Agatha Christie

 

MISS MARPLE
AL BERTRAM HOTEL

 

Traduzione di Maria Mammana Gislon

 

BANDINOTTO

 

At Bertram’s Hotel © 1965 Agatha Christie Ltd, a Chorion Company.
All rights reserved.
© 1967 Arnoldo Bandinotto Editore S.p.A., Milano

 

L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti della traduzione senza riuscire a reperirli; è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

COPERTINA
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO
GRAPHIC DESIGNER: G. CAMUSSO/G. SPAZIO
FOTO © PINTO/SPAZIOPHOTO/AIRSTUDIO

 

 

Miss Marple al Bertram Hotel

 

1

 

Nel cuore di West End vi sono molte stradine tranquille e silenziose che quasi nessuno conosce, tranne i tassisti che le attraversano con grande abilità per sbucare trionfalmente nel bel mezzo di Park Lane, Berkeley Square o South Audley Street.

Se, arrivando dal parco, svoltate giù per una stradina senza pretese e girate prima a sinistra e poi a destra una o due volte, vi ritroverete in una via silenziosa con il Bertram Hotel alla vostra destra.

Il Bertram Hotel esiste da molti anni. Durante la guerra le case alla sua destra e parte di quelle, un po’ più in giù, alla sua sinistra andarono distrutte, ma l’albergo rimase in piedi.

Naturalmente aveva subito, come direbbe un agente immobiliare, alcune lesioni e presentava qualche crepa o screpolatura, ma con la spesa di una ragionevole somma era stato restituito alla condizione originaria. Nel 1955 il suo aspetto era esattamente identico a quello che aveva nel 1939: dignitoso, privo di ostentazione e quietamente costoso.

Questo era dunque il Bertram, l’albergo preferito dai più alti esponenti del clero, dalle vecchie dame dell’aristocrazia e dalle ragazze di passaggio a Londra di ritorno da costosi collegi europei. «Ci sono così pochi posti dove una giovane può stare da sola a Londra, ma può stare benissimo al Bertram Hotel. Noi ci abbiamo abitato per anni.»

Naturalmente, erano stati costruiti molti altri alberghi sul modello del Bertram, alcuni esistono tuttora, ma per la maggior parte avevano subito delle trasformazioni, erano stati rimodernati e avevano cercato di attirare nuove clientele. Anche il Bertram aveva dovuto aggiornarsi, ma i cambiamenti erano stati eseguiti con tanta intelligenza, che non era possibile accorgersene.

Fuori, sugli scalini che conducevano alle grandi porte girevoli, stazionava una specie di imponente feldmaresciallo. Medaglie e cordoni dorati adornavano l’ampio petto virile, il suo portamento era perfetto e lui vi accoglieva, mentre emergevate con reumatica difficoltà da un tassì o da una macchina, con tenera sollecitudine e vi guidava prudentemente su per i gradini e attraverso le silenziose porte girevoli.

Dentro, se era la prima volta che visitavate il Bertram, sentivate, quasi con spavento, di esser piombati in un mondo ormai scomparso. Il tempo, scorrendo a ritroso, vi aveva riportato nell’Inghilterra del principe Edoardo.

Esisteva naturalmente il riscaldamento centrale, ma non lo si vedeva. Come nel passato, nella grande sala centrale si trovavano due magnifici camini accesi. Lì accanto, due grossi recipienti di ottone splendevano proprio come usavano risplendere quando venivano lucidati dalle servette edoardiane, ed erano colmi di pezzi di legna tagliati proprio nella giusta misura. L’impressione generale era quella di un ambiente ricco ma raccolto, pur nella sua abbondanza di morbidi velluti rossi. Le poltrone, sollevate sufficientemente da terra, permettevano alle signore artritiche di alzarsi in piedi senza doversi divincolare in modo tutt’altro che dignitoso. I sedili di queste poltrone, al contrario di tante altre moderne e costosissime, non si fermavano a mezza strada tra la coscia e il ginocchio, infliggendo così indicibili torture a chi soffre di artrite o di sciatica, e inoltre la loro forma era assai varia: ce n’erano di larghe e di strette, alcune con schienali diritti e altre con schienali inclinati, in modo da poter accogliere sia i magri che gli obesi. Persone di qualsiasi dimensione erano certe di trovare una comoda poltrona al Bertram Hotel.

Poiché era ormai l’ora del tè, la sala accanto all’entrata era piena di ospiti. Non che fosse l’unico luogo dove si potesse prendere il tè.

C’erano un salottino, tutto in cintz, una sala per fumatori, con delle ampie poltrone di pelle che una qualche influenza nascosta riservava solo agli uomini, due sale di scrittura, dove si poteva andare a scambiare pettegolezzi con un’amica in un angolino tranquillo o anche a scrivere, volendo, una lettera.

Oltre a queste amenità dell’età edoardiana, c’erano altri posticini poco reclamizzati ma ben conosciuti da chi ne aveva bisogno. Per esempio c’erano due bar, con due baristi, uno americano che metteva a loro agio i clienti della sua stessa nazionalità versando loro bourbon, rye e ogni tipo di cocktail, e uno inglese che discorreva con competenza dei fantini e dei cavalli di Ascot e di Newbury mentre forniva sherry e Pimm’s n. 1 agli ospiti di mezza età scesi all’hotel per le corse più importanti. C’era anche, seminascosta in un corridoio, una saletta con la televisione, per quelli che desideravano vederla.

Ma il luogo preferito per il tè delle cinque era il grande salone accanto all’entrata. Le signore in età amavano star a guardare chi entrava e chi usciva, riconoscendo i vecchi amici e commentando sfavorevolmente su come fossero invecchiati. C’erano anche visitatori americani affascinati dalla visione dei titolati inglesi alle prese con il loro tradizionale tè delle cinque, perché questo tè, infatti, costituiva veramente uno spettacolo al Bertram.

Presiedeva al rituale Henry, alto e imponente, una magnifica figura sulla cinquantina, con l’aria di un vecchio zio, premuroso e dotato dei modi cortesi di una specie ormai estinta: il perfetto maggiordomo. Il lavoro effettivo veniva svolto da giovani snelli sotto l’austera supervisione di Henry. C’erano grandi vassoi d’argento sbalzato e teiere in stile georgiano. Le porcellane, anche se non erano effettivamente Rockingham e Davenport, sembrava che lo fossero e, quanto al tè, era delle migliori marche, Ceylon, Darjeeling, Lapsang, eccetera, e quanto a dolci e tartine potevate chiedere tutto quello che volevate... e ottenerlo!

In quel giorno particolare, il 17 novembre, Lady Selina Hazy, sessantacinque anni, proveniente dalla contea di Leicestershire, stava mangiando delle deliziose tartine imburrate con tutta la golosità di un’anziana signora. Il suo trasporto non era però tale da farle dimenticare di osservare con attenzione le porte girevoli, ogni volta che si aprivano per ammettere un nuovo arrivato.

Fu così che sorrise e fece un cenno di benvenuto al colonnello Luscombe... eretto, militaresco, binocolo al collo del tipo usato alle corse. Da vecchia autocrate qual era, Lady Selina gli fece un segno imperioso e dopo un minuto o due Luscombe venne al suo tavolo.

«Salve, Selina, cosa l’ha portata in città?»

«Il dentista» mormorò Lady Hazy, masticando una tartina. «E poiché sono qui, ho pensato di andare da quel tizio in Harley Street per la mia artrite. Sa chi intendo dire...»

Sebbene in Harley Street esercitassero parecchie centinaia di specialisti alla moda per ogni genere di malattia, il colonnello conosceva benissimo la persona di cui stava parlando la sua interlocutrice.

«L’ha guarita?» chiese.

«Pare di sì. È un tipo straordinario. Mi ha afferrata per il collo quando non me lo aspettavo e me lo ha torto come se fossi una gallina» rispose Selina, girando la testa con precauzione.

«Le ha fatto male?»

«Deve avermene fatto, attorcigliandolo in quel modo, ma a dire il vero non me ne sono accorta. Non ho fatto in tempo.» Continuò a muovere il collo. «Sta benissimo. Erano anni che non riuscivo a guardarmi dietro la spalla destra.»

Lady Selina mise in pratica la riconquistata capacità ed esclamò: «Ma quella è Jane Marple. Credevo che fosse morta anni fa. Sembra che abbia cent’anni!».

Il colonnello Luscombe gettò una occhiata in direzione della resuscitata Jane, senza molto interesse. Al Bertram c’era sempre un campionario di quelle che lui chiamava “vecchie gatte infiocchettate”.

«È l’unico posto a Londra» proseguì l’anziana dama «dove si trovano ancora queste tartine. Quando andai in America, l’anno scorso, mi diedero qualcosa che nel menu chiamavano tartine, ma che non lo erano affatto. Una specie di dolcini da tè con l’uvetta. Ma perché chiamarle tartine, dico io?»

Lady Selina inghiottì l’ultimo boccone e si guardò attorno distrattamente. Henry si materializzò immediatamente, ma senza fretta o precipitazione. Sembrò che fosse apparso fuori dal nulla.

«Cos’altro posso servire, Milady? Qualche tipo di dolce?»

«Dolce?» ripeté Lady Selina, dubbiosa.

«Abbiamo dell’ottimo dolce di uvette passite, Milady. Posso raccomandarglielo.»

«Dolce di uvette passite. Sono anni che non ne mangio. Ma è veramente un dolce di uvette passite?»

«Sì, Milady. La cuoca ha la ricetta da anni. Sono sicuro che le piacerà.»

Henry scoccò un’occhiata a uno dei valletti che si allontanò alla ricerca del dolce.

«Suppongo che sia stato alle corse di Newbury, vero, Derek?»

«Sì. Un freddo del diavolo. Non ho visto le ultime corse. Una giornata disastrosa. Quella puledra di Harry non vale niente.»

«È ciò che pensavo. E com’è andata Swanhilda?»

«È arrivata quarta» rispose Luscombe. E aggiunse, alzandosi: «Devo vedere la mia stanza».

Camminò, attraverso il salone fino al bureau, esaminando i tavolini e i loro occupanti. Un numero straordinario di persone stava prendendo il tè. Come ai vecchi tempi. Il tè delle cinque, inteso come pasto, era passato di moda dopo la guerra. Ma evidentemente non al Bertram. E chi erano gli ospiti? Due canonici e il diacono di Chislehampton. In un angolo c’erano anche un paio di gambe con le ghette appartenenti a un vescovo, nientemeno! I semplici vicari erano scarsi. “Bisogna essere per lo meno canonici per potersi permettere il Bertram” pensò. La grande massa del clero non ce l’avrebbe certamente fatta a pagare il conto, poveraccia! E quanto a questo c’era da chiedersi come ce la facesse la povera Selina Hazy che aveva solo una modestissima rendita annuale. E così la vecchia Lady Berry e la signora Posselthwaite del Somerset e Sybil Kerr... tutte povere in canna.

Rimuginando questi pensieri, il colonnello giunse al bureau e fu affabilmente salutato dalla signorina Gorringe, la segretaria. La signorina Gorringe era una vecchia amica. Conosceva i clienti uno per uno e, come i personaggi delle case reali, non dimenticava mai una faccia. Indossava abiti fuori moda ma dignitosamente. Aveva capelli giallastri tutti ricci, un abito di seta nera e un medaglione d’oro con cammeo sulla scollatura.

«Numero 14» disse la signorina Gorringe. «Mi pare che abbia occupato il numero quattordici l’ultima volta, colonnello Luscombe, e si sia trovato bene. È una stanza molto tranquilla.»

«Non riesco a immaginare come possa ricordare queste cose, signorina Gorringe.»

«Ci piace mettere i nostri vecchi amici a loro agio» rispose la donna.

«Mi pare di tornare indietro negli anni, quando vengo qui. Sembra che non sia cambiato proprio nulla» aggiunse il colonnello. Si interruppe vedendo uscire dai profondi recessi della direzione il signor Humfries, che veniva a salutarlo.

Il signor Humfries era spesso scambiato dai non iniziati con il signor Bertram in persona. Chi fosse il vero Bertram, o se fosse mai veramente esistito, era un mistero insoluto da anni. L’albergo esisteva fin dal 1840, ma nessuno si era mai interessato di rintracciare le sue origini. Il Bertram era lì, solido, concreto, e quando il signor Humfries si sentiva chiamare signor Bertram non correggeva mai l’equivoco. Se desideravano che fosse il signor Bertram, non c’era ragione di dare spiegazioni. Il colonnello Luscombe conosceva il suo vero nome, ma non sapeva se Humfries fosse semplicemente il direttore o il proprietario dell’albergo. Riteneva però che fosse il proprietario.

Il signor Humfries era un uomo di circa cinquant’anni, estremamente educato e con l’aspetto di un viceministro. Sapeva discutere di qualunque argomento con qualsiasi persona. Aveva inoltre preziosi indirizzi di ristoranti adatti a ogni specie di borsa. Però non era sempre disponibile e la signorina Gorringe, che conosceva a menadito le stesse informazioni, lo dispensava con abilità. A brevi intervalli, il signor Humfries, come un sole, appariva all’orizzonte e lusingava qualche cliente con le sue attenzioni personali.

Questa volta fu il colonnello Luscombe a essere onorato in tal modo. Scambiarono i soliti commenti sulle corse, ma il colonnello era tutto preso dalle sue riflessioni e gli parve di aver trovato proprio l’uomo che poteva soddisfare la sua curiosità.

«Mi dica, Humfries, come fanno tutte quelle care vecchiette a vivere qui?»

«Ah, a questo stava pensando?» disse il signor Humfries divertito. «Bene, la risposta è semplice. Non potrebbero permetterselo se...»

Il signor Humfries fece una pausa.

«Se non facesse loro prezzi speciali, vero?» interloquì il colonnello.

«Più o meno. Di solito non sanno nemmeno che si tratta di prezzi speciali o, se se ne rendono conto, pensano che sia perché sono clienti di vecchia data.»

«Ma non è così?»

«Be’, colonnello Luscombe, io gestisco un albergo e non potrei permettermi di perdere denaro.»

«E allora come fa a non rimetterci?»

«È una questione di atmosfera... gli stranieri, gli americani in special modo, hanno delle idee molto particolari sull’Inghilterra. Non parlo, capisce, dei miliardari che attraversano continuamente l’Atlantico. Quelli vanno al Savoy o al Dorchester. Vogliono arredamento moderno, cibo americano e tutte quelle cose che danno loro l’impressione di essere a casa. Ma ci sono moltissimi altri che vanno all’estero solo ogni tanto e che si aspettano che il nostro paese sia... be’, non diciamo proprio come quello di Dickens, ma diverso dal loro. Così, quando tornano a casa, dicono: “C’è un posto meraviglioso a Londra: il Bertram Hotel. Sembra di tornare indietro di cento anni. È proprio la vecchia Inghilterra! E che gente c’è! Persone che non incontreresti mai in nessun altro luogo. Meravigliose vecchie duchesse. E i piatti che servono! Tutte antiche ricette, e un budino fantastico, proprio come quelli di una volta! E poi, naturalmente, c’è di tutto. Ed è meravigliosamente comodo. Ci sono, inoltre, dei grandi camini a legna”.»

Il signor Humfries smise l’imitazione e abbozzò una specie di risatina.

«Capisco» fece Luscombe pensosamente. «Questa gente, aristocratici decaduti, discendenti squattrinati delle grandi famiglie delle vecchie contee, fanno tutti parte della messa in scena, vero?»

Il signor Humfries annuì.

«In realtà mi domando» aggiunse «come mai nessun altro ci abbia pensato. Naturalmente ho trovato il Bertram bell’e pronto, per così dire. Aveva solo bisogno di essere restaurato senza badare a spese. Tutti quelli che vengono qui, pensano che si tratti di qualcosa che hanno scoperto da soli e che gli altri non ne sappiano nulla.»

«Immagino» disse Luscombe «che il restauro sia stato piuttosto costoso, vero?»

«Certamente. L’albergo deve avere l’aspetto edoardiano, ma deve anche possedere tutte quelle comodità che consideriamo requisiti indispensabili dei giorni nostri. Le care vecchiette... mi scusi se mi riferisco a loro in questo modo... devono convincersi che non è mutato nulla dall’inizio del secolo mentre i nostri clienti d’oltreoceano devono sentirsi circondati da un ambiente d’epoca, ma nello stesso tempo disporre di tutti quei comfort a cui sono abituati a casa e di cui non possono proprio fare a meno!»

«Difficile, talvolta?» chiese Luscombe.

«Non proprio. Prenda il riscaldamento centrale, per esempio. Gli americani vogliono, hanno bisogno, direi, di almeno cinque gradi in più degli inglesi. Gli inglesi li mettiamo da una parte, gli americani dall’altra. Le stanze sembrano tutte uguali, ma sono piene di particolari diversi, rasoi elettrici e docce oltre alla vasca in alcuni bagni e, se si vuole una colazione all’americana, la si avrà subito... cereali, spremute d’arancia ghiacciate eccetera... o se si preferisce si può avere la colazione all’inglese.»

«Uova e pancetta?»

«Appunto, ma anche molti altri piatti, volendo. Aringhe, rognone e pancetta, crema fredda, prosciutto di York, marmellata di Oxford.»

«Mi devo ricordare di tutto questo, domattina. Ormai a casa non usano più cucinare queste leccornie.»

Humfries sorrise.

«Quasi tutti i clienti chiedono solo uova e pancetta. Non sono più abituati alle colazioni che si mangiavano un tempo. Ma noi ci sforziamo di dare ai clienti tutto quello che ci viene chiesto.»

«Comprese le tartine e il dolce di uvette passite, a quanto vedo. A ognuno secondo le sue necessità... Quasi marxista...»

«Come dice?»

«Solo un’idea, Humfries. Gli estremi si incontrano.»

Il colonnello Luscombe si voltò, prendendo la chiave che la signorina Gorringe gli porgeva. Un fattorino si mise sull’attenti e lo accompagnò all’ascensore. Il colonnello vide, passando, che Lady Selina Hazy era seduta adesso accanto alla sua amica Jane Marple.

2

 

«E immagino che abiti ancora a St Mary Mead» stava chiedendo Lady Selina. «Un posticino così grazioso e tranquillo! Ci penso spesso. Non è affatto cambiato, suppongo.»

«Be’, un po’» rispose Miss Marple, riflettendo su certi aspetti del villaggio in cui viveva e pensando alle nuove costruzioni e alle innovazioni apportate dalle vetrine dei negozi rimodernati nella strada principale. Sospirò. «Penso che si debbano accettare le novità.»

«Il progresso» ribatté Lady Selina con aria svagata. «Sebbene, a volte, mi sembri che non sia un vero progresso. Per esempio, tutte quelle rubinetterie smaglianti che ci sono nei bagni di adesso... Ogni possibile gradazione di colore e cromature meravigliose, ma funzionano poi veramente? Non si sa mai se si deve spingere o tirare. Una volta bastava tirare una maniglia in qualsiasi direzione e venivano giù subito cateratte d’acqua. Ecco il caro vescovo di Medmenhan.» Lady Selina interruppe il suo cicaleccio vedendo passare un anziano prelato di bell’aspetto. «È quasi cieco, credo. Ma è una così splendida figura di religioso militante.»

Le due vecchiette si concessero un po’ di pettegolezzi sull’argomento, fermandosi solamente quando Lady Selina riconosceva tra gli ospiti vari amici e conoscenti, molti dei quali non erano poi le persone che credeva che fossero. L’aristocratica e Miss Marple parlarono un po’ dei vecchi tempi, sebbene i loro ricordi comuni fossero limitati soprattutto ai pochi anni in cui Lady Hazy, vedova di recente e con pochi mezzi, aveva affittato una villetta nel villaggio di St Mary Mead per il periodo in cui il suo secondo figlio era di stanza in un aeroporto lì vicino.

«Viene sempre qui, quando è in città, Jane? È strano che non l’abbia mai vista prima.»

«Oh, no davvero. Non potrei permettermelo e poi non mi allontano quasi mai da casa, adesso. No, è stata una mia cara nipote che ha pensato che mi sarei divertita a fare una visitina a Londra. Joan è una ragazza così affettuosa... veramente non tanto ragazza...» Miss Marple rifletté con un brivido d’angoscia che Joan doveva avere quasi cinquant’anni. «È pittrice, sa. Joan West. Ha fatto da poco una mostra.»

«Roba moderna, suppongo» ribatté Lady Hazy, volgendo attorno lo sguardo. «Quella è Cecily Longhurst, si è tinta di nuovo i capelli, a quanto vedo.»

«Temo che la cara Joan sia alquanto moderna» disse Miss Marple. Ma si sbagliava. Joan West era stata considerata moderna circa vent’anni prima e ora veniva considerata dai giovani artisti pop completamente sorpassata.

Lanciando una rapida occhiata ai capelli di Cecily Longhurst, Jane Marple si lasciò andare a ricordare quanto fosse stata gentile Joan con lei. Joan aveva in effetti detto al marito: «Vorrei che potessimo fare qualcosa per la povera vecchia zia. Non va mai in nessun posto. Credi che le piacerebbe andare a Bournemouth per una settimana o due?».

«Buona idea» disse Raymond West. Il suo ultimo romanzo era andato bene e si sentiva generoso.

«Si è divertita in quel viaggio alle Indie Orientali, credo, sebbene sia stato un peccato che si sia trovata coinvolta in quel caso di omicidio. Non è una bella cosa, alla sua età.»

«Ma è una cosa che le capita spesso, a quanto pare.»

Raymond voleva molto bene alla sua vecchia zia: escogitava continuamente qualcosa per divertirla e le inviava libri che pensava potessero interessarle. Fu sorpreso quando Jane Marple rifiutò gentilmente le sue offerte e, sebbene lei dicesse che i libri erano stati “così interessanti”, lui sospettò che non li avesse letti. Era vero, tuttavia, che i suoi occhi si erano molto indeboliti.

In questo, però, Raymond si sbagliava. Sua zia ci vedeva benissimo per la sua età e in quel momento stava osservando ciò che avveniva attorno a lei con piacere e interesse.

Quando Joan le aveva offerto un soggiorno in uno dei migliori alberghi di Bournemouth per un paio di settimane, Miss Marple, esitando, aveva mormorato: «Sei molto, molto gentile, cara, ma veramente non credo...».

«Ma ti farebbe bene, zia, davvero. Bisogna allontanarsi da casa, ogni tanto. Si vedono cose nuove, si hanno nuove idee.»

«Certo, hai ragione e mi piacerebbe fare un viaggetto. Ma non a Bournemouth, forse.»

Joan fu sorpresa, credeva che Bournemouth sarebbe stato la Mecca per zia Jane.

«A Eastbourne? A Torquay?»

«Quello che mi piacerebbe veramente...» disse Miss Marple con imbarazzo.

«Dimmi...»

«Temo di sembrarti piuttosto sciocca!»

«Ma no! Dimmi cosa desideri!»

«Veramente mi piacerebbe andare a Londra, al Bertram Hotel.»

«Al Bertram?» ripeté Joan. Il nome le era vagamente familiare.»

Le parole uscirono precipitose dalla bocca di Miss Marple.

«Vi andai una volta, quando avevo quattordici anni. Con mio zio e mia zia. Ricordi zio Tommaso, il canonico di Ely? E non ho mai dimenticato quell’albergo. Se potessi starci anche una sola settimana! Due sarebbe troppo costoso!»

«Oh, non preoccuparti. Certo che ci andrai. Avrei dovuto immaginare che ti sarebbe piaciuto andare a Londra per i negozi e tutto il resto. Ti fisseremo la stanza, se il Bertram esiste ancora. Sono spariti tanti alberghi da allora...»

«No. So per caso che il Bertram c’è ancora. Ho ricevuto una lettera proprio ieri da lì, dalla mia amica americana di Boston, Amy McAllister. Lei e suo marito hanno alloggiato lì.»

«Benissimo. Lo prenoterò» disse Joan. «Ma temo che lo troverai molto cambiato dai giorni in cui ci sei stata. Perciò aspettati una delusione.»

Ma il Bertram Hotel non era cambiato. Era identico a quello che era sempre stato. E secondo Miss Marple questo fatto aveva del miracoloso, tanto che si domandava se non fosse troppo bello per essere vero. Sapeva benissimo, con il suo solito buon senso, che ciò che lei voleva era semplicemente rispolverare i ricordi del passato restituendo loro i colori originali. Se poi si riusciva a trovare qualcuno con cui ricordare il passato, allora questo era quasi la felicità. Al momento, però, non le era facile trovare questo qualcuno, perché Miss Marple era sopravvissuta a tutte le sue coetanee. Tuttavia se ne stava lì, seduta, a ricordare. In maniera piuttosto curiosa, questo la faceva come rinascere. Jane Marple, una ragazzina bianca e rosea, piena di vita e così sciocca in tante occasioni. Chi era quel giovanotto così poco raccomandabile che si chiamava... santo cielo, come si chiamava? Non se lo ricordava più! Come era stata saggia sua mamma a troncare sul nascere quell’amicizia con tanta fermezza. Lo aveva incontrato dopo anni ed era un uomo veramente spaventoso. Eppure, allora, lei aveva sofferto e pianto per lui per almeno una settimana.

Adesso, naturalmente, pensò Miss Marple, quelle povere ragazzine anche se avevano una madre sembrava che non ne ricevessero alcun aiuto o conforto. Le madri erano ora incapaci di proteggere le loro figlie da amori sciocchi, bambini illegittimi, matrimoni prematuri o sfortunati. Ciò era molto triste.

La voce della sua amica interruppe queste meditazioni.

«Come! Non avrei mai creduto. Ma sì, è Bess Sedgwick quella laggiù! Di tutti i posti possibili e immaginabili proprio qui...»

Miss Marple aveva ascoltato distrattamente i commenti di Lady Selina sulle sue conoscenze. Lei e Jane Marple si muovevano in ambienti totalmente diversi, sicché Miss Marple non aveva potuto scambiare particolari scandalosi sui vari amici o conoscenze che Lady Selina riconosceva o credeva di riconoscere.

Ma Bess Sedgwick era una cosa diversa. Il nome di Bess lo conoscevano quasi tutti, in Inghilterra. Da più di trent’anni, ormai, la stampa riportava questo o quel fatto sensazionale o scandaloso in cui Bess era coinvolta. Durante gran parte della guerra aveva preso parte al movimento di Resistenza francese e si diceva che avesse sei tacche su una pistola che rappresentavano altrettanti tedeschi fatti fuori. Anni orsono aveva sorvolato da sola l’Atlantico e attraversato l’Europa a cavallo. Aveva guidato macchine da corsa, e una volta aveva salvato due bambini in un incendio. Aveva avuto parecchi matrimoni, a suo credito o discredito, e si diceva che fosse la seconda tra le donne più eleganti d’Europa.

Si mormorava anche che fosse riuscita a imbarcarsi clandestinamente su un sommergibile atomico, durante il primo viaggio di prova.

Pertanto fu con grandissimo interesse che Miss Marple si raddrizzò sulla sedia e si permise di lanciare un’occhiata francamente indagatrice.

Si sarebbe attesa qualsiasi cosa dal Bertram, ma non certo di incontrarsi con Bess Sedgwick. Un night club di gran lusso o una trattoria per camionisti sarebbero stati più consoni alla vasta gamma di interessi in cui si muoveva Bess, mentre in quel vecchio albergo, dignitoso e altamente rispettabile, sembrava stranamente fuori posto.

Eppure lei si trovava proprio lì, non c’era dubbio. Difficilmente passava un mese senza che il viso di Bess apparisse sulle riviste di moda o sui rotocalchi. E ora era lì, in carne e ossa, e stava fumando una sigaretta con rapidi gesti impazienti, mentre osservava con sorpresa il grande vassoio del tè posto dinanzi a lei, come se non ne avesse mai visto uno prima. Aveva ordinato... Miss Marple aguzzò gli occhi perché era lontana... ciambelle. Sì, proprio ciambelle. Molto interessante.

Mentre veniva così osservata, Bess Sedgwick spense la sigaretta nel piattino, prese una ciambella e le diede un morso gigantesco. Uno schizzo di marmellata di fragole le coprì il mento e Bess gettò indietro il capo e rise, una delle risate più rumorose e gaie che si fossero mai udite da anni nelle sale del Bertram Hotel.

Henry le fu immediatamente accanto per offrirle un piccolo, grazioso tovagliolo. La donna lo prese e si strofinò il mento con il vigore di un ragazzino, esclamando: «Questa è quella che si chiama una vera ciambella. Fantastico!».

Fece cadere il tovagliolo sul vassoio e si alzò. Come al solito, tutti gli occhi erano fissi su di lei, ma Bess c’era abituata e forse le piaceva o forse non se ne accorgeva neanche più. Valeva la pena, guardarla. Era una donna che faceva colpo, anche se non era bellissima. I capelli biondo platino le cadevano sulle spalle, morbidi e lisci. La forma della testa e del viso era perfetta. Aveva profondi occhi grigi, un naso leggermente aquilino e la bocca grande ed espressiva dell’attrice nata. L’abito che indossava era talmente semplice che rendeva perplessi gli uomini. Pareva fatto di ruvida tela di sacco, non presentava alcun ornamento o cucitura o chiusura di sorta. Ma le donne la sapevano più lunga. Perfino le care vecchiette del Bertram si rendevano conto che doveva essere costato un patrimonio!

Attraversando a larghe falcate il salone, Bess Sedgwick passò accanto a Miss Marple e a Lady Selina e fece un segno di saluto a quest’ultima.

«Salve, Lady Selina. È da tempo che non la vedo. Come stanno i Borzoi?»

«Che mai stai facendo da queste parti, Bess?»

«Alloggio qui. Sono appena arrivata da Land’s End in macchina. Ce l’ho fatta in quattro ore e tre quarti. Non c’è male.»

«Ti ucciderai un giorno o l’altro. Oppure ammazzerai qualcuno.»

«Oh, spero di no.»

«Ma perché alloggi proprio qui?»

Bess Sedgwick gettò intorno una rapida occhiata e parve comprendere il sottinteso e accettarlo con un sorriso ironico.

«Qualcuno mi disse che avrei dovuto provare quest’albergo e trovo che mi ha consigliato bene. Fanno delle ciambelle deliziose.»

«Mia cara, ci sono anche delle ottime tartine.»

«Ottime tartine» ripeté perplessa Lady Sedgwick. «Già...» aggiunse come se concedesse la sua approvazione «le tartine!» Fece un altro cenno con il capo e si allontanò verso l’ascensore.

«Che ragazza straordinaria» commentò Lady Selina. Per lei, come per Miss Marple, tutte le donne sotto la sessantina erano ragazze. «La conosco fin da quando era bambina. Nessuno riusciva a tenerla a freno. Scappò da casa con uno stalliere irlandese quando aveva sedici anni. Riuscirono a farla tornare in tempo o forse non proprio in tempo. A ogni modo, lo pagarono profumatamente e si liberarono di lui, dando Bess in moglie al vecchio Coniston, che aveva trent’anni più di lei, un vecchio libertino disgustoso, completamente rimbambito e pazzo di lei. Quel matrimonio non durò a lungo. Bess se ne andò con Johnnie Sedgwick. E con lui sarebbe forse durata se Johnnie non si fosse rotto l’osso del collo durante una corsa a ostacoli. Dopo di che, sposò Ridgway Becker, quell’americano proprietario di panfili. Lui domandò il divorzio tre anni orsono, e ho sentito dire che ora lei si è messa con un corridore automobilistico, un polacco o qualcosa del genere. Non so se lo abbia sposato o no. Dopo il divorzio americano riprese a farsi chiamare Sedgwick. Va in giro con la gente più strana. Dicono che si droghi... ma io non so se è vero.»

«C’è da chiedersi se sia una donna felice» commentò Miss Marple.

Lady Selina, che evidentemente non si era mai posta una tale domanda, la guardò sorpresa.

«Deve avere un mucchio di soldi, suppongo» disse incerta. «Le passeranno gli alimenti o cose del genere. Certamente, il denaro non è tutto.»

«No, davvero.»

«E di solito ha un uomo o parecchi uomini a rimorchio.»

«Davvero?»

«Sicuro. Certe donne, quando arrivano a quell’età, è ciò che vogliono... Però, non credo.»

«No» interloquì Miss Marple. «Non lo credo neanch’io.»

Molti avrebbero sorriso divertiti a questa osservazione da parte di una vecchia dama all’antica che difficilmente poteva esser considerata un’esperta di ninfomania, parola che anche Miss Marple non avrebbe mai usato, in quanto la sua espressione sarebbe stata “troppo appassionata dell’altro sesso”. Ma Lady Selina accettò la sua opinione come una conferma delle proprie idee.

«Ci sono sempre stati moltissimi uomini nella sua vita» precisò Lady Hazy.

«Oh, certo, ma mi pare, e mi dica se non è così, che gli uomini sono stati un’avventura per lei, non una necessità» aggiunse Miss Marple, chiedendosi allo stesso tempo quale donna si sarebbe recata al Bertram per un appuntamento con un uomo. Decisamente, quello non era un albergo del genere. Tuttavia, dato il carattere particolare di Lady Sedgwick, poteva anche essere che questa fosse proprio la ragione per cui l’aveva scelto.

Jane Marple sospirò e guardò il bell’orologio a pendolo che ticchettava solennemente in un angolo, poi si alzò in piedi, con sforzo, a causa dei reumatismi. Camminò con lentezza verso l’ascensore. Lady Hazy gettò un’occhiata circolare e la fermò su un anziano signore dall’aria militaresca che stava leggendo lo «Spectator».

«Che piacere rivederla. Il generale Arlington, vero?»

Con estrema cortesia il vecchio signore negò di essere il generale Arlington. Lady Selina si scusò, ma non ne fu affatto sconvolta. Univa la sua miopia a un grande ottimismo e poiché la cosa che la divertiva di più era ritrovare vecchi amici e conoscenze, le capitava spesso di commettere questo genere di errori. Del resto, molti altri facevano lo stesso, perché le luci erano particolarmente basse e i paralumi di seta pesante. Ma nessuno si offendeva, anzi, pareva quasi che ne avesse piacere.

Miss Marple rise fra sé e si avvicinò all’ascensore. C’era da aspettarselo da Selina. Era sempre convinta di conoscere tutti. Lei non riusciva certamente a starle dietro. L’unico suo trionfo a questo proposito era stato rappresentato dal bellissimo ed elegantissimo vescovo di Westchester che lei aveva affettuosamente chiamato “caro Robbie” e che le aveva risposto con eguale affetto, ricordandole di quand’era bambino in un vicariato dello Hampshire e le gridava impetuosamente: “Fa’ il coccodrillo ora, zietta Janie. Fa’ il coccodrillo e mangiami!”.

L’ascensore scese, un uomo di mezz’età e in uniforme spalancò la porta. Con grande sorpresa di Miss Marple, la persona che si presentò ai suoi occhi fu Bess Sedgwick, che era salita uno o due minuti prima. Era sul punto di uscire quando si fermò come irrigidita e così di colpo che Jane Marple indugiò a sua volta. Bess Sedgwick fissava qualcosa al di là delle spalle della vecchia signorina con una tale intensità che questa si girò a sua volta.

Il portiere aveva appena aperto le due porte girevoli dell’entrata e le teneva spalancate per lasciar entrare nella grande hall due donne.

Una era di mezz’età, con l’aria dell’impicciona scontenta, che portava un cappello viola a fiori molto infelice, l’altra era una ragazza alta e snella, di circa diciassette o diciotto anni, con lunghi capelli diritti di un biondo chiarissimo, e vestita semplicemente, ma con buon gusto.

Bess Sedgwick si riprese, fece un rapido mezzo giro su se stessa e rientrò nell’ascensore. Poiché Miss Marple la seguiva, Bess Sedgwick si volse verso di lei e si scusò.

«Mi spiace, quasi quasi la facevo cadere» disse con voce calda e gentile. «Mi sono appena ricordata di avere dimenticato qualcosa. Sembra sciocco, ma è proprio così.»

«Secondo piano?» chiese l’uomo addetto all’ascensore. Miss Marple sorrise e annuì assentendo, poi uscì e camminò lentamente verso la sua stanza, rimuginando dentro di sé diversi pensieri, com’era sua abitudine.

Per esempio, ciò che le aveva detto Lady Sedgwick non era vero. Era appena salita in camera sua e doveva essere stato allora che “si era ricordata di aver dimenticato qualcosa”, così era scesa per cercarla. O forse era scesa per incontrare o cercare qualcuno. Ma allora, chi aveva visto, quando la porta dell’ascensore si era aperta, da esserne sconvolta al punto di fare dietro-front e risalire nell’ascensore, pur di non incontrare la persona che aveva visto?

Doveva trattarsi delle due nuove arrivate. La donna di mezza età e la ragazza. Madre e figlia? No, pensò. Jane Marple, non madre e figlia.

Perfino al Bertram, si disse la vecchia signorina tutta contenta, potevano accadere cose interessanti.

3

 

«Ehm, il colonnello Luscombe è qui?»

La donna con il cappello viola era nel bureau. La signorina Gorringe le fece un sorriso di benvenuto e un fattorino, che era lì accanto, sull’attenti, fu immediatamente spedito alla sua ricerca; ma non dovette fare molta strada, perché il colonnello Luscombe in persona entrò in quel momento nel salone e andò rapidamente verso di loro.

«Buon giorno, signora Carpenter» disse stringendole gentilmente la mano. Quindi si volse verso la ragazza: «Mia cara Elvira» esclamò afferrandole entrambe le mani con le sue. «Bene, bene. Sono proprio contento. Magnifico, magnifico. Andiamo a sederci.»

Le guidò verso un tavolino e le fece accomodare.

«Bene, bene» ripeté. «Sono proprio contento.»

Lo sforzo che faceva per parlare era altrettanto evidente quanto il suo disagio. Non poteva continuare a ripetere all’infinito di essere contento, e le sue due compagne non gli erano di grande aiuto. Elvira sorrideva con dolcezza e la signora Carpenter emetteva delle insulse risatine mentre continuava a lisciarsi i guanti.

«Viaggio piacevole, eh?»

«Sì, grazie» rispose Elvira.

«Niente nebbia?»

«Oh, no.»

«Il nostro volo è arrivato con cinque minuti d’anticipo» disse la signora Carpenter.

«Già, già. Bene, bene. Spero che questo posto vi piaccia» aggiunse con uno sforzo.

«Oh, è bellissimo» rispose con calore la signora Carpenter, gettando un’occhiata in giro. «Molto confortevole.»

«Piuttosto antiquato, temo» si scusò il colonnello. «Ci sono un sacco di vecchi barbogi. Non esiste sala da ballo o qualcosa del genere.»

«Immagino di no» assentì Elvira. Si guardò attorno senza mutare espressione. Era certo impossibile collegare il Bertram con l’idea di una sala da ballo.

«Un sacco di vecchi barbogi, temo» ripeté il colonnello. «Avrei dovuto forse portarla in qualche luogo più moderno. Ma ammetto di non essere molto al corrente di queste cose.»

«Qui è molto bello» disse Elvira con gentilezza.

«Si tratta solo di due o tre notti» proseguì il colonnello Luscombe. «Ho pensato di portarla a teatro, questa sera. Una commedia musicale» usò il termine con tono incerto, temendo che non fosse esatto. «Sciogliete i vostri capelli, ragazze. Spero che le vada bene.»

«Che gioia» esclamò la signora Carpenter. «Che divertente, vero, Elvira?»

«Magnifico» disse questa senza entusiasmo.

«E dopo andremo a cena. Al Savoy?»

La signora Carpenter reiterò le sue esclamazioni. Il colonnello, guardando di sottecchi Elvira, si rincuorò un poco. Gli sembrò che la ragazza fosse contenta, se pure decisa a non esprimere altro che una cortese approvazione in presenza della signora Carpenter. “E non la biasimo” disse fra sé.

Il colonnello si rivolse verso la signora Carpenter.

«Forse vi piacerebbe vedere le vostre stanze, controllare se vi vanno bene, eccetera...»

«Oh, sono sicura che andranno benissimo.»

«Mi raccomando, se c’è qualcosa che non vi aggrada in una delle due ve le farò cambiare. Mi conoscono molto bene, qui.»

La signorina Gorringe fu infatti estremamente cortese e diede le chiavi delle stanze numero 28 e 29, al secondo piano, con bagno.

«Salgo a disfare le valigie» avvisò la signora Carpenter.

«Forse, Elvira, lei e il colonnello Luscombe avrete voglia di scambiare due parole.»

“Che tatto!” pensò il colonnello. Un po’ troppo ostentato, forse, ma in ogni caso provvidenziale, perché li avrebbe liberati di lei per un po’, sebbene non avesse ancora idea di che cosa avrebbe potuto chiacchierare con Elvira. Una ragazza molto bene educata, ma lui non era abituato alle ragazze. Sua moglie era morta di parto e il bambino era stato allevato dalla famiglia di lei, mentre sua sorella era venuta a governare la casa. Suo figlio, una volta sposato, era andato a vivere in Kenya e i suoi unici nipotini avevano undici, cinque e due anni e mezzo sicché, durante la loro ultima visita, li aveva intrattenuti parlando di football, di scienza spaziale, di trenini elettrici e facendoli cavalcare sulle sue gambe. Facilissimo! Ma con le ragazze...

Chiese a Elvira se per caso volesse bere qualcosa. Stava per proporle una limonata o un’aranciata, ma Elvira lo prevenne.

«Grazie, vorrei un vermut con un po’ di gin.»

Il colonnello Luscombe la guardò preoccupato. Supponeva che le ragazze di sedici o diciassette anni bevessero anche gin e vermut, ma quando? Poi si rassicurò. Elvira pareva conoscere benissimo il momento e l’ora esatta in cui bere. Ordinò un gin con vermut e uno sherry secco.

Si schiarì la voce e chiese:

«Com’era l’Italia?»

«Bella. Grazie.»

«In quel posto dov’eravate, dalla contessa non-so-come-si-chiami, stavi bene? Non era troppo deprimente?»

«Era piuttosto severa. Ma io non me ne sono preoccupata troppo» rispose la ragazza.

Il colonnello la guardò incerto, perché la risposta gli era sembrata leggermente ambigua e, balbettando un poco, ma con un tono più naturale di quanto fosse riuscito a fare prima le disse: «Temo che non ci conosciamo così bene come dovremmo, dato ch’io sono il tuo tutore oltre che il tuo padrino. È difficile per me, sai, difficile per un vecchio rimbambito come me sapere cosa vuole una ragazza, o meglio sapere che cosa dovrebbe avere una ragazza. La scuola e poi, finita la scuola, un corso per completare la sua educazione, come si diceva ai miei tempi. Ma adesso credo che si sia più pratici. Si pensa alla carriera. All’impiego. A cose del genere. Dobbiamo parlare di tutto questo una volta o l’altra. C’è qualcosa di particolare che desideri fare?».

«Penso che frequenterò un corso per segretarie» disse Elvira senza alcun entusiasmo.

«Ah! Vuoi fare la segretaria?»

«Non in modo particolare.»

«E allora, perché?»

«È così che si comincia.»

Il colonnello Luscombe provò la strana sensazione di essere relegato in un mondo di vecchie mummie.

«Quei miei cugini, i Melford, credi che ti piacerà vivere con loro? Altrimenti...»

«Credo di sì, Nancy mi piace molto e la cugina Mildred è tanto cara.»

«Allora va tutto bene?»

«Senz’altro. Per il momento.»

Luscombe non seppe cosa rispondere a questa affermazione. Mentre ci stava pensando, Elvira riprese a parlare.

Le sue parole furono semplici e chiare.

«Io posseggo del denaro?»

Di nuovo il vecchio colonnello prese tempo, prima di rispondere.

«Sì» disse. «Sei molto ricca. O meglio, lo sarai quando compirai i ventun anni.»

«Chi amministra i miei soldi, adesso?»

Il vecchio sorrise.

«Sono amministrati per te. Ogni anno dalla rendita viene detratta una certa somma per le spese del tuo mantenimento e della tua istruzione.»

«E lei è il mio amministratore?»

«Uno degli amministratori. Siamo in tre.»

«Che cosa succede se muoio?»

«Ma che dici, Elvira, non morirai certamente. Che sciocchezza!»

«Spero di no. Ma non si può mai sapere, vero? Solo la settimana scorsa è precipitato un aereo e tutti i passeggeri sono morti.»

«Bene, a te non succederà» disse il colonnello con fermezza.

«Non si può mai sapere» ripeté Elvira. «Mi domandavo semplicemente chi si prenderebbe il mio denaro, se morissi.»

«Non ne ho la più pallida idea» rispose Luscombe in tono irritato. «Perché lo chiedi?»

«Potrebbe essere interessante saperlo» insisté la ragazza in tono pensoso. «Mi chiedevo se potrebbe valer la pena di uccidermi.»

«Ma Elvira!» proruppe Luscombe. «Queste sono cose senza senso. Non riesco a capire come la tua mente possa concepire delle assurdità simili.»

«Be’! È soltanto un’idea. Uno vuol sapere come stanno le cose.»

«Stai forse pensando alla mafia o a qualcosa del genere?»

«Oh no! Sarebbe sciocco. Chi entrerebbe in possesso del mio denaro se mi sposassi?»

«Tuo marito, immagino. Ma, veramente...»

«Ne è sicuro?»

«No, non ne sono affatto sicuro. Dipende da come è stato stilato il documento per l’amministrazione dei tuoi beni. Ma non sei sposata, quindi...»

«Vede mai mia madre?»

«Qualche volta. Non molto spesso.»

«Dov’è ora?»

«In Francia o in Portogallo. Non lo so con esattezza.»

«Chiede mai di vedermi?

Lo sguardo limpido della ragazza incontrò quello dell’anziano tutore, che non seppe che cosa risponderle. Era il momento di dirle la verità? Era meglio restare nel vago? O forse azzardare una grossa menzogna? Cosa si poteva dire a una ragazza che faceva una domanda con tanta semplicità, mentre la risposta era tanto complessa?

«Non lo so» rispose, sentendosi molto infelice.

Gli occhi di Elvira lo scrutarono con serietà. Luscombe si sentì enormemente a disagio. Stava complicando tutto e la ragazza, com’era logico, era piena di dubbi.

«Non devi pensare...» cominciò a dire Luscombe «cioè, è difficile spiegartelo, ma tua madre, vedi, è molto diversa da...»

«Lo so» l’interruppe Elvira annuendo con forza. «Leggo sempre di lei sui giornali. È una donna piuttosto fuori del comune, no? In effetti è una persona meravigliosa!»

«Sì» assentì il colonnello. «Hai detto bene. È una persona meravigliosa.» Fece una pausa e poi proseguì: «Ma una persona straordinaria molto spesso è...». Luscombe si fermò di nuovo. «Non è sempre una bella cosa avere per madre una persona fuori del comune. Puoi credermi, perché è la verità.»

«Non le piace molto dire la verità, eh? Però credo che quanto mi ha detto sia vero.»

Rimasero seduti, fissando entrambi le grandi porte girevoli che li separavano dal mondo esterno.

Improvvisamente la porta si aprì con violenza. Una violenza inaudita per il Bertram Hotel, e un giovanotto entrò a larghi passi, attraversando la sala fino al bureau. Indossava una giacca di cuoio nera e la sua vitalità era tale che, per contrasto, l’albergo parve trasformarsi in un museo in cui la gente rappresentava i relitti incartapecoriti di un’epoca ormai passata.

Il giovane si chinò verso la signorina Gorringe e chiese: «Alloggia qui Lady Sedgwich?».

La segretaria questa volta non sfoggiò alcun sorriso di benvenuto. I suoi occhi erano duri.

«Sì» rispose, poi di malavoglia allungò una mano verso il telefono. «Desidera...»

«No» rispose il giovanotto. «Volevo solo lasciarle un biglietto.»

Estrasse il biglietto da una tasca della giacca di pelle e lo fece scorrere attraverso il banco di mogano.

«Volevo solo essere sicuro che questo fosse l’albergo giusto.» Forse c’era un’inflessione di incredulità nella sua voce, mentre si guardava attorno. Quindi si volse girando lo sguardo con indifferenza sulle persone sedute nella sala, e anche sul colonnello ed Elvira, senza mutare espressione, tanto che Luscombe sentì un improvviso impulso d’ira. “Maledizione,” pensò “Elvira è una ragazza graziosa. Quand’ero giovane avrei certamente notato una ragazza carina, soprattutto in mezzo a tutti questi fossili!” Ma il giovanotto parve non avere alcuna curiosità da sprecare per le ragazze graziose; si volse nuovamente e chiese, alzando leggermente la voce come per richiamare l’attenzione della signorina Gorringe: «Qual è il numero di telefono, qui? 1129 vero?».

«No» ribatté la signorina Gorringe. «3925.»

«Regent?»

«No. Mayfair.»

Il giovanotto annuì. Quindi camminò rapidamente verso l’entrata e uscì sbattendo le porte alle sue spalle con la stessa violenza che aveva mostrato entrando.

Parve che tutti tirassero un sospiro di sollievo, pur trovando difficoltà a riprendere normalmente la conversazione interrotta.

«Bene» disse il colonnello alquanto a sproposito, come se fosse a corto di parole. «Bene, davvero! Questi giovanotti, al giorno d’oggi...»

Elvira sorrise.

«L’ha riconosciuto, vero? Sa chi è?» chiese con una leggera emozione nella voce. Decise di illuminarlo. «Ladislaus Malinowski.»

«Oh, quel tale.» Il nome era vagamente familiare al colonnello. «Il corridore automobilistico.»

«Sì. È stato campione mondiale per due anni di seguito. Ha avuto un brutto incidente un anno fa. Si è rotto un mucchio di cose. Ma credo che abbia ripreso a correre, ora.» Alzò il capo per ascoltare. «È una macchina da corsa quella che sta guidando adesso.»

Il ruggito del motore penetrò nell’albergo dall’esterno. Il colonnello Luscombe si rese conto che Ladislaus Malinowski era uno degli eroi di Elvira. “Bene,” si disse “meglio che uno di quei cantanti pop o di quei capelloni dei Beatles o come diavolo si chiamano.” Luscombe era antiquato nelle sue opinioni sui giovanotti.

Le porte girevoli si aprirono di nuovo. Sia Elvira che il colonnello guardarono pieni di aspettativa, ma il Bertram Hotel era tornato alla normalità. Il nuovo venuto era soltanto un anziano reverendo che rimase per qualche minuto a guardarsi intorno con l’aria leggermente dubbiosa di chi non riesce a rendersi conto di dove si trova e di come ci è arrivato. Una simile sensazione non era una novità per il canonico Pennyfather. Gli arrivava addosso quando si trovava in treno e non si ricordava da dove veniva e dove stesse andando e perché.

Oppure mentre camminava per la strada o quando si trovava seduto in una riunione. Una volta gli era successo mentre si trovava sul pulpito della sua chiesa e non si ricordava più se avesse già fatto la predica o se dovesse ancora iniziarla.

«Mi pare di conoscere quel vecchio ragazzo» disse Luscombe, scrutandolo. «Chi è? Viene spesso qui, mi pare. È Abercrombie, l’arcidiacono Abercrombie... No, non è Abercrombie, sebbene gli assomigli molto.»

«Elvira lanciò al canonico Pennyfather un’occhiata senza interesse. Paragonato al pilota, non aveva fascino alcuno. Elvira non nutriva interesse per gli ecclesiastici di alcun genere, eccettuato, dopo il suo soggiorno in Italia, un debole senso di ammirazione per i cardinali, che considerava, se non altro, estremamente pittoreschi.

Il viso del canonico si rischiarò e lui dondolò la testa con aria contenta. Aveva riconosciuto dove si trovava. Al Bertram Hotel, naturalmente, dove avrebbe trascorso la notte prima di partire per... per dove doveva partire? Chadminster? No, no. Era appena venuto da Chadminster. Stava andando, ah già... naturalmente, stava andando a Lucerna a un congresso. Fece qualche passo avanti, sorridendo felice, verso il bureau dove venne accolto con affettuosa gentilezza dalla signorina Gorringe.

«Sono così contenta di rivederla, canonico Pennyfather. Che magnifico aspetto ha!»

«Grazie, grazie. Ho avuto un brutto raffreddore la settimana scorsa, ma adesso ne sono fuori. Avete una stanza per me? Ho scritto, vero?»

La signorina Gorringe lo rassicurò.

«Certo, canonico Pennyfather, abbiamo ricevuto la sua lettera. Le abbiamo riservato la numero 19, la stanza che ha già occupato l’ultima volta.»

«Grazie, grazie. Per... vediamo un po’... ne avrò bisogno per quattro giorni. A dire la verità sto per partire per Lucerna e starò via una notte; ma la prego di tenermi la stanza. Lascerò quasi tutta la mia roba qui e porterò solo una valigetta in Svizzera. Spero che non ci saranno difficoltà, per lei.»

Di nuovo la segretaria lo rassicurò.

«Va tutto benissimo. Ci ha già spiegato ogni cosa nella sua lettera con molta chiarezza.»

Un’altra persona non avrebbe certamente detto “con molta chiarezza” ma “molto diffusamente”, perché il canonico aveva scritto una lunghissima lettera.

Liberato da ogni preoccupazione il canonico Pennyfather tirò un sospiro di sollievo e fu condotto assieme al suo bagaglio nella stanza numero 19.

Al numero 28 la signora Carpenter, nel frattempo, si era tolta il copricapo di violette dalla testa e stava stendendo con molta cura sul letto la sua camicia da notte. Alzò gli occhi quando entrò Elvira.

«Ah, eccola, mia cara. Vuole che l’aiuti a disfare le valigie?»

«No, grazie» rispose cortesemente Elvira. «Non tirerò fuori molta roba, sa.»

«Quale camera preferisce? Il bagno è nel mezzo. Ho detto di mettere i suoi bagagli in quell’altra. Ho pensato che questa stanza potrebbe essere un po’ rumorosa.»

«È stata molto gentile» rispose Elvira con una voce priva di inflessioni.

«È sicura di non volere il mio aiuto?»

«No, grazie. Vorrei piuttosto fare un bagno.»

«Ottima idea. Vuol farlo prima lei? Io preferirei finire di metter via le mie cose.»

Elvira annuì. Entrò nella stanza da bagno adiacente, si richiuse la porta alle spalle, sprangandola, quindi andò nella sua camera, aprì le valigie e gettò qualche indumento sul letto. Poi si svestì, infilò una vestaglia, rientrò in bagno e aprì i rubinetti. Ritornò in camera e si sedette sul letto, accanto al telefono. Rimase in ascolto qualche istante per timore di essere interrotta, poi alzò il ricevitore.

«Qui è la camera 29. Può darmi Regent 1129, per favore?»

4

 

All’interno degli edifici di Scotland Yard era in pieno svolgimento una riunione. Aveva l’aria di essere uno scambio di idee informale tra sei o sette uomini che se ne stavano seduti comodamente intorno a un tavolo e ognuno di questi era una persona di grande importanza nel suo ramo.

L’argomento che occupava l’attenzione di questi tutori della legge riguardava una serie di avvenimenti che da due o tre anni avevano assunto una straordinaria importanza, e concerneva un settore nel mondo del crimine che continuava a mietere inquietanti successi. Si trattava di esaminare l’aumento dei furti su vasta scala: irruzioni nelle banche, scippi di stipendi, assalti ai treni e furti di gioielli spediti per posta. Non passava mese che non venisse tentato qualche magnifico colpo, portato a termine con altrettanto successo.

Sir Ronald Graves, vicecommissario di Scotland Yard, presiedeva a capo della tavola. Com’era sua abitudine, ascoltava più di quanto non parlasse. Non era stato presentato, in quell’occasione, alcun rapporto ufficiale, perché era un normale lavoro del CID, il Reparto Investigativo. Si trattava dunque di uno scambio di idee tra uomini che consideravano le cose da punti di vista leggermente diversi. Gli occhi di Sir Ronald Graves si spostavano lentamente sul piccolo gruppo, poi il vicecommissario fece un cenno all’uomo al capo opposto del tavolo.

«Bene, papà Davy,» disse «ci faccia sentire qualche parola di sano buonsenso.»

L’uomo chiamato “papà” era l’ispettore capo Fred Davy. Tra non molto si sarebbe ritirato dal servizio e appariva persino più vecchio di quanto non fosse. Perciò gli avevano dato quel soprannome. Fisicamente aveva un aspetto piacevole e i suoi modi erano tanto cortesi e umani che molti criminali erano rimasti spiacevolmente sorpresi quando si erano accorti che era un uomo molto meno accondiscendente e accomodante di quanto sembrasse.

«Sì, papà Davy, ci dica la sua opinione» fece eco un altro ispettore capo.

«Roba grossa» sospirò l’ispettore capo Davy. «Roba grossa e forse in aumento.»

«Quando dice grossa, intende che sono in molti?»

«Sì.»

Un altro funzionario, Comstock, con una ossuta faccia volpina e occhi dallo sguardo acuto, lo interruppe per domandare: «Pensa che questo rappresenti un vantaggio per loro?».

«Sì e no» rispose papà Davy. «Potrebbe essere un male. Ma per adesso, che il diavolo se li porti, hanno tutto perfettamente sotto controllo.»

Il sovrintendente Andrews, un uomo biondo, snello, dall’aria sognante, interloquì con aria pensosa.

«Ho sempre pensato che la dimensione di un’impresa sia assai più importante di quanto la gente non pensi. Prendete, per esempio, una ditta con un solo proprietario. Se questi è abile e se la sua ditta ha la giusta dimensione, è sicuro che riuscirà negli affari. Ma mettiamo che la ingrandisca, aumenti il personale, crei degli altri uffici: è molto probabile che, improvvisamente, la ditta abbia la dimensione sbagliata e cominci ad andare a rotoli. La stessa cosa può accadere con una catena di grandi magazzini che rappresenta un vero impero industriale. Se è della giusta grandezza avrà successo, ma se è eccessivamente grande o non abbastanza grande non potrà resistere. Tutto ha una sua misura.»

«E quale crede sia la misura della nostra associazione a delinquere?» ruggì Sir Ronald.

«Più grossa di quanto pensassimo in un primo momento» disse Comstock.

«Più che altro ho l’impressione si stia ingrossando» aggiunse un uomo dall’espressione dura, l’ispettore McNeill.

«Questo potrebbe essere una cosa buona» disse Davy. «Potrebbe ingrossarsi troppo in fretta e sfuggire di mano.»

«La questione è, Sir Ronald, chi arrestare e quando» fece notare McNeill.

«Potremmo mettere dentro una dozzina di persone» osservò Comstock. «Gli Harris, per esempio. Poi c’è un bel posticino in via Luton e un garage a Epsom, un bar vicino a Maidenhead e una fattoria lungo la Great North Road.»

«C’è qualcuno che meriti di venir sbattuto in gattabuia?»

«Non credo. Tutti pesci piccoli. Anelli di una catena, ma uno qui e uno lì. C’è un posto dove vengono trasformate le auto e fatte sparire rapidamente; un bar rispettabile dove vengono lasciati gli ordini; un negozio di abiti di seconda mano dove uno può camuffarsi e un costumista teatrale dell’East End anch’esso molto utile. Questa gente viene pagata e pagata bene, ma in effetti non sa quasi nulla.»

Il sovrintendente Andrews riprese a parlare, sempre con la sua aria di sognatore.

«Abbiamo di fronte dei buoni cervelli» disse. «Ma fino a questo momento non li abbiamo ancora sufficientemente avvicinati. Conosciamo alcuni dei loro affiliati, e questo è tutto. Come ho detto, c’è dentro la banda degli Harris e Marks tiene le fila, finanziandoli. I contatti con l’estero sono mantenuti da Weber, che però è solo un agente. Ma non abbiamo alcuna prova concreta contro questa gente. Sappiamo che hanno modo di tenersi in contatto gli uni con gli altri e con le diverse succursali della banda, ma non sappiamo esattamente in che modo questo avvenga. Li teniamo d’occhio e li pediniamo e loro sanno di essere sorvegliati. Da qualche parte ci deve essere un grande quartier generale ed è proprio ai capi che dobbiamo cercare di arrivare.»

«È come una tela di ragno gigantesca» disse Comstock. «Sono d’accordo che ci deve essere in qualche posto un quartier generale dove vengono preparate le operazioni della banda con ogni dettaglio e particolare. Una centrale dove qualcuno crea il colpo e prepara un piano di lavoro per l’Operazione Treno Postale o alle Casse dello Stato. È questo qualcuno che dobbiamo prendere.»

«È più che probabile che non sia neanche in questo paese» disse papà Davy a bassa voce.

«Temo proprio che sia così. Può darsi che il capo sia in un igloo o sotto una tenda in Marocco o in uno chalet in Svizzera.»

«Io non credo in questo genio del crimine» ribatté McNeill scuotendo la testa. «Va bene nei racconti polizieschi. Ci dev’essere un capo, naturalmente, ma io non credo che sia una Mente Superiore. Direi piuttosto che c’è una specie di Consiglio di Amministrazione con tanto di presidente. Si sono messi a fare qualcosa che rende bene e cercano continuamente di migliorare la loro tecnica. Eppure...»

«Eppure?» incalzò Sir Ronald, incoraggiante.

«Eppure, anche in un gruppo ristretto ci sono delle persone che si possono eliminare. È quello che io chiamo il principio della troica. Di tanto in tanto, quando temono che le tracce siano state fiutate da troppi lupi, si liberano di uno dei passeggeri. Di quello di cui possono fare a meno più facilmente.»

«Avrebbero il coraggio di farlo? È un rischio!»

«Direi che la cosa può essere fatta in modo che quello che viene buttato giù dalla troica non si accorga neanche di essere stato spinto. Crederà di essere caduto e starà zitto perché penserà che torni a suo vantaggio. La banda dispone di molto denaro e può permettersi di essere generosa. Si occuperà della sua famiglia, se ce l’ha, mentre è in prigione, ed è probabile che gli prepari anche una fuga.»

«C’è già stata troppa di questa roba» brontolò Comstock. «Credo siate d’accordo con me» aggiunse Sir Ronald «che sia inutile continuare a discutere su ciò che immaginiamo. Ripetiamo quasi sempre le stesse cose.»

McNeill rise.

«Per che cosa ci ha chiamato in effetti, signore?» chiese alla fine.

«Bene...» rispose lentamente Sir Ronald, prendendo tempo per riflettere. «Siamo tutti d’accordo sulla linea di condotta che dobbiamo tenere. E io penso che sarebbe utile dare un’occhiata in giro per controllare anche i minimi particolari, cose di poca importanza in sé ma che siano un po’ fuori del normale. È difficile spiegare ciò che intendo dire, ma vi ricordate quel particolare, anni orsono, nel caso Culver? Una macchia di inchiostro. Ricordate? Una macchia d’inchiostro intorno a un buco fatto dai topi? Ora perché mai una persona dovrebbe svuotare una bottiglietta d’inchiostro in una tana di topi? Non sembrava una cosa importante ed era difficile dare una risposta, ma quando trovammo la spiegazione, comprendemmo molte altre cose. Ecco, in poche parole, cosa voglio da voi adesso. Particolari curiosi. Ditemi, senza riserve, se vi siete imbattuti in qualcosa che vi paia fuori del comune. Qualcosa di poco conto ma irritante, perché non c’è spiegazione. Vedo che papà Davy mi capisce.»

«Sono perfettamente d’accordo con lei» disse l’ispettore capo Davy, annuendo. «Su, ragazzi, cercate di tirar fuori qualcosa. Anche se si tratta solo di un uomo che porta un cappello buffo.»

Nessuno rispose subito, e tutti si guardarono l’un l’altro incerti e dubbiosi.

«Coraggio» riprese papà Davy. «Mi butto io per primo. È solo una storiella curiosa, in verità, ma potete considerarla per quello che vale. Ricordate la rapina alla London and Metropolitan Bank? La succursale di Carmolly Street? Avevamo un lungo elenco di numeri di targhe e descrizioni del tipo e colore delle macchine. Alla fine restammo con un elenco di sette auto che erano state viste nelle vicinanze, ognuna delle quali avrebbe potuto aver a che fare con la rapina.»

«Sì,» disse Sir Ronald «vada avanti.»

«Secondo le testimonianze di un poliziotto c’era una Morris Oxford, una berlina nera targata CMG duecentocinquantasei, guidata dal giudice Ludgrove.»

Papà Davy fece una pausa e si guardò in giro. Lo stavano ascoltando senza dimostrare eccessivo interesse.

«Lo so, lo so,» aggiunse «traccia sbagliata come al solito. Naturalmente non era il giudice Ludgrove, perché a quell’ora esatta si trovava in tribunale. Il giudice possiede una Morris Oxford, ma la sua targa è CMG duecentosessantacinque. Vicino, eh? Proprio il genere di sbaglio che si fa quando si cerca di ricordare il numero di una targa.»

«Mi dispiace,» disse Sir Ronald «non capisco come...»

«Già,» fece l’ispettore capo Davy «non c’è proprio nulla da capire, vero? Solo... solo che era molto vicino al vero numero della targa, no? Duecentosessantacinque... duecentocinquantasei CMG. È veramente una coincidenza curiosa che ci sia stata una Morris Oxford proprio di quel colore e con un numero così poco diverso, così strettamente simile a quello giusto, guidata da un uomo che rassomigliava così tanto al giudice, che è brutto come il peccato.»

«Intende dire che...?»

«Solo una piccola differenza. Sembra quasi un errore volontario.»

«Eppure, Davy, non ci arrivo ancora.»

«Oh, suppongo che non si possa arrivare a nulla. C’è una Morris Oxford nera, CMG duecentosessantacinque, che avanza lungo la strada due minuti dopo la rapina alla banca. Un poliziotto riconosce al volante il giudice Ludgrove.»

«Intende dire che era veramente il giudice Ludgrove? Via, Davy!»

«No. Non voglio dire che si trattasse proprio del giudice Ludgrove o che lui sia coinvolto nella rapina alla banca. Il giudice era alloggiato al Bertram Hotel, in Pond Street, e nell’ora esatta della rapina si trovava in tribunale. È stato tutto controllato e provato. Dico solo che la targa, il tipo di macchina e il riconoscimento da parte di un poliziotto che conosceva il giudice di vista, rappresentano una serie di coincidenze che dovrebbero significare qualcosa, mentre in effetti non ci spiegano niente. Peccato!»

Comstock si agitò, preoccupato.

«Ci fu una altro caso simile a questo, connesso al furto dei gioielli a Brighton. Un vecchio ammiraglio, o qualcosa di simile. Ho dimenticato il nome, ora. Una donna lo identificò, asserendo che si trovava sul posto.»

«E invece non c’era?»

«No. Si trovava a Londra quella notte. C’era andato per un pranzo all’ammiragliato o qualcosa del genere, mi pare.»

«Alloggiava al suo club?»

«No. In albergo... mi pare che fosse quello che lei ha appena menzionato, papà Davy. Il Bertram, vero? Un posto tranquillo. Ci vanno molti vecchi militari in congedo, a quanto so.»

«Il Bertram» ripeté l’ispettore capo Fred Davy con aria assorta.

5

 

Miss Marple si svegliò presto perché tale era la sua abitudine. Era molto soddisfatta del suo letto.

Camminò a piccoli passi fino alla finestra e tirò le tendine, lasciando entrare la fioca luce di una pallida mattinata londinese. Tuttavia non spense la luce elettrica e indugiò nel piacere di osservare la bella camera che le avevano assegnato. Carta da parati a fiori rosa, un cassettone di castagno ben lucidato e una toilette nello stesso stile. Due sedie diritte, una poltrona con il sedile a un’altezza ragionevole dal pavimento. Una porta conduceva nel bagno, che era moderno, ma in parte tappezzato con una carta a roselline che eliminava ogni impressione di freddo ambiente sanitario.

Miss Marple se ne tornò a letto, sprimacciò i cuscini mettendoli dietro alla schiena, gettò un’occhiata alla sveglia – erano le sette e mezzo – e prese il piccolo libro di preghiere che rappresentava la sua razione quotidiana. Quindi raccolse il lavoro a maglia e cominciò a sferruzzare dapprima lentamente, perché appena sveglia le sue dita erano sempre intorpidite e doloranti per via dei reumatismi, quindi sempre più in fretta via via che le mani riprendevano elasticità.

“Un altro giorno” si disse Miss Marple, salutando il mattino con il suo consueto, gentile buon umore. Un altro giorno, e chissà cosa le avrebbe portato...

Si rilassò e, abbandonando il suo lavoro a maglia, lasciò libero sfogo all’ondata di ricordi che le passavano per il capo... Selina Hazy... che graziosa casetta aveva avuto a St Mary Mead... e adesso qualcuno vi aveva messo quel brutto tetto verde. E le tartine... assorbivano tanto burro, ma com’erano buone! E che sorpresa veder servire la torta di uvette passite, fatta all’antica! Non si sarebbe mai aspettata davvero che le cose fossero rimaste le stesse di una volta perché, dopo tutto, il tempo non cessa mai di scorrere e per fermarlo in quel modo occorre sborsare un mucchio di quattrini. Non c’era neanche un pezzettino di plastica in tutto l’albergo! Doveva rendere, però, pensò Miss Marple. La roba vecchia ritorna di moda. Bastava vedere come erano richieste le rose tradizionali e come nessuno voleva più il tè miscelato! Tutto sembrava irreale in quell’albergo e perché mai? Erano cinquanta, no, quasi sessant’anni che non veniva al Bertram e adesso le sembrava irreale starci, perché si era ormai abituata all’anno in cui viveva. A pensarci bene era proprio una cosa curiosa... quell’atmosfera... quella gente... una serie di problemi si affacciarono alla mente della vecchia signorina e le sue dita cessarono di sferruzzare.

«Stradine poco conosciute» mormorò ad alta voce «difficili da trovare...»

Forse per questo la sera prima aveva provato quella strana sensazione di insicurezza, la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Tutta quella gente anziana, poi, era quasi identica a quella che aveva trovato quando aveva alloggiato al Bertram la prima volta.

Allora quei vecchietti avevano un’aria naturale mentre adesso non l’avevano affatto. Le persone anziane d’oggigiorno non sono più come le persone anziane d’allora... Anche i vecchi ormai hanno lo sguardo ansioso delle persone cariche di problemi domestici che non riescono a risolvere, oppure l’aria affannata di chi vuole apparire pieno di energia e à la page correndo di qua e di là nei vari comitati. Le vecchie dame si tingono i capelli d’azzurroargento o mettono la parrucca, e le loro mani non sono più le morbide mani delicate che Jane Marple ricordava, ma sono ruvide e arrossate a causa dei piatti da lavare e dei detersivi.

Ecco perché quella gente non pareva vera. Eppure erano lì, Selina Hazy era lì e anche quel bel militare seduto nell’angolo era vero... lo aveva incontrato una volta, sebbene non se ne ricordasse il nome... e il vescovo, caro Robbie...

Miss Marple diede un’occhiata alla sua sveglia. Erano le otto e trenta, l’ora di fare colazione.

Esaminò le istruzioni fornite dall’albergo e stampate a grandi caratteri ben chiari cosicché non vi era bisogno di mettersi gli occhiali.

I pasti si potevano ordinare sia per telefono, chiedendo del servizio ristorante, oppure suonando il campanello con la targhetta CAMERIERA.

Miss Marple premette il campanello, perché si confondeva sempre quando parlava con il servizio ristorante. Il risultato fu ottimo. In meno di un attimo si udì un leggero colpo alla porta e quindi apparve una cameriera dall’aria efficiente. Un’autentica cameriera che indossava una divisa a righine color lavanda e una crestina inamidata, e sorrideva con un viso roseo e contento da robusta ragazza di campagna. Miss Marple ordinò la colazione. Tè, uova in camicia, panini freschi. La cameriera era così perspicace che non menzionò neppure i cereali e il succo d’arancia.

Cinque minuti dopo la colazione era servita.

Un comodo e ampio vassoio con una grossa teiera panciuta, latte che pareva crema, un bricco d’argento pieno d’acqua calda. Due magnifiche uova in camicia su pane tostato, morbide al punto giusto, con sopra dei bei fiocchetti di burro freschissimo. Marmellata d’arancia, di fragole e miele. Panini fragranti e deliziosi, non con l’interno molle e colloso, ma veramente croccanti e profumati. C’erano anche una mela, una pera e una banana.

Miss Marple infilò la forchetta nell’uovo con sicurezza e non fu delusa. Il tuorlo sgusciò fuori ricco, spesso, cremoso, di un bel colore giallo scuro. Anche le uova erano autentiche uova!

E tutto ben bollente. Una vera colazione. Come se l’avesse preparata lei stessa, solo che non aveva dovuto farlo! Le era stata servita come se fosse stata... no, non una regina, ma una signora di mezza età del 1909, alloggiata in un buon albergo ma non di lusso.

Jane Marple espresse il suo compiacimento alla cameriera che le fece un bel sorriso.

«Sì, signorina,» rispose «lo chef ci tiene moltissimo alla prima colazione.»

La vecchia signorina esaminò la ragazza con attenzione. Il Bertram riusciva veramente a produrre delle meraviglie. Si pizzicò di nascosto il braccio perché le pareva di sognare.

«È tanto che lavora qui?» chiese.

«Poco più di tre anni, signorina.»

«E prima?»

«Ero in un albergo a Eastbourne, molto lussuoso e pieno di comodità moderne, ma preferisco questo all’antica.»

La vecchietta prese un sorso di tè, poi si mise a canticchiare, senza avvedersene, una canzone dimenticata da tempo.

La cameriera le rivolse uno sguardo un po’ stupito.

«Mi è venuta in mente una vecchia canzone» cinguettò Miss Marple, scusandosi. «Era molto popolare, una volta.»

Riprese a cantare. «“Oh, dove sei stata durante tutta la mia vita...” Forse la conosce?» domandò.

«Veramente...» fece in tono dubbioso la cameriera.

«È troppo vecchia per lei. Eh, in un posto come questo vengono alla mente tante cose.»

«Sì, signorina. Molte signore che alloggiano qui hanno questa sensazione, credo.»

«Forse, in parte, questa è la ragione per cui vengono» ribatté Miss Marple.

La cameriera uscì. Era evidentemente abituata alle vecchiette cinguettanti e piene di ricordi.

Jane Marple finì la colazione e si alzò con calma. Aveva già preparato un piano per passare una piacevole mattinata a fare spese. Non troppe in una volta, naturalmente, per non stancarsi. Solo Oxford Street oggi, e domani Knightsbridge, si disse piena di eccitazione perché si divertiva moltissimo a fare progetti.

Erano circa le dieci quando l’anziana emerse dalla stanza completamente equipaggiata: cappello, guanti, ombrello nel caso piovesse, sebbene il tempo fosse bello, e borsetta, la sua più bella e capace borsetta per fare compere.

La porta accanto alla sua si aprì di colpo e qualcuno guardò fuori. Era Bess Sedgwick, che però si tirò subito indietro, richiudendo bruscamente.

Miss Marple ne fu meravigliata e imboccò pian piano le scale. Le preferiva all’ascensore, al mattino presto, perché le scioglievano un po’ le articolazioni. I suoi passi si fecero ancora più lenti... poi si fermò.

Mentre il colonnello Luscombe camminava a lunghi passi per il corridoio, verso la sua camera, una porta in cima alle scale si spalancò d’improvviso e Lady Sedgwick lo chiamò.

«Eccoti, finalmente!» disse. «È un pezzo che faccio la guardia per vederti. Dove possiamo andare a parlare? Un posto dove non ci si imbatta in qualche vecchia gallina ogni minuto.»

«Veramente, Bess, non saprei proprio. Credo che al mezzanino ci sia una specie di sala di scrittura.»

«Farai meglio a entrare qui. Presto! Prima che la cameriera si faccia delle idee sul nostro conto!»

Piuttosto controvoglia, il colonnello Luscombe attraversò la soglia e si richiuse la porta alle spalle.

«Non avevo la minima idea che tu fossi qui, Bess. Non l’avrei mai immaginato.»

«Ci credo.»

«Voglio dire... non avrei mai portato Elvira in questo albergo. Ho portato Elvira qui, sai?»

«Sì. L’ho vista ieri sera.»

«Ma veramente non sapevo che tu fossi qui. Mi pareva un posto dove non saresti mai venuta.»

«Non vedo perché» rispose Bess Sedgwick freddamente. «È uno degli alberghi di gran lunga più comodi di Londra. Perché non ci dovrei venire?»

«Devi capire che non avevo la minima idea... voglio dire...»

Bess Sedgwick lo guardò e scoppiò in una risata. Era pronta per uscire e indossava un tailleur scuro di ottimo taglio e una camicetta color verde smeraldo. Sembrava allegra e piena di vita, tanto che per contrasto il colonnello pareva molto vecchio e consunto.

«Caro Derek, non essere così preoccupato. Non ti accuso di cercare di mettere in scena un incontro melodrammatico tra madre e figlia. È solo una di quelle cose che capitano, la gente si incontra nei posti più strani. Ma tu devi tirar via di qui Elvira, Derek. Devi portarla via, subito!»

«Oh, sta per andar via. Voglio dire che l’ho portata qui solo per una o due notti. La condurrò a teatro... o qualcosa del genere. Andrà dai Melford domani.»

«Povera ragazza, chissà come si annoierà» disse Lady Sedgwick.

Luscombe la guardò costernato.

«Credi che si annoierà molto?» chiese.

Bess s’intenerì.

«Forse no. Non dopo la severità della scuola in Italia. Forse può trovarli perfino emozionanti.»

Luscombe prese il coraggio a due mani.

«Senti, Bess. Ho sussultato quando ti ho vista qui, ma non credi che sia stato, be’... cerca di capirmi, una specie di destino? Voglio dire che potrebbe essere l’occasione buona... perché tu non sai effettivamente cosa senta la ragazza.»

«Cosa stai cercando di dirmi, Derek?»

«Tu sei la madre, lo sai.»

«Certo che sono sua madre e lei è mia figlia. E con ciò? Questo fatto non ha procurato niente di buono né a me né a lei.»

«Non puoi esserne sicura. Io credo che lei ci pensi.»

«Cosa ti ha dato quest’idea?» chiese seccamente Bess Sedgwick.

«Qualcosa che mi ha detto ieri. Mi ha domandato dov’eri e cosa stavi facendo.»

La donna attraversò la stanza fino alla finestra, dove si appoggiò tamburellando con le dita sui vetri.

«Sei così caro, Derek» disse. «Hai delle idee così carine, ma che non funzionano, povero angelo! Ecco quello che devi ricordarti di dire a te stesso. Non funzionano e potrebbero essere pericolose.»

«Oh, via, Bess. Pericolose?»

«Sì, sì! Pericolose. Io sono pericolosa. Sono sempre stata pericolosa.»

«Quando penso ad alcune delle cose che hai fatto» disse il colonnello.

«Sono affari miei» ribatté Bess Sedgwick. «Per me è una specie di abitudine correre dei rischi. Un’abitudine di cui non so fare a meno, una droga. Qualcosa come la bustina di eroina che i drogati devono prendere ogni tanto per vedere la vita piacevolmente colorata e meritevole di essere vissuta. Ecco, per me va bene così, anche se sarà la mia fine, o forse no, non si può mai dire. Non ho mai preso stupefacenti, non ne ho mai avuto bisogno. La mia droga è il pericolo. Tuttavia la gente che vive come me può essere fonte di danno per gli altri. Perciò non essere un vecchio sciocco ostinato, Derek. Tieni quella ragazza ben lontana da me. Io non posso aiutarla, solo danneggiarla. Se ti è possibile, fa’ che non sappia neppure che mi trovavo nel suo stesso albergo. Telefona ai Melford e portala da loro oggi stesso. Cerca qualche scusa, di’ che si tratta di un caso di emergenza...»

Il vecchio militare si tirò i baffi con aria esitante.

«Penso che tu stia commettendo un errore, Bess» disse con un sospiro. «Mi ha chiesto dov’eri. Le ho detto che eri all’estero.»

«Benissimo, ci sarò tra dodici ore e cosi tutto sarà a posto.»

La nobildonna si avvicinò al colonnello, lo baciò sulla punta del mento, lo fece girare rapidamente su se stesso, aprì la porta e gli diede una leggera spinta per mandarlo fuori. Mentre la porta gli si richiudeva dietro le spalle, Luscombe notò una vecchietta che girava lentamente l’angolo venendo su per le scale e brontolando tra sé, mentre frugava nella borsetta: «Povera me, povera me. Devo averlo lasciato in camera».

La vecchietta passò accanto al colonnello senza prestargli apparentemente molta attenzione, ma quando lui cominciò a scendere giù per le scale, Miss Marple si fermò accanto alla porta della stanza e vi diede un’occhiata.

Poi girò lo sguardo alla porta di Lady Sedgwick. “Ecco, dunque, chi stava aspettando,” si disse Jane Marple “e mi domando come mai.”

Il canonico Pennyfather, rinvigorito dalla colazione, vagabondò per il salone, si fece strada attraverso le porte girevoli e fu gentilmente introdotto in un tassì dal portiere irlandese preposto a questo ufficio.

«Dove va, signore?»

«Oh, povero me,» disse il canonico con voce smarrita «vediamo un po’, dove devo andare?»

Il traffico in Pond Street fu ingorgato per alcuni minuti mentre il portiere e il canonico Pennyfather discutevano sulla destinazione di quest’ultimo. Alla fine il vecchio canonico ebbe un lampo di genio e il tassì venne indirizzato verso il British Museum.

Il portiere rimase solo sul marciapiede, la faccia atteggiata a un sorriso divertito e poiché pareva che nessun altro dovesse uscire, si mise a passeggiare, fischiettando in sordina una vecchia canzonetta, sotto la facciata dell’albergo.

Una delle finestre del pianterreno del Bertram fu spalancata di colpo, ma il portiere non voltò neppure la testa finché una voce non gli parlò d’improvviso, attraverso la finestra aperta.

«Così, ecco dove ti sei andato a cacciare, Micky. Come diavolo hai fatto a finire in questo posto?»

L’alto irlandese si voltò di colpo, sbalordito.

Lady Sedgwick s’affacciò al davanzale.

«Non mi riconosci?» chiese.

Il viso dell’uomo s’illuminò nel ricordo.

«Ma come! È la mia piccola Bessie! Non riesco a crederci. Dopo tutti questi anni. La piccola Bessie.

Nessuno eccetto te mi ha mai chiamato Bessie. È un nome rivoltante. Che cos’hai fatto in tutti questi anni?»

«Un po’ di tutto» rispose Micky enigmatico. «Non sono stato sui giornali come te. Ho letto che ne hai combinate delle belle.»

Bess Sedgwick scoppiò a ridere.

«In ogni modo mi sono conservata meglio di te» esclamò. «Bevi troppo. L’hai sempre fatto.»

«Ti sei conservata meglio perché sei sempre stata piena di soldi.»

«I soldi a te non sarebbero serviti a niente. Avresti solo bevuto di più e ti saresti rovinato del tutto. Oh, certo. Saresti andato diritto all’inferno. Ma che cosa ti ha portato qui? È questo che voglio sapere. Com’è che sei stato assunto in questo posto?»

«Cercavo un lavoro. Avevo queste...» rispose l’uomo, passandosi lentamente una mano sulla fila di medaglie.

«Capisco,» rispose Lady Sedgwick pensosa «e tutte genuine, vero?»

«Certo che sono genuine, perché non dovrebbero esserlo?»

«Oh, ti credo. Sei sempre stato un buon lottatore. Hai sempre avuto coraggio da vendere. Sì. Nell’esercito ci stavi bene, ne sono sicura.»

«L’esercito va bene in guerra, ma in pace non mi va proprio.»

«Perciò ti sei messo a far questo. Non avevo la minima idea che...» Bess Sedgwick s’arrestò.

«Quale idea, Bessie?»

«Niente. È curioso rivederti dopo tutti questi anni.»

«Io non ho dimenticato» disse l’uomo. «Non ti ho mai dimenticata, Bessie. Ah, che bella ragazza eri! Un vero bijou

«Ero una ragazzina cretina, ecco cos’ero!» rispose la donna.

«Questo è vero. Eri un po’ pazza. Altrimenti non ti saresti messa con me. E che mani avevi per tenere i cavalli. Ricordi quella cavalla, come si chiamava, accidenti? Molly O’Flynn. Ah, che diavolo scatenato era.»

«Tu eri l’unico che riusciva a tenerla» aggiunse Lady Sedgwick.

«Mi avrebbe disarcionato se avesse potuto. Ma quando s’accorse che non ce la faceva, cedette. Una vera bellezza, era. Ma parlando di cavalli c’è da dire che nessuna donna cavalcava bene come te, da quelle parti. Come stavi bene in sella, che belle mani. Non avevi mai paura, neanche un minuto! E da allora sei sempre stata tale e quale, mi pare. Aeroplani, macchine da corsa...»

Bess Sedgwick rise.

«Devo ritornare alle mie lettere» disse e si ritirò dalla finestra.

Micky si appoggiò alla balaustra.

«Non ho dimenticato Ballygowlan» disse con voce carica di sottintesi. «A volte ho pensato di scriverti.»

«Che intendi dire, con questo?» ribatté la donna duramente.

«Dico solo che non ho dimenticato... niente. Volevo solo ricordartelo, insomma.»

La voce di Bess risuonò ancora aspra e dura.

«Se vuoi dire ciò che io penso tu voglia dire, ti darò un bel consiglio, Micky. Prova a darmi fastidio e ti sparo con la stessa facilità con cui sparerei a un topo. Ho già ammazzato degli uomini.»

«Forse all’estero...»

«All’estero o qui per me è lo stesso.»

«Oh, buon Dio! Non nutro alcun dubbio sul fatto che lo faresti» esclamò l’irlandese con ammirazione. «A Ballygowlan...»

«A Ballygowlan» l’interruppe la donna «ti pagarono per tenere il becco chiuso e ti pagarono bene. Hai preso quel denaro e non credere di averne altro da me, perché non te ne darò.»

«Sarebbe una bella storia romantica per i giornali della domenica.»

«Hai sentito ciò che ho detto.»

«Ah!» rise il portiere. «Non faccio sul serio. Sto scherzando. Non farei mai niente che potesse danneggiare la mia piccola Bessie. Terrò la bocca chiusa.»

«Bada di farlo» disse Lady Sedgwick, richiudendo la finestra. Abbassò gli occhi sullo scrittoio e fissò la lettera non terminata. La prese, la rilesse, l’accartocciò e la gettò con rabbia nel cestino della carta straccia.

Poi spostò la sedia e uscì rapidamente dalla stanza senza neanche gettare attorno uno sguardo.

Le sale di scrittura più piccole del Bertram davano spesso l’impressione di esser vuote mentre in realtà non lo erano. Davanti alle finestre c’erano due scrittoi ben forniti, alla sinistra un tavolo con dei giornali e a destra due ampie poltrone, dall’alto schienale, rivolte verso il caminetto. Queste poltrone erano il rifugio preferito, durante il pomeriggio, degli anziani pensionati dell’esercito o della marina che vi si nascondevano tutti contenti per farci un sonnellino fino all’ora del tè. Chiunque entrasse per scrivere una lettera molto spesso non li notava neppure. Di mattina, solitamente, le poltrone non erano molto richieste, tuttavia in quella particolare mattinata accadde che fossero entrambe occupate. Un’anziana signora ne occupava una e nell’altra era seduta una ragazzina. Costei si alzò in piedi, rimase immobile per un momento a guardare confusa la porta attraverso cui Lady Sedgwick era sparita e poi uscì anch’essa lentamente.

Il viso di Elvira Blake aveva un pallore mortale.

Passarono altri cinque minuti prima che la vecchietta si muovesse. Quindi Miss Marple decise che il riposino che si concedeva sempre dopo essersi vestita e aver sceso le scale era durato abbastanza. Era ora di uscire e di godersi i piaceri di Londra. Poteva, forse, andare a piedi fino a Piccadilly e prendere l’autobus n. 9 fino a High Street, Kensington, oppure poteva camminare per Bond Street e prendere il 25 fino a Marshall & Snelgrove oppure prenderlo nell’altro senso che, se ben ricordava, l’avrebbe portata ai magazzini dell’Unione Militare. Passando attraverso le porte girevoli, l’anziana signorina già pregustava queste delizie. Il portiere irlandese, che era tornato al lavoro, prese una decisione per lei.

«Le chiamo un tassì, signorina» disse con fermezza.

«Non credo di averne bisogno» rispose Miss Marple. «Credo ci sia un autobus che posso prendere qui vicino.»

«È meglio di no» sostenne con decisione il portiere. «È molto pericoloso saltare sugli autobus quando si è un po’ avanti con gli anni. E quelle frenate e quelle partenze improvvise danno certi scossoni che possono farla cadere. Non c’è più un briciolo di gentilezza, al giorno d’oggi. Le fischio per un tassì e andrà dove vorrà, come una regina.»

Jane Marple capitolò.

«Va bene, allora» rispose. «Forse farei meglio a prendere un tassì.»

L’irlandese non ebbe neanche bisogno di fischiare. Schioccò semplicemente le dita e un tassì apparve, come per magia. L’anziana signorina fu aiutata a salirvi, con molta gentilezza, e decise, lì per lì, di andare da Robinson & Cleaver per ammirare la loro splendida vendita speciale di lenzuola di puro lino. Si appoggiò felice al sedile del tassì e si sentì una regina, proprio come il portiere le aveva promesso. Aveva la mente piena di immagini di lenzuola di lino, federe e canovacci per i piatti senza quelle solite figure di banane, fichi, cani ammaestrati e altre distrazioni pittoriche, che danno tanto fastidio mentre si stanno asciugando i piatti.

Lady Sedgwick si avvicinò al bancone del bureau.

«Il signor Humfries è in ufficio?» chiese.

«Sì, Lady Sedgwick» rispose la signorina Gorringe, sobbalzando.

Lady Sedgwick passò dietro al banco, bussò leggermente alla porta ed entrò senza aspettare risposta.

Il signor Humfries la guardò, sorpreso.

«Chi ha assunto quell’uomo, Michael Gorman?»

«Parfitt se n’è andato» farfugliò il signor Humfries. «Ha avuto un incidente d’auto un mese fa e abbiamo dovuto sostituirlo in gran fretta. Quest’uomo sembrava a posto. Referenze buone, ex militare con ottime note. Forse non molto intelligente, ma questo è meglio, talvolta. Sa qualcosa di lui?»

«Abbastanza per non vederlo qui.»

«Se insiste» disse lentamente Humfries «possiamo licenziarlo.»

«No» rispose Lady Sedgwick. «No. È troppo tardi per farlo.»

6

 

«Elvira.»

«Ciao, Bridget.»

La nobildonna Elvira Blake spinse la porta n. 180 di Onslow Square che la sua amica Bridget si era precipitata ad aprire, dopo averla vista attraverso la finestra.

«Andiamo di sopra» disse Elvira.

«Sì. Sarebbe meglio. Altrimenti mammina ci blocca.»

Le due ragazze corsero su per le scale, prevenendo la madre di Bridget che arrivò sul pianerottolo, dalla propria stanza, proprio un istante dopo.

«Sei veramente fortunata a non avere una madre» disse Bridget quasi senza fiato, mentre introduceva l’amica in camera sua e chiudeva energicamente la porta. «Voglio dire, mammina è carina, eccetera, ma fa continuamente domande! Dal mattino a mezzogiorno fino a sera.»

«Forse sarà perché non ha altro a cui pensare» rispose distrattamente Elvira. «Ascolta, Bridget, c’è una cosa terribilmente importante che devo assolutamente fare e tu mi devi aiutare.»

«Bene. Lo farò se potrò. Di che si tratta? Di un uomo?»

«No. A dire la verità non è questo» rispose Elvira. Bridget la guardò delusa. «Ma adesso devo andarmene in Irlanda per ventiquattr’ore o forse più e tu devi coprire la mia assenza.»

«In Irlanda? E perché?»

«Non posso dirtelo, adesso. Non c’è tempo. Devo incontrarmi per colazione al Prunier con il mio tutore, il colonnello Derek Luscombe, all’una e mezzo.»

«Cosa ne hai fatto della Carpenter?»

«L’ho licenziata.»

Bridget fece una risatina.

«Dopo colazione» proseguì Elvira «mi porteranno dai Melford. Vivrò con loro finché avrò ventun anni.»

«È spaventoso!»

«Spero di cavarmela. La cugina Mildred la posso ingannare con la massima facilità. Siamo d’accordo che verrò in città per andare a scuola e per altre cose. C’è un posto che chiamano “Il Mondo d’Oggi” dove ti portano a conferenze, ai musei, alle gallerie d’arte e roba del genere. Il punto è che nessuno può mai sapere se tu ti trovi dove dovresti essere, oppure no. Riusciremo a combinare un mucchio di cose.»

«Spero proprio di sì» fece Bridget con una risatina. «Ci siamo riuscite in Italia, no? La vecchia “Maccheroni” credeva di essere così severa e non si è mai accorta di quello che riuscivamo a fare appena ci mettevamo d’impegno!»

Le due ragazze risero al ricordo piacevole delle loro ben riuscite marachelle.

«Però dovevamo fare un bel po’ d’imbrogli» ammise Elvira.

«E dire delle splendide bugie» aggiunse Bridget. «Hai avuto notizie da Guido?»

«Oh, sì. Mi ha scritto una lunga lettera firmata Ginevra, come se fosse una mia amica. Ma vorrei che tu la smettessi di chiacchierare tanto, Bridget, abbiamo un mucchio di cose da fare e solo un’ora e mezza a disposizione. Ora, prima di tutto, stammi a sentire. Verrò in città domani per un appuntamento con il dentista. È semplice. Lo rimanderò con una telefonata oppure potresti farmela tu da qui. Poi, verso mezzogiorno circa, dovrai telefonare ai Melford facendo finta di essere tua madre e spiegherai loro che il dentista vuole rivedermi il giorno dopo e che perciò mi ospiterete voi qui per la notte.»

«Dovrebbe andar via liscia. Diranno quanto siamo gentili e svenevolezze del genere. Ma supponiamo che tu non sia di ritorno il giorno dopo, e allora?»

«Allora dovrai fare delle altre telefonate.»

Bridget aveva l’aria dubbiosa.

«Avremo moltissimo tempo per scovare qualcosa prima di allora» disse Elvira con impazienza. «Ciò che mi preoccupa adesso è il denaro. Tu non ne hai, immagino, vero?» chiese la ragazza con poche speranze.

«Ho solo due sterline.»

«Non servono. Devo comprarmi il biglietto per l’aereo. Ho controllato i voli. Ci impiegano solo due ore. Molto dipende da quanto tempo mi ci vorrà quando arrivo lì.»

«Non puoi dirmi cosa devi fare?»

«No. Non posso. Ma è terribilmente, terribilmente importante.»

La voce di Elvira suonò così diversa che Bridget la guardò sorpresa.

«È una cosa grave, Elvira?»

«Sì. Lo è.»

«È qualcosa di cui nessuno deve saper niente?»

«Sì, qualcosa del genere. È un segreto. Devo scoprire se una certa cosa che ho saputo è vera oppure no. La scocciatura è quella dei soldi. Ciò che mi fa impazzire è che sono ricchissima, me l’ha detto il mio tutore. Ma tutto ciò che mi passano è una misera rendita per comprarmi dei vestiti e anche questa mi pare che se ne vada appena la ricevo.»

«Il tuo tutore, il colonnello Vattelappesca, non ti presterebbe un po’ di soldi?»

«Ma non posso chiederglieli. Mi farebbe un mucchio di domande per sapere a che cosa mi servono.»

«Oh, poveretta, credo proprio di sì. Non riesco a capire perché tutti hanno la mania di fare tante domande. Ma lo sai che se qualcuno mi telefona, mammina chiede subito chi è?»

Elvira annuì, ma i suoi pensieri seguivano un’altra direzione.

«Hai mai impegnato qualcosa, Bridget?»

«No. Mai. Non saprei come si fa.»

«È molto semplice, credo» rispose Elvira. «Si va da una specie di gioielliere e ci si mette d’accordo sul valore dell’oggetto.»

«Non credo di aver niente che possa valere la pena di portare a un’agenzia di pegno.»

«Tua madre dove tiene i gioielli?»

«Non possiamo certo chiederglieli.»

«No. Certo che no. Ma potremmo sempre portarle via qualcosa.»

«Oh, no!» esclamò Bridget scandalizzata. «Non possiamo fare una cosa simile.»

«No? Be’, forse hai ragione. Ma scommetto che non se ne accorgerebbe. Potremmo rimetterli a posto prima che li cerchi. Ho un’idea. Andremo dal signor Bollard.»

«Chi è il signor Bollard?»

«Oh, è una specie di gioielliere di famiglia. Porto sempre lì il mio orologio per farlo aggiustare. Mi conosce da quando avevo sei anni. Su, su, Bridget, andiamoci immediatamente. Siamo appena appena in tempo.»

«È meglio che usciamo dalla porta di servizio, così mamma non ci chiederà dove andiamo.»

Fuori del vecchio e solenne negozio di Bollard e Whitley in Bond Street le due ragazze presero gli accordi definitivi.

«Sei sicura di aver capito bene, Bridget?»

«Mi pare di sì» rispose la ragazza con voce tutt’altro che allegra.

«Per prima cosa» proseguì Elvira «sincronizziamo gli orologi.»

Bridget si rincuorò immediatamente. La frase caratteristica e familiare la fece ritornare allegra.

Le due ragazze sincronizzarono solennemente gli orologi e fu Bridget a dover regolare il suo di ben un minuto.

«L’ora zero sarà ai venticinque minuti esatti» disse Elvira. «Così avrò molto tempo a disposizione, forse di più di quanto mi occorra, ma è meglio.»

«Però supponiamo...» incominciò Bridget.

«Supponiamo cosa?» chiese Elvira.

«Bene, senti, supponiamo che io venga veramente investita...»

«Figuriamoci se verrai investita!» esclamò Elvira. «Sai benissimo che hai ottime gambe e poi il traffico a Londra è abituato alle frenate improvvise. Andrà tutto bene.»

Bridget non pareva affatto convinta.

«Non mi pianterai in asso, vero, Bridget?» insisté Elvira.

«Va bene. Farò come vuoi.»

«Brava» disse Elvira.

Bridget attraversò Bond Street raggiungendo l’altro marciapiede ed Elvira spinse la porta della rinomata e antica gioielleria Bollard e Whitley. All’interno l’atmosfera era raccolta e silenziosa. Un gentiluomo in marsina avanzò e chiese a Elvira in cosa potesse esserle utile.

«Potrei vedere il signor Bollard?»

«Il signor Bollard? Chi devo annunciare?»

«La signorina Elvira Blake.»

Il gentiluomo sparì ed Elvira si spostò verso un banco dove, sotto la lastra di vetro, spille, anelli e braccialetti facevano mostra delle loro forme scintillanti contro il velluto verde sapientemente modellato.

«Oh, signorina Blake, così è a Londra. È un gran piacere vederla. Vediamo un po’ che cosa posso fare per lei.»

Elvira estrasse un grazioso orologino da sera.

«Questo orologio non funziona bene» disse. «Potrebbe farci qualcosa?»

«Oh, sì. Certamente. Nessuna difficoltà» rispose il signor Bollard prendendolo. «A quale indirizzo devo inviarlo?»

La ragazza gli diede l’indirizzo.

«C’è un’altra cosa» proseguì Elvira. «Il mio tutore, il colonnello Luscombe, lo conosce?»

«Sì, sì, certamente.»

«Mi ha chiesto cosa mi piacerebbe come regalo di Natale e mi ha suggerito di venire qui a dare un’occhiata. Mi ha chiesto se volevo che venisse con me ma io gli ho detto che preferivo venire da sola, prima. Perché è sempre un po’ imbarazzante, non è vero? Voglio dire, per via del prezzo e tutto il resto.»

«Be’, certamente, in parte è vero» rispose il signor Bollard sorridendo con l’aria di un vecchio zio. «E ora mi dica: che cosa aveva in mente, signorina? Una spilla, un braccialetto, un anello?»

«Penso che le spille siano senz’altro più utili. Ma mi chiedo... potrei guardare anche altri gioielli?» disse Elvira, alzando uno sguardo supplichevole. Il negoziante fece un largo sorriso d’approvazione.

«Certamente, certamente. Non c’è alcun divertimento se bisogna decidere in fretta, vero?»

I cinque o sei minuti successivi trascorsero piacevolmente.

Il signor Bollard si prodigò in ogni maniera, prendendo i gioielli dai vari vassoi, sicché presto un buon numero di spille e braccialetti, stesi su un tappetino di velluto, fecero bella mostra davanti a Elvira. La ragazza si girava di quando in quando per guardarsi in uno specchio e controllare l’effetto di una spilla o di un orecchino. Alla fine, piuttosto incerta, scelse un grazioso braccialettino, un piccolo orologio da polso con brillanti, due spille, e li posò con arte.

«Faremo un elenco di questi» disse il signor Bollard «e poi quando il colonnello Luscombe verrà a Londra la prossima volta, forse verrà a vedere che cosa gli piacerebbe comprarle.»

«Penso che così andrà benissimo» disse Elvira. «In questo modo avrà l’impressione di avermi scelto il regalo da solo, lui in persona.»

I suoi occhi azzurri e limpidi fissarono il viso del gioielliere. Un istante prima lo stesso sguardo innocente aveva controllato che erano esattamente venticinque minuti dopo l’ora stabilita.

Fuori ci fu uno stridio di freni e un grido acuto di donna. Inevitabilmente gli occhi di tutti nel negozio si volsero alle finestre che davano su Bond Street. Il movimento della mano di Elvira sul banco di fronte a lei e poi giù in una tasca del suo elegante tailleur fu talmente rapido e discreto che non sarebbe stato notato da nessuno anche se l’avessero guardata.

«Quasi quasi» disse il signor Bollard rigirandosi dopo aver guardato fuori dalla finestra verso la strada «finiva sotto. Che ragazzina sciocca! Attraversare la strada a quel modo.»

Elvira si stava già muovendo verso l’uscita. Diede un’occhiata al suo orologio da polso e gettò una esclamazione.

«Povera me! Mi sono fermata qui troppo tempo. Perderò il mio treno per tornare in campagna. Grazie tantissime, signor Bollard, non dimenticherà quali sono i quattro oggetti, vero?»

Un minuto dopo la ragazza era fuori. Svoltò rapidamente a sinistra e poi ancora una volta a sinistra e si fermò sotto il portico di un negozio di scarpe finché Bridget, quasi senza fiato, la raggiunse.

«Ah,» esclamò questa «ero terrorizzata. Ho creduto che mi avrebbero ammazzata e mi sono fatta anche un buco nella calza.»

«Non pensarci» ribatté Elvira facendo accelerare il passo alla sua amica finché al primo angolo svoltarono a destra.

«È... è andata bene?»

La mano di Elvira scivolò nella tasca del tailleur e ne uscì tenendo ben stretto nel palmo il braccialetto di zaffiri e diamanti.

«Oh, Elvira,» esclamò Bridget, guardandolo «come hai potuto!»

«Senti Bridget, adesso devi andare svelta in quel negozio di pegni di cui abbiamo preso l’indirizzo. Vacci e vedi un po’ quanto ti puoi far dare per questo. Chiedi almeno cento sterline.»

«Ma non credi... se per caso dicono... capisci, se è nell’elenco dei gioielli rubati...» balbettò la ragazzina.

«Non fare la sciocca. Come potrebbe essere già nell’elenco? Ancora non si saranno accorti che è sparito.»

«Ma, Elvira, quando si accorgeranno che è sparito penseranno, dedurranno, che devi essere stata tu a prenderlo.»

«Può darsi che lo pensino, se lo scoprono subito.»

«Bene, allora andranno alla polizia e...»

Bridget s’interruppe guardando l’amica che sorrideva enigmaticamente e scuoteva il capo facendo sventolare i lunghi serici capelli biondi.

«Non andranno alla polizia, Bridget. Non ci andranno di certo se penseranno che sono stata io a prendere il braccialetto.»

«Perché, cosa vuoi dire?»

«Come ti ho detto, avrò un mucchio di soldi quando sarò maggiorenne e sarò in grado di comprare molti gioielli da loro. Perciò non faranno uno scandalo. Va’, corri a prendere quel denaro e poi alla compagnia dell’Aer Lingus e prenotami un biglietto. Io devo prendere un tassì per andare da Prunier. Sono già in ritardo di dieci minuti. Ci rivedremo domani mattina alle dieci e mezzo.»

«Oh, Elvira, come vorrei che tu non corressi simili rischi» si lamentò Bridget.

Ma Elvira stava già facendo cenno a un tassì.

Miss Marple trascorse delle ore piacevolissime da Robinson & Cleaver. Oltre ad acquistare delle lenzuola carissime ma molto belle (le piacevano le lenzuola di lino per la loro freschezza e morbidezza), si lasciò indurre a comperare degli strofinacci bordati di rosso per asciugare i bicchieri, di ottima qualità. È così difficile ai nostri giorni trovare dei buoni strofinacci! Vi offrono, al loro posto, degli asciugapiatti che andrebbero meglio come tovagliette ornamentali, decorate con aragoste o insalata o la Tour Eiffel, Trafalgar Square oppure disseminate di limoni o arance. Dopo aver dato il proprio indirizzo di St Mary Mead l’anziana signorina prese l’autobus che più le conveniva per raggiungere i magazzini dell’Unione Militare.

L’Unione Militare era stata anni addietro il luogo di ritrovo favorito di Miss Marple. Allora, naturalmente, era diverso da adesso e l’anziana signorina risalì con i suoi ricordi fino alla zia Helen, con il cappellino e con quello che lei chiamava “il mio mantello di popeline nero”, a quando nel settore alimentare cercava il suo commesso preferito e quindi si sedeva comodamente su una sedia per fare le ordinazioni. Ordinazioni che duravano circa un’ora, senza che nessuno mettesse fretta e che comprendevano ogni concepibile alimento che potesse venire acquistato e conservato per lungo tempo. La zia Helen faceva le provviste per Natale e comprava anche qualche cosina per la lontana Pasqua. La giovane Jane, che si annoiava un po’, veniva spedita, per divertirsi, a dare un’occhiata nel reparto chincaglierie.

Una volta terminati gli acquisti, zia Helen era solita compiere lunghe e minuziose indagini sulla salute della madre, della moglie e della cognata invalida del commesso prescelto fino a che, trascorsa piacevolmente la mattinata, diceva scherzosamente con il tono faceto che si usava allora: «E questa bambinella che ne direbbe di fare colazione?». Al che salivano con l’ascensore fino al quarto piano e mangiavano, concludendo invariabilmente il pasto con il gelato di fragole. In seguito acquistavano una mezza libbra di cioccolatini al caffè e andavano a una matinée su un veicolo a quattro ruote.

Naturalmente i magazzini dell’Unione Militare avevano subito molti cambiamenti da allora. A dire il vero erano quasi irriconoscibili tanto erano diversi dai vecchi tempi. Tutto era più allegro e molto più lucente e Miss Marple, sebbene riandasse con un affettuoso e indulgente sorriso al passato, non era affatto contraria alle amenità del presente. Il ristorante esisteva ancora e vi si recò per fare colazione.

Mentre stava esaminando attentamente la lista delle vivande per decidere cosa prendere, gettò un’occhiata alla sala e le sue sopracciglia si sollevarono leggermente. Che coincidenza straordinaria! Ecco proprio lì una donna che non aveva mai visto fino al giorno prima, sebbene la conoscesse attraverso le fotografie sui giornali... Ieri, per la prima volta, l’aveva vista in carne e ossa, e ora, come spesso accade, ecco la coincidenza di incontrarla in un posto talmente insolito. Insolito per Bess Sedgwick naturalmente, perché Miss Marple non se la immaginava far colazione ai magazzini dell’Unione Militare.

Eppure eccola lì, Bess Sedgwick, molto elegante come al solito nel suo tailleur scuro e camicetta verde smeraldo, intenta a far colazione con un uomo. Un uomo giovane con un viso sottile, crudele, da rapace, che indossava una giacca di pelle nera. Erano chini l’uno verso l’altra e parlavano fitto, portando alla bocca forchettate di cibo senza accorgersi,probabilmente, di cosa stessero mangiando.

Un rendez-vous forse? Sì, senz’altro.

L’uomo doveva avere quindici o vent’anni meno della donna, tuttavia Bess Sedgwick aveva ancora un fascino quasi magnetico.

Miss Marple fissò il ragazzo, soppesandolo, e giunse alla conclusione che era ciò che lei definiva “un bel giovane”. Decise però anche che non le era simpatico.

“È proprio simile a Harry Russell” mormorò fra sé Miss Marple, ripescando un prototipo, come al solito, nel passato. “Non ha mai fatto nulla di buono. E neanche le donne che hanno avuto a che fare con lui non hanno mai combinato niente di buono.

“Lei non accetterebbe i miei consigli” pensò Miss Marple “ma qualcuno potrei dargliene.” Tuttavia le tresche amorose degli altri non erano affar suo e Bess Sedgwick, in ogni caso, sapeva senz’altro districarsi bene in situazioni del genere.

L’anziana signorina sospirò, mangiò quello che le avevano servito e meditò di fare una visita al reparto cartoleria.

La curiosità, o meglio ciò che lei preferiva definire “interesse per i fatti altrui”, era indubbiamente una delle caratteristiche della vecchietta. Lasciando deliberatamente i guanti sulla tavola, si alzò e attraversò la sala in direzione della cassa, seguendo un passaggio che la portò vicino al tavolo di Lady Sedgwick. Dopo aver pagato il conto s’accorse che le mancavano i guanti e tornò indietro a prenderli, facendo cadere, per colmo di sfortuna, la borsetta. La borsetta s’aprì e rovesciò fuori un mucchio di oggetti disparati. Una cameriera si precipitò per aiutarla a raccoglierli e Miss Marple fu costretta a far mostra di una grande agitazione, sicché le chiavi e alcune monetine le caddero di mano per la seconda volta.

Non ottenne molto con questi sotterfugi, sebbene non fossero completamente inutili. E fu interessante notare come le due persone oggetto della sua curiosità non degnassero neanche di un’occhiata la tremula vecchietta che continuava a perdere le sue cose.

Mentre Miss Marple attendeva di scendere con l’ascensore, ripeté mentalmente gli stralci di conversazione che aveva captato.

“Come sono le previsioni del tempo?”

“Ottime. Niente nebbia.”»

“Tutto sistemato per Lucerna?”

“Sì. L’aereo parte alle nove e quaranta.”

Questo era quanto aveva udito la prima volta. Sulla strada di ritorno la conversazione era stata più lunga e Bess Sedgwick parlava con tono adirato.

“Che diavolo t’ha preso di venire al Bertram, ieri! Non avresti dovuto avvicinarti a quel posto.”

“Niente di male. Ho chiesto se eri alloggiata lì e tutti sanno che siamo molto amici...”

“Non è questo il punto. Il Bertram va bene per me ma non per te. Ti si nota lontano un miglio. Tutti ti guardano con tanto d’occhi.”

“E che guardino pure!”

“Sei veramente un idiota. Perché ci sei venuto, che motivo avevi? Tu una ragione dovevi averla, ti conosco...”

“Calmati, Bess.”

“Sei un tale bugiardo!”

Ecco tutto quello che era riuscita a sentire. Lo giudicò molto interessante.

7

 

La sera del 19 novembre il canonico Pennyfather terminò di cenare presto all’Athenaeum.

Aveva salutato con un cenno del capo due suoi amici e aveva sostenuto una discussione piacevolmente caustica a proposito di alcuni punti importantissimi riguardanti la data da attribuire ai papiri del Mar Morto; poi aveva gettato un’occhiata all’orologio e si era accorto che era ora di andarsene se non voleva perdere l’aereo per Lucerna.

Mentre stava attraversando l’atrio, venne salutato da un altro amico, il professor Whittaker, che gli disse allegramente: «Come stai, Pennyfather? È molto che non ti vedo. Come ti è andata al Congresso? È emerso qualcosa di interessante?».

«Sono sicuro che ci sarà senz’altro.»

«Sei appena tornato, vero?»