degli avventori, poi, aveva la chioma bianca e la carnagione rubiconda del signor Wickfield, e i lineamenti inespressivi e gli occhi crudeli del signor Tulkinghorn.

Affamato, Des Esseintes si infilò quindi in una taverna inglese in rue d’Amsterdam, nei pressi della Gare Saint Lazare. Era un ambiente scuro e fumoso, e il bancone, su cui erano allineati rubinetti per spillare la birra, era ricoperto di prosciutti bruni come violini e aragoste rosse come il minio. Ai piccoli tavoli di legno sedevano donne inglesi dai volti mascolini, i denti grandi come coltelli per spalmare, le guance rosse come mele e mani e piedi lunghissimi. Des Esseintes trovò un tavolo e ordinò una zuppa di coda di bue, eglefino affumicato, una porzione di roast beef, un paio di pinte di birra e un pezzo di stilton.

Ma mentre si avvicinava l’ora della partenza del treno, e con essa la possibilità di trasformare la Londra dei sogni nella Londra della realtà, Des Esseintes fu colto da una crisi di pigrizia e pensò a quanto sarebbe stato faticoso andarci veramente, a Londra, al fatto che avrebbe dovuto affrettarsi fino alla stazione, sgomitare per trovare un facchino, cercare il posto in carrozza, sopportare un letto nuovo, affrontare le code, il freddo e la fatica di recarsi di persona nei luoghi già così ben descritti dal Baedeker – finendo in tal modo per insozzare i suoi sogni. «A che pro muoversi, quando si può viaggiare così magnificamente su di una sedia? Non era forse a Londra, i cui profumi, la cui atmosfera, i cui abitanti, i cui cibi, le cui suppellettili lo circondavano? Che poteva dunque sperare, se non nuove disillusioni, come in Olanda?» Senza allontanarsi dal tavolo, continuò: «Che aberrazione ho dunque avuto per aver tentato di rinnegare idee antiche, per avere condannato le docili fantasmagorie del mio cervello, per avere come un vero pivello creduto alla necessità, alla curiosità, all’interesse di un’escursione?»

Fu così che Des Esseintes pagò, uscì dalla taverna e, armato di bauli, pacchi, valigie, tappeti, ombrelli e bastoni, riprese il primo treno e tornò alla sua villa, da cui non si allontanò mai più.

 

 

4

 

Tutti sappiamo bene che la realtà del viaggio non è quella che ci aspettiamo. La scuola pessimista, di cui Des Esseintes potrebbe essere considerato il patrono onorario, argomenta dunque che la realtà non può che essere sempre deludente. Ma sarebbe forse più giusto e costruttivo dire che essa è soprattutto diversa.

Dopo due mesi di trepidante attesa, a metà di un terso pomeriggio di febbraio, atterrai insieme a M., la mia compagna di viaggio, al Grantley Adams dell’isola di Barbados. Gli edifici dell’aeroporto distavano solo pochi passi dal nostro aereo, il che bastò per darmi modo di registrare una vera e propria rivoluzione climatica: nel giro di poche ore ero approdato a una temperatura e a un tasso di umidità che, a casa, non si sarebbero presentati che cinque o sei mesi più tardi, e anche allora senza toccare punte di intensità paragonabile.

Nulla era come mi ero immaginato, fatto peraltro sorprendente solo se si considera cosa mi ero immaginato. Nelle settimane appena trascorse il pensiero di quell’isola era gravitato esclusivamente intorno a tre immagini mentali fisse, messe insieme nel corso della lettura di un dépliant e di un orario aereo. La prima consisteva in una spiaggia con una palma stagliata contro il sole al tramonto. Nella seconda c’era un bungalow visto dall’esterno, con portefinestre spalancate su una stanza con pavimenti in legno e un letto con federe e lenzuola bianche. La terza constava semplicemente di un cielo azzurro.

Ovviamente, se qualcuno me l’avesse chiesto con un po’ di insistenza sarei stato in grado di riconoscere che l’isola doveva comprendere anche altri elementi, ma nessuno di essi mi era stato necessario per costruire la mia immagine mentale. Mi ero insomma comportato come quegli spettatori che, a teatro, non hanno alcuna difficoltà a immaginare che le azioni si svolgano effettivamente nella foresta di Sherwood o nell’antica Roma solo perché sullo sfondo sono stati dipinti un ramo di quercia o una colonna dorica.

All’arrivo, tuttavia, trovai tutta una serie di particolari che con insistenza chiedevano di essere inseriti nel significato più ampio della parola Barbados. Un enorme deposito di carburante decorato dal logo giallo e verde della British Petroleum, per esempio, o un cubicolo di compensato dove un funzionario dell’ufficio immigrazione sedeva in immacolata uniforme marrone verificando senza fretta, con curiosità e meraviglia (come uno studioso che sfogliasse le pagine di un manoscritto tra gli scaffali di una biblioteca), i passaporti di una fila di turisti che si snodava sin fuori dal terminal, lambendo i margini del campo. Al di sopra del nastro di riconsegna dei bagagli era appesa la pubblicità di un rum, nel corridoio della dogana c’era una foto del primo ministro, in sala arrivi un bureau de change e davanti all’aeroporto una bolgia di tassisti e guide turistiche. E se tale profusione di immagini celava un problema, esso stava nella difficoltà che mi procuravano a trovare l’isola di Barbados che ero venuto a cercare.

Semplicemente, nel mio attendere e trepidare c’era stato un vuoto assoluto tra l’aeroporto e l’hotel. Tra l’ultima riga del mio promemoria di viaggio (bella e ritmica: «Arrivo BA 2155 alle 15.35») e la mia stanza d’albergo, nella mia mente non era esistito nulla. Di certo non mi ero spinto a immaginare la gomma consumata del nastro trasportatore dei bagagli, le due mosche che volteggiavano su un portacenere strapieno, il gigantesco ventilatore in sala arrivi, il taxi bianco con finta pelle di leopardo drappeggiata sul cruscotto, il cane randagio nel terreno incolto e abbandonato alle spalle dell’aeroporto, la pubblicità degli «Appartamenti di lusso» piantata in mezzo a un rondò, una fabbrica chiamata «Bardak Electronics», la fila di edifici con tetti di lamiera rossi e verdi, l’elastico sulla maniglia di sicurezza della macchina, con sopra scritto a caratteri minuscoli «Volkswagen, Wolfsburg», i coloratissimi cespugli di cui non conoscevo il nome, la reception dell’albergo con i sei orologi regolati su altrettanti fusi orari e il cartello appeso al muro, che con due mesi di ritardo augurava «Buon Natale» – e ora intimamente mi ribellavo a simili apparizioni. Solo a svariate ore dall’arrivo potei effettivamente ricongiungermi alla stanza dei miei sogni, sebbene anche in quel caso non avessi previsto l’enorme condizionatore d’aria, ancorché gradito, né il bagno di pannelli di formica dove un minaccioso avviso intimava ai signori ospiti di non sprecare l’acqua.

Forse, se siamo così inclini a dimenticare quante cose esistono al mondo oltre a quelle che ci aspettiamo, la colpa è un po’ delle opere d’arte, giacché in esse ritroviamo al lavoro lo stesso processo di semplificazione o di selezione che caratterizza la nostra fantasia. La sintesi artistica comporta infatti nette abbreviazioni di ciò a cui la realtà ci costringe per intero. Un libro, per esempio, può dirci che il narratore ha viaggiato tutto il pomeriggio fino a raggiungere la cittadina collinare di X e che, dopo aver pernottato nel locale monastero medievale, si è svegliato alle prime luci di un’alba velata di foschia. Ma quando mai capita di viaggiare e basta per tutto il pomeriggio? In realtà siamo appena saliti su un treno. Il nostro stomaco è impegnato in una laboriosa digestione. I sedili sono grigi. Guardiamo un campo fuori dal finestrino. Torniamo a guardarci intorno nello scompartimento. Dentro di noi si agitano mille preoccupazioni. Notiamo l’etichetta di una valigia sul bagagliaio sopra i sedili di fronte. Picchiettiamo con un dito sul bordo del finestrino. L’unghia scheggiata dell’indice si impiglia in un filo. Comincia a piovere. Una goccia si apre una strada lenta e fangosa sul vetro coperto di polvere. Ci chiediamo dove abbiamo messo il biglietto. Un’altra occhiata al campo. Continua a piovere. Finalmente il treno si muove. Passa su un ponte di ferro e subito dopo, inspiegabilmente, si ferma. Sul finestrino atterra una mosca. A questo punto siamo forse giunti alla fine del primo minuto di un esauriente resoconto degli eventi celati dietro l’ingannevole frase «viaggiò tutto il pomeriggio».

Il narratore intenzionato a fornirci una simile profusione di particolari, tuttavia, diventa presto insopportabile. Purtroppo la vita stessa si pone in questa medesima ottica di narrazione, logorandoci con ripetizioni, accenti fuorvianti e sviluppi illogici. E ci tiene assolutamente a richiamare la nostra attenzione sulla Bardak Electronics, la maniglia di sicurezza in macchina, il cane randagio, l’augurio natalizio e la mosca che atterra prima sul bordo, quindi al centro del portacenere strapieno.

Tutto ciò spiega il curioso fenomeno per cui spesso risulta più facile fare esperienza di elementi preziosi nell’arte e nell’attesa, che non nella realtà. Le fantasie artistiche e anticipatorie omettono e comprimono, tagliano le parentesi di noia e dirigono la nostra attenzione verso i momenti cruciali, conferendo all’esistenza, senza per questo abbellirla o mentire, una coerenza e una pregnanza di cui il presente, nella sua disorientante vaghezza, non di rado manca.

Mentre in quella prima notte caraibica giacevo a letto sveglio, riflettendo sul viaggio appena affrontato (fuori, tra cespugli, grilli e fruscii), la confusione del presente cominciò a dissiparsi e particolari avvenimenti ad acquistare rilievo, poiché in questo senso la memoria è simile all’aspettativa e diventa strumento di semplificazione e selezione.

Si può infatti paragonare il presente a una lunghissima pellicola da cui la memoria e l’aspettativa selezionano inquadrature particolarmente salienti. Delle mie nove ore e mezzo di volo fino all’isola, la memoria attiva non conservava che sei o sette immagini statiche, di cui soltanto una sopravvissuta fino a oggi: la fila davanti al funzionario dell’ufficio immigrazione. Dell’intera esperienza all’aeroporto, l’unica immagine rimasta accessibile è quella della coda al controllo passaporti. Le stratificazioni della mia esperienza si sono assestate in una trama narrativa ben definita, trasformandomi in un uomo che da Londra era finalmente arrivato in albergo.

Presto mi addormentai e il mattino seguente mi svegliai nella mia prima alba caraibica – anche se, naturalmente, dietro queste due brevi righe si nascondono un sacco di altre cose.

 

 

5

 

C’era un altro paese che, molti anni prima del vagheggiato viaggio in Inghilterra, Des Esseintes aveva desiderato visitare: l’Olanda. Se l’era immaginata a partire dai quadri di Teniers e Jan Steen, di Rembrandt e Ostade, e si aspettava di trovarvi la stessa semplicità patriarcale e sregolata allegria, gli stessi tranquilli cortiletti di mattoni, e le stesse fanciulle pallide intente a versare il latte. Si era dunque recato a Haarlem e ad Amsterdam, e ne aveva riportato una cocente delusione. Non che i quadri avessero mentito; una certa semplicità e allegria effettivamente c’erano, e anche qualche grazioso cortiletto di mattoni e alcune camerierine che servivano latte, ma quelle gemme erano incastonate in una base di immagini quotidiane (ristoranti, uffici, schiere di case tutte uguali e file di campi fra loro indistinguibili) che gli artisti olandesi non avevano mai immortalato e che, a confronto con un pomeriggio nelle sale del Louvre dedicate alla pittura dei Paesi Bassi, dove in pochi metri quadrati era colta e riassunta l’essenza stessa della bellezza olandese, rendevano l’esperienza del viaggio nel paese reale insolitamente annacquata.

Des Esseintes si ritrovò così nella posizione paradossale di sentirsi più in Olanda – cioè molto più in contatto con gli elementi che amava della cultura olandese – quando si trovava in un museo, al cospetto di immagini selezionate del paese, che non nel corso del viaggio attraverso il paese stesso, con sedici colli di bagaglio e due servitori al seguito.

 

 

6

 

Svegliatomi di buon’ora, quel mattino mi infilai nell’accappatoio fornito dall’albergo e uscii in veranda. Nella prima luce del giorno il cielo era di un pallido grigio azzurro e dopo i fruscii della notte tutte le creature, persino il vento, parevano profondamente addormentate. Regnava un silenzio degno di una biblioteca. Dietro la stanza si apriva una grande spiaggia, coperta nel primo tratto da palme da cocco e quindi morbidamente digradante verso il mare. Scavalcai la bassa balaustra della veranda e andai a passeggiare sulla sabbia. La natura appariva quanto mai benevola, come se attraverso quella piccola baia a ferro di cavallo avesse voluto scusarsi per tutta la rabbia che scaricava in altre regioni, manifestando per una volta solo il proprio lato munifico. Le palme da cocco offrivano ombra e latte, il fondale marino era tappezzato di conchiglie, la sabbia era fine come cipria e dorata come il grano maturo, l’aria – persino all’ombra – conservava un calore profondo e avvolgente, così diverso da quello del Nordeuropa, fragile e sempre pronto a cedere, anche in piena estate, a un fresco ben più sicuro di sé.

Sul bagnasciuga trovai una sedia a sdraio. Ero circondato da un leggero, discreto sciabordio, come se un mostriciattolo gentile stesse sorbendo piano da un grande calice d’acqua. I primi uccelli si libravano nell’aria in preda all’eccitazione mattutina. Alle mie spalle, i tetti fronzuti dei bungalow dell’albergo erano appena visibili fra i tronchi delle palme. Davanti a me si spalancava la vista reclamizzata dal dépliant: la spiaggia proseguiva curvando dolcemente verso l’estremità opposta della baia, e dietro di essa c’erano le colline ammantate di giungla e la prima fila di palme irregolarmente inclinate verso il mare turchese, come lunghi colli protesi verso il sole.

Ma questa descrizione riflette in modo assai imperfetto ciò che quel mattino accadeva dentro di me, poiché la mia attenzione era in realtà molto più discontinua e confusa di quanto potrebbe apparire. Sicuramente notai qualche uccello che si librava nell’aria in preda all’eccitazione mattutina, ma la consapevolezza della sua presenza era indebolita da una quantità di altri fattori, completamente estranei e slegati dal contesto, tra cui il mal di gola che mi ero beccato in aereo, la preoccupazione per essermi dimenticato di informare un collega della mia partenza, una sensazione di pressione alle tempie e il crescente bisogno di andare in bagno. Stavo insomma prendendo coscienza di un fatto determinante, eppure sino a quel momento trascurato: ero andato in vacanza portandomi inavvertitamente dietro me stesso.

È davvero facile dimenticare se stessi davanti a descrizioni pittoriche o verbali di luoghi lontani. Mentre a casa indugiavo sulle foto di Barbados nulla era intervenuto a rammentarmi che i miei occhi erano intimamente collegati a un corpo e a una mente che mi avrebbero seguito ovunque fossi andato, e che prima o poi avrebbero affermato la loro presenza in modi capaci di minare, addirittura di negare, il senso di quanto i miei occhi erano venuti a vedere. Là, a Londra, ero libero di concentrarmi sulle immagini di una stanza d’albergo, di una spiaggia o di un cielo e di ignorare al tempo stesso la complessa creatura in cui l’osservazione avveniva, per la quale quella non era che una piccola parte del compito, assai più ampio e sfaccettato, di vivere.

Dinanzi all’obiettivo finale di godere della mia destinazione, corpo e mente si sarebbero dimostrati compagni alquanto umorali. Il primo aveva difficoltà a dormire, si lamentava del caldo, delle mosche e della pesantezza della cucina dell’albergo. La seconda si rivelò incline all’ansia, alla noia, a un’impalpabile tristezza e a preoccupazioni di ordine economico.

Rispetto alla continuità e alla tenuta del nostro appagamento nello stato di aspettativa, la soddisfazione che proviamo una volta giunti alla meta sembra poter essere solo un fenomeno passeggero e, agli occhi della mente consapevole, casuale: un intervallo in cui diventiamo particolarmente ricettivi verso il mondo esterno, in cui si rafforzano i pensieri positivi sul passato e sul futuro e si stemperano le ansie. Ma anche una condizione raramente destinata a durare più di dieci minuti. Presto nuove angosce si profilano all’orizzonte della nostra coscienza, come i fronti di maltempo si susseguono al largo delle coste occidentali irlandesi. Ed ecco che la recente vittoria non ci appare già più così interessante e significativa, ecco che il futuro si complica e il panorama mozzafiato acquista l’invisibilità tipica del quotidiano.

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Avrei dunque scoperto un’inattesa continuità tra l’essere melanconico che ero a casa e la persona che sarei stato sull’isola, una continuità stranamente in contrasto con il radicale cambiamento di clima e paesaggio, dove l’aria stessa sembrava fatta di una sostanza diversa e assai più dolce.

A metà di quel primo mattino, M. e io ci accomodammo sui lettini da spiaggia davanti alla nostra capanna tropicale. Sopra la baia, un’unica timida nuvoletta. M. si infilò gli auricolari e cominciò a leggere e a prendere appunti a margine di Il suicidio, di Émile Durkheim. Io mi guardavo intorno. L’osservatore esterno avrebbe certo pensato che mi trovassi dov’ero. Invece il mio «io», vale a dire la mia parte cosciente, aveva in realtà abbandonato l’involucro fisico in cui alloggiava per arrovellarsi sul futuro, in particolare sul dubbio che i pasti non fossero compresi nel prezzo della stanza. Due ore più tardi sedevo a un tavolo d’angolo del ristorante dell’albergo davanti a una papaya (pranzo e IVA locale inclusi), mentre l’io che aveva abbandonato il corpo sul lettino da spiaggia si accingeva a una nuova migrazione, lasciando del tutto l’isola per occuparsi di un difficile progetto in programma per l’anno successivo.

Forse, secoli addietro, i membri della specie vissuti in preda alla preoccupazione per il futuro erano stati ricompensati con un netto vantaggio sul piano evolutivo. I nostri predecessori più ansiosi non erano magari riusciti ad assaporare fino in fondo la vita, ma almeno erano sopravvissuti e avevano trasmesso quell’eredità caratteriale ai loro discendenti, mentre i fratelli più attenti e concentrati sul qui e ora erano periti di morte violenta sulle corna di qualche imprevisto bisonte.

Purtroppo è difficile conservare memoria delle nostre quasi permanenti apprensioni per il futuro, e tornati da un viaggio la prima cosa a scomparire dai nostri ricordi è proprio il tempo trascorso a elucubrare sul futuro; il tempo, cioè, passato in un posto diverso da quello in cui ci trovavamo. La visione anticipata di un luogo e quella postuma del ricordo racchiudono dunque una forma di purezza: in esse è infatti il luogo stesso a farla finalmente da protagonista.

Se da casa la fedeltà geografica mi era parsa cosa possibile, probabilmente era perché non mi ero mai preso la briga di osservare abbastanza a lungo una fotografia dell’isola di Barbados. Se solo ne avessi messa una sul tavolo e avessi provato a concentrarmici sopra per venti, venticinque minuti ininterrotti, va da sé che il mio corpo e la mia mente sarebbero migrati verso un’infinità di problematiche esterne, dandomi l’esatta misura di quanto poco potere di condizionare i miei pensieri avesse il luogo in cui mi trovavo.

Pare insomma che la nostra capacità di essere presenti in un luogo raggiunga il grado massimo quando non dobbiamo affrontare la sfida di doverci stare davvero: un altro paradosso che Des Esseintes avrebbe sicuramente apprezzato.

 

 

7

 

Pochi giorni prima di ripartire M. e io decidemmo di esplorare l’isola. Affittammo una Mini Moke e puntammo a nord, verso una zona increspata di colline chiamata Scotland dove, nel diciassettesimo secolo, Oliver Cromwell aveva esiliato i cattolici inglesi. All’estremità settentrionale di Barbados visitammo l’Animal Flower Cave, un parco di grotte scavate nella scogliera dall’incessante azione delle onde, dove giganteschi anemoni di mare, simili a fiori gialli e verdi, spalancavano i loro viticci.

A mezzogiorno tornammo a dirigerci a sud, verso la circoscrizione di St John, e qui, in un’ala di una vecchia residenza coloniale su una collina boscosa, trovammo un ristorante. Nel parco c’era un albero delle palle da cannone, con i fiori a forma di tromba capovolta. Un opuscolo ci informò che casa e giardini erano stati voluti nel 1745 dall’amministratore Sir Anthony Hutchison ed erano costati l’apparente mostruosità di centomila libbre di zucchero. Lungo il porticato erano disposti una decina di tavoli, tutti affacciati sul verde e sul mare. Ne scegliemmo uno in fondo, vicino a una rigogliosa buganvillea. M. ordinò gamberi giganti in salsa al pepe dolce, io uno sgombro re al vino rosso con cipolle ed erbe aromatiche. Chiacchierammo del sistema coloniale e della singolare inefficacia delle creme solari a schermo totale. Per dessert ordinammo due crème caramel.

La scelta di M. si materializzò in una porzione abbondante ma informe, come se in cucina avessero rovesciato il piatto, e la mia in una portata minuscola ma perfettamente organizzata. Non appena il cameriere si fu allontanato, M. allungò una mano e scambiò il suo piatto col mio. «Ti prego, non privarmi di questo deserto» dissi, irritato. «Credevo preferissi la porzione più abbondante» replicò lei, non meno offesa. «È solo che vuoi accaparrarti la roba migliore.» «Non è vero, cercavo di essere carina. Piantala di fare il diffidente.» «E tu restituiscimi il mio dessert.»

Bastarono pochi attimi per ritrovarci coinvolti in uno di quei vergognosi battibecchi che, dietro agli infantili scambi di battute, celano reciproci terrori di incompatibilità e infedeltà.

M. mi restituì il piatto con aria torva, mangiò qualche boccone della sua pietanza e allontanò con una mano il dolce. Non scambiammo più una parola. Pagammo e tornammo in albergo, il rumore del motore steso come un velo sull’intensità dei nostri bronci. Durante la nostra assenza la stanza era stata pulita e riordinata, le lenzuola cambiate. Sulla cassettiera ci aspettavano dei fiori e in bagno dei teli per la spiaggia. Ne presi uno e andai a sedermi in veranda, sbattendomi la portafinestra alle spalle. Le palme da cocco proiettavano un’ombra delicata, il disegno mutevole delle fronde nella brezza pomeridiana. Eppure tanta bellezza non mi dava piacere. Dal crème caramel di alcune ore prima non ero più riuscito a godere di alcunché di estetico o materiale. La presenza di soffici asciugamani, di fiori e panorami armoniosi aveva perso ogni importanza, e il mio umore rifiutava qualunque aiuto esterno; addirittura, si sentiva insultato dalla perfezione di quel clima e dalla prospettiva del barbecue sulla spiaggia in programma per la serata.

La nostra tristezza di quel pomeriggio, con il profumo delle lacrime che si mescolava all’odore di crema solare e dell’aria condizionata, servì a ricordarci la logica rigida e impietosa cui obbediscono gli umori degli uomini e che ignoriamo a nostro rischio e pericolo ogniqualvolta, davanti alla fotografia di un’amena località esotica, fantastichiamo che a tanta magnificenza possa accompagnarsi solo altrettanta felicità. Invece la felicità che riusciamo a ottenere dai beni materiali ed estetici sembra dipendere in maniera cruciale dalla soddisfazione di bisogni primari psicologici ed emozionali, tra i quali per esempio il bisogno di comprensione, di amore, di rispetto e di libera espressione di noi stessi. Se la nostra relazione amorosa si rivela improvvisamente minata da incomprensioni e risentimento, non ci godremo dunque – non potremo goderci – nemmeno lussureggianti giardini tropicali e incantevoli bungalow sulla spiaggia.

E se un unico broncio basta ad annullare gli effetti benefici di un intero albergo, è perché non capiamo cosa ci aiuta a stare veramente su di morale. Quando a casa ci sentiamo tristi diamo la colpa al tempo e al grigiore delle nostre case, ma sull’isola ai Tropici impariamo (dopo un litigio in un bungalow fresco e fronzuto sotto un cielo smagliante) che lo stato della volta celeste e l’aspetto esteriore dei nostri alloggi non avrebbero mai il potere, da soli, di minare la nostra gioia o di condannarci all’infelicità.

Esiste un contrasto fra i grandi progetti che avviamo, la costruzione di alberghi e la bonifica di intere baie, e i nodi psicologici fondamentali che rischiano di comprometterli. Basta guardare con quanta rapidità un capriccio può annullare i vantaggi della civiltà. L’intrattabilità dei nodi mentali ci spinge a considerare la saggezza asciutta e austera di certi antichi filosofi che, abbandonata ogni ricchezza, dall’interno di una botte o di una capanna di fango predicarono che gli ingredienti chiave della felicità non potevano essere di natura estetica né materiale, ma sempre e solo psicologica – una lezione che non avrebbe potuto dimostrarsi più vera quando al tramonto, sulla spiaggia, M. e io facemmo pace accanto a un barbecue il cui lusso si era ormai trasformato in un mortificante dettaglio di nessuna importanza.

 

 

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Dopo l’Olanda e il mancato viaggio in Inghilterra, Des Esseintes non si lasciò più tentare da nuove avventure all’estero. Si chiuse anzi nella sua villa e si circondò di oggetti atti a conciliare semmai l’aspetto più gradevole del viaggio, vale a dire l’attesa. Come nelle moderne agenzie turistiche, appese alle pareti un gran numero di stampe a colori con città straniere, musei, alberghi e navi a vapore dirette a Valparaíso o al Rio de la Plata. Fece incorniciare le cartine con le rotte seguite dalle grandi compagnie navali e con esse tappezzò i muri della sua camera da letto. Riempì un acquario di alghe, comprò una vela, alcune sartie, un secchio di catrame e, grazie a questa semplice attrezzatura, fece esperienza dei lati più piacevoli di una lunga traversata atlantica, eliminando ogni scomodità e fatica. Per dirla con Huysmans, Des Esseintes giunse alla conclusione che «l’immaginazione gli sembrava poter facilmente supplire alla volgare realtà dei fatti». Una realtà dei fatti dove ciò che siamo venuti per vedere è diluito in ciò che potremmo osservare ovunque, dove un futuro ansioso ci allontana puntualmente dal presente e il nostro apprezzamento dei fattori estetici resta comunque in balia di imperiose esigenze fisiche e psicologiche.

Diversamente da Des Esseintes, io ho continuato a viaggiare. Eppure ci sono volte in cui anch’io sento che il viaggio migliore è quello che scaturisce dalla nostra fantasia quando ci sediamo a sfogliare lentamente le diafane pagine dell’orario internazionale della British Airways.