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Se il tumore è metastatico
PARLARE di tumore metastatico non è semplice; non è semplice affrontare questo argomento con un paziente, non è facile farlo attraverso le pagine di un libro, non è facile in assoluto, perché è un argomento complesso, che tocca tanti, troppi aspetti della sfera personale, e che non può essere derubricato mediante suggerimenti, consigli, linee guida, che apparirebbero stonati agli occhi di chi sta vivendo questa situazione; magari, qualcuno che si trova in tale situazione sta leggendo queste pagine.
Ma cerchiamo di partire da un altro punto di vista, un approccio più positivo, che non guasta mai e lascia aperta la porta della speranza, quella porta che non deve mai essere chiusa, anche nelle situazioni più complicate.
Oggi in Italia vivono con un tumore metastatico della mammella circa 37.000 persone (in minima percentuale sono anche uomini); fino a pochi anni fa, questo numero era semplicemente impensabile. Ma non perché non avessimo le giuste stime del problema, non avessimo statistiche appropriate; questi numeri vanno letti cogliendo i numerosi fattori che hanno contribuito a farli crescere.
Poiché la vita si è allungata, dopo un tumore della mammella, e successivamente anche a un periodo lungo di cure, è una vita che nella maggior parte dei casi procede, va avanti, scorre senza intoppi, assicurandoci anche una buona qualità della vita. Abbiamo letto negli altri capitoli di donne che hanno avuto gravidanze, figli, dopo un tumore del seno, donne che hanno rimesso in gioco la loro vita personale, famigliare e lavorativa, donne che hanno incontrato purtroppo altri tipi di patologie cui far fronte e delle quali occuparsi, donne che hanno combattuto con una menopausa molto precoce, donne che hanno ricevuto una diagnosi di tumore della mammella alla soglia dei 100 anni. Una molteplicità di situazioni, ciascuna differente dall’altra, perché ogni singolo tumore, lo abbiamo già detto, è diverso dall’altro, come lo è ogni persona.
Oggi sappiamo molto di più, siamo consapevoli che conoscere un tumore del seno non significa sapere il suo nome e cognome, per esempio carcinoma duttale infiltrante, ma conoscere le molteplici e numerose caratteristiche (ricordate, le alterazioni genetiche del tumore?… Ma attenzione, non confondetele con il rischio genetico ereditario!) che lo rendono unico, o che al limite lo rendono simile, per il trattamento, al tumore di un altro organo. Sì, di un altro organo, perché l’espressione di alcune mutazioni genetiche del tumore non si chiamano mammella, ovaio, colon, polmone, ma sono sigle, spesso difficili da ricordare, che caratterizzano un aspetto molecolare del tessuto tumorale, che può risiedere e partire da organi e apparati diversi.
Ebbene, una vera rivoluzione sta interessando l’oncologia medica, una vera rivoluzione sta portando innovazioni farmacologiche sempre più mirate ed efficaci mediante le terapie personalizzate che tengano conto sì del tumore, ma anche, e soprattutto, del suo ospite, e di come i due si relazionano fra loro. Lo abbiamo già scritto: the best care for every patient, il miglior trattamento per ciascun paziente.
«Pronto? Potete trovarmi la professoressa Bonifacino? Avremmo necessità di una sua valutazione in pronto soccorso.»
Questa la chiamata che la mia caposala ha ricevuto circa due anni fa. Sono scesa dopo pochi minuti e ho trovato ad accogliermi i colleghi ortopedici. Elisa, una giovane donna di soli 35 anni con forti dolori alla colonna vertebrale e parestesie e formicolii alle gambe, era arrivata in pronto soccorso da qualche ora.
Gli esami di rito e poi una TC con mezzo di contrasto, che aveva messo in evidenza alcune lesioni ossee probabilmente di tipo ripetitivo, cioè provenienti da un altro organo. In pratica, delle metastasi. La TC non vedeva altro in altri organi, se non un qualcosa in una mammella, ma che non riusciva a definire con esattezza, in quanto la TC non è un’indagine d’elezione per lo studio del seno. La ragazza doveva rimanere necessariamente sdraiata, pertanto non era consigliabile portarla a eseguire una mammografia, mentre già i colleghi si stavano adoperando per un busto che bloccasse la colonna vertebrale al fine di non arrecare ulteriori danni. Così abbiamo effettuato un’ecografia, abbiamo trovato il nodulo della mammella e lo abbiamo prontamente caratterizzato. Subito con un esame citologico mediante agoaspirato, letto con la metodica ROSE (Rapid On Site Evaluation) che in un minuto ci ha dato la certezza che quello era l’organo di partenza della malattia. In seguito con una biopsia, le cui caratteristiche istologiche sono state definite pochi giorni più tardi. Sono trascorsi più di due anni, e la nostra cara Elisa sta bene. Sì, sta bene, in una stabilità di malattia che ha portato molti cambiamenti nella sua vita. E forse, sembra strano a dirsi, alcuni positivi. Elisa è molto giovane, e non sono certo queste le situazioni di salute che ci aspettiamo in questa età; in realtà, vorrei dire in nessuna età, ma questo discorso mi pare scontato e non utile.
Mi sembra invece importante parlare di come abbiamo affrontato la comunicazione della diagnosi e di come abbiamo iniziato insieme un percorso che, a distanza di due anni, ci sta dando grande soddisfazione. Instaurare un rapporto empatico è il primo passaggio fondamentale. Di fronte a una diagnosi così devastante per la vita di una giovane donna, Elisa doveva innanzitutto sapere che poteva fidarsi di me. Che non le avrei nascosto nulla e che avremmo fatto tutto, ma proprio tutto, per tirarla fuori dal buio di quel tunnel, fino a farle vedere di nuovo la luce.
Molte pazienti, ed Elisa è una di loro, mi dicono che il sorriso del medico aiuta. È un conforto per l’anima, e contemporaneamente fa capire che il medico sta entrando in sintonia con chi ha di fronte; in quel sorriso le pazienti spesso trovano il coraggio per scuotersi, per affidarsi, per affrontare. Elisa non è stata operata al seno e neanche sottoposta a un trattamento chemioterapico in senso stretto, ma ha dovuto iniziare cure personalizzate e mirate (inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 CDK 4/6 abbinati ad altro farmaco) che hanno prodotto e stanno producendo un ottimo effetto, di riduzione e progressivo controllo della malattia.
Almeno per il momento, non possiamo parlare di guarigione per quanto riguarda le persone metastatiche, ma arriveremo anche a questo (io sono fiduciosa!). Attualmente il tumore del seno di Elisa è quasi scomparso, lei non porta più il busto da tempo, è tornata a guidare l’auto, le lesioni delle ossa si sono ridotte, anche se ancora non scomparse del tutto. A questo punto possiamo forse parlare di una «pacifica convivenza» tra un ospite non gradito e una persona determinata, che insieme alla terapia è in grado di tenergli testa!
A proposito di testa… fino a pochi anni fa, questo risultato era inimmaginabile, senza l’utilizzo di chemioterapia e per giunta senza caduta degli amati capelli!
Ma il cambiamento che questa vicenda di salute ha portato nella vita di Elisa è altrettanto inimmaginabile. Una vita lavorativa fatta di un tran-tran quotidiano, un compagno con il quale condividere esistenza, casa, lavoro, amici, qualche viaggio. La malattia ha segnato uno stop e una lunga riflessione. Certo, nei primi mesi tutto è stato più difficile, l’essere immobile, la paura, le incertezze per il futuro, la fatica di accettare che qualcosa di troppo pesante da sopportare stesse accadendo proprio a lei. Ma più i mesi trascorrevano, più le terapie iniziavano a essere efficaci, più nella mente di Elisa si disegnava il futuro; un diverso futuro, che avrebbe messo in discussione innanzitutto la vita lavorativa fino ad allora condotta su un binario certo, ma forse monotono. Elisa ha scoperto la sua vera identità, la sua vera vocazione, ha dato una svolta radicale alla sua vita lavorativa. Ha capito quali sono le sue reali aspirazioni e i suoi desideri, e ha dato forma a questo nuovo progetto di vita. Non dirò, per non renderla troppo riconoscibile e per rispetto della sua privacy, quale sia oggi il suo lavoro. Ma è qualcosa di molto appagante, che le sta dando soddisfazioni e anche movimento. Elisa conosce il suo corpo, sa fino a dove può arrivare, e sa che deve sapersi ascoltare. Peraltro, si è resa disponibile nell’affiancarmi anche in diversi progetti della Onlus di cui sono presidente e della quale parleremo in seguito, impegnandosi in prima persona anche per i diritti dei pazienti oncologici.
Un argomento, quello del metastatico, che fino a qualche anno fa era sinonimo di fine della vita. La paura anche solo di pronunciare la parola metastasi, di leggerla, di ascoltarla. Un vero tabù, come lo è stato per decenni la parola tumore, fino a quando, soprattutto le associazioni di pazienti, hanno sdoganato questo termine, per il quale si provava anche vergogna. Vergogna? Ma cosa c’è da vergognarsi dietro una malattia?
Qualcosa di non voluto, che entra prepotentemente e all’improvviso a far parte del nostro corpo e della nostra vita. Come più di una paziente, ironizzando, dice: «E senza che nessuno lo abbia invitato!»
Il parlarne aiuta non poche persone al mondo. Aiuta a farle sentire meno sole. Aiuta a parlare con altre che si trovano sulla stessa barca, condividendo, usando un linguaggio comune, esorcizzando paure che se restassero inesplorate andrebbero fuori controllo e si ingigantirebbero come mostri nella nostra mente. Aiuta e ha aiutato istituzioni, enti, aziende del farmaco, affinché si ottenessero maggiori investimenti intorno alla prevenzione e alla cura, affinché fossero riconosciuti diritti, affinché si trattassero come persone normali le persone affette da tumore.
Non avete idea, oggi, quante delle persone che ci circondano hanno un problema metastatico di diversa origine e vivono, lavorano, svolgono tutte le attività del quotidiano, dando anche un valore diverso alla loro vita, più consapevole e responsabile. Basti pensare al melanoma, al tumore della mammella, del colon, del polmone. Persone che possiamo incontrare ogni giorno e che non riconosciamo, perché la maggior parte dei farmaci, delle molecole straordinarie di cui disponiamo, non producono sempre e necessariamente effetti collaterali visibili e, soprattutto, limitanti.
Alessandra, 57 anni, la ricevo in ospedale nella stanza che dedico ai colloqui. Non ha bisogno di una nuova visita, sa già che dopo un tumore del seno e uno dell’ovaio, la malattia è andata avanti a qualche anno dalle diagnosi e dagli interventi, avvenuti a distanza di due anni l’uno dall’altro. No, non è proprio stata fortunata questa donna che continua, in ogni caso, a darsi un gran da fare anche nel volontariato. Continua a lavorare a contatto con bambini piccoli in una scuola materna, come insegnante. Fa da mamma a due figli in età poco più che adolescenziale. Ma la malattia è ferma, si è fermata grazie alle terapie. Vuole parlarmi. Avverte qualcosa di diverso, o forse, come dice lei: «È solo un momento di maggiore stanchezza, ma poi passa». La vedo come si siede sulla sedia, e capisco che qualcosa non va. Da lì a fare un nuovo accertamento non trascorre molto, due giorni al massimo per organizzare, e in effetti la malattia ha fatto un passo avanti.
Importante è la tempestività, importante è saper ascoltare, ricordate? Nella maggior parte dei casi il paziente ha ragione. E se anche così non fosse, va ascoltato, va osservato. Una diagnosi tempestiva anche nel caso ci fosse qualche ulteriore problema può davvero salvare la vita. Ci consente di cambiare rotta e terapia rapidamente, trovando le soluzioni più idonee e più appropriate.
Certo, direte voi, di questo passo potrei farvi credere anche nell’immortalità. E vi sentireste presi in giro, come se ognuno di noi non avesse provato la perdita di un famigliare, un parente, un amico, un conoscente a causa di un tumore. Infatti, non intendo affatto sottovalutare, minimizzare, una problematica così importante; non voglio e non posso farvi credere che riusciamo a trovare una soluzione certa, sempre, per ciascuna situazione. Quello che vi ho descritto è la realtà, assistiamo ogni giorno a dei veri miracoli dell’oncologia medica, e anche della chirurgia oncologica, della radioterapia, della medicina nucleare. Ma in questi quarantun anni ne ho perse di pazienti, eccome se ne ho perse. Il numero di oggi non è certo paragonabile a quello di ieri, ma ogni donna che ho perso nel cammino la ricordo bene.
Spesso mi viene detto: «Puoi essere soddisfatta del tuo lavoro! Quante vite hai salvato, e quante donne ti devono riconoscenza per quello che fai e per come sei!»
No, non è esattamente così. A me bruciano le sconfitte. Il mio pensiero va più frequentemente alle vite che ho perso, piuttosto che a quelle che ho salvato. Lo so, non è dipeso da me, mentre è dipesa da me una diagnosi tempestiva e precoce, ma non posso farci nulla. È così. Spero solo che questi pensieri mi diano la forza di fare sempre di più e sempre meglio. E soprattutto che siano questi gli insegnamenti che attraverso la pratica quotidiana posso trasmettere ai giovani che fortunatamente «mi stanno tra i piedi» ogni giorno!
«Pronto? Posso parlarle un minuto?»
Questa telefonata mi arriva nella mia stanza in ospedale, appena tornata dalle ferie estive.
«Mi dica signora, qualcosa in cui posso esserle utile?»
«Forse lei non si ricorderà di me, sono la mamma di Rita…»
Rita, una ragazza che ho seguito per anni e che purtroppo non ce l’ha fatta. Ne sono passati quasi venticinque. Allora ero in I Clinica Chirurgica del Policlinico Umberto I. Rita ce l’ho davanti agli occhi come fosse ora. La mamma mi ha visto in un’intervista alla televisione, e ha un’amica dello stesso paese, vicino a Roma, che è seguita da me, e ha sentito il bisogno di contattarmi e, incredibilmente, di dirmi ancora grazie per quanto abbiamo fatto per Rita.
Per un attimo sono rimasta senza parole, ma subito dopo le ho detto che ero io a ringraziare lei di quella chiamata. Che pensavo spesso a Rita, una ragazzona dolcissima, straordinaria, consapevole. E che quella telefonata mi aveva riempito il cuore allo stesso tempo di tristezza e di enorme gioia.
Ecco, queste sono le storie che non vorrei mai dover raccontare, ma penso anche a come sarebbe stata diversa la storia di Rita se fosse vissuta oggi. Di quante innovazioni farmacologiche, soprattutto, si sarebbe potuta giovare; di un test per le mutazioni BRCA1 e 2 che non abbiamo potuto fare, semplicemente perché Mary-Claire King e Stratton e Wooster non le avevano ancora scoperte! Di quante indagini, per esempio la PET, Rita non ha potuto usufruire!
Quanti cambiamenti in soli venticinque anni, e che velocità di cambiamento! Cambiamenti che stanno modificando la storia del tumore, e stanno modificando, di conseguenza, positivamente, la storia delle nostre pazienti. Una speranza che, dopo il primo ventennio di questo terzo millennio, diverrà sempre più una certezza.