MULINI E LEONI

Verso mezzogiorno si prende la nave al Pireo; e basterebbe ricordare Lord Jim per riconoscerla subito la nave morta dei pellegrini, la ‘Patna’. Ma finché non vien buio magari non ci si pensa: la partenza è un trionfo di cappellucci di paglia, di scarpette di gomma, di borsine da compagnia aerea, perché metà dei passeggeri sono turisti, e metà dei turisti sono francesi, di quei tipi che non avendo abbastanza soldi per andare a fare lo sci-sci a St-Tropez devono cercarsi altri lidi un po’ meno cari per sfoggiare i piccoli lussi delle grandes vacances. Si vedono quindi dappertutto la barba e il sandalo dello studente provinciale magrolino e bruttino, con gli occhiali e il ciuffo standard, che legge accanitamente sul ponte per tutto il pomeriggio, con l’aria concentrata di chi prepara l’ammissione alla École Normale, e invece ha davanti una Angélique o Peccatori in blue-jeans. Ci sono le grandi impiegate di banca in prendisole d’imprimé, con la pelle già abbronzata e la coscia varicosa e l’aria altera della gentildonna che non si concede al cha-cha più di una volta o due all’anno; e ci sono le dattilografone col ricciolo rosso che fanno il passerotto cinquantenne da quella volta che si sentiron dire che somigliano a Edith Piaf. In qualunque momento non girano mai meno di sette-otto Brigitte Bardot, ancora con quei capelli e la moue dei primi film; ma da un po’ di tempo hanno tutte una strana tendenza a ingrassare, e i piccoli ventri puntuti si affacciano sopra l’elastico del costumino. In tutti gli angoli si nascondono chioccolando delle piccole coppie che si baciano per l’emozione di navigare come piccioncini sui mari di Omero.

Il color blu dell’acqua e questo senso di trovarsi in un paesaggio classico dànno leggermente alla testa; e siccome il sole scotta, sul ponte superiore dopo un po’ partono quasi tutti i vestiti, vengono fuori lunghe gambe color pesca o nespola e unghie dei piedi ciascuna di una tinta diversa, quindi personalizzate. Ma si spogliano anche quei tedeschi di mezza età un po’ calvi, col capello rado e lungo dietro, che stasera saranno paonazzi o cotti, e tutte le creme che stanno maneggiando non serviranno a niente, si sentiranno malissimo; e perfino le orride vecchie vanno in giro discinte e piene di legacci, avrebbero fatto meglio a stare a casa loro, a curare i polli davanti alla porta.

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Al piano di sotto viaggiano molti greci, sdraiati sulle coperte che si sono portati dietro, o addirittura coricati sotto le barche di salvataggio, con enormi provviste; e hanno anche delle bambinacce locali vestite immaginosamente da crociera, coi calzoni a righe attillatissimi che scoppiano sul culone ubertoso, e leggono i loro fumetti appoggiate a una capra addormentata. Siccome è una linea sola che fa servizio per le isole, di conseguenza i passeggeri saranno eterogenei: càpita di trovare le pantegane di Manhattan sofisticate con casacchina a ricami come sul treno ‘commuter’ di Long Island, con dietro lo smorfiosetto coperto di brufoli che fa il sarto e le bizze, in mezzo alle povere vecchie isolane in scialle e palandrana nera cariche d’angurie e panieri coi pulcini appena nati, che al momento della partenza si buttano in ginocchio a pregare singhiozzando, tutto un pàrodo di Trachinie nature, come se non vivessero sul mare, e ci vuole la benedizione del loro pope che infatti arriva a consolarle di corsa.

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La condizione di monopolio di queste linee di navigazione spiega anche bene come gli armatori non si preoccupino di tenere in ordine il materiale o di rinnovarlo. Sono navi acquistate nel dopoguerra in liquidazione o regalate dopo parecchi decenni di servizio in Nuova Zelanda o in Scozia, decorate con targa che ricorda le loro benemerenze belliche, per esempio per aver trasportato in tutto 450.000 fanti o 280.000 aviatori nel Pacifico. Quindi se un vetro si rompe o un rubinetto non funziona è probabile che nessuno se ne curi; e del resto l’equipaggio è piuttosto zingaresco; sono ragazzacci vestiti come al mercato del pesce, lavati chissà come, e se mai fin troppo cordiali; si prendono delle gran confidenze coi sedicenti ufficiali e trascinano i passeggeri nelle loro cambuse a far giochi di mano e scherzi da villano. Sapore di sale? Non posso dire di averli visti spazzare per terra o lucidare gli ottoni, che dopo tutto è uno degli spettacoli più frequenti e noiosi su tutte le navi; però col ricco e col grasso cercano subito di stabilire una complicità anche d’affetti. Duole invece scorgere la loro prepotenza contro l’umile, le famiglie che salgono a Tinos o a Andros, viaggiano sul ponte perché hanno pochi soldi e subiscono le mortificazioni senza reagire.

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Ma sul ponte superiore nella fine di pomeriggio e verso il crepuscolo sono tutte ore di semplice felicità, collettiva e cheap, e inglesi e francesi e tedeschi bevono contenti il loro cattivo vino resinato. Par d’essere in un lago, si vedono isole da tutte le parti, e sembrano vicinissime, secche, spoglie, marrone, e poi brune e viola; e l’acqua diventa presto blu-pentola; contro il lume della luna i profili di Siros o Kea o Kithnos eccetera passano neri e frastagliati, con qualche luce di villaggi isolati ogni tanto. Il vento caldo muove i capelli e le maniche vuote dei maglioni che non servono a niente: sigarette nel buio, bacini, chioccolii, Peynet e «guides bleus» che cadono fra i piedi, acconce citazioni di Metastasio e Foscolo e Thornton Wilder (La donna di Andro, ed. Frassinelli) ad ogni fermata direttamente in piazzetta, con tutto il paese apparentemente lì fra lampioncini colorati e gelati. Tra un approdo e l’altro, solite urla sottostanti dell’equipaggio che starà facendo fuori qualche spericolato Laocoonte.

Ma qualche menzione di Salamina evoca piuttosto «el Baldassar», poeta di casa dei miei prozii agricoli. Spiegava i clamorosi insuccessi dei drammi di Felice Cavallotti: in una sola serata, un’orazione navale incominciava con «O Salamini!». E il maleducato loggione: «I salamin, i salamin!». E poi, un’esortazione che torna in mente ogni volta che ci si accosta a una polla o sorgiva referenziata: «Ascendi al sacro fonte, e lavat’ivi!». Ovviamente, la teppaglia ‘balossa’ del Verziere: «I lavativ, i lavativ!». Altro che noi in ghingheri alle prime di Luchino.

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Si arriva di notte a Mikonos, isola sfruttata e lanciata come perla perlissima delle Kikladi, e quindi sotto l’urto di una ondata turistica ormai abbondante. Già trasbordando dal piroscafo ai barconi che portano a riva l’aspetto dell’isola appare leccato e incantevole. L’architettura e i colori sono gli stessi che a Positano, e il naïf è anche peggio: tutto bianchissimo, dentro e fuori, e perfino i marciapiedi e i gradini. Non si vede una stonatura o un errore, il décorateur trasuda in tutti gli angoli. Il «quai» è ricoperto di bar e ristorantini in fila, coi loro modesti portici e le tavole fuori, camerieri simpatici e piatti orribili; e parecchie decine di negozi espongono lì accanto le ridicolaggini tipiche delle tessitrici dell’isola. Le ruvide stoffe a mano hanno colori vivissimi a righe e nessuna destinazione specifica; quindi si può farne qualsiasi cosa, e infatti si vedono adoperate per tende, tappeti, scendiletti, borse per la spesa, coperte da cagnolino o cavallo, giacchettoni, e perfino shorts coloniali e berrettini da spiaggia, coi loro disegni di gallettini e cavallini stilizzati su modelli Rinascentarredo, tra gli infissi celestini e le ante pisello.

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Come alberghini deliziosi, la situazione pare senza vie di mezzo. Da una parte, una specie di motel a padiglioni, isolati e modernissimi, fin troppo Pavesini, tutti alluminio e cristallo e salsedine incrostata (e tutti gli sconforti moderni?), in un bel posto, su una punta rocciosa degli antichi mulini a vento che sono la specialità pittoresca dei manifesti dell’isola. Altre due o tre locande hanno pochissime stanze, proprio tre o quattro ciascuna, quindi sempre piene; così la maggioranza della gente si affida ai camerieri delle trattorie o alle bambine che vengono incontro allo sbarco urlando «room, room». Prendono quindi delle camere nelle case private, e spendono poco dormendo sul duro, fra lenzuola pulitissime, sotto ritratti di enormi nonni guerrieri con dei baffi incredibili, e provando dei gravi imbarazzi di tutti i generi per lavarsi anche solo la faccia. Ma c’è anche chi dorme all’aperto, sulle terrazze, e non son pochi, col pretesto (specialmente inglese) che «tanto siamo nelle isole». Tornando in patria poi lo racconteranno: «dormivamo sulle terrazze».

Un paio di alberghetti decrepiti-squisiti ci sarebbero, discreti o nascosti; ma si ha l’impressione che servano soprattutto ai loro proprietari – inglesi o americane in esilio – e a pochi loro amici: espatriati, insabbiati, con mèches pepe-e-sale, ricordi e foulards degli anni Venti, rughe entre-deux-guerres. Piacevoli per la sera: sale chiarissime con qualche bel tavolo Impero, archetti turcheschi, abat-jours e girandoles in vari stili postbizantini, terrazze semiabbandonate sul porticciuolo sonnolento, lunghi divani veneziani «da portico» imbottiti con vecchi damaschi. Banconi del bar di marmo giallo o rosso, animali di maiolica, kentie in vaso, modelli di velieri turchi dell’Ottocento, ritratti di patrioti risorgimentali, poca gente a spasso lì sotto, e delle scioccone che urlano di gioia ogni volta che il garzone fa vedere certi suoi cupi tortini al cioccolato.

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La cucina locale pare un po’ folle, specialmente nelle ore di traffico, quando vanno a finire nello stesso «piatto unico» per tutti cose destinate di solito a essere ben divise, come i maccheroni al prezzemolo e il manzo brasato, il formaggio stracchino e la marmellata di fragole. Ma chi gradisce certi pesci cucinati un po’ rusticamente al cartoccio senza prezzo ha tutti i vantaggi, perché sarà ovviamente servito prima.

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La peggior molestia viene ‘proposée’ dalla ‘présence’ delle tante mezze calzette francesi che si chiamano sempre Christiane o Françoise o Martine e non tacciono mai, e posano a far le duchesse con degli ometti penosi e smunti che chiaramente al loro paese fanno gli impiegati di banca o i maestri di scuola, ma qui con la camicina da saldi e un bicchiere di whisky in mano per tutta la sera si credono in dovere di rappresentare un «gratin» di Parigi in trasferta. È questa la vera piaga della cara isola: che qualche agenzia turistica francese rovesci qui, evidentemente con un programma standard di «otto giorni di Ellade con minima spesa», molta più gente sentenziosa di quella che il posto può reggere. Di conseguenza, ovunque si vada, al caffè, al ristorante, alla spiaggia, perfino in barca, c’è sempre vicino un gruppo «sympa» di colleghi d’ufficio che vogliono far l’anima della compagnia, e quindi ripetono a ogni passo le spiritosate delle loro radio, con la bagarre e la bagnole, e commentandosi ogni volta «tient tient! c’est formidable!».

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Ma il panorama è ancora grazioso. Ci si può docilmente perdere, di giorno e di sera, nel labirinto abbagliante delle vie del paese, un po’ come a Capri vecchia; e si sbuca una volta in una piazzetta di eucalipti che accarezzano una minuscola cappella, una volta sull’ovvia spianata dei mulini, oppure su un recinto pieno di maiali. Ci si affaccia su una spiaggia sassosa che ha in fondo una fila di case su palafitte un po’ veneziane, ed è piena di vecchie: vecchie sulla porta, con la loro scopa in mano; vecchie alla finestra, a controllare che tutto vada bene; vecchie a cavallo, che portano frutta e verdura; vecchie che cuociono triglie, sui loro fornelletti a legna, accovacciate; vecchie nell’acqua, con delle immense camicie bianche o gialle, che insegnano a nuotare alle loro nipotine di quattro o cinque anni, con strilli disperati.

Quando fa buio si vedono in fondo le luci di Siros o Tinos (o sarà Patmos? o sarà Naxos?), e sui campi a terrazze dietro le case c’è sempre in giro qualche chitarra o qualche grammofonino portatile. Scompaiono dietro gli angoli deserti i turisti in braghette e i garzoni fornai con poco tempo perché devono impastare il pane alle due. La collina s’alza a strati di campi scuri, muretti a secco, sentieri ghiaiosi, e le pale dei mulini frusciano quietamente coperte di iuta ripittata con la calce.

Nessuno in giro. Dall’alto si possono vedere insieme i due locali di danze: uno in una specie di cortile di cascina, con pergolati e fuochi accesi tipo Trovatore; e l’altro si spinge sull’acqua con qualche lampioncino napoletano e un juke-box che suona sempre «Patricia» e fa venir voglia di ballarla per tutta la sera, come nella Dolce vita, quando la si è vista tutta intera per la prima volta, e si prese quella famosa cotta che è poi durata tantissimo.

Comunque, repertorio di canzoni estive giustissime con la loro onda d’argento, chiaro di luna, palma un po’ piegata da copertina, brezza tiepida impeccabile, correre sulla calda sabbia con la manina nella manina, e mare adatto che fa ciaff-ciaff. Mandolini. E se poi ci fossero anche dei fari interessanti, chissà che ballate si potrebbero improvvisare per le romantiche signore di giorno e per i baldi giovani di notte.

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Mikonos avrà poi con la cultura greca rapporti simili a quelli della cultura francese con St-Tropez. Resta però la base obbligata per un’escursione antichista fra le più impressionanti: a Delo, oggi disabitata e morta, museale.

Mezz’ora di motobarca, e l’isola sacra si presenta aperta allo scarico, con tutte le sue rovine lì pronte che bruciano al sole, l’intero étalage immediatamente esibito all’atto che si mette piede a terra, e la lunga scalinata in fondo che sale agli altari scavati a diversi livelli sulla roccia ripida, come alti luoghi di sacrifizi indiani o centro-americani per turismi «oggi qua domani là». E papà Germont, in questi casi: «È grave il sacrifizio, ma pur tranquilla udite »... Ma San Paolo, puntando il dito: «Un dì, quando le Veneri, il tempo avrà fugate!».

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Come visita, questa ricorda abbastanza un giro nei quartieri più abbandonati di Pompei; ma (come in tutti i luoghi greci classici) sopravvive così poco che è necessario aggirarsi cautamente con la guida in mano e tante buone intenzioni o pie illusioni fra le «ricostruzioni probabili» di piante d’edifici che veramente potrebbero essere qualunque cosa, o chissà chissà. Ecco qui – sulla mappa – il Tempio di Apollo e quello di Artemide, l’altare dei Tori, il monumento degli Ateniesi, l’Agorà degli Italiani, il portico di Antigono, la fontana di Minosse, l’atrio di Teofrasto, le case delle Maschere e dei Delfini e dei Tritoni, il Terrazzo degli Dei orientali, il santuario di Serapide, la diga dell’Inopo, il Ginnasio, il Teatro, i magazzini generali dei tempi in cui Delo era un grosso centro commerciale fra l’Oriente e la Grecia e l’Italia, e c’era perfino un laghetto dei cigni.

Ma le guide rosse e verdi e blu non sempre concordano sui muretti. Nei depositi dei resti, sembra dominare uno «stile impersonale». E al di fuori delle fondamenta riconoscibili del teatro, o di qualche mosaico coperto da un tetto di cemento, i pezzi di colonne e di capitelli fra i sassi rimangono muti. «Perché non parli?». Né alberi, né erba.

Altro che elioterapia o thalassoterapia. Il sole è intollerabile, e i turisti si raggomitolano negli angoli in ombra, davanti alla roccia incombente del faticoso monte Cinto e alla scalinata che la taglia fino alla cima. Scale Sante? Sacri Fonti? Quante paia di scarpe e ciabatte per eventuali fioretti e indulgenze. Cumulabili con Assisi e Compostela?

Poi ci si volta, si vedono lì i leoni in fila, e questi incredibili straordinari quattro o cinque animali di marmo bianco, che allungano il torso snello e il muso stravolto sul campo delle rovine, dànno veramente l’idea dell’urlo del diobelva cinico e bruto sopra il paesaggio calpestato, percosso, distrutto.

Picchiami, picchiami, fammi male, la buona volontà è stata alfin premiata. Happy e zitti, now.