6.
Lavoro
extralavoro
Chiave di volta dei modelli economici delle piattaforme orientate alla produzione di soluzioni “intelligenti”, il digital labor influenza larghi ecosistemi aziendali, irriga i mercati e ispira modelli di organizzazione del lavoro molto variegati. Gli utenti di applicazioni on demand e gli iscritti sui social media si situano a un’estremità di un ampio spettro di situazioni; quello che resta comune sono le dinamiche di parcellizzazione e di datificazione. Il digital labor assomiglia talvolta al freelancing, talvolta al lavoro temporaneo, ai contratti “zero ore” come nel caso di certi rider, oppure ancora al lavoro a cottimo per i microlavoratori, al lavoro “gratuito” o remunerato in natura (buoni d’acquisto, prodotti, accesso a servizi premium) per gli utenti delle piattaforme social.
Tuttavia il digital labor è un’occupazione che si fatica a riconoscere come lavorativa rispetto ai criteri abituali dell’occupazione formale. Ricordando continuamente la sua somiglianza con altre forme di lavoro invisibile (domestico, ludificato, “del consumatore”, “dei pubblici”, immateriale) si manifesta anche il paradosso per cui le sue condizioni materiali e il suo riconoscimento sono pesantemente influenzati dal livello di visibilità delle mansioni.
L’extralavoro del consumatore
Nella loro varietà, le piattaforme digitali manifestano una grande coerenza su uno specifico aspetto: nel momento in cui devono realizzare delle mansioni produttive, propongono ai loro utenti un patto paradossale che consiste nel metterli contemporaneamente al lavoro e al di fuori del lavoro. La contraddizione è visibile nel momento in cui si richiedono all’utente-lavoratore un know-how, un’attenzione e una lealtà che vengono tuttavia contraddetti dal ricorso a termini come “partecipante”, “consumatore”, “contributore”, “passeggero”, “invitato” che rimandano l’attività a tutt’altre sfere dell’esistenza.
Sotto questo aspetto, e in particolare quando viene assimilato all’economia collaborativa o a quella dei produser sulle piattaforme social, il digital labor s’inscrive in un rapporto di continuità con il “lavoro del consumatore”. Questo concetto è anteriore allo sviluppo del digitale: a partire dalla fine del Ventesimo secolo, in certi ipermercati, stazioni, aeroporti, uffici postali o catene di ristoranti, alcune responsabilità produttive sono state delegate ai clienti. Da principio si trattava soltanto di mansioni materiali: costruire da solo un mobile, prendere il proprio vassoio in un self-service, aiutare gli altri consumatori formandoli, nonché valutare il lavoro degli impiegati attraverso dei questionari di soddisfazione – trasformando il consumatore in supervisore dei lavoratori.1 Più recentemente si sono aggiunte le casse automatiche e le segreterie elettroniche. Storicamente è qui che iniziano a convergere il lavoro del consumatore e l’economia digitale.
Con l’introduzione delle piattaforme digitali, il contributo del consumatore-utente non è più soltanto complementare rispetto al lavoro formale dei lavoratori, ma la pietra angolare di un intero edificio produttivo. Il consumo si integra a questo punto in maniera strettissima con la produzione e diventa un ambito di accumulazione capitalistica e di conflitto legato all’attività produttiva.2 Questo processo si manifesta soprattutto attraverso la commercializzazione di servizi privati rivolti alla persona (come abbiamo visto a proposito delle piattaforme on demand), dello scambio di prodotti immateriali legati all’arte e alla cultura (come abbiamo visto in merito ai contenuti dei social media) o della costruzione di rapporti sociali (come abbiamo visto parlando delle community). Piattaforme come Handy, Uber e Helpling permettono di assorbire nella sfera commerciale alcune mansioni standardizzate realizzate da consumatori più disciplinati e più portati a vivere con serenità la loro occupazione precaria. Nello stesso modo, ad alimentare lo sviluppo dei social media sono il lavoro di produzione dei contenuti culturali e l’esercizio della socialità. Questa estensione del dominio del commercio finisce per trasformare in funzioni produttive le attività più triviali, “dal ricordarsi i compleanni degli amici alla ricerca di un partner affettivo”.3
Le piattaforme valorizzano economicamente questo extralavoro ai margini della vita del consumatore, le sue “capacità di socializzazione in eccesso”,4 e così creano una continuità tra la personalizzazione di prodotti a fini di consumo, la realizzazione di prestazioni personali self-service e la comunicazione verbale o simbolica che serve a migliorare la visibilità o la qualità dei prodotti. Tuttavia questo lavoro dei consumatori viene presentato come esterno alla sfera mercantile. Nei loro rapporti con gli utenti, le piattaforme digitali occultano sistematicamente la dimensione monetaria: il lavoro micro-, sotto-, mal- o non pagato è come un filo rosso che collega le diverse forme di digital labor.
Lavorare per amore
Le attività sviluppate dalle piattaforme digitali tendono a sfuggire largamente agli accordi collettivi, alle norme e alle legislazioni che dovrebbero teoricamente inquadrare il lavoro.5 Per questo sono state accusate, spesso e legittimamente, di riprodurre e normalizzare certe modalità dell’economia informale. Se la volatilità delle mansioni e delle remunerazioni, nonché l’assenza di garanzie, ricordano le condizioni dell’artigiano e dell’operaio nel settore manifatturiero della prima rivoluzione industriale, non bisogna dimenticare che una parte importante delle attività di digital labor appartiene alla categoria del care work, ovvero i servizi alla persona e altre funzioni associate tradizionalmente non alla produzione ma alla riproduzione della forza-lavoro: alloggio, ristorazione, cura, sociabilità, manutenzione, svago. Da questo punto di vista, il digital labor assomiglia al lavoro domestico e familiare tradizionalmente attribuito alle donne.6 Per questo alcune autrici hanno parlato di “casalinga digitale”7 o di “lavoro di cura digitale”.8 Indipendentemente dal suo genere, ogni utente diventerebbe dunque una specie di incarnazione moderna della “casalinga” che effettua un lavoro di riproduzione indispensabile e che non viene inquadrato formalmente nella sfera della remunerazione.
Uno studio sugli usi di Skype nelle famiglie separate geograficamente mostra come l’attività di preparazione e di conduzione di una seduta di chat video sia spesso svolta dalle donne. Perché lo scambio comunicativo sulla piattaforma si svolga senza problemi i vari partecipanti (figli, genitori, nonni…) devono realizzare, oltre al lavoro tecnico necessario, un “lavoro sociale” di coordinamento, presentazione, gestione dei comportamenti, insomma di regia: la creazione delle condizioni materiali che rendono la comunicazione possibile, dalla calibrazione dei colori all’inquadratura ottimale del bambino.9
Per sua stessa natura, il digital labor sovrappone in maniera complessa le sfere privata e pubblica anche attraverso il contributo delle competenze femminili.10 Proprio come nel lavoro domestico, la riproduzione e la produzione coincidono, similmente a valore d’uso e valore di scambio.11 Sottolineando le dimensioni affettive, culturali e sociali, queste analisi permettono di denunciare come queste diverse forme di lavoro vengano sottoposte a dinamiche di rimozione e occultamento. Gli argomenti “edonisti” o la retorica dell’economia “collaborativa” che descrive il coinvolgimento degli utenti delle piattaforme digitali come partecipazione a un progetto social evocano gli spettri della servitù domestica. La celebrazione del dilettantismo, della creatività e dello spirito collaborativo dissimulano la perpetuazione di logiche e gerarchie tradizionali.12
Il presunto “amore” per il lavoro era già stato denunciato dalle teoriche femministe come “la più pesante tra le mistificazioni ideologiche imposte a un lavoro tradizionale, quello domestico, al fine di costringere le donne a effettuarlo senza essere remunerate”.13 Ritroviamo questa stessa denuncia oggi al cuore degli attacchi delle teoriche del digital labor che denunciano le rappresentazioni dell’utente davanti allo schermo come pure “costruzioni affettive”14 che servono a giustificare lo sfruttamento. Insomma non è certo per una semplice assonanza con il saggio Wages for Housework, con cui negli anni settanta Silvia Federici denunciava l’invisibilizzazione del lavoro femminile, che l’artista Laurel Ptak ha intitolato Wages for Facebook la sua installazione del 2014.15 Quello che il patriarcato e le piattaforme capitalistiche chiamano rispettivamente “amore” e “amicizia”, proclamano all’unisono le autrici, “noi lo chiamiamo lavoro non remunerato”.16
Il lavoro degli spettatori
Dopo il lavoro del consumatore e il lavoro domestico, il “lavoro degli spettatori” (audience labor) studiato dal canadese Dallas Walker Smythe costituisce un terzo punto di riferimento per approfondire i meccanismi di produzione del valore sulle piattaforme digitali. Il teorico della comunicazione aveva ripreso e sviluppato in un celebre articolo del 1977 il concetto di “spettatore come merce” (audience commodity) per inquadrare l’attività del pubblico dei media classici.17 Il principio, in breve, era che il tempo dedicato a un media commerciale, come un canale televisivo o una radio, deve essere considerato tempo lavorato nel momento in cui l’attenzione rivolta ai programmi o alle pubblicità appare fondamentale alla creazione del valore.18 Proprio come sulle piattaforme digitali multi-sided, i media tradizionali propongono regimi di tariffazione diversi: gli inserzionisti pagano un prezzo positivo, il pubblico non lo paga (prezzo zero), i produttori sono pagati (prezzo negativo). Smythe descrive il pubblico come una “forza spettatrice” (audience power) ovvero una forza-lavoro che produce valore senza essere remunerata.
Grazie al suo concetto di audience labor, Smythe è stato il primo a studiare i flussi di comunicazione come vettore di accumulazione capitalistica.19 Due elementi tuttavia permettono di distinguere il classico audience labor dal digital labor: l’attività dei diversi pubblici e le finalità del loro lavoro. I pubblici di Facebook o di YouTube condividono indubbiamente certe caratteristiche con quelli delle vecchie televisioni. La loro esperienza non si esaurisce tuttavia nel “lavoro di guardare”20 ma include anche un “lavoro di essere guardati”,21 ovvero la costruzione di una presenza online basata su indicatori di sociabilità (punteggi, parametri di privacy, lista di contatti). Gli utenti delle piattaforme sono quindi doppiamente al lavoro: non soltanto mettono a disposizione la loro attenzione, ma contribuiscono anche attivamente ad animare i social media o a far funzionare le piattaforme collaborative creando dei contenuti e dei beni che vi circolano.22 Inoltre, e si tratta della seconda differenza rispetto all’audience labor, il lavoro degli utenti al tempo delle piattaforme non si limita alla qualificazione e alla monetizzazione pubblicitaria degli oggetti delle transazioni. C’è un terzo modo di estrarre valore dal pubblico ed è costituito dalla “forza di automazione” che svolge mansioni di computazione umana per addestrare gli algoritmi e fornire esempi utili al machine learning.
Il “playbor” senza tempi morti
Il contributo più importante di Dallas Walker Smythe all’analisi contemporanea del lavoro sulle piattaforme digitali è indubbiamente l’aver problematizzato il concetto di “tempo libero”, sulla scia della critica di Theodor Adorno secondo cui questa categoria della modernità si è costruita nella “oscura continuità” del modello capitalista e consumista del lavoro.23 Tuttavia Smythe prende le distanze dalla prospettiva adorniana nel momento in cui considera il tempo passato a interagire con i media non come una fase di recupero e di ricostruzione della forza-lavoro ma come un’astuzia della ragione produttivista per abolire la distinzione tra lavoro e svago.
La questione è oggi al centro degli studi sul digital labor. Per alcuni una simile convergenza segnala un cambiamento nella natura stessa del lavoro, che starebbe perdendo la sua dimensione gerarchica e di costrizione. Nuovi concetti, come quello di “playbor” proposto da Julian Kücklich,24 si sono imposti nel dibattito pubblico per descrivere una nuova generazione di attività che mescolano ricreazione e lavoro. Il concetto è nato studiando l’industria dei videogiochi, oggi dominata da alcune grandi piattaforme di distribuzione dei giochi, di streaming di sessioni di gioco o di universi multigiocatore che mettono in relazione i loro pubblici. Al funzionamento di queste piattaforme contribuiscono anche dei produttori di contenuto, sempre remunerati meno di quanto effettivamente producono.25 Il lavoro dei giocatori, campioni di e-sport, “modder”, tester, è cruciale – complementare a quello formalmente riconosciuto degli informatici, commerciali e creatori.26 A differenza degli spettatori di Smythe, i gamer non si limitano a guardare uno schermo e a veicolare i messaggi pubblicitari entro la loro cerchia di contatti, ma realizzano importanti funzioni di test, di debugging, di produzione di personaggi e di accessori, di addestramento dei motori del gioco. Tutte queste attività sono, secondo Kücklich, “paragonabili a forme produttive di lavoro remunerato, perché nei due casi i produttori di beni non ‘possiedono’ i loro prodotti”.27
Il problema non è qui se i giocatori siano dei “lavoratori precari” dell’industria del videogame. Il punto è che questo intreccio tipico del playbor tra sfera privata e sfera pubblica, intimità e visibilità, lavoro e svago,28 si ritrova sempre di più in altri settori di attività, attraverso una vera e propria “gamification del mondo”. Questa dinamica di ludificazione, di trasformazione di qualsiasi attività umana in gioco, “sfrutta l’aura del gioco come rapporto positivo, divertente e inoffensivo”.29 La ludificazione è onnipresente nei diversi settori del digital labor: i creatori di app di lavoro on demand introducono elementi di competitività tra gli utenti a forza di punteggi e di record; gli utenti delle piattaforme di microlavoro vengono incitati ad accumulare badge o migliorare la loro posizione in classifica per superare livelli; i social media decorano le loro interfacce con elementi che ricordano il mondo dei videogiochi, ricompensano i partecipanti più attivi e organizzano le interazioni come sfide.30 Le piattaforme stimolano in questo modo l’engagement e la propensione alla socialità degli utenti al fine di incoraggiarli a produrre dati e realizzare nella maniera più efficace delle mansioni di qualificazione e di automazione.31
La ludificazione è un fenomeno così ampio che tracima dallo stretto quadro del digital labor.32 L’importanza del playbor in questo settore riflette una tendenza più generale all’opera anche nelle aziende tradizionali,33 la cui organizzazione s’ispira da vari decenni ormai a una filosofia manageriale fondata sullo sviluppo personale, l’emulazione creativa, la convivialità degli spazi di lavoro, l’orizzontalità della gerarchia, la collaborazione in squadre, la conversione degli obiettivi in “sfide” e in dinamiche di gioco.34 In questo “nuovo spirito del capitalismo” (per citare Luc Boltanski ed Ève Chiapello) il playbor è la logica continuazione della cosiddetta “critica artistica” del lavoro che aveva permesso di sviluppare delle forme originali di coinvolgimento e stimolare la libera iniziativa dei lavoratori.35
In questo modo le aziende tradizionali e le piattaforme digitali finiscono per condividere lo stesso paradigma manageriale, sebbene non lo applichino nello stesso modo. Le prime sostituiscono con il gioco, almeno in apparenza, quello che prima era disciplina e sforzo, mentre le seconde creano una confusione che impedisce agli utenti di prendere coscienza della propria attività. Sospese in un’indeterminatezza tra svago e produzione, costringono i loro utenti a un “divertimento obbligatorio”.36 Il filosofo Ian Bogost definisce la gamification come un “software di sfruttamento” (exploitationware) che sostituisce agli incentivi diretti e chiaramente leggibili in funzione degli interessi del lavoratore (promozione, aumento salariale) degli incentivi opachi (una stella, dei punti, l’accesso a una nuova funzione della piattaforma ecc.).37
Le piattaforme non creano una confusione soltanto riguardo alla natura delle attività che incitano presso gli utenti ma anche nel loro rapporto con il tempo a esse dedicato.38 Spacciandosi per passatempo, il digital labor ludificato è in grado di scivolare negli interstizi della vita quotidiana per prolungarsi indefinitamente. Gli utenti che condividono contenuti sulle piattaforme o quelli che fotografano prodotti nei supermercati sull’app BeMyEyes (in cambio di una remunerazione) lo fanno nei tempi morti del loro lavoro o a fine giornata. Nello stesso modo sulle piattaforme la logistica del lavoro fuoriesce dai luoghi e dai tempi della produzione inquadrati dalla legislazione formale. Sebbene presentata come un’attività a tempo parziale (o a tempo addirittura infinitesimale), il digital labor è di fatto un’occupazione a tempo continuo.
Se crediamo a Jonathan Crary, il capitalismo all’epoca di Internet istituisce un’esistenza senza tempi morti che segna la “fine del sonno”.39 Per quanto apocalittica, questa immagine di un’umanità stanca e insonne è una perfetta allegoria delle pratiche digitali che impediscono agli internauti di chiudere gli occhi non soltanto attirando continuamente la loro attenzione ma incitandoli anche ad accumulare e produrre informazioni. Crary elenca i giochi d’azzardo, il porno e i videogiochi online come esempi di dispositivi tecnici che modificano il nostro rapporto con il tempo sfruttando leve ludiche. Dandoci l’illusione di padroneggiarlo e facendoci vincere, il gioco stimola pulsioni e appetiti specifici che intensificano la produzione di informazioni ventiquattr’ore su ventiquattro.
Il digital labor divora il tempo di vita, trasformando ogni momento in tempo di lavoro. Secondo Crary, “si tratta di tempo fin troppo prezioso per non essere sfruttato abilmente con molteplici fonti di stimoli e opzioni che consentono di massimizzare le proprie possibilità di rendimento economico e di fornire ininterrottamente sempre più dati e informazioni sulla propria utenza”.40
Il digital labor è immateriale?
La distorsione operata dalle piattaforme del nostro rapporto con il tempo ci porta al quinto e ultimo antecedente storico del digital labor: il lavoro immateriale. Questo concetto, reso popolare dal filosofo Maurizio Lazzarato negli anni novanta, designa tutto il lavoro di valorizzazione, di condivisione e di raccomandazione tipico del capitalismo cognitivo nelle industrie culturali. Come per il lavoro del consumatore, il lavoro domestico, il lavoro dello spettatore e il playbor, l’analisi parte dal superamento della distinzione tra lavoro di produzione e di riproduzione. Secondo questa scuola di pensiero, le attività culturali, relazionali e cognitive non sono estranee alle relazioni di mercato, che al contrario hanno “colonizzato” il tempo di vita.41 Parlare di lavoro immateriale implica analizzare la creazione di valore non come trasformazione materiale della realtà ma come incremento del “contenuto informazionale” inscritto nella merce. In questo modo, tutta una serie di attività che non venivano abitualmente riconosciute come lavoro – relative alla cultura, alle norme e ai modi di consumo – vengono considerate parte integrante della produzione.42 Si noteranno le analogie con la questione, sopra studiata, della produzione di valore di qualificazione da parte degli utenti delle piattaforme.
La differenza tra digital labor e lavoro immateriale sta tuttavia nel fatto che quest’ultimo, pur non essendo necessariamente specialistico, resta cionondimeno di tipo “intellettuale”: in questo senso va inquadrato nel più generale concetto marxiano di general intellect evocato al quinto capitolo. Questa intellettualità di massa rimanda a professioni a più elevato contenuto creativo rispetto a quelle sulle quali ci siamo concentrati nei capitoli precedenti. All’epoca in cui formulavano le loro analisi, Lazzarato e i suoi primi commentatori avevano sotto gli occhi tutt’altra realtà empirica, ancora dominata dai media e dalle industrie culturali tradizionali. Le manifestazioni più compiute del lavoro immateriale non erano i lavoratori del clic o gli annotatori di dati – che ancora non esistevano – ma il marketing, la produzione audiovisiva, la pubblicità, la moda, la fotografia. Nel settore digitale nascente, si concentravano principalmente sulla produzione di software, di siti web, di contenuti multimediali. Questi esempi rimandano a universi professionali ancorati nel terziario avanzato, mestieri ad alta specializzazione e forte visibilità ancora situati in luoghi di produzione caratterizzati dall’occupazione formale. Il concetto di lavoro immateriale sottintedeva dunque una visione più “nobile” delle attività digitali, e ha portato a privilegiare il lavoro creativo del data scientist o dello storyteller che ci vendevano il sogno dell’automa rispetto alla realtà più prosaica dell’utente dietro alla macchina.
Eppure, proprio nel suo sforzo di pensare la “macchina” nel suo rapporto con l’umano, l’analisi del lavoro immateriale si congiunge con quella del digital labor. Ispirata alle riflessioni di Gilles Deleuze e Félix Guattari in Millepiani,43 la concezione filosofica delle macchine come prolungamenti di corpi, desideri e cognizioni suggerisce un processo di “asservimento macchinico generalizzato” dell’uomo. Questo non si opera esclusivamente nei luoghi e nei tempi che corrispondono a quell’attività specifica che abbiamo chiamato “lavoro”, ma in una sfera extralavoro, indipendente dall’inscrizione dell’individuo in un rapporto occupazionale formalizzato, nella quale è possibile estrarre plusvalore persino “da un bambino, da un pensionato, da un disoccupato, da un telespettatore”.44
Lo studio del digital labor porta alle medesime conclusioni, ma caratterizzando la macchina come un dispositivo d’inscrizione del lavoro in una logica algoritmica di gestione dell’informazione e della comunicazione. Il che non implica tuttavia la scomparsa della dimensione “materiale” e manuale del lavoro. Il digital labor non è caratterizzato dalla sostituzione della manodopera da parte di un “cervello d’opera” (per citare l’economista Michel Volle45). La separazione tra materiale e immateriale discende in fondo da un rigido dualismo (tra intellettuale e manuale, nobile e volgare, struttura e sovrastruttura) con cui la tradizione marxista si era già confrontata negli anni settanta46 e che più recenti studi hanno denunciato come inadeguata per capire ciò che accade in Internet (decostruendo opposizioni come quella tra reale e virtuale, materiale e disincarnato ecc.).47 Il digital labor non è più immateriale del lavoro di un avvocato o di un operaio, soprattutto nell’attuale contesto di informatizzazione di tutte le professioni. E gli operai del clic, i moderatori di Facebook, gli annotatori di dati o gli utenti di Uber si confrontano con questioni altrettanto concrete e con mansioni da svolgere con il loro corpo, con i sensi, con le dita.
Lavorare in silenzio o lavorare nell’ombra?
Le analogie che abbiamo proposto con analisi che hanno preceduto lo sviluppo del digital labor ci hanno permesso di chiarificarne la specificità e di superare alcune dicotomie (lavoro e non lavoro, materiale e immateriale) che ne ostacolavano la piena comprensione. Le convergenze tra i diversi approcci esaminati e i loro limiti ci portano tuttavia a identificare una dicotomia ancora più determinante, quella che oppone un lavoro immediatamente riconoscibile ad attività che, attraverso la mediazione delle piattaforme digitali, diventano “tacite”, invisibili e fondamentalmente implicite.
L’invisibilità del lavoro nello spazio domestico, il carattere informale di quello dei consumatori o degli spettatori, l’ambiguità del playbor e la dimensione immateriale del capitalismo cognitivo attirano la nostra attenzione sulla difficoltà d’identificare e far riconoscere alcune attività come partecipanti al processo di produzione. Secondo Susan Leigh Star e Anselm Strauss, si tratta di una proprietà strutturale di ogni forma di lavoro, che riesce a “esprimersi” (voice) in certe fasi mentre in altre resta “tacito” (silent).48 L’oscillazione tra questi due poli contribuisce a definire “ciò che va considerato precisamente come lavoro”. Tra gli esempi di casi ambigui, la cui caratterizzazione come attività lavorativa non è evidente, troviamo sicuramente il lavoro domestico e quello di cura. Quello che una società riconosce davvero come lavoro dipende da articolate dinamiche storiche di professionalizzazione di certe attività, le quali, non appena “espresse” possono diventare carriere effettive. La definizione di quello che costituisce lavoro può tuttavia entrare in crisi, e attività prima considerate in un modo possono d’un tratto essere considerate in un altro, perdere lo status di lavoro ed essere ridotte al silenzio.
L’ultimo quarto del Ventesimo secolo potrebbe essere stato segnato da una simile crisi. L’aumento della disoccupazione, le ondate di ristrutturazioni aziendali e le politiche di esternalizzazione hanno portato a rimettere in discussione l’orizzonte del lavoro salariato per un numero crescente di individui, allo sviluppo della logica dell’esternalizzazione e al lavoro atipico. Più di recente la finanziarizzazione dell’economia e il declino del paradigma dell’azienda hanno accentuato questo processo di flessibilizzazione e di precarizzazione del lavoro rispetto al quale la piattaformizzazione rappresenta un passo ulteriore.
Queste condizioni incentivano l’apparizione di una “arena” nella quale si confrontano diverse definizioni del lavoro.49 Appaiono tensioni e diventa necessario negoziare per qualificare o non qualificare come lavoro tutto quello che ricade nella zona grigia d’indeterminatezza, sempre più estesa. Star e Strauss sottolineano quanto sia decisivo che il carattere dell’attività sia ostensivo oppure più discreto. Un lavoro visibile è più difficile da occultare. “Passare il lavoro sotto silenzio” è una prima tappa verso la sua cancellazione – o, nel contesto delle piattaforme digitali, verso la sua “automatizzazione”. Una delle tattiche più spesso impiegate per ridurre al silenzio il lavoro consiste, secondo Star e Strauss, nel depersonalizzarlo. Un lavoratore diventa invisibile (unseeable), per esempio, in seguito alla trasformazione-dissimulazione delle sue mansioni attraverso l’impiego di “sistemi in rete su larga scala” che danno l’impressione di affidare alle macchine un lavoro che viene di fatto soltanto delegato a esseri umani nascosti.50 Già alla fine degli anni novanta del Novecento, Star e Strauss attribuivano questo occultamento del lavoro all’emergere dei sistemi di gestione dell’informazione nelle aziende. Le grandi piattaforme, oggi, amplificano queste logiche su larghissima scala.
Non possiamo quindi pensare alla distribuzione del lavoro senza tenere conto della distribuzione della sua visibilità. Le due dimensioni influenzano la definizione e il valore dei dati o dei contenuti che circolano nelle infrastrutture informazionali delle piattaforme.51 La questione del mancato riconoscimento del digital labor è strettamente legata al problema del dualismo tra lavoro tacito e lavoro manifesto, che ci aiuta a situarlo in un contesto macrosociale dove tutti coloro che svolgono attività invisibilizzate e depersonalizzate hanno difficoltà ad accedere all’occupazione. Da questo punto di vista l’automazione e più in generale l’articolazione in rete del lavoro attraverso le nuove tecnologie svolgono una funzione di disciplinamento del lavoro, imbavagliandolo, per così dire, e impedendogli di esprimersi come tale.
Ma non abbiamo ancora detto tutto: essendo l’attività delle piattaforme frammentata in varie mansioni, abbiamo anche vari livelli nella capacità di esprimersi. Gli autori ci danno uno strumento utile per compensare questa debolezza nel momento in cui assimilano il lavoro tacito al “lavoro-ombra” (shadow work) che secondo Ivan Illich costituiva il “lato oscuro della produzione industriale”52 mettendo l’accento sulla “preparazione al lavoro alla quale ogni persona è costretta”.53 Il lavoro dell’ombra non è l’ombra proiettata dal “vero” lavoro, né un lavoro costretto alle tenebre in seguito a un conflitto sulla definizione intrinseca del lavoro, ma la parte di ogni lavoro che viene relegata dietro le quinte.
In quanto lavoro di preparazione all’automazione, il digital labor è un lavoro “oscuro”? Il concetto di conspicuousness permette di inquadrare precisamente questo punto. Il concetto di conspicuous consumption, coniato e reso popolare più di un secolo fa dal sociologo americano Thorstein Veblen, letteralmente “consumo ostensivo”, mostrava quanto fosse importante la visibilità di questa attività. In certi casi il consumo non risponde soltanto a bisogni materiali ma anche all’esigenza di esibire (ed eventualmente gonfiare) il proprio status sociale.54 Negli anni settanta il giurista Jethro Lieberman si è ispirato a questo concetto per proporre una nozione complementare, quella di “produzione non ostensiva” (inconspicuous production), per esempio tutte le attività produttive realizzate dietro gli sportelli.55 Prima dell’ascesa delle piattaforme, Lieberman si concentrava su gruppi professionali disparati come avvocati, architetti, ma anche parrucchieri e idraulici, per attirare l’attenzione sulla loro ricerca di un equilibrio tra la parte visibile e ritualizzata del lavoro (contatto con il cliente, ascolto e realizzazione del lavoro in pubblico) e un’altra, discreta e quotidiana, realizzata lontano dallo sguardo esterno. Nel mondo prima di Internet il lavoro non ostensivo consisteva essenzialmente in mansioni ripetitive e talvolta pesanti, elaborate o difficili da comunicare. In teoria dunque ogni mestiere poteva essere composto da una parte ostensiva e una parte non ostensiva, quest’ultima più piccola nelle attività creative e specializzate e più grande nelle attività meno specializzate, in particolare nel lavoro dipendente, nei ruoli amministrativi e in quelli di segreteria.
Nel contesto digitale, diverse mansioni di routine sono ugualmente silenziate e rese non ostensive. Tuttavia, contrariamente a quello che si potrebbe immaginare trattandosi di mansioni ripetitive e omogenee, la parte non ostensiva non è quella più facile da automatizzare: sulle piattaforme sono le mansioni ostensive a essere più spesso delegate ai robot, mentre le funzioni più meccaniche vengono lasciate agli umani. Pensiamo per esempio al lavoro sulle piattaforme on demand, caratterizzato da una parte ostensiva non trascurabile: guidare, realizzare lavori domestici, occuparsi dell’accoglienza o della ristorazione in tempo reale sono tutte attività visibili che però rischiano di essere automatizzate. In compenso il lavoro di produzione di dati e di clic da parte degli utenti di Uber, TaskRabbit, Airbnb non sembra destinato a essere meno necessario o a produrre meno valore. Il lucore dell’ostensibilità si oscura via via che ci spostiamo verso altre categorie del digital labor. Per esempio è sempre più difficile riconoscere il lavoro del Turker di Amazon, o quello degli utenti dei social media, in assenza degli sforzi di visibilizzazione operati attraverso le lotte sociali.
Per queste ragioni la caratterizzazione dell’automazione proposta da Star e Strauss non è più sufficiente a questo stadio. Basandosi sull’osservazione di contesti sociotecnici precedenti lo sviluppo delle piattaforme digitali, gli autori insistevano sul ruolo attivo dei sistemi tecnici “per far tacere il lavoro”. Ma la frontiera tra ostensivo e non ostensivo ci offre una diversa prospettiva, attirando la nostra attenzione sulla necessità per le piattaforme di ricorrere all’invisibilizzazione per produrre tutto ciò che oggi ci viene spacciato per automazione.
Iperoccupazione
L’emergenza del digital labor non è un processo endogeno esclusivamente legato allo sviluppo delle tecnologie digitali, ma anche la conseguenza di trasformazioni dell’occupazione formale in seguito a varie ondate di ristrutturazioni aziendali, di esternalizzazione della produzione e di parcellizzazione delle mansioni alla fine del Ventesimo secolo, nonché dello sviluppo dell’automazione e della finanziarizzazione nel Ventunesimo secolo. La conseguente rinegoziazione del rapporto tra parti visibili e invisibili del lavoro non porta necessariamente a un aumento del “non lavoro” ma di certo a una ridefinizione delle frontiere dell’occupazione. Non è che il tempo di lavoro aumenta, come potevano ancora suggerire le teorie sul lavoro immateriale: semmai assistiamo all’ascesa di un sistema di “iperoccupazione”.56 Secondo il filosofo Ian Bogost, i lavoratori contemporanei sono costretti a realizzare una parte della loro attività produttiva formale come digital labor che può essere richiesto in ogni luogo e in ogni momento: negli spazi pubblici, a casa, ma anche paradossalmente nei luoghi di produzione tradizionali. In ogni momento del giorno o della notte, grazie a dispositivi onnipresenti connessi al nostro corpo e ai nostri spazi di vita, gli utenti possono ricevere una notifica, una richiesta, un ordine. Questa disponibilità permanente, spesso interpretata come dipendenza o comportamento compulsivo, magari come esigenza di socialità legata agli affetti, manifesta invece l’intensificazione delle mansioni produttive assegnate da colleghi, superiori gerarchici, clienti ecc.
L’iperoccupazione costituisce un’estensione del digital labor che riguarda sia le occupazioni formali sia le diverse situazioni di “extralavoro” o d’instabilità professionale già analizzate. Nello stabilire un ponte tra la condizione degli occupati, quella dei disoccupati e quella dei precari, questo concetto fa emergere l’esistenza di un “contratto implicito” tra ogni individuo e le aziende del settore digitale. Non assistiamo alla fine della tradizionale dipendenza tra datore di lavoro e salariato, ma al contrario alla moltiplicazione delle forme di dipendenza.
Il filosofo si concentra in particolar modo sull’esempio della posta elettronica, considerata un dispositivo di allocazione di mansioni del tutto indifferente 57agli orari e alle situazioni. Inizialmente concepita per coordinare diversi utenti che condividono le medesime risorse informatiche in contesti collaborativi, e sotto l’apparenza di un semplice strumento di corrispondenza legato al luogo di lavoro, l’e-mail in realtà funziona come un elenco senza fine di mansioni da attivare. Spedire un’e-mail significa chiedere un’informazione o delegare una funzione. Ogni messaggio è come un ordine che proviene da un superiore, da un cliente, da un collega – un obbligo che richiede un’azione o che espone a dei costi in caso di non risposta. La posta elettronica incarna e riassume due aspetti cruciali di ogni forma di digital labor. Da una parte, trasforma ogni occupazione in attività senza tempi morti, just in time, on demand; dall’altra la sua natura eminentemente sociale mobilita un insieme di competenze relazionali manifestate attraverso la produzione di contenuti multimediali (in particolare testi e immagini, audio o video negli allegati). Bogost insiste inoltre sul modo in cui l’e-mail riesce a disciplinare il lavoro, attraverso la sua capacità di “riprodursi in una massa sufficiente per creare ansia e confusione. Il flusso costante di nuovi messaggi produce un’offerta infinita di potenziale lavoro”.58
La nozione di iperoccupazione non deve essere considerata una critica dell’impatto delle tecnologie informatiche nel quadro del lavoro classico. Serve semmai a sottolineare il legame tra i sistemi di gestione delle aziende “in transizione digitale” e il mondo delle piattaforme, sulle quali le prime si appoggiano per coordinare il lavoro dei loro dipendenti. I dipendenti non combattono qui con il lavoro “gratuito” degli utenti delle reti sociali o con il sottoimpiego dell’economia on demand o ancora con il microlavoro, ma si confrontano con una perdita di autonomia, una sensazione di “essere sommersi” prodotta dal flusso delle e-mail che può facilmente trasformarsi in un “senso di rassegnazione” a fronte dell’incapacità di lavorare altrimenti. I rischi professionali di burn-out comunicazionale e di esplosione della mole di lavoro toccano sia le persone integrate formalmente nel mercato del lavoro sia quelle in condizioni di vulnerabilità e instabilità. L’iperoccupazione, conclude Bogost, colpisce tuttavia in maniera diversa il dipendente e il precario:
La sola differenza tra la disperazione dell’iperoccupato e quella del disoccupato o del sottoccupato è che queste ultime condizioni appaiono inaccettabili, mentre sul fronte degli iperlavoratori si celebra una presunta libertà di “condivisione” e di “connessione”, che dovrebbe permettere loro di svolgere più facilmente e con maggiore efficacia, nel comfort della loro macchina o del bagno di casa, delle attività che in passato venivano affidate a persone competenti e remunerate.59