DUE NOTTI A EPIDAURO
Dopo la tempesta di Epidauro siamo ormai completamente disposti a credere alla magia, alla negromanzia, al sortilegio, alla fattura, alla iattura, a tutto; e non per scherzo. Nel paese più arido del mondo, la celeberrima Argolide sitibonda, dove per più di metà dell’anno non vien mai giù una goccia d’acqua e si sono sempre avuti anche in questi giorni non meno di quaranta gradi di calore secco, il temporale improvviso all’ora e sul luogo della prima della Norma – e non uno scroscio di mezz’ora e poi basta, ma proprio una grande pioggia durata ore intere – è stato un avvenimento davvero incredibile, che non si spiega se non facendo l’ipotesi degli sforzi congiunti di tutti i soprani del mondo offeso, dei sovrintendenti delusi, degli ex-coniugi parti lese, e magari anche della città di Ostenda (dove, qualche giorno prima, la Divina doveva cantare e all’ultimo momento non cantò, e che per una mezza giornata pareva trasferita qui, col suo mare del Nord grigio, il suo cielo nebbioso, la sua pioggia insistente). E tanto più si è nettamente avuta l’impressione di un intervento di un Soprannaturale, molto più su dei Sovrintendenti, in quanto fin dopo mezzogiorno il tempo era stato molto bello, aveva cominciato ad annuvolarsi a metà del pomeriggio, e solo mezz’ora prima dello spettacolo si era messo a diluviare decisamente. (Prima di mezzanotte, poi, c’erano già fuori le stelle...).
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Quindi una fila lunghissima di macchine era partita da Atene per tutto il giorno (il tragitto è di centottanta chilometri, su un fondo stradale abbastanza malandato), ed erano quasi tutte Mercedes nere, piene di gente seminuda per il gran sole, con l’abito di pompa e gala appeso alla stampella sopra i finestrini di dietro, e le radio che trasmettevano sempre «Mustafà» o «I ragazzi del Pireo», tutto un greconapoletano alla Peppino di Capri. La nostra Mercedes sfiancata a nolo è piena di chicchi di meliga.
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La sosta di quasi tutti, dopo la traversata di un interminabile territorio senza ristoranti e senza neanche un grappolo d’uva, è stata al grande albergo Amphitryon di Nauplia, che si inaugurava incautamente lo stesso giorno, con la sua piscina, e che si è presto riempito fino alla demenza di gente in mutande, gente in camicia, gente in giarrettiere e reggipetti che sudando orribilmente si abbigliava per la serata nelle cabine e nei corridoi, girando con cravatte e guêpières in mano, gridando «chi ha preso il sapone?», si buttava in piscina, consultava gli oracoli, riallacciava antiche amicizie smarrite per anni, e qualunque cosa chiedesse da mangiare veniva nutrita a forza con frittate e angurie.
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Poco più tardi, tutti vestiti, profumati, lisciati, rimessi in moto e arrivati sul luogo del sacrificio, appena lì si assisteva a questo cataclisma storico tipo terremoto di Messina o maremoto di Santorini. Tanta gente piangeva davvero e si è molto spaventata. In un posto aperto, in mezzo a una campagna deserta, dove per decine di chilometri non c’è neanche una capanna di caprai (che, fra l’altro, non conoscono affatto Eschilo a memoria, come pretendono i rozzi turisti, non l’hanno mai sentito nominare, non sanno neanche chi è), e c’è solo uno chalet che funziona da Casa del Passeggero con un minuscolo museo (del resto chiuso, ci poteva stare solo il maestro Serafin, tra le metope e i triglifi), il tifone si abbatteva su quindicimila persone perse e senza riparo nel fango lontano dalle macchine, senza neanche un ombrello o un berrettino di plastica; per di più veniva buio totale subito e non ci si ritrovava più; e in mezzo agli urli, alla calca, agli spintoni, succedeva di tutto un po’. Trasportate dalla folla, si vedevano galleggiare le stupende madame venute apposta da Parigi o Londra, con i loro meravigliosi abiti inzuppati e rovinati per sempre, le mèches d’oro e d’argento che si scioglievano lungo le rughe della fronte e del collo; gli organizzatori di comitive si sgolavano in tutte le direzioni con piccoli megafoni; parecchi druidi venivano rapiti senza vergogna nel ciappaciappa dietro i cespugli, beati, le comparse essendo militari di leva pagati pochissimo.
Un successo soprattutto per i poliziotti militari, rapiti fra le ciniglie cifrate e frangiate poco prima distese in spiaggia dai soliti intraprendenti che nelle tenebre ora si strillano «seven! eight!» o esagerati «nine and a half!», o gli equivalenti in idiomi e centimetraggi più nostrani.
Ridotta in sottoveste dagli urti violenti che le avevano portato via il suo bolerino a fiori, un’ordinaria di Roma gridava euforica «mi sento Aiché Nanà in tournée!» a grossi giornalisti settentrionali che gemevano disperati: «E noi abbiamo già telefonato gli articoli, tutti con l’incanto del cielo stellato e il sublime trionfo di lei!».
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Una comitiva di industriali e architetti di Milano, che aveva rimandato apposta la partenza, facendo molti telegrammi a casa e in ufficio, incominciava la scena dei rinfacci e del «l’avevo detto, io!», fra calche e melme. Un rinomato e bagnato narratore si serrava addosso a una fatale fanciulla inglese smorta e snob, minacciando il suicidio abituale se lei non gli avesse concesso affetto duraturo o anche lì per lì; ma essa badava solo a petulare pignolerie su remoti matrimoni Visconti-Arrivabene con un folto gruppo di «social climbers» lombardo-romani che le erano capitati sui piedoni carichi di salviette e spugne ormai da buttare benché di marca. Ogni tanto l’eminente autore veniva congratulato dal patron del locale perduto che vibrando il baffetto grondante gli diceva: «Vous avez un air très artiste, avec votre beau cache-col et vos très beaux cheveux longs», ma lui non gradiva. Le gentildonne musicali di Milano, che non mancano mai queste occasioni a nessun costo, ma arrivano all’ultimo momento (perciò erano state messe a dormire in un caveau senza finestre), raccontavano di essersi dovute alzare prima delle cinque perché non si respirava più, e avevano passato l’alba a Micene, dormicchiando in tombe di Atridi molto più ariose del loro seminterrato d’albergo.
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La Divina, che naturalmente va e viene sempre già truccata e vestita direttamente dal celebre panfilo ‘Christina’ al palcoscenico, soffriva già lì pronta e diceva a tutti che voleva cantare ad ogni costo, ma per forza si è dovuto rimandare lo spettacolo. Altro che «must go on». Avendo però ben visto la prova generale due sere prima, si è ugualmente in grado di raccontare qualsiasi cosa, no problem.
È vero, in questa capitale così brutta, in questo calore bestiale, l’aspettativa per l’apparizione era stata feroce; e al bar del grande albergo ancora descritto con qualche compiacenza da vari Premi Fémina e Goncourt le chiacchiere e sciocchezze correvano tantissime come rinviando ad analoghe sciocchezze e chiacchiere di qualche anno o decennio fa. Il trionfo del già sentito: canta, non canta? ha ancora la voce? che carta gioca, grossa grossissima, tutta buttata sulla nuova partenza dalla terra patria e dall’Onassis nazionale?... O tutti i pericoli di un grande rilancio che prepara nuove incredibili imprese: magari poche interpretazioni all’anno, pochissime, ma straordinarie, e non più come negli anni meravigliosi quando faceva sei o sette opere in ogni stagione alla Scala... Però, au fond, tutti già d’accordo: anche se lei non facesse mai più niente, come Rossini a Parigi, ci ha dato comunque delle cose talmente indimenticabili, come non ne capiteranno mai mai più, e basterebbero a tramandarla come la più grande di tutti i tempi. «Basterebbe che comparisse in scena» le dicevano, poco fa «e accennasse soltanto, qualunque cosa: la suggestione sarebbe comunque tanto grande, che anche senza voce sarebbe già enorme lo spettacolo». «Ma ci vuole anche la voce» pare che abbia risposto lei.
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I manifestini neri col suo ritratto in classico peplo e in espressione di terribilità insanabile erano diffusi a molte migliaia, e pendono in tutti gli angoli della città e della campagna, in ogni locale pubblico e in ogni villaggio perduto sotto il sole e le mosche, senza un albero, senza un frutto nelle botteghe – dev’essere davvero cambiato il clima, dall’antichità – senza risorse al mondo se non un muro o un mucchio di ghiaia con su scritto «Messene» o «Tirinto», e dove probabilmente tutta la popolazione messa insieme non guadagna in un mese le diecimila lire che si dovevano spendere per un buon posto a questa Norma in Epidauro. Da tutte le parti d’Europa, però, chi era riuscito a mettere insieme quella somma, e non si lasciava metter paura da un caldo che può buttare a terra le peggiori bestiacce, aveva giurato da mesi di non perdersela, questa occasione di assistere a uno dei più grandi sortilegi del mondo moderno: in un remoto angolo della Grecia piena di sassi, una notte di luna appare una maga, che è uno dei grandi personaggi del secolo, e in una cerimonia di stregoneria rotocalchesca commuove i popoli.
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Era anche uno dei primi ingressi del melodramma italiano nei santuari del dramma greco antico: per di più con la Norma, che fra le nostre opere s’avvicina di più, insieme alla Medea, alla tragedia classica con quelle donne monumentali che provano solo passioni assolute e titaniche, da Fedre e Brunildi con fin de nonrecevoir per le innovative indagini accademiche e pratiche tipo «quanti bambini aveva Lady Macbeth» o le Streghe quali «rather shoddy creatures».
Però, anche quel Pollione. Se non è in preda a caratteri eroici come Del Monaco o Corelli, finisce per accostarsi ad Alberto Sordi: il solito uffizialetto italiano con la buffetteria in ordine e tanta brillantina in testa, sempre dietro alle sottane come un galletto di Brancati (e non sarà un caso se anche Bellini è di Catania e non magari di Pinerolo); e quando si trova di fronte alle conseguenze dei propri pasticci si rifugia dietro smorfie fettuccinesche e occhioni infantili.
La straordinaria suggestione di quest’opera è che nell’eterno dramma dell’occupazione militare (Pollione potrebbe anche essere un italiano in Grecia, o un tedesco nella Francia di Genet) si mescolano il classicismo ambivalente di Leopardi e i più rapiti trasalimenti romantici (si svolge tutta di notte, fra orride selve, terrori superstiziosi, incantesimi mortali...); si sentono echi risorgimentali, a ventate, come quando Norma e Adalgisa intonano serrandosi le braccia il «Sì fino all’ore estreme» sull’aria di un «Dàghela avanti un passo» lombardo e quarantottesco; o quando nelle ultime frasi del tenore il «Sublime donna – io t’ho perduta» naturalmente suona come l’«Illustre martire» del Fusinato; ma si sentono insieme delle levitazioni sonore beethoveniane addirittura grandiose, nel finale. E non importa allora se certamente Epidauro non è mai stato un posto di incantesimi, con la sua Pizia e i suoi Misteri, ed era in realtà una «ville d’eau» tipo Salsomaggiore o Montecatini, dove Esculapio teneva le sue cliniche, e non essendoci altri divertimenti tutto intorno avevano fatto questo teatro di quindicimila posti per intrattenere la clientela di massa; stavolta, l’abbiamo visto tutti, la sua magia ‘doveva’ esserci; e c’è stata. (Ma contro chi?).
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Il posto si sa: è sempre stato stupendo; e pare anche meglio perché si arriva dopo questi centottanta chilometri orribili da Atene, attraversando una regione così secca e spiacevole, che probabilmente sarà anche stata una specie di Toscana con qualche vite e ulivo, una volta, ma adesso è talmente piena di sassi e polvere da far star male e desiderare di non tornarci mai più. Quindi il bel teatro e i pochi alberi di Epidauro paiono anche più miracolosi dopo la traversata dell’Argolide, con la sua maledizione degli Atridi e la sua panne di macchina, pare sempre; si comincia a star bene solo quando si rivede il mare e si fa questo bagno a Nauplia, l’unico posto della regione con qualche pianta e qualche cosa da mangiare, sotto questo castello veneziano che fa citare ogni volta l’Otello e come sarebbe bello un «Esultate!» là in alto, e insomma che grande intuizione avevano Shakespeare e Verdi, mai neanche passati di qui.
Da Nauplia in poi si sta meglio. Trenta chilometri, e finalmente si arriva. È l’ora del sacrifizio, e si va dentro, passando fra centinaia di gendarmi di montagna imbizzarriti e le gambe delle comparse altissime. Il palchettone è sistemato in maniera cretese o micenaica, assai decorosa, con i suoi grandi massi giusti in fondo alla scena, che fanno Stonehenge; e in mezzo un obelisco di Via della Conciliazione a Roma, col suo scudogong di Irminsul attaccato davanti, e forse anche il programma di Santa Cecilia.
Naturalmente sarà l’ora del crepuscolo, col suo cielo che trascolora aiutando la suggestione, come in Piazza del Duomo a Spoleto quando si fa la Messa di chiusura del Festival con stridio di rondini e la commozione si fa ricattatoria.
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Serafin, vecchissimo e vispissimo, dirige con piccoli gesti, e alla prova generale diceva delle massime indimenticabili all’orchestra: «Aspettare un po’ non fa mai male a nessuno», «Quando c’è troppo buio in scena, il pubblico s’addormenta», «Mai dimenticare che voi cantate per farvi battere le mani», «Bisogna studiare la musica e bisogna anche volerle bene», e a questo punto bacia due o tre volte il libretto della Norma, mentre gli orchestrali a ogni frase gli fanno un minuscolo applauso. Il regista Minotis, rinomato attore di prosa, con la sua camicia rossa americana, saltella in alto sui cuscini dell’anfiteatro. Onassis, piccolissimo e vestito di bianco, va in giro con le sue scarpette bianche e nere con la mascherina, il suo ricciolone cotonato, il suo occhiale nero e un paio di ‘bien’ greche sofisticate in camicia nera e calzone bianco aderente. Capello decolorato di belle vecchie in foulard rosa e tacco di sughero. Anziani ex-tenori greci e bulgari che cantarono con Toscanini a Buenos Aires o a Bucarest con la Galli Curci, in papilloncino celeste e gabardine oliva, scarpa di tela, malacche con pomo d’avorio, occhialino vistoso al collo. Addirittura un vecchio cieco sostenuto da un paio di Elettre: non le pare di esagerare, scusi?
Poi si accendono delle faci rosse, comincia lenta e smorta la sinfonia, e sembra subito la Banda dell’Aeronautica al Pincio, il Grande Italia in Galleria a Milano, il Caffè Berardo in Galleria a Roma, nella piccola Stonehenge.
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Forse facevano meglio a mettere dieci suonatori di più in orchestra e risparmiare qualche decina di comparse in palcoscenico: perché appena cominciano a entrare, si vede subito l’ambizione di fare l’Arena di Verona in poco spazio da prosa; e del resto, ogni gruppo che vien dentro, si vede che arriva da un’opera diversa. Qualcuno, anzi, da qualche film. Ci sono troiani dell’Iliade e gladiatori del Quo Vadis?, marinai fenici, reziari del Circo, guerrieri egizi dell’Aida; il gruppo della Figlia di Iorio, con le sue prefiche ululanti in scialle nero, e quello della Gioconda, che fa anche un po’ Fornaretto di Venezia, perché Oroveso e i suoi sono puro Tintoretto, i senatori cattivi della Sala del Maggior Consiglio, con barbe finte, mantelli bizantini, e in testa corone da Re Magi, Re del Lohengrin, Re delle carte da gioco. Passano scontrandosi sullo sfondo, come a Carpi o Mirandola, gli armigeri del Trovatore, con le loro alabarde, e le incrociano come per non lasciar venir fuori Azucena, che sarà lì dietro. E anche la sua Carmelitana sciolta, oramai, nel teatro lirico batte dappertutto.
Parrebbe dunque una baracconata da Carro di Tespi del Trenta: in palcoscenico suonano accenti bolognesi e toscani, e il tenore è puro Settecento; ma poi entra lei, grande, bella, superba, regina, in rosa; e allora si è ben contenti di lasciarsi ripigliare subito dal vecchio incanto.
Il «Casta Diva», specialmente per lei, viene sempre troppo presto, nel rodaggio, e qui scenicamente è impostato come una rustica Domenica delle Palme. Lascia ancora un po’ sospesi, ma in fondo non è mai stato uno dei suoi grandi momenti. Neanche nella sua Norma migliore: alla Rai con la Stignani e Del Monaco e appunto Serafin. Ora la voce pare sottile, un po’ incerta, un po’ diversa, e lei forse meno sicura di una volta. Più signora, però. Comunque si sa bene che i suoi primi atti, quando l’organo non si è ancora avviato, hanno spesso avuto i loro momenti dubbi, meno soddisfacenti di tutto il resto dell’opera. Infatti, poi càpita come sempre: se trema un po’ all’inizio, lei fa presto a migliorare. E allora tira fuori il suo leggendario coraggio, nell’affrontare difficoltà pazzesche e sopracuti evitabili, pur di vincere clamorosamente. E se ogni tanto, è vero, oltre che sottile la voce pare un po’ roca, si vela appena, o sembra che ballonzoli un po’, non importa gran che. C’è l’allure.
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Adalgisa ha una vociona bella, ma è un po’ rozza. È una greca esordiente, molto giovane, con una grossa faccia, truccata da contadina. E la scena fra le due donne è sempre un momento straordinario di per sé: ma quello che fa qui la Callas è una delle cose più alte dell’opera. Da principio lei è così sicura, tranquilla, sorridente, un po’ scettica, come chi ascolta le confidenze della cameriera o di una poveretta. Il suo sorriso durante tutta la scena fa perdere la testa: è lo stesso di quelle statue classiche non più ‘eginetiche’ ma quasi ironiche... E la rivelazione diventa naturalmente un momento immenso, che lei butta su grandi passi da leonessa ricattatrice davanti agli altri due che non esistono più: due stracci. Passi, occhi, gesti, mani: da questo momento si ritrova la Grande Maria delle grandi serate alla Scala; e allora è brava come prima, anzi sembra che non sia mai stata così grande.
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Il resto dello spettacolo è a un livello abbastanza provinciale. La regia è banale, con parecchi svarioni: i movimenti delle masse in palcoscenico paiono ordinati da un sordo, perché non tengono conto di ciò che sta facendo l’orchestra nello stesso momento. E anche i cori sono disuguali: fanno bene il grande inizio dell’ultimo atto; ma il loro «Guerra guerra» invece di suonare scatenato e selvaggio pare piuttosto uno «Zitti zitti piano piano».
Ogni volta che la massa guerriera deve uscire di scena, se ne va entrando nel recesso che significa la casa di Norma, e si infila nella porta proprio sollevando la tenda dietro cui sarebbero nascosti i piccini. Non li trovano solo perché quando non sono in scena con la mamma vengono a sgambettare coi loro sottanini fra i piedi degli spettatori. Dunque, «un amooore!», ma non cosmopolita come questo pubblico. «Nemmeno Iris alla Chigiana!», si ode sentenziare, misteriosamente.
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Gli altri cantanti sono un po’ guitti. Adalgisa, appunto, volonterosa e basta. Il tenore, un assurdo: non male di voce, ma con un portamento così incosciente – manina sui fianchi tipo Baruffe chiozzotte, occhi roteanti in direzioni insensate, sbuffar d’impazienza e tamburellar delle nocche come aspettando un treno in ritardo – che ne viene falsata l’impostazione eroica dell’opera. Come ognun sa, la grandiosità del rifiuto e del sacrificio corneilliano o wagneriano di Norma si basa sul presupposto di trovarsi di fronte a un antagonista che almeno verso la fine tenti lo sforzo di levarsi a una pari dimensione tragica. Altrimenti, con uno che nel momento più tremendo, quello del rogo, le sta cantando «Fenesta ca lucive» all’orecchio, come se si fosse tutti al ristorante col nostro prosciutto e melone davanti, e una lunga serata tutta per noi, non sta più in piedi il Tragico. Soprattutto per una che ha avuto problemi gravissimi di tipo Medea: «i figli uccido?». (Ma senza «testa o croce»). E dopo tutto, il rogo stesso, qui era una faccenda ben ben modesta: quattro fascine, due paletti, e basta. Come nei locali di juke-box a Mikonos.
Così il finale può sembrare un abbozzo di Beethoven postumo sulle Crociate (i costumi in quella fase sono puro Goffredo di Buglione) finito male da un allievo di Weber e inscenato peggio da un pupillo di Jean Vilar. Mentre in fondo si era generalmente d’accordo sul fatto che il Rogo (qualunque rogo, anche in Wagner, e in Dreyer) o lo si fa vedere spaventoso e terribile, oppure è meglio un fil di fumo o un giochetto di luci. Anche per evitare i sospetti d’una demistificazione squinzia. Ma qui, a proposito di fuoco, per la fiamma dell’ara si è tuttora alle lingue di carta velina rossa col suo ventilatore sotto, come nelle Pire d’una volta.
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Però, naturalmente, c’è il teatro di Epidauro; e soprattutto c’è lei. Nel secondo atto, dove riappare in rosso-Medea, appunto, tutte le ombre sono scomparse, e lei è in ogni momento grandissima. I cedimenti di coscienza del personaggio sono resi con lo strazio più maestoso, lucidamente; nel secondo duetto con Adalgisa ha pudori e tenerezze da adolescente cresciuta, delicatissimi. Nel finale, poi, trova accenti di una fierezza «da spaccare il cuore». Il crescendo del furore è di una terribilità indimenticabile: isotteo, mariastuardeo. La cosa più grande è quel suo pianto per l’amara disperazione di morir sola, incompresa, non amata: è all’altezza, come momento tragico, dell’addio di Melibea a suo padre, dall’alto della torre, alla fine della Celestina; e lei è davvero più brava di prima.
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Poi, come giungendo notturno da A cena col Commendatore di Mario Soldati, ecco Antonio Ghiringhelli, il leggendario Sovrintendente della Scala con venti e più nuovi allestimenti d’opere e balletti in ogni stagione, e una costellazione di miti e star da Furtwängler a Massine. «I doveri del maggior teatro d’opera al mondo» dice subito «riguardano sia la produzione sia la destinazione degli spettacoli. Primo: conservare e potenziare i valori musicali più considerati. Secondo: riportare alla vita tutto quanto è stato abbandonato (non sempre giustamente) in passato. Terzo: valorizzare la nuova produzione. Lo scopo è una funzione informativa, sempre più vasta: allargando il patrimonio comune in tutte le direzioni. Toscanini si rammaricava: “Ho sulla coscienza di non aver fatto tutto il possibile perché il Don Carlo diventasse un’opera di largo repertorio”. Ma oggi si rappresenta in ogni città – inaugura addirittura le stagioni – proprio perché la Scala l’ha ripreso dall’abbandono. Così come ha praticamente rimesso in circolazione Mozart, dimenticato per decenni: le statistiche parlano! E una volta colmate molte lacune, finito il dopoguerra culturale, la Scala deve procedere tenendo sempre presenti le tre direzioni: repertorio, recuperi, scoperte».
Nel ’46, i rappresentanti dei lavoratori chiedevano «solo Traviata, Rigoletto, Bohème, Tosca, Butterfly e Aida» per le serate speciali. Per il Boris la Camera del Lavoro vendeva 27 biglietti in tutto. «Perché non allargare le possibilità di gioia?» si domandava allora Ghiringhelli. «Per chi si fa insomma il teatro? Per sé, o per gli altri?». Oggi si sente soddisfatto: i lavoratori milanesi fanno il «tutto esaurito» per i suoi Mozart.
«Grosso problema, la ‘destinazione’ degli spettacoli. Conservare comunque il pubblico già acquisito: mai eliminare qualcuno che va già a teatro». (Non vorrà mica dire che i palchettisti hanno sempre ragione?...). «Poi, aumentarlo in tutte le direzioni. Magari, prima cercando il pubblico attraverso le organizzazioni sindacali; poi, in contatti diretti all’interno delle fabbriche e delle scuole; e poi, dalla città al contado, la politica regionale dei treni speciali e delle comitive. Per ‘inventare’ (o allevare) nuovi spettatori, vengono usati i corsi di storia della musica con esempi, d’intesa con le Interfacoltà; le prove generali gratuite; gli abbonamenti ridotti. Addirittura gli spettacolini per le quinte elementari, con gli allievi delle scuole scaligere; e la serata per i militari in servizio a Milano, perché non tornino ai loro paesi senza aver visto anche la Scala, oltre al Duomo e al Panettone».
Ma Ghiringhelli si preoccupa soprattutto dei mutamenti nell’essenza della struttura del suo teatro: la ricostruzione tecnica «che non si vede». E invece l’esempio di quei grandi teatri tedeschi dove i ‘servizi’ si stendono enormi alle spalle del palcoscenico, in smisurati edifici occupati solo in piccola parte dalla sala. «Non solo parvenza, ma anche sostanza: per la necessità d’una produzione maggiore e più efficiente rispetto al tessuto sociale in cui il teatro opera... Come essenza, non cambia certo niente, se si trasformano i palchi in gallerie. La prima realtà è una visione della Produzione, equilibrata e capace... Per cominciare, muta incredibilmente la composizione umana interna del teatro d’opera. Dove esiste più il sartocorista, o l’orchestrale che d’estate suona ai caffè di Montecatini? Invece, un professionismo specializzato sempre più rigorosamente. Concorsi severi per l’orchestra, la scuola di ballo per formare ‘specialisti’ accurati, nuove sale di prova, per consentire orari più regolari. E così cambia radicalmente anche la formazione dell’attrezzista, del tecnico, dell’elettricista.
«I grossi mutamenti nella struttura fisica, organica, dell’istituzione, nelle sue strutture produttive, riflette naturalmente le più profonde trasformazioni nell’indirizzo e nella destinazione. La società si trasforma: e così i servizi pubblici al servizio della cultura. Terminati gli attuali lavori per potenziare la propria organizzazione, la Scala per parecchi anni non avrà più bisogno di molti ritocchi. Potrà funzionare in maniera snellita, aumentando anzi il numero delle recite. Ma la soluzione radicale di tutti i problemi presenti e futuri può venire soltanto da una nuova legge per il teatro lirico».
Qui Ghiringhelli diventa focoso. Il suo posto di sovrintendente lo conserva dal ’45, sempre gratuitamente; e conferma che «ogni nuova politica sarà un logico sviluppo dell’azione fatta». Ma dichiara furiosamente errata «una visione del teatro lirico italiano come entità omogenea, composta di diversi organismi di pari efficienza e valore. Non è vero che ciò che è valido in una città italiana lo sia necessariamente per tutte le altre. Il ‘fondo’ non è affatto comune. Possono quindi valere solo considerazioni particolari: caso per caso. E la Scala, dopo tutto, le proprie messinscene se le paga!». (Non dice che, essendo dovizioso, tira fuori pacchi di soldi).
Ma se passassimo alla politica artistica? «Lo spettacolo lirico» dice Ghiringhelli bevendo il suo tè «ha come protagonisti almeno dieci o dodici elementi, naturalmente con predominio della musica. Ma non è vero che abbia avuto un’evoluzione costante. Volta a volta veniva governato da elementi diversi: a seconda delle personalità più o meno eminenti degli artisti. E a noi tocca fare tutto quanto può servire ad approfondire i valori dell’opera, ampliare il respiro del lavoro, per consentire l’avvicinarsi d’una maggior parte di umanità. Interessare cioè masse sempre più vaste: questa è la strada buona... Ma anche qui, nell’ambito di ciascuna città: la Scala, per esempio, si è affidata alla leadership del Gusto in circostanze d’emergenza: tutti gli scenari distrutti, pochi costumi inservibili. Era necessario rifar tutto da capo...».
Come criteri? Una certa tendenza antologica... «Ma questo semmai è un risultato, non già un presupposto. Il criterio fondamentale è: non tradire lo spirito di un lavoro. Quindi, interpretazioni attuali: ma che comportino il rispetto dell’opera d’arte così come è stata concepita. Tutti d’accordo; però con un limite alle interpretazioni troppo soggettive, e tenendo presente che non esistono criteri ‘universali’: per esempio, i sipari neri caldeggiati da un famoso regista non van certo bene per tutte le opere... E la necessità costante di un equilibrio: non si può agire senza o contro il pubblico... Gli altri teatri che si lamentano delle loro platee vuote, impieghino i mezzi necessari per creare prima di tutto il proprio pubblico... E in quanto al problema dell’allestimento, preoccuparsi se questo è vivo o no: scopo primo del teatro è l’essere vivo, cioè interessare una collettività... Ma anche qui sarebbe in fondo semplice stabilire i criteri: per decidere quando un’istituzione (teatrale) è viva e sana, e quando non lo è...
«Tutto è possibile in nome dell’arte! Tutto è spreco in nome dell’economia... Ecco le tendenze estreme che si alternano in ogni discussione ‘istituzionale’ sui grandi teatri...». Ma Ghiringhelli insiste proprio: «Però, prima di tutto, occorre creare le condizioni-base per stabilire i criteri di questa ‘sanità’... e quando uno è malato, non deve neanche provare a far quello che fanno i sani. Primo compito è il guarire... Ma i problemi si fanno sempre più insostenibili senza una nuova legge che crei le basi. Queste possono andare da un estremo all’altro: la soluzione del Teatro di Stato, oppure l’opposto, l’Ente Autonomo come ai tempi del sindaco Caldara. L’essenziale è disporre al più presto di un metro su cui regolare l’attività. Dalla soluzione data ai problemi organizzativi nascono i presupposti per affrontare e risolvere ogni problema futuro: creando delle amministrazioni ‘sane’, subito si ridimensionerebbe tutto, su una base ‘proporzionale’... Ma è pazzesco ritenere che la Scala funzioni in opposizione o in concorrenza con altre istituzioni italiane – con certi teatri esteri, semmai! – quando invece deve operare salvaguardando il suo prestigio, naturalmente con funzioni rappresentative all’altezza della sua fama di teatro più importante nel nostro paese, e più celebre nel mondo. Gli altri teatri italiani dovrebbero avere tutto l’interesse ad appoggiare questa politica, e sentirsi ben orgogliosi che almeno uno di loro abbia questa funzione!».
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(Un vero personaggio di Soldati? Più tardi, dopo il sensazionale flop bolognese della ‘nostra’ Carmen Barthes-Gregotti-Fioroni, mi invitò a una Salome monacense nel suo palco, insieme ad alcuni suoi antichi compagni demolaburisti, sodali anche di un mio vecchio cugino prima del fascismo. E mentre ammiravo soprattutto di fianco la gestualità corporale di Jean Madeira e Birgit Nilsson, mi sussurrò in un orecchio: «Almeno qui noi non le vestiamo a pois»).
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Ma nessuno avrà filmato il Typhoon over Epídavros? Altro che Temporali o Tempeste o Uragani da teatro o da opera. Poteva diventare, oltre che un reperto pazzesco, un bestseller di lunga durata come La grande pioggia (The Rains Came), prima romanzo di Louis Bromfield, poi film di Clarence Brown con Myrna Loy, George Brent, Tyrone Power, Maria Ouspenskaya, Joseph Schildkraut, e l’arrivo del monsone annunciato dall’agitarsi d’una tendina.