1.
Gli
esseri umani sostituiranno i robot?
Le macchine sono degli esseri umani che calcolano
Nella prima metà del secolo scorso, il matematico inglese Alan Turing condusse un intenso programma di ricerca: inaugurato nel 1936 con la conferenza On Computable Numbers tenuta alla London Mathematical Society, culminò quattordici anni più tardi con l’articolo Computing Machinery and Intelligence.1 Nel primo testo, Turing enunciava il postulato sul quale si sarebbero fondate tutte le ricerche successive sull’intelligenza artificiale, secondo cui non esiste alcuna ragione fondata per non applicare gli stessi criteri agli uomini e alle macchine in termini di capacità di pensare, percepire e persino desiderare2: “Possiamo paragonare un uomo nell’atto di calcolare un numero reale a una macchina”.3
Gli esseri umani sarebbero perciò delle macchine come le altre. Se questo ha spinto generazioni di scienziati a credere nella possibilità di creare macchine intelligenti (e generazioni di imprenditori a tentare di fare affari con questa intuizione), la visione meccanicista della mente è stata fin da subito criticata aspramente da diversi filosofi, tra i quali Ludwig Wittgenstein. In effetti l’autore del Tractatus logico-philosophicus aveva sviluppato una teoria diametralmente opposta, ben riassunta dal suo commento sulle macchine di Turing: queste ultime, secondo lui, non sarebbero altro che degli “esseri umani che calcolano”.4
Indubbiamente il suo scetticismo radicale riguardo alla possibilità di modellizzare matematicamente il funzionamento della mente umana è oramai superato. Dopo la vittoria del supercalcolatore Ibm Deep Blue contro il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov nel 1997 e dopo l’utilizzo nel 2017 della rete neurale convoluzionale GoogLeNet per diagnosticare un cancro con lo stesso livello di esattezza di un medico, usciamo da vent’anni di successi dell’intelligenza artificiale, come ampiamente riportato dai media. L’opinione pubblica sarebbe particolarmente sorpresa, oggi, se qualcuno le dicesse che le macchine non possono (se non attualmente, comunque in un prossimo futuro) “pensare come gli esseri umani”.
L’incredulità di Wittgenstein tuttavia non riguardava il livello di performance che le macchine avrebbero potuto raggiungere nella simulazione dei processi cognitivi umani, bensì al contrario la vera natura di queste invenzioni. Il filosofo sottolineava che le “macchine” non possono esistere senza l’assistenza degli esseri umani per insegnare loro come pensare. E questi umani non sono soltanto gli scienziati che le concepiscono e le costruiscono. Il supercalcolatore Ibm non sarebbe riuscito a sconfiggere il campione russo se quattro grandi scacchisti non l’avessero allenato a giocare, condividendo con lui le loro strategie segrete. Nello stesso modo, la rete neurale impiegata per le diagnosi mediche non sarebbe diventata così performante senza ricorrere a un milione di esempi di immagini di tumori della pelle prodotte, digitalizzate e annotate da centinaia di migliaia di professionisti.
Il punto di vista di Wittgenstein ci permette di liberare il campo delle riflessioni sull’intelligenza artificiale da un malinteso ricorrente. Si tratta dell’idea che le macchine intelligenti potrebbero diventare autonome da ogni intervento umano ricorrendo alle proprie presunte capacità cognitive. Secondo il filosofo austriaco, invece, questa autonomia non è dimostrabile. Turing sarebbe stato d’accordo con lui su almeno un aspetto, ovvero che l’intelligenza artificiale non presuppone che le macchine abbiano delle capacità cognitive. Al massimo, il computer “esibisce dell’intelligenza” che non è altro che l’effetto dell’esecuzione meccanica di istruzioni che gli vengono fornite: prendere una variabile, attribuirle un valore, dividerla per un coefficiente ecc. Queste istruzioni possono essere definite come le procedure elementari (atomic tasks) di un software o di un procedimento di calcolo.5
È proprio così che funzionano gli algoritmi che regolano gli aspetti più disparati delle nostre vite, e che non sono altro che una sequenza di operazioni da effettuare per ottenere un risultato. Cambia poco se questo consiste nell’individuare via Gps il percorso più rapido con mezzi pubblici (“calcolare il punto di partenza”, “calcolare il punto d’arrivo”, “sovrapporre tutti i potenziali percorsi in metropolitana con la distanza più breve tra i due punti”) o trovare l’anima gemella su Tinder (“prendere il profilo A”, “analizzare una quantità finita di attributi”, “abbinarli con quelli del profilo B” ecc.): in ogni caso si tratta di istruzioni eseguite dalle macchine, senza che in nessun momento venga loro attribuito un senso. Il problema filosofico del “pensiero delle macchine” si dissolve di fronte a questa intelligenza artificiale che si limita a eseguire meccanicamente delle procedure elementari.
Proprio per questo si parla di artificialità: nessuna di queste procedure richiede che la macchina capisca qualcosa, eppure un simulacro d’intelligenza si manifesta come se si trattasse di una proprietà emergente.6 Il problema, tanto nell’ottica di Turing quanto in quella di Wittgenstein, può quindi essere rovesciato. Non si tratta di concepire una macchina capace di inter-legere, nel senso latino di “leggere tra le righe” (nello specifico, le righe di codice che vengono eseguite dall’algoritmo), bensì di mettere quelle “macchine” che sono gli esseri umani in condizione di eseguire meccanicamente delle istruzioni senza difficoltà né dubbi. Il programma di ricerca dell’intelligenza artificiale non può perciò essere dissociato da una certa forma di cibernetica sociale, ovvero l’arte di controllare gli esseri umani e di disciplinare l’esecuzione delle loro attività.
I due digital labor
Questa cibernetica delle attività umane si manifesta nel contesto economico attuale attraverso il digital labor. Questa espressione, che traduciamo in maniera imperfetta parlando di “lavoro digitale”, ha due significati piuttosto diversi nel dibattito pubblico. Il primo è stato adottato negli anni dieci del Duemila negli ambienti dei consulenti aziendali, degli innovatori e presso gli esperti dei think tank. Per loro il digital labor definisce l’automatizzazione completa dei processi produttivi coniugando le innovazioni nel settore della robotica con quelle dell’analisi dei dati. La seconda espressione, in realtà anteriore, è stata utilizzata a partire dalla metà degli anni duemila dagli universitari, dai militanti e dagli analisti politici. In questo caso, si può parlare di digital labor per indicare al contrario l’elemento umano che le tecnologie digitali contribuiscono a rendere produttivo, spingendolo a eseguire azioni che producono valore. Questo concetto ha anche una dimensione politica, perché denuncia il modo in cui il lavoratore viene invisibilizzato da chi progetta e possiede le piattaforme. Proprio come i grandi scacchisti stavano nascosti dietro a Deep Blue, il lavoro umano è occultato dietro alle macchine.
Questi differenti approcci ricapitolano la frattura originaria tra la visione di Turing e quella di Wittgenstein riguardo al ruolo dell’umano rispetto all’intelligenza artificiale. Coloro per i quali il digital labor coincide con la “piena automazione” e annuncia la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie smart, aderiscono alla linea definita da Turing; mentre quelli che pensano che il digital labor riguardi innanzitutto uomini e donne, lavoratori e lavoratrici, spingendosi inoltre a interrogarsi a proposito dell’impatto su di essi del cambiamento tecnico e manageriale, seguono la scia di Wittgenstein.
Coerenti con il primo approccio sono coloro che incitano o costringono gli esseri umani a realizzare quelle mansioni automatizzate che rendono possibile l’illusione della macchina pensante, se necessario svilendo il contributo del lavoro umano. Lo scopo dei secondi è di studiare le implicazioni di questo svilimento del lavoro, mostrandone invece la centralità a fronte di bisogni crescenti nella produzione di dati e nelle mansioni di gestione dell’informazione.
Il digital labor, per come lo intendiamo, definisce il processo di scomposizione in mansioni elementari e datificazione delle attività produttive umane che caratterizza l’applicazione nella sfera economica delle tecnologie di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico. Si tratta di una costellazione di pratiche all’incrocio tra lavoro atipico, lavoro indipendente, lavoro a cottimo microremunerato, hobby professionalizzato, passatempo monetizzato e pura e semplice effusione spontanea di dati. Fenomeni molto diversi, insomma, tra i quali sarà necessario individuare le articolazioni alla luce di una ricerca più ampia sull’impatto delle tecnologie sull’attività umana.
La tentazione automatica
Le speculazioni sulla tecnologia non sono certo una novità del nostro tempo. Del poeta latino Quinto Ennio ci restano soltanto pochi frammenti ma uno esprime in poche parole un’inquietudine ricorrente: “La macchina è un’immensa minaccia [machina multa minax]”7 in quanto “fa pesare un grande pericolo sulla città [minitatur maxima muris]”. Poco importa se, nell’immaginazione del poeta, la tecnologia in questione fosse un congegno militare, il cavallo di Troia, e se la città assediata fosse quella di Priamo: fin dalle sue origini la nostra civiltà si interroga sugli effetti dei dispositivi tecnici sulla società civile, e le antiche inquietudini riemergono con regolarità inesorabile. Il timore che le macchine distruggano la vita – nuda vita oppure vita in comune – trova la più recente incarnazione nel grande dibattito sulla fine del lavoro.
L’idea che la paura dell’automazione sia una caratteristica peculiare della nostra epoca è piuttosto discutibile. Il discorso sulla “grande sostituzione” del lavoro umano da parte delle macchine ha almeno due secoli, fin dalle analisi dei pensatori classici della rivoluzione industriale. L’inglese Thomas Mortimer, per esempio, nelle sue Lectures on the Elements of Commerce, Politics and Finance del 1801, se ne crucciava: esisterebbe una tipologia di macchine “progettate per accorciare o facilitare il lavoro dell’umanità” e altre “che hanno come scopo di escludere pressoché totalmente il lavoro della specie umana [almost totally to exclude the labour of the human race]”.8 Malgrado questo “pressoché”, malgrado questa approssimazione tutto sommato ottimista, secondo l’autore qualsiasi politica pubblica improntata al buonsenso deve opporsi a questa seconda tipologia di tecnologia.
Da parte sua David Ricardo dedica alla questione il capitolo 31 dei suoi Principi di economia politica e dell’imposta, aggiunto nella terza edizione del 1821, intitolato On machinery. L’economista insiste sulla natura puramente strumentale dell’utilizzo delle soluzioni meccaniche. Queste non hanno nulla di ineluttabile ma al contrario discendono da una “tentazione di ricorrere alle macchine [temptation to employ machinery]” congenita al capitalista: impegnato a cercare in ogni modo di ridurre il costo del lavoro attraverso l’aumento della produttività, trova nell’automazione soltanto uno degli sbocchi possibili. Potrebbe sostituire il lavoratore tanto con un dispositivo meccanico quanto con altra manodopera a costo più basso (ottenuta grazie al “commercio estero [foreign trade]” ovvero la delocalizzazione), o ancora sfruttando la forza degli animali.9 La scelta dell’automatizzazione dunque risulta da un calcolo del proprietario della manifattura che confronta opzioni per lui indifferenti.
Questo approccio viene portato all’estremo da un contemporaneo di Ricardo, lo scozzese Andrew Ure, che nella sua Philosophy of Manufacturers del 1835 aggiunge alla lista delle potenziali soluzioni “la sostituzione del lavoro degli uomini con quello di donne e bambini”.10 Sebbene le macchine, secondo lui, mirino a “sostituire interamente il lavoro umano [supersede human labour altogether]” lo scopo finale di chi vi ricorre non è la distruzione del lavoro in quanto tale ma la diminuzione del suo costo. L’automazione assomiglia in questo senso a una profezia che si autoavvera: continuamente sventolata come minaccia dal padronato, il suo solo spettro esercita una pressione sui lavoratori, disciplinandoli e giustificando paghe più basse. Il lavoro è sempre sull’orlo della scomparsa, ogni essere umano potenzialmente in sovrannumero.
Prima ancora di diventare una possibile soluzione scientifica per specifici problemi tecnologici, l’automazione si pone come soluzione economica a un rapporto sociale contraddittorio. “La più perfetta delle manifatture,” dice ancora Ure, “può fare a meno del lavoro delle mani.” Ma questa possibilità non è altro che un modo di governare il lavoro delle mani esponendolo a un fantasmagorico terrore, quello della multa minax tecnologica.
Macchine, bambini, stranieri e persino animali sono tra loro equivalenti, praticamente sinonimi, della macchina. Di fronte a questa confusione ontologica, la definizione della tecnologia non può che costituirsi in negativo: l’automazione è tutto ciò che non è “lavoro delle mani”. In questo libro mostreremo che, precisamente partendo da questa definizione, la vera sostituzione portata dalla rivoluzione digitale è quella tra le mani e le dita, lavoro “digitale” in senso stretto.
Gli scarti della società dell’informazione
Quella che per i vecchi economisti inglesi non era altro che una possibilità, ovvero che i lavoratori umani fossero sostituiti dalle macchine, a partire dagli anni settanta prende l’aspetto di una profezia radicale sulla fine del lavoro. Sebbene contrapposti tra loro, l’allarme di Daniel Bell sul declino dei mestieri manuali nelle società postindustriali11 e la celebrazione da parte di Simon Nora e Alain Minc della diminuzione dell’occupazione in certi settori (amministratori, segretari, impiegati di banche e assicurazioni)12 condividono una simile ricezione discontinuista dell’effetto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Coerentemente con queste analisi, Jeremy Rifkin ha sostenuto più di recente che lo sviluppo di strumenti informatici segnava l’avvento di un’era di crescita senza occupazione e quindi la crisi dell’ordine sociale fondato sul lavoro.13 Per demistificare questa congettura, tutto sommato semplicistica, si è dovuta ricostruire la genealogia del concetto di lavoro. Per esempio la sociologa Dominique Méda ne ha sottolineato la centralità come elemento costitutivo del legame sociale.14 Eppure, per quantificare l’impatto delle tecnologie informatiche sull’evoluzione contemporanea del lavoro, bisogna concentrarsi sulle asimmetrie tra lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione.
Dalla fine degli anni novanta è probabilmente Manuel Castells, nella sua trilogia sulla “società in rete”, ad avere proposto le letture più convincenti del ruolo dell’automazione come vettore di nuove relazioni industriali. Nei capitoli dedicati alle trasformazioni del lavoro e dell’occupazione, il sociologo spagnolo associa strettamente l’apparizione di modelli di crescita economica basati sull’informazione ai fenomeni di flessibilizzazione e frammentazione del quadro lavorativo. Il cuore della forza-lavoro si troverebbe a questo punto formato da “generatori di conoscenza” e “manipolatori di simboli” opposti a una manodopera usa-e-getta che può essere automatizzata, assunta, licenziata, delocalizzata, in funzione della variazione della domanda e del costo del lavoro.15 Più che la fine del lavoro, l’automazione (o ciò di cui l’automazione è soltanto il nome) implica una dualizzazione, una segmentazione e in fin dei conti una decomposizione del lavoro come forza sociale.16
Le analisi più recenti sembrano concordare sull’idea di una polarizzazione tra mestieri iperspecializzati e indispensabili da una parte e mestieri non qualificati dall’altra, considerati come scarti della storia.17 Ma questo scenario, in continuo rinnovamento, ha ultimamente subito un’ulteriore trasformazione. Se fino a ora questi mestieri non qualificati e sempre più dequalificati – gli anglosassoni parlano di “lousy job” – venivano solitamente associati a mansioni semplici e ripetitive, oggi il miraggio di un’intelligenza artificiale capace di riprodurre dei processi cognitivi complessi permette di includere persino i mestieri creativi, intellettuali e relazionali nelle profezie distopiche sulla sostituzione.
Da questo punto di vista, l’ormai emblematico “studio dell’università di Oxford” firmato da Carl Benedikt Frey e Michael Osborne si situa al centro di una vivace controversia internazionale fin dalla sua pubblicazione nel 2013. Si tratta di un rapporto di una cinquantina di pagine (appendici escluse) diffuso da principio in forma di working paper e poi pubblicato su una rivista di futurologia, che tenta di valutare il numero di impieghi che verranno “distrutti dalle macchine”.18 Lo studio si concentra sugli Stati Uniti d’America analizzando una serie di funzioni professionali sia manuali sia cognitive (produzione, trasporto, commercio, servizi, agroalimentare, sanità ecc.) e stima la probabilità della loro sostituzione da parte di robot o software in funzione del loro grado di ripetitività e dell’attuale grado di automazione. Le conclusioni sono drastiche: il 47 per cento degli impieghi ha una forte probabilità di scomparire a fronte dell’ondata di innovazione tecnologica basata sull’apprendimento automatico e sulla robotica mobile.
Lo studio di Osborne e Frey ne ha ispirati altri che hanno tentato di riprodurre, aggiornare o trasporre i loro risultati in altri contesti. L’istituto Roland Berger, una delle principali società di consulenza strategica, ha stimato l’impatto dell’automazione sull’occupazione in Francia nel 2025. Stesso metodo dello studio di Oxford, medesima conclusione inesorabile: il 42 per cento degli impieghi rischia di scomparire.
Eppure i numeri di questa scomparsa annunciata del lavoro sollevano parecchie critiche. La metodologia usata ha molti limiti e fallacie, di natura sia concettuale sia statistica. Soltanto un sottocampione del 10 per cento di tutte le funzioni professionali viene esaminato dagli autori. Come possono generalizzare a interi settori senza distinguere tra quelli in cui l’automazione ha conseguenze più nette e quelli in cui gli effetti sono più deboli? Ragionando ceteris paribus – ovvero dando per scontata l’uniformità delle condizioni di partenza – sorgono innumerevoli problemi: gli autori sembrano non prendere in considerazione che gli effetti di sostituzione possano essere compensati dalla creazione di nuove attività: mestieri che non esistono ancora, mestieri il cui contenuto sarà riconfigurato dall’innovazione tecnologica ecc.
Tuttavia la critica più grave riguarda una fallacia nella concettualizzazione dell’automazione da parte dei ricercatori di Oxford. Essi concepiscono l’innovazione come un processo che trascende i rapporti sociali di produzione e quindi immaginano che l’introduzione di soluzioni automatiche possa farsi “senza resistenze [frictionless]”. Qui appare evidente la distanza tra le prime e le ultime teorizzazioni sull’innovazione applicata al lavoro. Se Ricardo, Ure e i loro successori tenevano sempre a mente il quadro sociale dell’espansione del macchinismo, al contrario Osborne, Frey e gli altri futurologi sembrano ignorare questa dimensione.
Robot contro lavoratori: lo scontro che non ci sarà
In fondo stiamo facendo i conti con una versione aggiornata, applicata all’automazione e all’intelligenza artificiale, del paradosso di Solow. Alla fine del Ventesimo secolo l’economista americano Robert Solow notava che “vediamo l’era dei computer dappertutto, tranne che nelle statistiche sulla produttività”. Similmente possiamo affermare oggi che vediamo l’automazione distruggere il lavoro ovunque, tranne che nelle statistiche sul lavoro.
Il rapporto 2017 dell’ufficio statistiche del Dipartimento del Lavoro americano, per esempio, presenta un quadro ambiguo: rispetto al precedente decennio, negli ultimi anni l’automazione si è diffusa molto lentamente. Gli aumenti di produttività che misurano l’impatto sui lavoratori dell’introduzione di procedure automatiche restano sotto la media dell’1 per cento nel settore non agricolo e nel settore manifatturiero.19 Questo immobilismo non è limitato al continente americano. Alcuni paesi del Nord hanno sperimentato una crescita della produttività molto lenta, per non dire negativa. Secondo Dean Baker, direttore del Center for Economic and Policy Research, “in pratica i lavoratori stanno sostituendo i robot: viviamo una situazione in cui abbiamo bisogno di sempre più lavoratori per ottenere gli stessi risultati economici”.20
I numeri, in effetti, contraddicono la tesi dei sostenitori della “grande sostituzione automatica”: un paradosso particolarmente evidente nel settore della robotica. Uno studio su diciassette paesi tra il 1993 e il 2007 mostra l’assenza di effetti significativi dell’introduzione di robot industriali multifunzione sull’occupazione globale in termini di ore lavorate.21 Quanto alle ricerche finanziate direttamente dalle aziende di robotica, si impegnano perlopiù ad alleviare le inquietudini dell’opinione pubblica. Il rapporto Metra Martech per l’International Federation of Robotics del 2016 aveva un titolo chiarissimo: “L’impatto dei robot industriali sull’occupazione è positivo”. Il rapporto sosteneva che, dal 2017 al 2020, grazie a queste tecnologie sarebbero stati creati tra i 450.000 e gli 800.000 posti di lavoro nel mondo. Contro ogni aspettativa, saremmo dunque di fronte a un trend di crescita indotto dall’innovazione?22 Anche senza prendere per buona la narrazione secondo cui la digitalizzazione e la robotizzazione stimolerebbero l’occupazione, basta confrontare gli indicatori sul livello di automazione e i tassi di disoccupazione nei paesi industrializzati del G20 per notare che quelli con il più alto tasso di automazione (numero di robot industriali per 10.000 occupati) hanno anche i tassi di disoccupazione più bassi. La Corea del Sud ha 531 robot per 10.000 occupati e soltanto il 3,4 per cento della popolazione attiva in cerca d’impiego. La densità di robot in Giappone è paragonabile a quella della Germania (rispettivamente 305 e 301 per 10.000 occupati) e i loro tassi di disoccupazione sono del 3,1 per cento e 3,9 per cento. Quanto all’Italia, con un rapporto tra robot e occupati più basso (185/10.000), ha un tasso di disoccupazione più alto (11,9 per cento).23
Se l’estensione del settore della robotica ci permette di stimare approssimativamente il livello di automazione di un’economia nonché di stimare il rapporto tra occupati e robot, valutare un’eventuale correlazione con il tasso di disoccupazione è più rischioso. In effetti questi indicatori non tengono conto di due elementi importanti: innanzitutto, che la robotizzazione non è più soltanto questione di braccia meccaniche nelle fabbriche; e, secondariamente, che il lavoro non coincide con l’occupazione.
Sebbene nell’immaginario i robot siano ancora quelle entità spaventose ispirate alla fantascienza – automi antropomorfi e simulacri di corpi umani –, nel contesto contemporaneo un “robot” (soprattutto se abbreviato in bot) indica dei software che interagiscono con gli esseri umani. Si tratta di “robot logici” molto diversi dalla proverbiale macchina automotrice ottocentesca “senza cervello né mani”, per citare l’antropologo André Leroi-Gourhan.24 Usiamo ancora quello stesso termine per parlare tanto di macchine industriali quanto di stringhe di codice informatico che ordinano, classificano, calcolano itinerari, twittano, chattano, fanno acquisti ecc. Persino nel contesto industriale, la loro caratteristica principale non è la forza o la resistenza, ma la capacità di articolare procedure informazionali complesse attraverso software.
All’attuale ondata di automazione, il lavoro oppone resistenza. Resiste nella sua dimensione culturale, in quanto valore fondativo del nostro modo di vivere-assieme, ma resiste anche nella sua sostanza, restando al centro delle traiettorie di vita degli individui e del sistema produttivo.
Per capire questa persistenza bisogna rovesciare l’ottica secondo cui le unità di riferimento che permettono di misurare gli effetti dell’automazione sarebbero le mansioni elementari che compongono ogni singolo impiego, e concentrarsi invece sull’impiego nel suo insieme. Anche gli impieghi a più alto rischio di automazione contengono spesso una quantità di mansioni che non possono essere automatizzate. Uno studio comparativo dell’Ocse su ventuno paesi nel 2016 sostiene che stiamo sovrastimando l’automatizzabilità delle attuali professioni. Sebbene il 50 per cento delle mansioni verrà considerevolmente modificato dall’automazione e dall’introduzione dell’intelligenza artificiale, solo il 9 per cento degli impieghi rischia effettivamente di essere eliminato.25
Siamo lontani dalle profezie funeste dei ricercatori di Oxford. È dunque lecito chiedersi, come ha fatto David Autor del Mit, perché è così difficile dimostrare la presunta obsolescenza del lavoro, che per molti è addirittura inesorabile. L’economista nota che, per due secoli, il rapporto tra occupazione e popolazione è cresciuto continuamente, senza che il livello globale della disoccupazione aumentasse visibilmente né stabilmente. A ogni innovazione, e a ogni reazione di preoccupazione per le sue conseguenze, puntualmente si risponde: “questa volta è diverso”. Anche oggi sarebbe diverso: si parla di tecnologie digitali “disruptive” che rivoluzionerebbero finalmente l’ordine sociale fondato sul lavoro. Eppure, secondo Autor, questa narrazione rivoluzionaria non tiene in considerazione il rapporto di complementarità profonda tra il gesto produttivo umano e il funzionamento delle macchine. La dialettica automazione/lavoro, sebbene non priva di tensioni, determina un aumento della domanda di lavoro.26
Un esempio lampante di questa complementarità si trova nel settore bancario, dove l’introduzione degli sportelli automatici nel periodo 1980-2010 ha portato a una riqualificazione, e non a una soppressione, di alcune categorie di dipendenti. Solo negli Stati Uniti, gli sportelli sono passati dai 100.000 ai 400.000 tra la fine del Ventesimo secolo e il primo decennio del Ventunesimo. Tuttavia il numero dei cassieri nelle banche non è diminuito ma si è stabilizzato, grazie all’espansione del settore. Ecco quello che è successo: poiché la presenza dei bancomat permette di gestire un’agenzia con meno dipendenti, questo ha stimolato la moltiplicazione delle agenzie, che sono aumentate del 43 per cento dal 1990.27 Se la domanda di lavoro umano non varia quantitativamente, l’effetto decisivo dell’automazione è sul piano qualitativo: modifica il contenuto o addirittura la natura del lavoro. Le mansioni automatizzate scompaiono dalle competenze richieste ai cassieri, mentre se ne aggiungono altre: relazioni con il cliente, consulenza finanziaria, vendita di nuovi prodotti d’investimento.
David Autor ci fornisce dunque gli elementi per il nostro cambio di prospettiva: bisogna smettere di considerare l’occupazione umana un malato terminale che rischia di trapassare a ogni piccola o grande innovazione tecnica, e invece concentrarsi sulle attività che costituiscono la quotidianità concreta dei lavoratori. Ci sono mansioni che possono essere automatizzate, è vero; ma non sono mai tutte, e mai contemporaneamente. Il lavoro non scompare.
Sostituzione o trasferimento?
Se l’influenza dell’automazione non si riduce alla sostituzione delle entità organiche (i lavoratori) da parte delle entità artificiali (i bot, i sistemi intelligenti ecc.), allora la posta in gioco è un’altra: la digitalizzazione delle mansioni umane. Si tratta di un processo a sé stante che modifica la sostanza del lavoro portando all’estremo due tendenze di lungo periodo: la standardizzazione e l’esternalizzazione dei processi produttivi. La riduzione del gesto produttivo a una sequenza standardizzata di attività parcellizzate lo rende compatibile con le procedure automatizzate. Questo era vero per la meccanizzazione taylorista del secolo scorso e resta vero nel nuovo taylorismo delle piattaforme digitali e delle tecnologie smart. La specificità delle odierne tecnologie informazionali rispetto a quelle del passato risiede nel loro rapporto con lo spazio. La produzione digitale può essere realizzata ovunque: il luogo fisico in cui si manifesta l’automazione non è prestabilito, né limitato ai confini dell’azienda tradizionale. Ha luogo altrove, ovunque. Anzi: poiché la si può parcellizzare in una miriade di mansioni uniformi, ha luogo in “vari ovunque”.
Per riprendere l’esempio del bancomat, la digitalizzazione di alcune mansioni umane non porta a processi essenzialmente automatici. Sono soprattutto gli utenti, i consumatori, i clienti ad avere la responsabilità di far funzionare le macchine. Ormai sono loro e non i cassieri a procedere all’identificazione, a realizzare le transazioni, a contare il denaro. Lo stesso accade per altre tecnologie cosiddette “self service”, come i terminali per il check-in o le casse automatiche nei supermercati.28
Ecco perché attraverso le tecnologie digitali non si realizza una sostituzione del lavoro ma il suo trasferimento, con la delega di un numero crescente di mansioni produttive a dei non lavoratori (o a dei lavoratori non remunerati e non riconosciuti come tali). Cominciamo a intravedere il principio del “lavoro del consumatore” che risulterà centrale nell’analisi nei capitoli che seguiranno.29 Tra un soggetto commerciale e il suo utente si stabilisce un rapporto sociale, mediato dalle tecnologie digitali, che mira alla produzione di un bene o di un servizio: è quello che alcuni autori, come Ursula Huws, chiamano “lavoro di consumo non remunerato [unpaid labor of ‘consumption work’]”.30
Il lavoro mediato dalle tecnologie digitali permette di liberarsi da certe analisi troppo centrate sul lavoro dipendente per riconoscere la grande varietà di soggetti che popolano gli spazi esterni della produzione. È indispensabile aprire gli occhi sul contributo necessario di gruppi umani che hanno avuto difficoltà sia ad accedere al lavoro sia a essere riconosciuti nel mondo nato dalla rivoluzione industriale: minoranze, donne, esclusi. In questo senso il lavoro del consumatore richiama paradossi simili a quelli del lavoro domestico. Entrambi permettono alle aziende di sfruttare al massimo le logiche di dipendenza che caratterizzano gli ecosistemi umani situati attorno – e non all’interno – del classico “luogo di lavoro”.
Evidentemente né il lavoro del consumatore né il lavoro delle donne esauriscono lo spettro dei concetti cui si può ricorrere per descrivere le forme peculiari dell’attività umana nell’era delle tecnologie digitali. Vedremo in seguito che una parte importante delle attività produttive di valore viene spesso occultata nel back office. Altre volte, viene miniaturizzata nella forma del microlavoro oppure cancellata dal campo visivo attraverso la delocalizzazione, realizzata da lavoratori precari all’altro capo del mondo. E spesso è la sua stessa natura di attività lavorativa a essere negata, perché la si interpreta semplicemente come un gioco, una forma di partecipazione, di cura, di realizzazione personale ecc.
Automatizzazione o digitalizzazione?
Il lavoro digitalizzato non è “lavoro morto”, per riprendere l’espressione che nel lessico marxista definisce le macchine nelle fabbriche. Non è nemmeno il “lavoro scomparso” sul quale fantasticano i profeti dell’automazione. La digitalizzazione va intesa come esternalizzazione delle mansioni produttive standardizzate: una riorganizzazione del rapporto tra interno ed esterno dell’azienda, che porta a diminuire la quota di valore prodotta all’interno e a crescere quella prodotta all’esterno.
Dobbiamo superare la prospettiva del lavoro automatizzato per mettere a fuoco quella che è la vera posta in gioco: quella del lavoro digitalizzato. Per questo è particolarmente efficace l’espressione “digital labor”.
Innanzitutto perché include in sé l’elemento fisico, il movimento attivo del digitus, il dito che serve a contare ma anche quello che clicca sul tasto, opposto all’immobilità astratta del numerus, il numero inteso come concetto matematico. Questo ritorno all’etimologia ci libera da una visione del digitale come campo dominato da esperti e scienziati. Si tratta di spostare la nostra attenzione verso tutti gli individui impegnati nelle mansioni più umili, ordinarie, elementari, che strutturano sempre di più gli attuali flussi di produzione.
In secondo luogo, è particolarmente adatto il termine labor, lavoro. Nel medesimo campo semantico termini stranieri come travail, work, Werk, job, Arbeit peccano di eccessiva polisemia o, al contrario, indicano una realtà troppo ristretta. Questo campo di significazione è strutturato lungo tre assi storicamente determinati. Secondo la sociologa Dominique Méda, il lavoro si trova “in una relazione triplice: tra l’individuo e il dato naturale; tra l’individuo e gli altri; tra l’individuo e se stesso”.31 L’inglese work e il tedesco Werk esprimono il primo concetto, il lavoro come rapporto con il mondo, che viene trasformato dal gesto produttivo umano. Ma nel momento in cui l’individuo si libera dal bisogno, la sua attività cessa di essere un semplice rapporto con la natura e appare nella sua essenza di rapporto sociale – ciò che viene espresso dai termini labor o Arbeit. Infine il rapporto con se stesso può sorgere in una società pacificata nella quale il rapporto fondamentale verrebbe riassunto in questo modo: “Io ti capisco attraverso la tua opera, tu mi contempli attraverso la mia”.32 È il lavoro nel senso dell’identità professionale: il job o la Stelle.
È dunque la seconda accezione del termine “lavoro” che dobbiamo privilegiare per cogliere la sua dimensione collettiva, distinta da quella più individualista che si concentra sul rapporto dell’essere umano con il mondo o con se stesso.
Alcuni autori, va detto, percepiscono questa dimensione intersoggettiva come il fondamento stesso della “socialità” del lavoro, in quanto il lavoro implica di per sé un “essere in società”. Per esempio Alexandra Bidet e Jérôme Porta sottolineano
in che modo il digital labor mette alla prova l’idea stessa di lavoro. Le attività tipiche della vita digitale, come amministrare un profilo Facebook, creare una playlist, mettere like a un contenuto ecc., sono altrettante attività produttrici di ricchezza ma non di reddito. L’utente-consumatore partecipa alla catena del valore e si sottopone a dei vincoli […]. Al di là delle questioni di reddito e di distribuzione equa del valore generato, il trasferimento di attività che venivano precedentemente svolte in un quadro di relazioni lavorative (per esempio, l’acquisto di un biglietto e la sua stampa da parte del consumatore) rivela la fragilità delle convenzioni che portano a definire una certa attività come “lavoro”.33
Il digital labor rappresenta così un modo di “concettualizzare in maniera più solida la tecnica: non più come semplice fattore esogeno alla sfera sociale, ma come insieme di pratiche e mediazioni concrete attraverso le quali trasformiamo il nostro ambiente per orientarci e vivere”.34 Il lavoro costituisce una sorta di triangolo insieme alle mediazioni tecniche e le strutture sociali, mettendo in stretta interdipendenza la sociabilità digitale e il lavoro del clic. Negli ultimi decenni le tecnologie si sono intrufolate nei nostri spazi privati al punto di aderire ai corpi stessi delle persone.35 Il lavoro riproduce queste stesse dinamiche, sottraendosi alla percezione, allontanandosi dalla sua antica natura meccanica.
Negli studi contemporanei questa trasformazione viene presa in considerazione soltanto dal punto di vista della tecnologia, intesa come forza esogena che distrugge gli equilibri della vita sociale. Tuttavia per capire il digital labor bisogna precisamente rompere questa falsa dicotomia, tenendo sempre a mente che il lavoro non può essere pensato senza prendere in considerazione il contesto tecnico nel quale si sviluppa. Non esiste lavoro senza strumento, come sanno le scienze sociali fin dai tempi di Gilbert Simondon e André Leroi-Gourhan.
Nemmeno fuori dal contesto economico esiste il lavoro in quanto tale. Per questa ragione il nostro studio non potrà limitarsi al lavoro non ostensivo del consumatore connesso. Bisogna inoltre includere tutti quei lavori occasionali, quei contratti “a zero ore” e anche quelle forme tradizionali di subappalto che lo sviluppo dell’automazione ha fatto esplodere, esacerbandone le logiche. Concentrarsi esclusivamente sulle attività non remunerate che producono valore a partire dalla connettività sociale resa possibile dalle tecnologie digitali rischierebbe di occultare l’altro lato della medaglia del digital labor, ovvero le dinamiche di precarizzazione dei lavoratori e lo scadimento delle loro condizioni lavorative.
Per questo motivo il concetto di digital labor non può indicare soltanto il “lavoro gratuito” ma anzi designa un continuum tra attività non remunerate, attività sottopagate e attività remunerate in modo flessibile. Non si tratta di concentrarsi sul consumo per distogliere l’attenzione dal lavoro, ma al contrario di riconoscere la dipendenza crescente delle strutture produttive contemporanee dalle piattaforme tecnologiche che permettono di far interagire lavoro e non lavoro.
L’automa e l’operatore
Interrogare le frontiere tra lavoro ed extralavoro richiede quel cambio di prospettiva già evocato che consiste nel passare dal considerare l’impiego nella sua totalità al concentrarsi sulle singole operazioni (tasks) che lo compongono. Questa trasformazione concettuale non ha conseguenze soltanto sulle categorie di analisi degli economisti o sulle autorità di regolazione dei mercati, ma in maniera più concreta sui modi di produzione. Assistiamo a un passaggio dalla produzione alla parcellizzazione, quella che l’antropologa dei media Mary Gray ha chiamato “taskification”, che è anche una dequalificazione del lavoratore. Come scriveva nel 2016, si tratta della chiave di volta della comprensione del digital labor. Parcellizzazione, esternalizzazione e precarizzazione procedono di pari passo:
Le aziende, dalle più piccole start-up alle più grandi corporation, possono oggi parcellizzare ogni mansione [taskify], dalla pianificazione delle riunioni al debug dei siti internet, dalla ricerca di potenziali clienti alla gestione delle risorse umane. Invece di assumere nuova forza lavoro, le aziende si limitano a pubblicare un annuncio online. […] Dimenticate l’ascesa dei robot e la minaccia lontana dell’automazione. Il problema urgente è […] la parcellizzazione degli impieghi in micromansioni elementari esternalizzate e la sostituzione dell’attuale sistema salariale di remunerazione con il micropagamento.36
Sottovalutare la diffusione di questa logica produttiva centrata sulle micromansioni sottoqualificate, continuando a focalizzarsi sul tema dell’impiego, ci espone principalmente a due rischi. Il primo è di non riuscire a concettualizzare le ore “non lavorate”: l’ottica del lavoro formale, inquadrato contrattualmente e situato in uno spazio (ufficio o fabbrica) appare evidentemente inadeguato per includere il lavoro di individui e gruppi umani formalmente autonomi, ma sostanzialmente legati alle filiere di produzione, dal lavoro domestico al lavoro del consumatore, dal lavoro dei dilettanti a quello dei volontari, dal cosiddetto “audience labor”, svolto dai fruitori di un servizio, al digital labor. Il secondo rischio è di rinchiuderci dentro le frontiere nazionali imposte dal quadro normativo dell’impiego tradizionale, rischio tanto più importante quanto crescono e diventano preponderanti nella produzione di ricchezza le relazioni d’interdipendenza planetarie. La possibilità di ricorrere alla delocalizzazione per comprimere i costi o razionalizzare un parco di stabilimenti non è più soltanto una prerogativa delle multinazionali. Le catene di approvvigionamento globali connettono fornitori e clienti, dalle grandi aziende a quelle più piccole, nella logica a cascata dell’offshoring.
Tempo e spazio dell’extralavoro costituiscono così due angoli morti nella nostra capacità di percepire e comprendere il gesto produttivo umano nelle sue nuove forme. È precisamente perché parcellizzato e sfuggente rispetto alle nostre categorie di analisi classiche che non riusciamo più a riconoscere il lavoro che si manifesta davanti ai nostri occhi nel momento in cui esaminiamo l’articolazione complessa tra l’attività dei lavoratori atipici o precari e quella dei non lavoratori o dei consumatori, ma anche quando consideriamo il rapporto tra i clic pagati una frazione di centesimo di dollaro nel Sud del mondo e la creatività monetizzata dagli utenti del Nord.
Questa cecità ha gravi conseguenze. Non soltanto facciamo fatica a discernere le trasformazioni del lavoro, ma ci illudiamo anche che l’enorme quantità di lavoro esternalizzata verso comunità umane extralavoro sia realizzata “dalle macchine”. In questo senso l’automazione è innanzitutto una messinscena, una strategia per distogliere l’attenzione dalle decisioni aziendali che portano alla riduzione della quota relativa degli stipendi (e più in generale la retribuzione dei fattori di produzione umani) rispetto a quella che remunera gli investitori.
L’automazione come spettacolo di burattini (senza fili)
Per capire in che misura l’automazione intelligente degli ultimi anni non sia in realtà che un processo di esternalizzazione, parcellizzazione e dequalificazione, basta osservare quali sono oggi le soluzioni d’intelligenza artificiale esistenti rivolte al pubblico di massa. Questi dispositivi, utilizzati da applicazioni, siti e servizi web, si basano sulle tecnologie di apprendimento automatico. Contrariamente alle soluzioni per il business, non tentano in alcun modo di presentarsi come intelligenze artificiali forti né pretendono di sostituire l’umanità con il loro “supercervello”. Nella sfera del largo consumo abbiamo piuttosto a che fare con intelligenze artificiali deboli, composte da applicazioni che aiutano a gestire l’informazione (per esempio classificando brani musicali), ottimizzare dei contenuti (per esempio ritoccando automaticamente delle fotografie fatte con lo smartphone) o prendere delle decisioni (per esempio calcolando la migliore strada per raggiungere una destinazione). È il caso del pilota automatico delle autovetture Tesla, capace di guidare su percorsi predeterminati, di rallentare se la distanza di sicurezza con gli altri veicoli non è rispettata ecc. Ma è anche il caso dei software ad attivazione vocale come Siri di Apple o Alexa di Amazon che aiutano i bambini a fare i compiti oppure ordinano la spesa. Questi agenti conversazionali, chiamati comunemente “assistenti virtuali”, sono inclusi sempre più spesso nell’equipaggiamento degli smartphone e dei dispositivi domotici.
Quale che sia il loro grado di perfezionamento, queste intelligenze artificiali incorporano una quota notevole di lavoro non artificiale. Non si sostituiscono agli esseri umani, ma li assistono. Pur presentandosi come strumenti di ausilio alle decisioni in campi disparati come la salute, l’organizzazione amministrativa o il tempo libero, è difficile che agiscano senza sollecitare prima o poi l’utente. Un sistema intelligente deve essere configurato e calibrato prima di funzionare; ed è l’utente che procederà a questo parametraggio. Gli assistenti virtuali possono trovare, classificare e mostrare informazioni, offerte, documenti, ma la scelta finale spetterà sempre all’individuo.
In questo modo le intelligenze artificiali sono a loro volta assistite dagli umani. Alcuni produttori non lo nascondono, anzi ne fanno un argomento promozionale. È il caso dell’americana Nuance Communications, che parla di “agenti virtuali assistiti da umani” (o Hava, Human-Assisted Virtual Agents).37 I servizi di assistenza per i clienti, per esempio, funzionano esattamente così, per mezzo di una sinergia tra lavoratori umani e soluzioni informatiche. Il solito Facebook spingeva la retorica commerciale fino a vantarsi che il suo assistente virtuale M fosse human powered, azionato dagli umani. Questo servizio sperimentale lanciato nel 2015 mandava suggerimenti personalizzati ispirandosi alle conversazioni e ai comportamenti degli utenti della piattaforma. Poteva ordinare un taxi, fissare un appuntamento e persino rispondere a una domanda complessa. Il tutto integrando delle routine automatiche con l’intervento umano.38
Il coinvolgimento umano è necessario per ragioni sia tecniche sia commerciali. Le intelligenze artificiali, come vedremo, si basano spesso su procedimenti di apprendimento automatico che viene definito “supervisionato”: le macchine imparano a interpretare le informazioni e a realizzare delle azioni accumulando interazioni, sotto la sorveglianza di “istruttori” umani. Questi ultimi mostrano esempi di processi cognitivi che i sistemi intelligenti imparano in questo modo a riprodurre. È una fase di formazione, un addestramento di software ancora maldestri; ma le macchine non smettono mai d’imparare. Dopo la calibrazione iniziale, gli umani continuano a correggere gli errori e le fallacie che le macchine potrebbero introdurre, partecipando così al loro perfezionamento.
Talvolta questa supervisione deve essere rafforzata e resa perenne al fine di evitare disastri umani ed economici. A un’intelligenza artificiale che tentasse di indovinare i nostri gusti musicali, poiché rischia tutt’al più di proporci una canzone che non amiamo, concederemmo sicuramente una maggiore propensione all’errore rispetto a un’intelligenza artificiale impiegata in sede giudiziaria o medica, o per decidere su un investimento milionario, o magari il trasferimento di materie prime da una parte all’altra del pianeta. Dal momento che i sistemi intelligenti sono applicati in campi sempre più strategici, non diminuisce certo la necessità di coinvolgere degli esseri umani per appoggiarli. Al contrario, è sempre più vitale la complementarità.
Mentre lo scrittore transumanista (nonché ingegnere capo di Google) Ray Kurzweil vantava le magnifiche sorti dell’intelligenza artificiale forte, che avrebbe presto ottenuto risultati superiori a quelli dei sistemi biologici,39 nello stesso tempo la sua azienda era soprattutto impegnata nella produzione di massa di intelligenze deboli e “strette” (narrow AI). Il sogno dell’IA forte, in grado di superare la mente umana, lascia a poco a poco spazio alla sola intelligenza artificiale possibile: limitata e sostanzialmente inefficace in assenza dell’intervento umano.
A essere centrale per noi oggi non è la bolla degli esperti informatici che concepiscono i sistemi o degli ingegneri che lavorano sull’IA forte ma i miliardi (già, miliardi) di operatori che ogni giorno azionano i fili del burattino dell’automazione debole. È un lavoro umile e discreto che fa di noi esseri umani contemporanei sia gli addestratori, sia i manovratori sia gli aggiustatori di questi macchinari. La complessità, l’estensione e la varietà delle mansioni digitali necessarie per permettere il funzionamento degli assistenti virtuali fanno del digital labor un oggetto di studio fondamentale. Ma nel momento in cui ammettiamo che le intelligenze artificiali non sono completamente automatizzate, sorge anche il sospetto che possano non esserlo per niente.
L’intervento umano si manifesta sia attraverso azioni di facilitazione (enable) sia di addestramento (train), se non addirittura di sostituzione delle intelligenze artificiali (impersonate). In questo studio ci concentreremo su queste persone che lavorano assieme e dietro alle intelligenze artificiali. Dove si trovano? Quali sono i loro percorsi professionali? In quali condizioni lavorano? Come vengono retribuite? Dove vengono ingaggiate?
Tutte queste domande mostrano che esiste un legame tra automazione e digital labor poiché sottintendono l’esistenza di mercati dove questa forza-lavoro negozia il proprio ruolo. Talvolta si tratta di una negoziazione commerciale: le mansioni che permettono alle intelligenze artificiali di esistere e funzionare sono oggetto di annunci, di aste, di abbinamento tra domanda e offerta attraverso siti di subappaltatori o microsubappaltatori. In altri casi le negoziazioni non sono di natura monetaria: al posto delle transazioni esplicite ci sono sistemi complessi di incentivi di natura sia economica (buoni d’acquisto, servizi in cambio di prestazioni) sia non economica (piacere, riconoscimento, gioco ecc.).
Il nano e le condizioni materiali dell’automazione
Se i robot sono manovrati dagli esseri umani, se le intelligenze artificiali non sono poi tanto artificiali e se le macchine sono sempre animate dagli esseri viventi, è l’ontologia stessa di queste entità a cambiare radicalmente: l’automazione tanto desiderata dagli investitori e tanto temuta dai tecnofobi è innanzitutto una forma di lavoro umano invisibilizzato. Studiare il digital labor ci porta precisamente a svelare il ruolo di primo piano giocato dagli operatori umani negli strumenti software, ovvero i produttori e ripulitori dei dati raccolti attraverso le piattaforme, che lavorano in sinergia con i dispositivi computazionali.
La figura che incarna meglio questo innesto dell’uomo al cuore della macchina è quella del “Turco meccanico”, che ritroveremo nel quarto capitolo. Mezzo secolo prima che Amazon vi ricorresse per dare un nome alla sua nota piattaforma di compravendita di lavoro digitale, Walter Benjamin gli dedicava la prima delle sue tesi Sul concetto di storia:
È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire a ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino.40
Il seguito di questo testo è noto: il Turco meccanico è di fatto una metafora filosofica. Benjamin paragona questo macchinario affascinante ma ingannevole al materialismo storico, dottrina che riusciva a sconfiggere ogni suo avversario soltanto perché nasconde al suo interno l’ignobile nano della teologia – una metafisica “piccola e brutta”. Per spiegare le condizioni immanenti delle società umane, sembra dire il filosofo tedesco, è necessario presto o tardi ricorrere a un pensiero della trascendenza.
Ma nel quadro della riflessione sull’automazione al tempo del digitale, possiamo anche rovesciare la metafora: è il materialismo storico, ovvero l’attenzione per le condizioni materiali di esistenza dei produttori di valore, che si è fatto rachitico, ridotto al ruolo di omuncolo che “non deve lasciarsi vedere” e nascosto dentro la credenza astratta in un’intelligenza realmente artificiale – la teologia del machine learning.
Una moltitudine di “nani gobbi” si nasconde dietro gli onnipresenti bot, gli algoritmi presuntamente infallibili e le onnipotenti reti “neurali”. Queste entità software che non sono altro che burattini manovrati dal lavoro umano. L’inganno teologico che consiste nel concentrarsi sulla robotizzazione, sull’algoritmizzazione, sulla smartificazione della società alimenta questo bluff tecnologico.
Osservare il digitale con lenti materialiste permette di prendere in considerazione le trasformazioni del lavoro e della sua dimensione tecnico-materiale (il fatto che il lavoro è inquadrato entro infrastrutture di calcolo) in funzione degli incentivi economici e di un’organizzazione produttiva che concentra i frutti del valore nelle mani di un numero sempre più ristretto di attori. Il sogno dell’automazione contribuisce a distrarre l’opinione pubblica distogliendola dalle minacce più dirette, come la concentrazione degli attivi e delle risorse rare da parte delle aziende hi-tech al fine di proteggere le loro rendite di posizione.41
Che si presentino come araldi della “new economy” contro i vecchi equilibri del capitale industriale oppure come multinazionali benevole, le grandi piattaforme contemporanee stanno costituendo un oligopolio. Nikos Smyrnaios denuncia la convergenza di aziende provenienti da settori differenti, la concentrazione economica risultato di fusioni per incorporazione di entità distinte, la “coopetizione” ovvero l’alternanza tra accordi giuridico-finanziari e concorrenza esplicita.42
I giganti della rete, costituiti in piattaforme, esercitano la loro egemonia economica sul mercato mondiale attraverso un sistema di gestione della forza-lavoro che segue le logiche già evocate di esternalizzazione, parcellizzazione e dequalificazione. Al fine di sfruttare al massimo le possibilità offerte dalla globalizzazione e grazie alla standardizzazione della produzione, i soggetti oligopolisti creano lunghissime catene di subappalto sia logistico sia cognitivo. Per esempio l’outsourcing sistematico di alcuni aspetti del funzionamento, della moderazione, della diffusione virale in un social media come YouTube risponde alla stessa logica che porta un produttore di hardware come Apple a far fabbricare i suoi apparecchi nei paesi emergenti. Nello stesso modo, l’accordo segreto tra le cosiddette Gafam per fissare una soglia massima agli stipendi degli ingegneri43 è speculare alla precarizzazione e al deterioramento delle condizioni di attività dei lavoratori sottopagati o dei “volontari” ai quali le piattaforme fanno massicciamente ricorso.
La promessa sempre rimandata dell’automazione
È alla luce di questi fenomeni che dobbiamo interpretare la tendenza degli oligopoli del digitale a predisporre dei dispositivi in grado di catturare il valore prodotto dagli internauti e da una moltitudine di strutture non commerciali.44 Il pilastro della redditività delle piattaforme posa sull’inversione generalizzata tra lavoro formalmente riconosciuto e lavoro extralavoro. L’economia delle piattaforme digitali non produce degli impieghi, ma delle mansioni per lavoratori che vengono descritti come subappaltatori e “indipendenti” – se non addirittura come produttori-consumatori, dilettanti, appassionati o semplici utenti. Il suo sviluppo presuppone il superamento della relazione classica tra datore di lavoro e dipendente.
In questo modo le piattaforme finiscono per incarnare un nuovo paradigma della creazione del valore, basato su due princìpi. Il primo è che una piattaforma non può essere ridotta semplicemente a un’azienda. Si tratta innanzitutto di un meccanismo di coordinazione tra attori sociali: fornitori e clienti, artisti e spettatori, fattorini e ristoranti ecc. Il suo funzionamento esonda dalle modalità classiche di commercializzazione attraverso il prezzo o di allocazione delle risorse da parte di un’autorità centrale. Da questo primo principio ne discende un secondo: quando si tratta di mettere in relazione l’offerta e la domanda di lavoratori, le piattaforme moltiplicano le tipologie di incentivo economico: salari, onorari, “ricompense”, remunerazioni a cottimo ecc. In questo modo, come vedremo, destrutturano e ricompongono a proprio vantaggio alcuni istituti ereditati dalla rivoluzione industriale: impiego, subordinazione, protezione sociale.
Se invece consideriamo il modo di gestione tanto della forza- lavoro quanto della “forza-extralavoro” peculiare agli oligopoli del digitale, capiamo che l’automazione e la sostituzione di sequenze informatiche al gesto produttivo umano non sono certo l’obiettivo a cui mirano le piattaforme. Per loro l’automazione è innanzitutto uno strumento per disciplinare il lavoro – ed è per questo che quella piena e definitiva viene continuamente rimandata.
Per via della forte complementarità tra uomo e macchina, sulla quale abbiamo già insistito, il grado di automazione di un processo produttivo non può essere stimato a partire dal numero di esseri umani sostituiti dai robot, ma piuttosto dalla moltiplicazione delle mediazioni digitali che parcellizzano ed esternalizzano il lavoro a ogni stadio della produzione. Di conseguenza queste macchine si trovano costantemente a interagire con un numero massimo di esseri umani, e questi in interazione tra di loro. Possiamo perciò concordare con il sociologo François Vatin quando afferma che “è ingenuo ritenere che i datori di lavoro avrebbero come principale obiettivo quello di meccanizzare la manodopera. […] Per quanto ricercata e avvicinata, la ‘produzione senza uomini’ non è altro che un sogno, perché l’uomo riappare sempre da qualche parte”.45 Perché spingere sempre in avanti questo limite? Per sventolare lo spettro della “grande sostituzione” di fronte ai lavoratori. L’automazione è il bastone che disciplina la forza-lavoro; ed eventualmente la carota che attira gli investitori.
Da questo punto di vista, il dibattito pubblico non si è molto evoluto dal 1970, quando Franco Berardi (Bifo) affermava come la zona d’ombra sia teorica sia empirica nel dibattito sul lavoro fosse costituita dalla difficoltà a interpretare le tecnologie come funzione dell’assoggettamento politico del lavoro invece che come funzione dell’aumento di produttività: “riduzione del lavoro necessario, intensificazione della produttività, automazione […] sono tutti aspetti della costruzione del controllo”.46
Se queste analisi sembrano ancora pertinenti oggi è perché l’attuale capitalismo delle piattaforme ha fatto ricorso allo stesso vecchio stratagemma cui ricorrevano i proprietari delle manifatture nel secolo scorso: evacuare le variabili sociali di un processo d’innovazione tecnologica per farlo apparire come una fase necessaria di un progresso indefinito. Tutto pur di dissimulare le tensioni e le resistenze che i lavoratori, ovvero gli umani, introducono nei rapporti di produzione, per mezzo delle loro rivendicazioni e delle loro aspirazioni. Il discorso tecnologico che accompagna l’emergere delle intelligenze artificiali può allora essere letto come una formula propiziatoria che mira a inibire l’organizzazione dei lavoratori e a ridurne il potere contrattuale. I robot non sono altro in questa logica che le utili finzioni attraverso cui si manifesta la volontà dei padroni delle piattaforme, quella di ostacolare la costituzione di ogni movimento di opposizione.