II

SUI LUOGHI DI TRANSITO E I MEZZI DI TRASPORTO

 

 

 

 

Luoghi

 

 

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La stazione di servizio

 

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L’aeroporto

 

 

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L’aereo

 

 

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Il treno

 

 

Guide

 

Charles
Baudelaire

 

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Edward
Hopper

 

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1

 

Lungo l’autostrada Londra-Manchester, in un paesaggio piatto e uniforme, sorge una stazione di servizio in vetro e mattoni rossi. Sulla piazzola antistante campeggia una gigantesca bandiera metallica che reclamizza per i viaggiatori e le pecore del campo lì a fianco un uovo fritto, due salsicce e una penisola di fagioli in umido.

Giunsi in questa stazione verso sera. A occidente il cielo si tingeva di rosso e tra le chiome di un filare di alberelli ornamentali accanto all’edificio si udiva lo schiamazzo degli uccelli in lotta con l’incessante sottofondo del traffico. Guidavo da due ore, unica compagnia le nuvole che andavano formandosi all’orizzonte, le luci dei paesi satellite ai lati della strada, i cavalcavia e le sagome sfreccianti di pullman e auto in sorpasso. Scesi dalla macchina, dal cui cofano si levavano schiocchi di raffreddamento simili a una pioggia di graffette. Mi girava la testa, e i miei sensi dovevano riabituarsi alla terraferma, al vento e ai rumori discreti della notte imminente.

Nel ristorante regnavano un’illuminazione intensa e un caldo soffocante. Alle pareti erano appese grandi foto pubblicitarie di tazze di caffè, dolci e hamburger. Un’inserviente stava riempiendo una distributrice automatica di bibite. Feci scivolare un umido vassoietto lungo la pista di metallo, comprai una tavoletta di cioccolato e un succo d’arancia, quindi mi sedetti accanto a una vetrata lunga quanto il lato dell’edificio. I grandi pannelli erano tenuti insieme da strisce di mastice gommoso in cui ero tentato di affondare le unghie. Al di là della vetrata il declivio erboso rotolava fino all’autostrada, dove il traffico scorreva silenzioso in un’elegante simmetria di sei corsie, e ogni differenza di marca e colore veniva annullata dall’oscurità crescente e trasformata in una scia di diamanti rossi e bianchi che si stendeva compatta e infinita in entrambe le direzioni.

Eravamo in pochi là dentro. Una donna che agitava pigramente una bustina di tè in una tazza. Un tizio con due bambine che mangiavano hamburger. Un uomo anziano, con la barba, immerso in un cruciverba. Nessuno fiatava. Dominava un senso di mesta riflessione, sottolineato da una musica bassa e martellante e dal sorriso smaltato di una modella che, in un cartellone sopra il banco, si preparava ad affondare i denti in un panino alla pancetta. Dal soffitto al centro della sala pendeva ballonzolando a ogni corrente d’aria l’ennesima struttura in cartone che pubblicizzava una porzione di cipolle gratis per ogni hot dog acquistato. Sformata e al contrario, la struttura conservava solo una vaga somiglianza con l’oggetto dell’offerta, un po’ come quelle pietre miliari che, quando erano piantate in zone remote dell’Impero romano, si discostavano parecchio dalla forma canonica.

L’architettura dell’edificio era squallida, il ristorante puzzava di olio fritto e di detersivo per i pavimenti al limone, il cibo era di qualità infima e i tavoli costellati da isolotti di ketchup rappreso, ricordo di antichi viaggiatori. Eppure, qualcosa mi commosse. In quella stazione di servizio desolante e desolata, appollaiata sul bordo dell’autostrada, c’era della poesia. Il suo fascino mi rammentava altri luoghi di transito non meno, e non meno sorprendentemente, poetici – terminal aeroportuali, porti, stazioni ferroviarie, motel – e con essi l’opera di uno scrittore del diciannovesimo secolo, e di un pittore del ventesimo a lui ispiratosi, che in modi diversi si erano mostrati insolitamente sensibili al potere del luogo di passaggio liminare.

 

 

2

 

Charles Baudelaire nacque a Parigi nel 1821 e fin dalla più tenera età manifestò un certo disagio nei confronti dell’ambiente domestico. Il padre morì quando aveva solo cinque anni, e l’anno successivo sua madre sposò un uomo che lui detestava. Si ritrovò quindi a frequentare vari collegi e a collezionare espulsioni per insubordinazione, ma anche con la maggiore età stentò a trovare una collocazione nella società borghese. Litigava di continuo con la madre e il padre adottivo, indossava mantelli neri da teatro e tappezzò la propria camera con litografie dell’Amleto di Delacroix. Nel suo diario scriveva di soffrire della «grande Malattia dell’orrore per il Domicilio» e di un «sentimento di solitudine, dall’infanzia. Nonostante la famiglia – e in mezzo ai compagni, soprattutto – sentimento di un destino eternamente solitario».

Sognava di lasciare la Francia per andare lontano, in un altro continente, dove nulla gli ricordasse «la quotidianità», termine che aborriva. Sognava un luogo dove facesse più caldo, un luogo, simile a quello dei leggendari versi di Invitation au Voyage: «Niente, là, che lussuosa / calma, ordinato splendore, voluttà». Tuttavia era consapevole delle difficoltà, e già una volta era fuggito dai cieli plumbei della Francia del Nord solo per farvi poi ritorno scoraggiato e abbattuto: partito per l’India, dopo tre mesi di navigazione una tempesta aveva costretto la nave a gettare l’ancora a Mauritius per le necessarie riparazioni. Mauritius: proprio l’isola lussureggiante e piena di palme che Baudelaire aveva sempre sognato. Ciononostante, non era riuscito a scrollarsi di dosso il senso di tristezza e apatia che lo opprimeva, e gli era sorto il dubbio che in India le cose non sarebbero andate diversamente. Così, a dispetto dei tentativi del capitano di convincerlo a proseguire, aveva infine deciso di reimbarcarsi per la Francia.

Il risultato fu un’eterna ambivalenza nei confronti della tematica del viaggio. In Le Voyage, immaginava con sarcasmo i racconti di viaggiatori tornati da lontano:

 

Abbiamo visto stelle,

onde, sabbie di rive e di deserti; e ad onta

di sorprese e disastri, molte volte

ci siamo anche annoiati, come qui.

 

Tuttavia egli comprese sempre il desiderio altrui di viaggiare, e constatò la tenacia di quello stesso desiderio in se stesso. Subito dopo il rientro a Parigi, infatti, riprese a sognare di andarsene: «Questa vita è un ospedale dove ogni malato è ossessionato dalla brama di cambiare letto. Quello vorrebbe dolorare di faccia alla stufa, quell’altro crede che guarirebbe vicino alla finestra». Ma non si vergognava nemmeno di mettersi tra i pazienti: «A me sembra che starei sempre bene là dove non sono, e senza sosta dibatto con la mia anima il problema di dislocarmi». A volte fantasticava di recarsi a Lisbona. Di sicuro là il clima era più caldo e lui, come una lucertola, si sarebbe ricaricato al sole in quella città d’acqua, luce e marmo, che favoriva la calma e la riflessione. Naturalmente, non appena la fantasia portoghese prendeva corpo Baudelaire si ritrovava a pensare che forse l’Olanda avrebbe potuto riservargli maggiore felicità. D’altro canto perché non Giava, allora, oppure il Baltico, o addirittura il Polo Nord, dove si sarebbe immerso nell’oscurità per osservare le comete che solcavano i cieli artici? In realtà, il nocciolo della questione non era la meta. Il vero desiderio riguardava solo la voglia di allontanarsi: «Non importa dove! Non importa dove! purché sia fuori da questo mondo!»

Baudelaire considerava le fantasie di viaggio un tratto distintivo delle anime nobili che chiamava «poeti», anime incapaci di provare appagamento dinanzi agli orizzonti domestici benché consapevoli dei limiti di altri luoghi e paesi, e il cui temperamento oscillava tra speranza e disperazione, cinismo e infantile idealismo. E destino dei poeti era, come nel caso dei pellegrini cristiani, vivere in un mondo degenerato senza tuttavia rinunciare alla visione di un regno alternativo, meno compromesso.

Particolare saliente nella biografia del poeta: Baudelaire provò sempre una forte attrazione per i porti, le stazioni ferroviarie, i dock, i treni, le navi e le stanze d’albergo, perché si sentiva più in pace con se stesso nei luoghi di transito che tra le mura di casa. Quando a Parigi nei momenti di maggior oppressione il mondo gli appariva «monotono e meschino», partiva «per partire», si recava in qualche porto o stazione e lì era finalmente libero di esclamare tra sé:

 

Treno, portami via! rapiscimi, vascello!

Va’ lontano! qui il fango dei nostri pianti è intriso.

 

In un saggio a lui dedicato, T.S. Eliot disse che Baudelaire era stato il primo artista del diciannovesimo secolo a dar voce alla bellezza dei luoghi di transito e dei mezzi di trasporto moderni. «Baudelaire... ha inventato un nuovo tipo di nostalgia romantica» scrisse, «la poésie des départs, la poésie des salles d’attente.» E, potremmo aggiungere noi, la poésie des stations-service e la poésie des aéroports.

 

 

3

 

Spesso, in preda alla tristezza, mi è capitato di prendere un treno o un autobus diretti all’aeroporto di Heathrow per consolarmi osservando da una galleria panoramica del Terminal 2 o dall’ultimo piano del Renaissance Hotel, accanto alla pista nord, lo spettacolo degli incessanti decolli e atterraggi degli aerei.

Nel difficile anno 1859, subito dopo il processo per la pubblicazione dei Fleurs du mal e la rottura con l’amante Jeanne Duval, Baudelaire si recò in visita presso la casa materna di Honfleur e trascorse gran parte dei due mesi di soggiorno seduto su una sedia sulla banchina, osservando le imbarcazioni che attraccavano e ripartivano. «Quelle navi belle e grandi, impercettibilmente cullate (dondolate) sulle acque tranquille, quelle robuste navi dall’aria scioperata e nostalgica, non ci dicono in una lingua muta: Quando partiremo per la felicità?»

Da un posteggio situato lungo O9L/27R, nome in codice per la pista nord, il 747 appare dapprima come una piccola ma brillante luce bianca, una stella che lentamente precipita in direzione della terra. Vola da dodici ore. È decollato all’alba da Singapore, ha sorvolato il golfo del Bengala, Delhi, il deserto afgano e il mar Caspio. Ha fatto rotta sopra la Romania, la Repubblica ceca e la Germania meridionale, per poi iniziare la sua graduale discesa – tanto graduale che, giunto sulle acque grigiomarroni e turbolente del mare olandese, solo un pugno di passeggeri ha registrato il cambio di nota dei motori. Nei cieli di Londra ha ridisegnato il corso del Tamigi, ha virato a nord nei pressi di Hammersmith (cominciando ad aprire i flap), ha piegato su Uxbridge e, all’altezza di Slough, si è finalmente raddrizzato. Da terra, la luce bianca assume lentamente le forme di un enorme corpo a due piani, con quattro motori sospesi come orecchini sotto le ali sproporzionatamente lunghe. Nella pioggerella le nuvole cariche d’acqua formano un velo alle spalle dell’aereo che incede maestosamente verso la pista di atterraggio. Sotto di lui si stende la periferia di Slough. Sono le tre del pomeriggio. Nelle ville sparse all’intorno si prepara il tè. In un soggiorno la televisione è accesa, il volume azzerato. Ombre rosse e verdi si muovono silenziose sui muri. Un giorno come un altro. E, sopra Slough, un aereo che solo poche ore fa sorvolava il deserto afghano. Afghanistan-Slough: l’aereo un simbolo di mondanità che reca in sé una traccia di tutti i paesi attraversati; la sua eterna mobilità un contrappeso ideale per il senso di costrizione e stagnazione. Stamani il 747 era sulla penisola malese, frase che profuma di guajava e legno di sandalo. E ora, a pochi metri dalla terra che per tante ore ha accuratamente evitato, questo gigante appare immobile, il muso sollevato in una sorta di pausa prima che le sedici ruote posteriori tocchino l’asfalto in un’esplosione di fumo che ne renderà nuovamente manifesti la velocità e il peso.

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Intanto, su una pista parallela, un A340 decolla alla volta di New York e, all’altezza del bacino di Staines, ritira flap e carrelli che non gli serviranno più fino all’inizio della discesa, sulle case di assi bianche di Long Beach, quasi cinquemila chilometri e otto ore di oceano e nuvole più in là. Appena visibili nel balenio dei turbofan, altri aerei attendono di partire. Ovunque è un brulicare di uccelli d’acciaio, le loro code una confusione di colori contro l’orizzonte grigio, come vele sulla linea di partenza di una regata.

Alle spalle del Terminal 3 sono allineati quattro bestioni, la cui livrea indica diverse provenienze: Canada, Brasile, Pakistan, Corea. Per qualche ora le punte delle loro ali si sfioreranno, poi ciascuno decollerà per un nuovo viaggio tra i venti della stratosfera. Mentre ogni aereo si dirige a un gate, ha inizio una danza dalla meticolosa coreografia: sotto la sua pancia scivolano furgoni, neri tubi di rifornimento del carburante vengono attaccati alle sue ali, una passerella da sbarco coperta protende le sue labbra gommose e squadrate verso la fusoliera. Le porte delle stive si aprono lasciando uscire alcune casse di alluminio ammaccato, colme forse di frutti che fino a pochi giorni prima pendevano ancora dai rami di alberi tropicali, o di verdure che affondavano le radici nella fertile terra di vallate remote e silenziose. Due addetti in tuta da lavoro issano una piccola scala verso uno dei motori e aprono le lamiere di rivestimento rivelando un intrico di fili e piccole tubature d’acciaio. Dalla parte anteriore di una cabina vengono scaricati cuscini e coperte, mentre scendono passeggeri ai cui occhi questo normalissimo pomeriggio inglese conserverà sempre una sfumatura speciale.

Ma la massima concentrazione di fascino aeroportuale si trova negli schermi dei televisori appesi a decine ai soffitti dei terminal e costantemente impegnati ad annunciare la partenza e l’arrivo dei voli. Schermi assolutamente privi di consapevolezza e pretese estetiche, i cui gusci funzionali e i cui caratteri semplici non fanno nulla per dissimulare la loro carica emotiva e il loro appeal per l’immaginazione. Tokyo, Amsterdam, Istanbul. Varsavia, Seattle, Rio. Questi televisori hanno tutta la risonanza poetica dell’ultima riga dell’Ulisse di Joyce, al tempo stesso testimonianza dei natali del romanzo e, non meno importante, simbolo dello spirito cosmopolita che lo pervadeva: «Trieste, Zurigo, Parigi». L’incessante richiamo degli schermi, talora accompagnati dall’impaziente pulsare di un cursore, ci indica con quanta facilità le nostre vite apparentemente costrette potrebbero cambiare, se solo percorressimo un corridoio per imbarcarci su un aereo che nel giro di poche ore ci depositerebbe in un luogo completamente nuovo, dove nessuno conosce il nostro nome. Quale piacere ricordare, tra i crepacci dei nostri umori, alle tre di un pomeriggio in cui la pigrizia e la disperazione incombono, che c’è sempre un aereo pronto a decollare per un altrove, per il baudelariano «Non importa dove! Non importa dove!»: Trieste, Zurigo, Parigi.

 

 

4

 

Baudelaire ammirava non solo i luoghi di partenza e di arrivo, ma anche i mezzi di locomozione e trasporto, in particolar modo i transatlantici. Egli parlava del «fascino infinito e misterioso che alberga nella contemplazione di una nave» e andava al Port Saint Nicolas di Parigi a guardare le chiatte, i «caboteur», e nei porti di Rouen e della Normandia a vedere le navi più grandi. A colpirlo erano le conquiste tecnologiche che in esse si celavano, l’eleganza di movimento e la tenuta in alto mare di creature tanto pesanti e diverse fra loro. Un grande bastimento lo faceva pensare a «un essere vasto, immenso, complicato ma euritmico... un animale pieno di genio, che soffre e sospira tutti i sospiri e tutte le ambizioni umane».

Sentimenti analoghi possono coglierci al cospetto degli esemplari d’aereo più imponenti, anch’essi creature «vaste» e «complicate», capaci di solcare serenamente i cieli a dispetto delle loro dimensioni e del caos della bassa atmosfera. In effetti vedere un jet parcheggiato a un gate, con i mezzi del trasporto bagagli e i meccanici ridotti a minuscoli nanetti, non può che destare meraviglia, una meraviglia che sfida qualunque spiegazione scientifica di come un aggeggio simile possa spostarsi anche solo di pochi metri, figurarsi volare fino al Giappone. Le case, tra le poche strutture create dall’uomo paragonabili per dimensioni a un aereo, non ci preparano certo all’agilità o alla padronanza di sé di un Jumbo; semmai qualunque edificio va soggetto a infiltrazioni o perdite d’aria e d’acqua, corre il rischio di crollare al minimo movimento della terra e di venir danneggiato dall’azione del vento.

Quanti secondi nella vita possono dirsi intensi ed emozionanti come quelli dell’ascesa di un aereo in cielo? Guardando fuori dall’oblò del nostro apparecchio fermo all’inizio della pista osserviamo uno spettacolo di proporzioni note e familiari: una strada, silo petroliferi, erba, alberghi coi vetri fumé. In poche parole, la terra per come la conosciamo da sempre. Un luogo dove, anche con l’ausilio di un’automobile, avanziamo lentamente, dove per salire in cima a una collina i muscoli dei nostri polpacci devono affrontare uno sforzo, dove, a un chilometro o meno di distanza, c’è sempre un filare di alberi o un muro di case a delimitare il nostro campo visivo. Ma ecco che di colpo, accompagnati dal ringhio fremente dei motori (e con un tintinnio minimo proveniente dai bicchieri stivati nella cucina di bordo), ci solleviamo senza fatica nell’atmosfera, mentre davanti a noi si spalanca un orizzonte in cui possiamo spaziare senza impedimento alcuno. Un viaggio che a terra ci avrebbe richiesto un intero pomeriggio si compie qui nel volgere di un istante, e con un semplice colpo d’occhio attraversiamo il Berkshire, passiamo da Maidenhead, scivoliamo su Bracknell e dominiamo tutta l’M4.

Ma il piacere di questo decollo è anche psicologico, poiché la rapidità dell’ascesa di un aereo è un simbolo esemplare del concetto di trasformazione. Una simile dimostrazione di forza e potere può indurci a immaginare cambiamenti analoghi, e altrettanto decisivi, nella nostra vita; a pensare che un giorno anche noi potremmo innalzarci al di sopra di quanto da sempre incombeva sulle nostre teste.

La nuova prospettiva conferisce ordine e logica al paesaggio: strade che curvano evitando colline, fiumi che si dirigono con precisione verso laghi, piloni che conducono dalle centrali elettriche alle città, vie che da terra sembravano tracciate senza la guida di un’ispirazione e che ora emergono come griglie ben pianificate. L’occhio tenta di leggere ciò che vede in base a ciò che sa esistere, come davanti all’edizione straniera di un libro familiare. Quelle luci devono corrispondere a Newbury, la strada è la A33 all’uscita dalla M4. E pensare che, laggiù, nel mondo in cui viviamo senza quasi mai vederlo, anche la nostra vita è sempre stata così piccola, piccola come appare agli occhi del falco e degli dèi.

I motori non mostrano mai la fatica che gli costa portarci dove ci portano. Si librano in quel gelo inimmaginabile sospingendo con pazienza e umiltà l’aereo, con l’unica richiesta dipinta a lettere rosse sui fianchi di non camminarci sopra e di alimentarli esclusivamente con «Carburante D50TFI-S4» – messaggio, questo, riservato al prossimo team di tecnici in tuta, che ora dormono della grossa a 6500 chilometri da noi.

Quassù non si sprecano parole sui banchi di nuvole. Nessuno giudica straordinario che in un particolare punto sopra l’oceano ci si ritrovi a volare accanto a un’enorme isola di candido zucchero filato, dimora perfetta per un angelo, o per lo stesso Signore Iddio nostro in un quadro di Piero della Francesca. E nessuno, in cabina, si alza per annunciare con la dovuta enfasi che stiamo volando sopra una nuvola, esperienza che avrebbe mandato in estasi Leonardo e Poussin, Claude e Constable.

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In compenso, il cibo che in qualunque altra cucina ci risulterebbe banale o sgradevole acquista qui, al cospetto delle nuvole, un gusto nuovo e nuovo interesse (come un picnic a base di pane e formaggio che ci delizia solo perché consumato sulla cima di una scogliera a picco sulle onde). Grazie al vassoietto che ci consegnano, ci sentiamo a casa anche in questo luogo inospitale, e con l’aiuto di un panino scongelato e di una porzione incellofanata di patate e maionese facciamo nostro il panorama extraterrestre.

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Al nostro sguardo indagatore, le candide amiche si rivelano diverse e inattese. Viste da terra, o nei dipinti, ci appaiono come formazioni orizzontali più o meno ovali, ma da qui assomigliano più a giganteschi obelischi di evanescente crema da barba. La loro vaporosa natura si fa più chiara, esse si rivelano effettivamente più volatili, il prodotto di una recente deflagrazione, entità in continuo mutamento. Resta solo difficile credere che sia davvero impossibile sedercisi sopra.

Baudelaire invece sapeva amare le nuvole.

 

LO STRANIERO

 

«Chi ami sopra ogni cosa? Parla, uomo enigmatico! Tuo padre? Tua madre? Un fratello? Una sorella?»

«Non ho né padre né madre, né fratello né sorella.»

«Gli amici?»

«Usate una parola il cui senso, fino ad oggi, mi è rimasto ignoto.»

«La patria?»

«Ignoro sotto quale latitudine si trovi.»

«La bellezza?»

«L’amerei volentieri, dea e immortale.»

«L’oro?»

«Lo odio come voi odiate Dio.»

«Eh! Ma allora che cosa ami, straordinario straniero?»

«Amo le nuvole... le nuvole che passano... laggiù!... laggiù!... le nuvole meravigliose!»

 

Le nuvole scorrono tranquille. Sotto di noi nemici e colleghi, i luoghi dei nostri terrori e dolori, sono ridotti a graffi infinitesimali sulla crosta della terra. Pur conoscendo già la lezione della prospettiva, riusciamo ad apprezzarne veramente la portata solo quando premiamo il naso contro il freddo oblò di un aereo, nostro maestro di profonda filosofia – nonché discepolo fedele dell’esortazione baudelairiana:

 

Treno, portami via! rapiscimi, vascello!

Va’ lontano! qui il fango dei nostri pianti è intriso.

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5

 

A parte l’autostrada, non c’erano altre vie di collegamento tra la stazione di servizio e il resto del mondo, nemmeno un semplice sentiero; quel luogo sembrava non appartenere alla città né alla campagna, ma a un regno intermedio, quello del viaggiatore, come un faro al limitare dell’oceano.

Tale condizione di isolamento geografico non faceva che rafforzare l’atmosfera di solitudine nella sala ristorante. L’illuminazione impietosa dava risalto a ogni imperfezione e pallore. Sedie e panche, dipinte a colori di una vivacità infantile, tradivano la falsa allegria di un sorriso forzato. Nessuno parlava, nessuno cedeva alla curiosità o al senso di solidarietà. Fissavamo con indifferenza il bancone o l’oscurità esterna, senza guardarci l’un l’altro, come fossimo seduti soli tra le rocce.

Rimasi nel mio angolo a consumare quadretti di cioccolata e a sorbire sporadiche sorsate di succo d’arancia. Mi sentivo solo, ma per una volta almeno si trattava di una solitudine delicata, addirittura gradevole, perché, anziché manifestarsi contro uno sfondo ilare e amichevole di quelli in cui patisco fortemente il contrasto fra il mio umore e l’ambiente circostante, questa trovava spazio in un luogo dove tutti erano estranei, dove le difficoltà di comunicazione e il bisogno d’amore frustrato sembravano riconosciuti e brutalmente celebrati dagli arredi, dall’architettura e dalle luci.

E con la solitudine affiorò il ricordo di alcune tele di Edward Hopper che, nonostante il vuoto rappresentato, non offrivano affatto una visione desolata ma consentivano anzi allo spettatore di prendere atto di un’eco della propria sofferenza, spogliandola così di una soffocante sfumatura persecutoria. A volte sono proprio i libri più tristi a consolarci della nostra tristezza, ed è in una sperduta stazione di servizio che dovremmo recarci quando non abbiamo nessuno da abbracciare o da amare.

Nel 1906, a ventiquattro anni, Hopper si recò a Parigi dove scoprì la poesia di Baudelaire. Da allora, per tutta la vita avrebbe letto e recitato le sue opere. L’attrazione era peraltro comprensibile: entrambi condividevano un particolare interesse per la solitudine, la vita urbana, la modernità, i luoghi di viaggio e il sollievo portato dalla notte. Nel 1925 Hopper acquistò la sua prima macchina, una Dodge usata, e partì dalla sua casa di New York diretto nel New Mexico. Da quella volta fece in modo di trascorrere sempre qualche mese all’anno in viaggio, dipingendo e disegnando schizzi nelle stanze dei motel, sui sedili posteriori delle auto, per strada e nei diner. Tra il 1941 e il 1955 attraversò l’America cinque volte. Pernottava nei motel Best Western, nelle Del Haven Cabins, negli Alamo Plaza Courts e nelle Blue Top Lodges. Ad attirarlo erano le insegne al neon che lampeggiavano ai margini della strada – «Camere con bagno e televisione» –, i letti con i materassi sottili e le lenzuola fresche, le grandi finestre affacciate su parcheggi o minuscoli e curatissimi fazzoletti d’erba, i misteri degli ospiti che arrivavano tardi e ripartivano all’alba, i dépliant delle attrazioni locali distribuiti alla reception e i carrelli di servizio stracarichi posteggiati nei corridoi silenziosi. Per sfamarsi si fermava nei diner, ai drive-in Hot Shoppe Mighty Mo, alle Steak ’N’ Shake o ai Dog ’N’ Sudd – e faceva il pieno nelle stazioni col logo Mobil, Standard Oil, Gulf e Blue Sunoco.

In quei paesaggi ignorati e spesso derisi, Hopper trovava la poesia: la poésie des motels e la poésie des petits restaurants au bord d’une route. I suoi quadri (e i loro titoli evocativi) indicano un interesse costante nei confronti di cinque diversi tipi di luoghi attinenti al viaggio:

 

1. ALBERGHI

Stanza d’albergo, 1931

Atrio d’albergo, 1943

Stanze per turisti, 1945

Albergo vicino alla ferrovia, 1952

Finestra d’albergo, 1956

Western Motel, 1957

 

2. STRADE E DISTRIBUTORI DI BENZINA

Strada nel Maine, 1914

Benzina, 1940

Route 6, Eastham, 1941

Solitudine, 1944

Strada a quattro corsie, 1956

 

3. DINER E SELF-SERVICE

Distributrice automatica, 1927

Self-service illuminato dal sole, 1958

 

4. PANORAMI DAI TRENI

Casa vicino alla ferrovia, 1925

New York, New Haven e Hartford, 1931

Rilevato ferroviario, 1932

Verso Boston, 1936

Nei pressi di una città, 1946

Strada con alberi, 1962

 

5. VISTE ALLINTERNO DEI TRENI E MATERIALE ROTABILE

Notte sull’El Train, 1920

Locomotiva, 1925

Scompartimento C, Vettura 293, 1938

Alba in Pennsylvania, 1942

Carrozza con sedili, 1965

Tema dominante è sempre la solitudine. I protagonisti dei quadri di Hopper hanno l’aria di essere tutti lontani da casa, siedono o se ne stanno fermi in piedi da soli, leggono una lettera sul bordo di un letto d’albergo o un libro nell’atrio di una pensione, bevono al banco di un bar o guardano dal finestrino di un treno in movimento. Hanno volti vulnerabili e introspettivi. Forse hanno appena lasciato qualcuno o sono stati lasciati, sono in cerca di lavoro, sesso o compagnia, sono alla deriva in anonimi luoghi di transito. Spesso è notte, e oltre i vetri si spalancano l’oscurità e la minaccia della campagna aperta o di una città straniera.

In Distributrice automatica (1927) una donna siede sola davanti a una tazza di caffè. È tardi e, a giudicare dal cappello e dal cappotto, fuori fa freddo. La sala è grande, vivacemente illuminata e vuota. Gli arredi sono funzionali: un tavolo con il ripiano di pietra, robuste sedie di legno nero e pareti bianche. La donna appare a disagio e leggermente spaventata, forse non è abituata a sedere da sola in un locale pubblico. Dev’esserle andato storto qualcosa. Inconsapevolmente invita lo spettatore a immaginare storie sul suo conto, storie di abbandono o tradimento. Mentre si porta la tazza di caffè alle labbra cerca di controllare il tremore della mano. Potrebbero essere le undici di una sera di febbraio in una grande città americana.

Distributrice automatica è un quadro sulla tristezza, eppure non è un quadro triste e ha tutta la forza di un grande pezzo musicale malinconico. Nonostante la nudità degli arredi, il luogo in sé non appare desolato. Forse nella sala ci sono altri avventori solitari, uomini e donne che bevono caffè ciascuno per conto proprio, anche loro smarriti nei pensieri, anche loro staccati dal resto della società: un isolamento comune che ha come benefico effetto collaterale quello di diminuire l’intimo senso di oppressione che chiunque prova nel sentirsi solo. Nei diner ai lati della strada, nelle caffetterie aperte fino a tarda notte, negli atri degli alberghi e nei bar delle stazioni possiamo stemperare il senso di isolamento che ci coglie nei luoghi pubblici, e recuperare così un distintivo senso di appartenenza. L’assenza di intimità domestica, le luci intense e gli arredi anonimi diventano sollievo dai falsi comfort di casa, e forse è più facile trovare uno sfogo per la tristezza qui che non in un soggiorno tappezzato e pieno di foto incorniciate, tratti caratteristici di un rifugio che ci ha abbandonati.

Hopper ci invita a provare empatia per questa donna, che nel suo isolamento appare dignitosissima e generosa, anche se forse un po’ troppo fiduciosa e ingenua, come se avesse urtato contro uno spigolo particolarmente duro del mondo. Ci mette insomma dalla sua parte, la parte dell’outsider, che sta fuori, contro quella di chi è integrato e sta dentro. Le figure di Hopper non sono di per sé nemiche dell’ambiente domestico: semplicemente, in modi diversi e indefiniti, la casa sembra averle tradite, obbligandole a scendere per strada, magari in piena notte. Il diner aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, la sala d’attesa della stazione o il motel sono santuari per chi, per nobili ragioni, non è riuscito a trovare rifugio nel mondo quotidiano; santuari per coloro che Baudelaire avrebbe potuto onorare dell’appellativo di «poeti».

 

 

6

 

Guidando al crepuscolo su una strada piena di curve che attraversa i boschi, per brevi istanti i fari della macchina illuminano così di netto sezioni dei tronchi e dei campi da permettere di distinguere, nel freddo chiarore adatto più a un reparto ospedaliero che non a un paesaggio naturale, persino le venature della corteccia e i singoli fili d’erba, quindi li lasciano sprofondare nuovamente nella tenebra indifferenziata non appena la macchina, alla curva successiva, dirige la propria attenzione verso un nuovo tratto di terra addormentata.

Sono poche le auto che transitano di qui, rare le paia di occhi luminosi che vengono incontro dall’opposta direzione nella notte. Le luci del quadro sul cruscotto diffondono un bagliore rossastro nell’abitacolo scuro. Di colpo, in una radura, una parentesi accecante: una stazione di rifornimento, l’ultima prima che la strada affondi nel tratto di foresta più lungo e la notte serri definitivamente la sua presa sul mondo – Benzina (1940). Il gestore si è allontanato dal suo casotto per andare a controllare il livello di una pompa. Dentro fa caldo e lo spiazzo è illuminato da una luce degna del sole di mezzogiorno. Forse la radio è accesa. Forse lungo una parete sono ordinatamente allineate delle latte d’olio, accanto a caramelle, giornali, cartine e pelli di daino.

Come Distributrice automatica, dipinto tredici anni prima, anche Benzina è un quadro che parla di isolamento. Qui una stazione di rifornimento si erge sola nell’oscurità incombente, ma nelle mani di Hopper ecco che l’isolamento diventa ancora una volta seducente e pregnante. Il buio che dilaga dal lato destro della tela, come una nebbia covo di indefinite paure, è in forte contrasto con la sicurezza che promana dalla stazione, e in questo estremo avamposto del genere umano, sullo sfondo della notte e della foresta incontaminata, ci è forse più facile provare un senso di condivisione che non in pieno giorno in una qualsiasi città. La macchinetta del caffè e le riviste, simboli dei piccoli desideri e delle piccole vanità degli uomini, si contrappongono alla vastità del regno esterno non umano, ai chilometri di foresta dove i rami scricchiolano sotto le zampe di orsi e volpi di passaggio. Il consiglio per la prossima estate di dipingerci le unghia di viola, stampato in un rosa impudente sulla copertina di una delle riviste, e il caloroso invito appeso sopra la macchinetta a provare l’aroma dei chicchi appena tostati hanno qualcosa di commovente. In quest’ultima tappa prima di addentrarci nella selva boscosa, insomma, ciò che abbiamo in comune con gli altri può acquistare più peso di quanto ci separa.

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Hopper era affascinato anche dai treni. Ad attirarlo era l’atmosfera delle carrozze semivuote che si fanno strada nel paesaggio: il silenzio che regna al loro interno mentre fuori le ruote sferragliano ritmicamente sui binari e lo stato di trasognamento indotto dal rumore e dal panorama esterno, un trasognamento che pare quasi strapparci a noi stessi e indicarci la via d’accesso a pensieri e ricordi che non riuscirebbero a emergere in circostanze più ordinarie. La donna di Scompartimento C, Vettura 293 (1938), che legge e fa vagare lo sguardo tra carrozza e paesaggio, sembra trovarsi proprio in questo stato mentale.

I viaggi sono le levatrici del pensiero. Pochi luoghi risultano più favorevoli di un aereo, una nave o un treno in movimento al conversare interiore. Tra ciò che abbiamo davanti agli occhi e i pensieri che coltiviamo nella mente esiste una correlazione singolare: spesso i grandi pensieri hanno bisogno di grandi panorami, quelli nuovi di nuove geografie, e le riflessioni introspettive che rischiano di impantanarsi traggono vantaggio dal fluire del paesaggio. Proprio quando da lei non ci aspettiamo altro, la nostra mente può rivelarsi alquanto riluttante a pensare in maniera efficace – compito paralizzante come raccontare una barzelletta o imitare un accento su richiesta. Pensare riesce meglio quando parti della mente hanno obiettivi diversi, come ascoltare della musica o seguire un filare di alberi. Per un po’ la musica o la vista distraggono infatti la parte più nervosa, censoria e concreta della mente, quella incline ad arrendersi alle prime difficoltà che emergono dalla coscienza e a darsela a gambe davanti ai ricordi, ai desideri, alle idee originali o introspettive; la parte che preferisce insomma dedicarsi a compiti impersonali e di routine.

Tra tutti i mezzi di trasporto, il treno costituisce forse l’ausilio migliore per il pensiero: i suoi panorami non hanno nulla della potenziale monotonia di quelli tipici della nave o dell’aereo, si muovono con la rapidità sufficiente a scongiurare la nostra esasperazione e con la lentezza necessaria per consentirci di distinguere gli oggetti. Ci offrono spaccati brevi ma stimolanti di regni privati, mostrandoci una donna nell’atto di prendere una tazza da un ripiano della cucina e subito dopo un patio con un uomo addormentato, e poi ancora un giardino dove un bimbo afferra la palla lanciatagli da una figura invisibile.

Nel corso di un viaggio in pianura mi ritrovo a pensare con rara disinvoltura alla morte di mio padre, a un saggio su Stendhal che sto scrivendo e alla diffidenza reciproca che si è creata fra due miei amici. Ogni volta che la mente si blocca davanti a qualche idea ostica, il flusso della mia coscienza viene soccorso dalla possibilità di guardare fuori dal finestrino, di soffermarmi su un oggetto e seguirlo per qualche secondo, quanto basta perché si riformi un gomitolo di pensieri che di lì a poco andrò a dipanare con calma.

Al termine di ore di trasognamento ferroviario avremo forse la sensazione di tornare in noi stessi, in altre parole di tornare in contatto con emozioni e idee importanti. Ma l’incontro con la nostra parte più autentica non avviene necessariamente a casa, dove anche i mobili ci ripetono che non possiamo cambiare perché non loro cambiano, e l’ordine domestico ci incatena alla persona che siamo nella vita di tutti i giorni senza per questo corrispondere a ciò che siamo nella nostra essenza profonda.

Le stanze d’albergo offrono un’analoga occasione di fuga dai nostri abiti mentali. Sdraiati sul letto di un albergo, nella camera silenziosa a parte l’occasionale fischio di un ascensore nei meandri dell’edificio, siamo liberi di tirare una riga sotto gli avvenimenti che hanno preceduto il nostro arrivo per sorvolare vasti e ignorati spazi della nostra esperienza. Possiamo riflettere sulla nostra vita da un’altezza irraggiungibile nel continuo tran tran quotidiano, sottilmente assistiti nell’impresa dal mondo sconosciuto che ora ci circonda: dalle microsaponette incartate che riposano sul bordo del lavandino, dalla collezione di bottigliette mignon nel minibar, dal menu che ci promette servizio continuato in camera per tutta la notte e dalla vista di una città straniera che lentamente si muove venticinque piani sotto di noi.

I bloc-notes forniti dall’albergo possono così trasformarsi in ricettacoli di pensieri inusitatamente intensi e rivelatori, buttati giù alle ore piccole mentre il modulo per la richiesta della colazione («da appendere fuori dalla porta entro le ore 03.00») giace ignorato sul pavimento, insieme a una cartolina con le previsioni meteorologiche per il giorno dopo e agli auguri di una notte serena da parte della direzione.



 

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Come disse una volta Raymond Williams, il valore che attribuiamo al viaggiare, allo spostamento in sé a prescindere dalla meta, ci pone in sintonia con il forte cambiamento di sensibilità avvenuto alla fine del diciottesimo secolo, quando l’outsider, forestiero ed estraneo, cominciò ad apparire moralmente superiore all’insider, locale e stanziale.



A partire dal tardo diciottesimo secolo il senso di comunanza fraterna non viene più stimolato dalla frequentazione della collettività, bensì dalla peregrinazione. Una dose essenziale di isolamento, solitudine e silenzio diviene così veicolo di natura e fratellanza contro i rigori, la fredda astinenza e il comodo egoismo della società comune.

Raymond Williams, The Country and the City



Se nella stazione di servizio e nel motel troviamo una certa poesia, se ci sentiamo attratti dall’aeroporto o dai vagoni di un treno, forse è perché, nonostante la scomodità e i compromessi architettonici, nonostante la luce cruda e i colori abbaglianti, riusciamo a intuire che questi luoghi isolati offrono uno scenario concreto alternativo alla facilità egoista, alle abitudini e alle costrizioni del mondo ordinario e radicato.