L'inno sacro finí e la congregazione, strascicando i piedi e tossicchiando, piombò in un silenzio teso e impaziente. Le prediche dello zio Tromp erano famose in tutta l'Africa di Sudovest, e costituivano il maggior divertimento in quel vasto territorio dopo il cinema appena aperto a Windhoek, dove peraltro ben pochi tra i presenti si erano mai azzardati a entrare. Lo zio Tromp era in gran forma quel giorno: i tre signori in prima fila l'avevano provocato, si può dire, non degnandolo nemmeno di una visita di cortesia dopo l'arrivo. Abbrancò con le manone pelose l'orlo del pulpito e prese a incombere minaccioso sui fedeli come un campione dei pesi massimi in carica. Li fulminò con lo sguardo, poi si addolcí in un benevolo disprezzo pastorale e, mentre emettevano un tremulo sospiro di sollievo, cominciò proprio come si aspettavano.
« Peccatori! » ruggí lo zio Tromp con una bordata che andò a schiantarsi echeggiando contro le tegole del tetto. I tre forestieri saltarono sulla panca come chi soltanto nel momento in cui spara si accorga di essersi seduto su un cannone. « La casa di Dio è piena di peccatori impenitenti... » Lo zio Tromp era partito in tromba. Li tempestò di accuse tremende, straziandoli coi ruggiti che Manfred in privato definiva « la voce », e poi illudendoli con passaggi tempe-rati da vaghe promesse di salvezza, per tornare subito dopo a inve-stirli con tonanti minacce di morte e dannazione, finché qualche donna non scoppiò a piangere apertamente e altri si misero a gridare esaltati « Amen! » « Sia lodato il Signore! » e « Alleluia! ». Alla fine tutti si inginocchiarono tremanti mentre Tromp si metteva a pregare per l'anima loro.
Dopo, tutti i fedeli sciamarono fuori della chiesa con una sorta di nervoso sollievo, garruli e gai come se fossero appena scampati fortunosamente a qualche tragico fenomeno naturale tipo terremoto o tifone. I tre forestieri furono gli ultimi a uscire, e alla porta dove lo zio Tromp li aspettava per salutarli gli strinsero la mano a turno dicendogli ognuno qualche parola seria e riservata.
Lo zio Tromp li ascoltò con pari gravità, poi si girò per consul-tarsi brevemente con la zia Trudi, quindi tornò a rivolgersi a loro.
« Sarei onorato di avervi a casa mia, a condividerne il desco. »
I quattro uomini si avviarono verso la canonica con passo solenne, seguiti a rispettosa distanza dalla zia Trudi e dalle ragazze. A queste ultime furono impartite precise istruzioni, e quando si trovarono fuori vista dei parrocchiani schizzarono correndo verso casa a preparare tutto.
Aprirono le tende in sala da pranzo, rarissimamente usata, e ap-parecchiarono sulla grande tavola di rovere che la zia Trudi aveva ereditato dalla madre.
I tre forestieri non lasciarono che le proprie chiacchiere erudite impedissero loro di godere la cucina della zia Trudi come meritava.
A un capo del tavolo sedevano « i marmocchi », nel dovuto ma oc-chiutissimo silenzio. In seguito gli uomini bevvero il caffè e fumaro-no la pipa sulla veranda davanti, chiacchierando nel caldo soporife-ro del meriggio. Venne infine l'ora della seconda funzione.
Il testo-scelto dallo zio Tromp per la seconda predica era « Il Signore ti ha aperto un cammino sicuro nella terra desolata ». La svolse con la consueta potenza, formidabile retorica e voce tonante: ma stavolta citò brani del proprio libro, assicurando la congregazione che il Signore prediligeva il loro popolo, da considerarsi quindi eletto, e gli aveva destinato un luogo ben preciso al mondo. Restava dunque soltanto da reclamare il loro legittimo posto su questa terra che avevano ereditato. Piú d'una volta Manfred vide i tre forestieri scambiarsi occhiate compiaciute in prima fila, mentre lo zio Tromp ribadiva come un maglio questi argomenti.
I forestieri lasciarono il paese col treno per il Sud del lunedí mattina e, nelle settimane che seguirono, la parrocchia visse in uno stato di attesa eccitata. Lo zio Tromp, rompendo le sue abitudini invete-rate, si mise ad aspettare il postino sulla soglia tutte le mattine.
Scorreva rapidamente le lettere e diventava ogni giorno piú contrariato.
Passarono tre settimane prima che smettesse di aspettare il postino. Sicché, quando la lettera finalmente arrivò, lo sorprese nella rimessa con Manfred, intento a insegnargli la famosa schivata di Fitz-simmons e a domargli il sinistro ancora un pò brado.
La trovo sul tavolino in anticamera andando a lavarsi per cena.
Manfred, che gli stava alle calcagna, lo vide barcollare quando scorse il sigillo di ceralacca della massima autorità ecclesiastica del Paese. Afferrò la missiva e andò a chiudersi nello studio, sbattendo la porta in faccia a Manfred. Ci rimase venti minuti buoni, chiuso a chiave, tra l'offesa costernazione della zia Trudi e dei ragazzi affamati.
Quando uscì, si lanciò in una preghiera di ringraziamento lunga il doppio del normale. Sarah roteava gli occhi rivolgendo comiche smorfie a Manfred, che la fulminò con un'occhiata. Finalmente lo zio Tromp tuonò un bell'a Amen ». Ma non afferrò ancora il cucchiaio: si rivolse raggiante alla zia Trudi che gli sedeva di fronte.
« Cara moglie », le disse. « Per tutti questi anni, sei sempre stata paziente e non ti sei mai lamentata. »
La zia Trudi diventò rossa come un peperone. « Non davanti a loro, Meneer», sussurrò, ma lo zio Tromp fece un sorriso ancora piú radioso.
« Mi hanno dato Stellenbosch », le disse, nel piú perfetto silenzio degli astanti. Lo guardarono sbalorditi. Tutti capivano benissimo cosa significava.
« Stellenbosch », ripete lo zio Tromp, beandosi della parola, gu-standola sulla punta della lingua e inghiottendola come la prima sor-sata di un vino nobile e raro.
Stellenbosch era una cittadina di campagna a cinquanta chilometri da Città del Capo. Là tutti gli edifici erano di stile olandese, bianchi come la neve e col tetto di paglia. Le vie erano larghe e co-stellate di querce bellissime che il governatore Van Stel aveva fatto piantare nel Seicento. Intorno alla città, le vigne dei grandi chateaux facevano meraviglioso mosaico, sullo sfondo delle precipiti vette.
Era un paesino anche quello, se vogliamo, grazioso e pittoresco: ma era anche il vero e proprio centro della cultura afrikaner, dove fioriva un'antica e illustre università la cui sapienza aveva irradiato i figli piú colti della colonia di origine olandese. Qui la loro lingua era nata e ancora si stava sviluppando: qui i loro teologi almanaccavano e dibattevano metafisiche speculazioni dalle conseguenze molto concrete. Ci aveva studiato anche Tromp Bierman, che ricordava ancora quei giorni operosi all'ombra delle grandi querce. Tutti i piú grandi uomini avevano studiato li: Louis Botha, Hertzog, Jan Christian Smuts. Nessun laureato altrove aveva mai capeggiato il governo sudafricano. Anzi, pochissimi a cui questa distinzione mancava ne avevano mai addirittura fatto parte. Era l'Oxford e la Cambridge del Sudafrica: e di questa parrocchia avevano dato la responsabilità a Tromp Bierman! Era il massimo onore che potessero fargli. D'ora in poi tutte le porte gli sarebbero state aperte. Si sarebbe assiso al centro; avrebbe avuto un gran potere, e la prospettiva di aumentarlo ancor piú; sarebbe diventato un promotore, un innovatore. Tutto ora diventava possibile; il concilio sinodale, la stessa carica di Mo-deratore; niente piú gli era precluso, tutto era alla sua portata, non c'erano piú limiti né confini né vincoli. Tutto poteva succedere.
« E' stato il libro », balbettò la zia Trudi. « Non avrei mai creduto... io non capivo... »
« Sì, è stato il libro », ridacchiò lo zio Tromp. « E trent'anni di duro lavoro. Abiteremo nella grande residenza di Eikeboom Straat e avremo mille sterline all'anno. Avremo una camera ciascuno per le ragazze e Manfred, e faranno l'università a spese della Chiesa. Predicherò ai potenti della nazione e ai giovani piú intelligenti. Farò parte del consiglio dell'università. E tu, mia cara moglie, avrai a tavola professori e ministri del governo: le loro mogli saranno amiche tue... » si interruppe vergognoso. « ... Ma adesso preghiamo. Chiediamo a Dio la benedizione dell'umiltà: e che ci scampi dai peccati mortali dell'orgoglio e dell'avarizia. Tutti in ginocchio! » tuonò.
« Tutti in ginocchio a pregare! »
La minestra era fredda quando permise loro di mangiarla.
Si trasferirono due mesi dopo, passate le consegne al successore, fresco di studi teologici, di Tromp.
Ebbero l'impressione che tutti, nell'arco di cento miglia intorno al paese, fossero venuti alla stazione a salutarli e augurar loro buon viaggio. Fino a quel momento Manfred non si era reso conto di quanto affetto e stima godesse lo zio Tromp in seno alla comunità.
Gli uomini indossavano tutti i vestiti della festa, e uno dopo l'altro gli strinsero la mano, ringraziandolo e augurandogli la benedizione di Dio. Alcune donne piangevano, e tutti portavano doni: ceste di prosciutti e conserve, torte al latte e koeisisters, borse di biltong di kudù... c'era da mangiare per un esercito.
Quattro giorni dopo la famiglia cambiò treno alla stazione centrale di Città del Capo. Ci fu appena il tempo di fare una capatina in Adderley Street e dare un'occhiata al leggendario massiccio della Table Mountain, la tavola torreggiante sulla città, prima di correre a riprendere il treno per il tragitto ormai brevissimo che restava da fare per la loro destinazione, nella pianura del Capo e tra le colline vini-cole ai piedi dei monti.
I diaconi e mezza congregazione li aspettavano alla stazione di Stellenbosch per dar loro il benvenuto. La famiglia scoprì tutt'a un tratto che il ritmo della sua esistenza era completamente mutato.
Dal primo giorno, si può dire, Manfred si ritrovò immerso nella preparazione agli esami d'ammissione all'università. Studiò da mane a sera per due mesi e sostenne una faticosa settimana di esami, per aspettarne ancora piú penosamente l'esito la successiva. Risultò primo in tedesco, terzo in matematica e ottavo come media generale.
Davano frutto gli anni di studio indefesso passati in casa Bierman.
All'inizio dei corsi fu accolto presso la facoltà di Giurisprudenza.
La zia Trudi si oppose strenuamente al suo ingresso in un collegio universitario. Come non mancò di far notare, ora aveva una bella camera tutta per se: e le ragazze avrebbero sentito dolorosamente la sua mancanza, disse, comprendendosi implicitamente nel novero delle povere sofferenti. Senza contare che si sarebbe risparmiata la retta, sempre salata nonostante il principesco stipendio odierno dello zio Tromp.
Ma lo zio corse in suo aiuto. Discretamente prese accordi finanziari di cui la famiglia non seppe mai nulla per alloggiare Manfred in un pensionato studentesco.
« Stare in una casa piena di donne a poco a poco lo farebbe diventar matto. Meglio che vada dove può stare in compagnia di altri giovani e vivere appieno la vita universitaria. »
Così il 25 gennaio Manfred si presentò tutto contento a un bel palazzo di stile olandese trasformato in residenza per studenti, il Rust en Vrede. Tradotto, questo nome significa « Pace e riposo », cosa di cui non tardò a scorgere l'ironia quando - nel giro dei primi cinque minuti - fu individuato come matricola.
Lo privarono del nome, sostituendolo con quello di « scorreggia » che condivideva con le altre diciannove matricole della casa.
Gli intimarono di non dire mai piú « io » o « me », ma soltanto « la qui presente scorreggia »: e di chiedere permesso (non solo agli anziani, ma anche ai muri del collegio) prima di fare alcunché. Dovette quindi farfugliare continuamente stronzate tipo: « Onorevole porta.
questa scorreggia vorrebbe passare», oppure: «Onorevole cesso, questa scorreggia vorrebbe sedersi ».
All'interno del collegio lui e le altre matricole non potevano girare camminando normalmente, ma all'indietro anche per salire e scendere le scale. Erano loro vietati i rapporti coi familiari e gli amici, ma soprattutto le amiche; se venivano sorpresi anche solo a guardare nella vaga direzione di qualche bella ragazza, gli appendevano al collo un cartello che diceva: « Attenzione al maniaco sessuale ».
Allo scoccare di ogni ora le loro camere erano invase e devastate dagli anziani. Materasso, lenzuola e coperte venivano tolte dal letto, sbattute per terra e innaffiate: poi ci piazzavano sopra, ben impilati, tutti i libri e i vestiti della matricola. Dopo due o tre di queste irru-zioni le matricole decidevano in genere di dormire sulle nude pia-strelle del corridoio, lasciando la camera nel caos. A questo punto arrivava l'ispezione, capeggiata da Roelf Stander, quanto mai signorile goliardo del quarto anno.
« Siete la piú disgustosa masnada di scorregge che abbiano mai afflitto questa università », diceva al termine dell'ispezione. « Avete un'ora per riordinare alla perfezione la vostra camera: dopo di che dovrete eseguire una marcia di punizione per il vostro intollerabile lassismo. »
Era mezzanotte quando Roelf Stander si dichiarava finalmente soddisfatto e li incolonnava per la marcia. Ed ecco che nelle vie della placida cittadina addormentata sfilavano matricole collegate per la gola da una fune, con le mani legate dietro la schiena, un cuscino in equilibrio sulla testa e tutte in mutande. Uscivano dalla città e im-boccavano un sentiero di montagna. Era scelto tra i piú duri e sasso-si: quando uno cadeva, trascinava a terra la matricola che lo prece-deva e quella che lo seguiva. Alle quattro del mattino venivano ri-condotti in città coi piedi tutti sanguinanti e la gola scorticata dalla corda. In collegio scoprivano che la loro camera era stata devastata per l'ennesima volta, e venivano informati che l'ispezione successiva di Roelf Stander si sarebbe verificata alle cinque del mattino. All'università le lezioni cominciavano alle sette: non c'era nemmeno il tempo di fare colazione.
Tutto questo era considerato un bello scherzetto. Le autorità accademiche chiudevano un occhio con la scusa che i ragazzi sono ragazzi, e il rituale dell'iniziazione era « una tradizione dell'università », che infondeva nei nuovi arrivati il senso di far parte di una comunità speciale.
Tuttavia, in questo clima di indulgenza, sadici e bulli, che si cela-no in ogni ambiente, approfittavano largamente dell'impunità. Qualche matricola fu selvaggiamente percossa e una addirittura spalmata di catrame e di piume. Manfred sentí qualcuno ridere allegramente di una simile punizione: non immaginavano che il catrame bollente potesse far male sulla pelle, che peli e capelli incrostati dovessero poi essere strappati, e che una persona sottoposta a quello scherzetto finisse all'ospedale. La matricola in questione non tornò piú all'università, ma la faccenda fu messa a tacere.
Altre matricole si ritirarono in quelle prime settimane, perché i se-dicenti guardiani della tradizione universitaria e studentesca non avevano la minima considerazione per le costituzioni psicofisiche piú delicate. Una delle vittime, un asmatico, fu dichiarato dagli anziani colpevole di insubordinazione e condannato alla pena dell'annegatio.
La sentenza fu eseguita nei gabinetti del collegio. Quattro vigorosi anziani afferrarono il poveraccio e lo calarono ripetutamente a testa in giú nella tazza del cesso. Erano presenti due studenti di medicina del quinto anno, per controllare il polso e il battito cardiaco della vittima durante il trattamento: ma non avevano tenuto conto dell'asma, e per un pelo l'annegamento non si verificò sul serio. Solo con l'iniezione endovenosa di un farmaco stimolante i due coglioni, che a questo punto si mettevano le mani nei capelli, riuscirono per puro ac-cidente a far ricominciare a battere il cuore del ragazzo. Che il giorno dopo partí, come gli altri, per non tornare mai piú.
Manfred, nonostante la sua stazza, i suoi muscoli e la sua avve-nenza, che lo rendevano un bersaglio naturale, riuscì a dominare la rabbia e a tenere la lingua a freno. Si sottomise stoicamente anche al-le provocazioni piú estreme, finché verso la fine della seconda settimana di tormento un cartello comparve in bacheca della sala comune.
TUTTE LE SCORREGGE SI TROVINO
SABATO ALLE ORE 16 ALLA PALESTRA DELL'UNIVERSITA'
PER LA SELEZIONE DELLA RAPPRESENTATIVA DI BOXE
F.to Roelf Stander
capitano della squadra di boxe
Tutti i collegi universitari erano specializzati nell'uno o nell'altro sport: nell'uno andava forte la squadra di rugby, nell'altro quella di atletica. Lo sport del Rust en Vrede era la boxe. Per questa ragione (oltre che per averci studiato lui stesso) lo zio Tromp l'aveva iscritto lì.
Era anche la ragione per cui la riunione in cui dovevano tirare le matricole del collegio risultò affollatissima. C'erano almeno trecento spettatori seduti tutt'intorno al ring quando arrivò Manfred insieme alle altre matricole « incatenate ». Furono guidati allo spogliatoio, si cambiarono e si rimisero in fila contro il muro, in ordine di altezza.
Roelf Stander li passò in rivista, con l'elenco in mano, facendo gli accoppiamenti per gli incontri. Era evidente che li aveva già meditati nei giorni precedenti, valutando le matricole dal punto di vista pugilistico. Manfred, che era il piú alto e grosso di tutti i nuovi venuti, era a un'estremità della fila e Roelf Stander si fermò davanti a lui.
« Non c'è scorreggia piú potente e fetente di questa », annuncio, poi tacque un attimo studiando Manfred. «Quanto pesi, scorreggia? »
« Sono un mediomassimo, signore », e gli occhi di Roelf si strinsero leggermente. Aveva già individuato in Manfred il candidato migliore, e sentirlo parlare in gergo pugilistico lo rincuorò assai.
« Hai già tirato di boxe, scorreggia mia? » domandò, per poi fare una smorfia disgustosa alla risposta:
« Non ho mai sostenuto incontri ma ho fatto un pò di allenamento, signore. »
« E va bene, allora! Io sono un peso massimo, ma poiché qua di mediomassimi non ce ne sono, oltre a te, farò io qualche ripresa con te, se prometti di non strapazzarmi troppo, scorreggia mia! »
Roelf Stander era il capitano della selezione universitaria, campione provinciale dei dilettanti e speranza sudafricana per le Olimpiadi di Berlino del 1936. Le sue parole erano quindi quanto mai ironiche e i presenti sghignazzarono a piú non posso. Anche Roelf non riuscì a reprimere un sorrisetto goliardicamente fuori luogo.
« D'accordo, si comincia dai leggeri », continuò, guidandoli in palestra.
Le matricole sedettero su una lunga panca in fondo, da cui il ring si vedeva male dietro le file privilegiate degli spettatori anziani. Roelf e i suoi assistenti, tutti membri della squadra di boxe, infilarono i guantoni ai primi due e li accompagnarono sul ring.
Mentre avveniva tutto questo, Manfred si sentì osservato. Poiché gli anziani erano lontani scrutò liberamente tra il pubblico.
Si era dimenticato di quanto fosse carina Sarah, o era sbocciata nelle ultime settimane: i suoi occhi brillavano e aveva le guance rosse per l'eccitazione. Gridava il suo nome sventolando un fazzoletto di pizzo.
Restò impassibile, strizzandole furtivamente l'occhio mentre lei gli mandava un bacio sulla punta delle dita e ricadeva seduta a fianco della massa montagnosa dello zio Tromp.
« Sono venuti tutti e due! » si rallegrò Manfred. Fino a quel momento non si era accorto di sentire la loro mancanza. Lo zio Tromp girò la testa e gli sorrise, coi denti bianchissimi balenanti nel cespuglio nero della barba: poi tornò a guardare verso il ring.
Cominciò il primo match. Due pesi piuma si avventarono, l'uno contro l'altro in un turbine di sventole, ma uno era di gran lunga superiore e presto il sangue arrossò il ring. Roelf Stander fermò l'incontro alla seconda ripresa e consolò lo sconfitto con una pacca sulla spalla.
« Bravo, bravo. Non è vergogna perdere. »
Seguirono gli altri incontri, tutti animatissimi, perché nessuno voleva fare brutta figura. Ma a parte un discreto peso medio erano tutti rozzi e alquanto incapaci. Alla fine restò seduto in panchina so-lo Manfred.
« E va bene, scorreggia! » disse l'anziano mettendogli i guantoni. « Vediamo che cosa sai fare. »
Manfred si levò dalle spalle l'asciugamano proprio mentre Roelf Stander usciva dallo spogliatoio e saliva sul quadrato. Indossava ora la maglietta bruna e i pantaloncini a ricami dorati che erano i colori dell'università, e ai piedi non aveva le scarpe da tennis come gli altri, ma veri scarponcini alti da boxe. Alzò i guantoni per far cessare fischi e schiamazzi.
« Signore e signori, per l'ultimo candidato, che è un mediomassimo, non ci sono avversari della sua categoria. Sicché lo metterò alla prova io stesso. »
Urla e schiamazzi ricominciarono subito: tra questi, però, si distinguevano incitazioni tipo « Vacci piano, Roelf! » e « Non ammazzare la povera scorreggia! ». Roelf chinò ripetutamente la testa a garantire in anticipo la sua clemenza, rivolto soprattutto alle panche occupate dalle ragazze dei pensionati femminili. Da esse si levarono strilli e squittii appassionati. Roelf infatti era alto e bello, aveva occhi scuri brillanti e la mascella ben marcata. Aveva i capelli folti e lustri di brillantina, i basettoni e i baffi curati da lord.
Quando Manfred arrivò all'altezza delle prime file non riuscì a trattenersi dal guardare Sarah e lo zio Tromp. Sarah saltava sulla sedia, premendosi i pugni chiusi sulle guance arrossate.
« Pestalo, Manie! » gridava. « Vat hom! » mentre lo zio Tromp annuiva vigorosamente. « Rapido come il mamba, Jong! Coraggioso come il ratel! » gli sussurrò in modo da farsi sentire solo da lui.
Manfred alzò la testa scavalcando le corde, sentendosi piú agile e leggero di un momento prima.
Un altro anziano si era assunto il compito di arbitrare. « In questo angolo, 84 chilogrammi al peso, il capitano della selezione universitaria e campione dei dilettanti della provincia del Capo di Buona Speranza... Roelf Stander! E in quest'altro angolo, 78 chilogrammi di peso », in segno di rispetto per il pubblico eterogeneo e femminile non aveva usato la qualifica di scorreggia, « ... Manfred De La Rey. »
Suonò il gong e Roelf uscì dall'angolo a passo di danza, ondeggiando e muovendosi sul tronco, sorridendo appena sopra la guardia dei guantoni. Si girarono attorno studiandosi a vicenda, appena fuori portata. Un giro di danza da una parte, un giro di danza dall'altra. Il sorrisetto svaporò. Questa proprio non se l'aspettava.
La guardia del suo avversario sembrava impenetrabile. La testa bionda incassata tra le spalle muscolose, si muoveva per il ring leggero come una nuvola.
« Sa tirare! » Roelf si arrabbiò. « Mi ha raccontato una balla.
Questo qua è un pugile. » Cercò ancora una volta di occupare il centro del ring, ma l'avversario lo allontanò subito spostandosi minaccioso sulla sua sinistra.
Non si erano ancora scambiati neanche un pugno, ma gli schiamazzi del pubblico erano cessati. Avevano capito di assistere a qualcosa di straordinario: avevano colto il mutato atteggiamento di Roelf dalla condiscendenza disinvolta all'impegno piú serio: e chi lo conosceva bene aveva notato anche le rughine di preoccupazione che si erano formate agli angoli della bocca e degli occhi.
Roelf tirò un sinistro d'assaggio che l'altro non si degnò nemmeno di schivare, ma parò senza scomporsi con una mossa del guantone. Quel fuggevole contatto bastò a dargli un'idea della potenza di Manfred. Lo guardò negli occhi: era un suo trucco per dominare gli avversari.
Gli occhi di quell'uomo erano di uno strano colore, tipo topazio o zaffiro giallo: a Roelf ricordavano gli occhi di un leopardo divora-tore di vitelli che suo padre aveva catturato una volta con una trap-pota nelle colline accanto alla sua fattoria. Erano uguali: ed ecco che si accesero di una luce dorata fredda, implacabile e disumana.
Non era tanto paura quella che attanagliava il petto di Roelf Stander, quanto premonizione di un terribile pericolo. C'era una belva feroce sul ring con lui. Ne scorgeva la voracità e la ferocia negli occhi, e cercò istintivamente di martellarla.
Usò il sinistro, che era il suo pugno migliore, mirando dritto a quegli occhi spietati. Il colpo non arrivò a destinazione. Frustò l'aria. Roelf cercò disperatamente di coprirsi ma offrì il fianco, forse per un centesimo di secondo, e in quell'attimo qualcosa esplose nel punto scoperto. Non vide nemmeno il pugno: non capí nemmeno cos'era, perché non aveva mai preso un cazzotto cosí forte. Sembrava scoppiargli dentro, fracassargli le costole, dilaniargli le viscere, straziargli i polmoni, fargli sputare tutto il fiato che aveva raschian-dogli la gola. Fu proiettato indietro, devastato dal dolore.
Le corde lo scottarono alla vita e alle scapole e lo fiondarono di nuovo avanti. Il tempo sembrava essere rallentato: la vista gli era di-venuta piú chiara e acuta, come se nel sangue gli girasse qualche droga: sicché stavolta vide partire il pugno. Fantasticò che il guantone non contenesse una mano di carne e d'ossa ma un maglio d'acciaio, e gli si accapponò la pelle. Ma non riuscí a schivarlo, e stavolta il colpo fu ancora piú forte: incredibile, al di là di ogni piú scatenata immaginazione. Senti strapparsi qualcosa dentro e le gambe gli si sciolsero come cera fusa.
Gli venne voglia di urlare dal dolore, ma riuscí a controllarsi.
Voleva andare al tappeto, ma le corde lo tenevano su, anzi tornavano a fiondarlo in avanti. Mentre aveva l'impressione di sgretolarsi come un uomo di vetro arrivò il terzo colpo, ingrandendosi fulmi-neamente come un pallone davanti alla sua faccia. Non lo sentí nemmeno. Lo prese d'incontro e non capì piú niente, finí per terra a faccia avanti e giacque immobile.
Manfred continuava ad agitarsi inferocito sull'avversario atterrato, in una frenesia selvaggia e irrefrenabile. Il suo volto era defor-mato da una smorfia disumana, e negli occhi gli brillava la luce gialla come un fuoco assassino.
Tra la folla una donna gridò e immediatamente si diffuse una costernata agitazione. Tutti saltarono in piedi, increduli ed esaltati, e cominciarono ad accorrere sul ring, a dar manate sulle spalle a Manfred, mentre altri cercavano, invano per il momento, di rianimare il campione messo KO.
Le donne erano livide. Alcune strillavano ancora, tra atterrite ed eccitate da un titillamento quasi sessuale. Volevano vedere! Ed ecco che Roelf Stander scendeva finalmente giú dal ring con la testa cion-doloni, ondeggiando come dieci ubriachi, sorretto dai suoi assistenti che cercavano di non sporcarsi i vestiti con gli schizzi della sua faccia insanguinata. A fatica riuscí a girarsi a guardare Manfred festeg-giato e acclamato. I volti delle donne tradivano paura e orrore ma anche, in certi casi, desiderio carnale: una, mentre Manfred passava, avanzò la mano e gli toccò la spalla.
Lo zio Tromp prese Sarah per il braccio per calmarla, perché stava saltabeccando e strillando come un derviscio in frenesia. La portò fuori, al sole. Era ancora del tutto incoerente par la grande eccitazione.
« E' stato magnifico... così veloce, così bello. Oh, zio Tromp, non ho mai visto niente di simile in tutta la mia vita. Non è un ragazzo meraviglioso? »
Lo zio Tromp borbottò ma non fece alcun commento, e stette a sentire le sue ciarle per tutta la strada fino a casa. Solo quando salirono i gradini dell'imponente ingresso si fermò e guardò indietro, come a rievocare un posto o una persona che stava abbandonando con grande rimpianto.
« La sua vita è cambiata, e la nostra pure cambierà », si limito a mormorare. « Prego Iddio Onnipotente che nessuno di noi debba mai rimpiangere quanto è accaduto oggi, perche sono io il responsabile di tutto. »
Il rituale goliardico duro altri tre giorni e a Manfred continuava a essere impedito ogni contatto che non fosse con altre matricole.
Tuttavia per esse era diventato un dio, incarnava la loro stessa speranza di salvezza, e gli si stringevano attorno per vincere il senso di umiliazione e di degradazione che le attanagliava, traendo forza e risolutezza da lui.
L'ultima sera fu la peggiore. Bendati e tenuti senza dormire, costretti a sedere immobili su un'asse molto stretta, con in testa un secchio di latta su cui un anziano avrebbe suonato il tamburo senza preavviso, parve loro che la notte non finisse mai. Poi, all'alba, secchi e bende furono loro tolti e Roelf Stander si rivolse alle matricole.
« Uomini! » comincio; ed essi sbatterono gli occhi per questa qualifica che fino allora era stata negata, rimbambiti par la mancanza di sonno e assordati dai colpi sul secchio. « Siamo orgogliosi di voi... siete il miglior gruppazzo di matricole che sia arrivato in collegio da quando giunsi matricola anch'io. Avete sopportato tutte le prove senza batter ciglio e senza lamentarvi mai. Benvenuti a Rust en Vrede: adesso questa è casa vostra, e noi siamo vostri fratelli. »
Ed ecco gli anziani sommergerli tra risate, strette di mano e pacche sulle spalle.
« Forza, uomini! Andiamo al bar che vi paghiamo da bere. »
Così ruggì Roelf Stander, e cento studenti uscirono sottobraccio, cantando l'inno del collegio, diretti al vecchio hotel Drosdy. Si misero a dar gran colpi sulla porta ancora sbarrata finché il barman, nonostante non fosse ancora ora di vendere alcolici, dovette aprire.
Con la testa vacua per il sonno saltato, e una pinta di birra chiara nella pancia, Manfred aveva un sorriso ebete sul volto e, senza darlo a vedere, per tenersi in piedi si appoggiava al banco del bar. A un tratto ebbe l'impressione che stesse per succedere qualcosa e si voltò.
La folla di studenti aveva fatto largo intorno a lui, lasciando un corridoio per il quale stava venendo Roelf Stander, scuro in volto e minaccioso. A Manfred venne il batticuore ricordando che era la prima volta che si rivedevano a faccia a faccia dopo l'incontro di tre giorni prima. Non sarebbe stata certo una cosa divertente. Mise giú il bicchiere, scosse la testa per schiarirsela e si voltò verso l'altro, fronteggiandolo.
Roelf si fermò davanti a lui, e gli altri, matricole e anziani che fossero, si strinsero intorno per non perdere nemmeno una parola.
La suspense durò per parecchi secondi: nessuno osava fiatare.
« Ti voglio fare due cose », ruggí Roelf Stander e, mentre Manfred si metteva in guardia, sorrise, un sorriso simpatico e cordiale, e gli porse la destra « Primo, voglio darti la mano; secondo, voglio pagarti una birra. Perdio, Manie, non avevo mai preso da nessuno cazzotti come i tuoi. » Tutti si misero a ridere allegramente e la giornata si dissolse in una nebbia di birra e cordialità.
La faccenda avrebbe anche potuto finire lí, perché terminato il periodo di iniziazione, accolto Manfred nella fratellanza del Rust en Vrede, correva pur sempre una bella differenza sociale tra un presti-gioso quart'anno, direttore goliardico e capitano della squadra di boxe, e una matricola. Tuttavia la sera dopo, un'ora prima di cena, bussarono alla porta di Manie: era Roelf, in toga e berretto goliardico. Si sedette a chiacchierare amabilmente con Manfred sulla boxe, sugli studi di legge e sulla geografia dell'Africa del Sudovest. Quando suonò il gong, si alzò.
« Domattina alle cinque vengo a chiamarti e andiamo a correre insieme. Tra due settimane abbiamo un importante incontro con gli Ikeys. » All'espressione sbalordita di Manfred si mise a ridacchiare.
« Non te l'ho ancora detto? Sei in squadra. »
Dopo di che tutte le sere Roelf venne a trovarlo prima di cena, spesso con una bottiglia di birra nera, nella tasca della toga accade-mica, che si dividevano fraternamente, diventando sempre piú rilas-sati e sicuri nella reciproca compagnia, insomma amici.
La cosa non sfuggì agli altri studenti del collegio, sia anziani che matricole, e lo status di Manie ne fu elevato parecchio. Due settimane dopo, l'incontro con gli Ikeys era fissato in quattro categorie di peso, e Manie avrebbe difeso per la prima volta i colori dell'università. Ikeys era il soprannome degli studenti dell'università di Città del Capo, di lingua inglese, tradizionalmente rivale di quella di Stellenbosch dove si parlava afrikaans. Gli studenti di quest'ultima erano soprannominati Maties. La rivalità tra le due università era così sentita che i tifosi arrivavano a camionate intere, coi colori dell'università addosso, pieni di birra ed entusiasmo rumoroso.
Riempirono metà della palestra, cantando i loro inni, mentre i tifosi dei Maties li fronteggiavano dall'altra parte.
L'avversario di Manfred era Laurie King, un pugile esperto, dalle mani buone e la mascella di cemento: in quaranta incontri da dilettante non era mai andato al tappeto. Quasi nessuno aveva mai sentito parlare di Manfred De La Rey, e i pochi che conoscevano il suo esordio tendevano ormai a considerarlo un episodio casuale contro uno che lo aveva preso sottogamba.
Laurie King, però, aveva sentito la storia e la prendeva sul serio. Così si tenne alla larga per una buona metà della prima ripresa, finché il pubblico non cominciò a mandarlo a quel paese. Ormai però si era fatto un'idea del pugile che aveva davanti e pensava che, per quanto si muovesse bene, non fosse pericoloso come dicevano e potesse essere raggiunto da qualche sinistro alla testa. Entrò a portata di tiro per sperimentare la propria teoria. L'ultima cosa che ricordò poi furono gli occhi gialli e feroci, ardenti come il sole del Kalahari. Si ritrovò al tappeto senza nemmeno sapere come c'era finito.
Pur « salvato dal gong », Laurie King non riuscì a riprendersi in tempo per la seconda ripresa. Abbandonò il combattimento con la testa che ciondolava come quella di un ubriaco, sorretto dai secondi fino allo spogliatoio.
In prima fila lo zio Tromp ruggiva come un bufalo ferito, mentre accanto a lui Sarah strillava a squarciagola piangendo di gioia ed esaltazione.
Il giorno dopo sul giornale afrikaner Die Burger, il Cittadino, uscì un articolo in cui Manfred veniva soprannominato « il Leone del Kalahari ». Il giornalista sportivo aveva riconosciuto in lui una grande promessa. Informava inoltre che Manfred non solo era nipote del generale Jacobus Hercules De La Rey, eroe del Folk, ma anche imparentato con il reverendo Tromp Bierman, campione di bo-xe, autore di libri, e nuovo pastore di Stellenbosch.
All'uscita dalla lezione di sociologia Manfred trovò ad aspettarlo Roelf Stander e tutta la squadra di boxe.
« Ma perché non ce l'avevi detto? » lo aggredì furioso Roelf.
« Tuo zio è Tromp Bierman! Dio buono, è stato campione sudafricano per cinque anni! Ha messo giú Slater e Black Jephta! »
« Ah, non ve l'avevo detto? » disse Manfred accigliandosi. « Si vede che mi era uscito di mente. »
« Manie, tu devi presentarcelo! » implorò il vicecapitano della squadra. « Vogliamo conoscerlo tutti... per favore, per favore! »
« Pensi che accetterebbe di allenarci lui, Manie? Prova a chieder-glielo! Diavolo, se avessimo quale allenatore Tromp Bierman... »
Roelf si interruppe, sbigottito dal solo pensiero.
« Vi dico io come si può fare », suggerì Manfred. « Se riuscite a trascinare in chiesa la squadra domenica mattina, sono sicuro che zia Trudi inviterà tutti a pranzo dopo la funzione. E non sapete che cosa vi aspetta!... i koeksisters di mia zia sono un assaggio di paradiso. »
Così, lindi e lustri e vestiti della festa, i pugili della rappresentativa studentesca si presentarono in chiesa in ordinato plotone, e le lo-ro risposte e interpretazioni corali fecero sobbalzare le tegole del tetto.
La zia Trudi considerò l'occasione una sfida alle sue capacità cu-linarie. Lei e le ragazze lavorarono una settimana per preparare quel pranzo. Gli invitati, tutti giovani in perfette condizioni fisiche, erano sottoposti da settimane al cibo del collegio, e si gettarono quasi increduli su quelle prelibatezze. Lo zio Tromp - a capotavola, in ottima forma e pronto a raccontare i suoi incontri piú memorabili -
all'inizio fu un tantino trascurato. Le ragazze turbinavano arrossendo e servendo ai giovanotti conserve, arrosti, budini e chi piú ne ha piú ne metta.
Alla fine del pranzo Roelf Stander, torpido come un pitone intento a digerire una gazzella, si alzò a fare un discorso di ringraziamento a nome della squadra, ma a metà lo trasformò in un appassionato appello allo zio Tromp perché assumesse l'incarico di allenatore onorario.
Lo zio Tromp scacciò il solo pensiero con un gesto della mano, ma tutta la squadra si mise a insistere schiamazzando, Manfred compreso. Tromp addusse allora tutta una serie di scuse, ognuna piú zoppicante della precedente. Alla fine, con un grande sospiro, capitolò. Poi, accettando le congratulazioni, i festeggiamenti e le strette di mano, lasciò libero corso alla sua gioia.
« Ragazzi miei, non avete idea di che gatta da pelare vi siete presì. Ci sono parole che io proprio non capisco: "sono stanco" e "ne ho abbastanza", ad esempio! » li avvertì.
Dopo la funzione serale Manfred e Roelf tornarono a Rust en Vrede camminando sotto le querce. Roelf stava stranamente zitto.
Non parlò fino a quando arrivarono davanti al portone. Poi disse in tono pensoso:
« Di, un pò, Manie, quanti anni ha tua cugina? »
« Quale? » chiese Manfred distratto. « Quella grassa si chiama Gertrude, quella coi brufoli è Renata... »
« No, no! Manie, non far l'asino! » l'interruppe Roelf. « Dico quella carina, con gli occhi azzurri e i capelli d'oro. Quella che sposerò. »
Manfred si fermò di scatto e si voltò ad affrontarlo con la testa incassata tra le spalle e la bocca contorta in una smorfia di furore.
« Non dirlo mai piú! » Aveva la voce rotta dall'ira e prese Roelf per il bavero. « Non usare mai piú questo linguaggio sporco parlando di Sarah, se no ti ammazzo! »
Aveva il viso a pochi centimetri da quello di Roelf. Quella terribile luce gialla, la luce assassina, brillava nei suoi occhi.
« Ehi, Manfred, che ti prende? » balbettò Roelf. « Guarda che non ho detto proprio niente di sporco. Sei matto? Non insulterei mai Sarah. »
La luce feroce svanì pian piano dagli occhi gialli di Manfred.
Scosse la testa come a schiarirsela, e parlò con qualche stordimento:
« E' solo una bimba, non dovresti parlarne così. E' una bambinetta e basta ».
« Una bambina? » ridacchiava incerto Roelf, mettendosi a posto la giacca. « Ma tu sei cieco, Manie. Non è una bambina. E' la ragazza piú carina che... » Manfred si allontanò irritato ed entrò nel portone.
« Ah! » sussurrò Roelf. « E' così dunque! » sospirò ficcandosi le mani in tasca. Ora gli tornava in mente qualche sguardo di Manfred a Sarah, qualche carezza affettuosa e furtiva sul collo quando si chinava a cambiargli il piatto, e sospirò di nuovo, in preda a un'improvvisa malinconia. « Ci sono miliardi di ragazze carine al mondo » si disse cercando di scacciar l'umor nero. « Tutte cotte di Roelf Stander... » Alzò le spalle, fece un mezzo sorriso e seguí Manfred nel pensionato.
Manfred vinse i dodici incontri che seguirono tutti per KO entro le prime tre riprese. Ormai lo chiamavano « Leone del Kalahari » su tutti i giornali.
« D'accordo, Jong, vinci pure finché ti riesce », l'ammoniva zio Tromp, « ma ricordati che non si è giovani per sempre, e alla lunga piú che i muscoli conta il cervello. Bada di non dimenticartelo mai. » Così Manfred si dedicava agli studi con altrettanto entusiasmo dell'allenamento.
Ormai il tedesco gli veniva naturale come l'afrikaans, e lo parlava molto meglio dell'inglese, che adottava con riluttanza e con un forte accento. Rispetto alla giurisprudenza, trovava la legge olandese, basata sul diritto romano, del tutto soddisfacente quanto a logica e filosofia: leggeva il corpus giustinianeo come letteratura amena.
L'interessavano molto anche la politica e la sociologia. Con Roelf ne parlavano continuamente, diventando sempre piú amici.
L'abilità pugilistica l'aveva immediatamente trasformato in una stella studentesca. Certi professori lo trattavano perciò con speciale riguardo e indulgenza, mentre altri si proponevano di stangarlo. Davano per scontato che fosse una testa di rapa e restavano sbalorditi nel constatare che non lo era affatto.
« Forse il nostro famoso boxeur vorrà darci il contributo del suo torreggiante intelletto gettando qualche luce sul concetto di bolscevismo nazionale. » Così aveva parlato il professore di scienze politiche e sociologiche, un intellettuale alto e segaligno dagli occhi penetranti di mistico. Nato in Olanda, i genitori l'avevano portato in Africa da bambino: e ora il dottor Hendrik Frensch Verwoerd era uno dei principali intellettuali afrikaner e campione delle aspirazioni nazio-nalistiche del suo popolo. Teneva lezione alle matricole una volta al semestre, riservando il suo impegno ai migliori studenti anziani.
Adesso stava sorridendo con aria di superiorità mentre Manfred, al-zatosi in piedi, cercava di raccogliere le idee.
Il dottor Verwoerd attese qualche secondo e stava per fargli cenno di sedersi - il ragazzo era evidentemente un minus habens -, quando Manfred cominciò a rispondere, parlando con grande esattezza e proprietà di linguaggio nell'accento piú corretto (quello di Stellenbosch che è per l'afrikaans quel che è l'accento di Oxford per l'inglese)
«Contrariamente all'ideologia convenzionale del bolscevismo creato da Lenin, il concetto di nazional-bolscevismo fu usato originariamente in Germania per descrivere una politica di resistenza al Trattato di Versailles... » Il dottor Verwoerd sbatté gli occhi e smise di sorridere. Il giovanotto non ci era cascato, separando immediatamente i due concetti.
« E sa dirci chi elaborò per primo questa dottrina politica? » domandò Verwoerd con una nota d'irritazione nel tono.
« L'idea fu avanzata verso il 1919 da Karl Radek, se non mi sbaglio. Egli proponeva un'alleanza delle potenze sconfitte contro i comuni nemici occidentali, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. »
Il professore si chinò in avanti come un falco che punta la preda.
«A suo modo di vedere, una politica del genere potrebbe essere d'attualità anche in Sudafrica? » Si prestarono reciproca attenzione per tutto il resto della lezione, mentre i compagni di Manfred, sollevati da ogni necessità di pensare, ascoltavano in preda a vari gradi di noia o perplessità.
La sera del sabato seguente, quando Manfred vinse il titolo universitario dei mediomassimi, il dottor Verwoerd era a vedere in prima fila. Non andava mai alle manifestazioni sportive, se non forse alle partite di rugby, che nessun sudafricano degno di questo nome potrebbe mancare.
Pochi giorni dopo il professore mandò a chiamare Manfred, ap-parentemente per discutere un suo saggio sulla storia del liberali-smo: ma i loro argomenti superarono di gran lunga questo pretesto.
Alla fine, il dottor Verwoerd fermò Manfred sulla porta. « Eccole un libro che forse non ha ancora avuto occasione di leggere », disse porgendoglielo. « Lo tenga per tutto il tempo che vuole, e quando l'ha finito mi faccia sapere che cosa ne pensa. »
Manfred aveva fretta di arrivare alla lezione successiva, così non lesse neanche il titolo. Quando poi rientrò nella sua stanza, lo gettò sulla scrivania. Roelf lo stava aspettando per andare a correre e non riuscí a dargli un'occhiata prima della sera tardi, quand'era già in pigiama.
Lo prese dalla scrivania e si accorse di averne già sentito parlare.
Era l'edizione originale tedesca. Non lo rimise giú fino a quando non spuntò l'alba e i piccioni selvatici cominciarono a tubare fuori della finestra. Allora chiuse il libro e rilesse il titolo: MeiN Kampf, di Adolf Hitler.
Passò il resto della giornata in una trance di tipo quasi religioso.
Che rivelazione! All'ora di pranzo tornò in camera a leggere ancora. L'autore stava parlando direttamente a lui, rivolgendosi alle sue linee di sangue germaniche e ariane. Aveva la sensazione arcana che fosse stato scritto apposta. Perché, altrimenti, Herr Hitler avrebbe dovuto inserirci dei magnifici brani come questo: E' considerato naturale e onorevole che un giovane impari a tirare di scherma e cominci a battersi in duello a destra e a sinistra, ma se si dedica alla boxe è considerato volgare! E perché mai? Non c'è alcuno sport che come questo promuova lo spirito dell'attacco, richiedendo decisioni immediate, e alleni il corpo a una destrezza d'acciaio... ma soprattutto, il corpo giovane e forte deve imparare a prendere dei colpi... non è funzione dello stato Volkisch allevare una colonia di pacifici esteti e fisici degenerati. Se la nostra classe intellettuale superiore non fosse stata allevata cosí rigorosamente nell'etichetta aristocratica, se avesse imparato a tirare vigorosamente di boxe, non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di ruffiani, disertori e altra feccia del genere...
Manfred rabbrividí quando vide formulare e spiegare così chiaramente i suoi stessi principi, duramente conquistati, di moralità personale. Gli nacque dentro una specie di premonizione.
Insieme all'allenamento del corpo, deve cominciare una lotta senza quartiere contro l'avvelenamento dell'anima. Oggi la nostra vita pubblica è tutta un'incubatrice di idee e stimoli sessuali...
Anche Manfred aveva sofferto questi tormenti, posti come insi-diose trappole sulla strada dei giovani e puri. Era stato costretto a lottare contro le reazioni impure del suo corpo quando gli era capitato di guardare riviste e manifesti cinematografici... sempre scritti in inglese, quella lingua degenerata e corrotta che cominciava a odiare... recanti foto di donne seminude.
« Hai ragione! » dichiarò, sfogliando furiosamente le pagine del libro. « Stai tracciando le grandi linee del futuro sviluppo dell'uomo nella verità. Dobbiamo essere forti e puri. »
Poi il suo cuore ebbe un soprassalto quando vide scritte a chiare lettere altre verità che in precedenza aveva sentito solo adombrare in velate allusioni. Fu riportato indietro negli anni, al campo di disoccupati lungo la ferrovia a Windhoek, e rivide la vignetta di quel giornale che accusava Hoggenheimer di condurre il popolo alla schiavitú. La sua indignazione era tale che tremava d'ira mentre leggeva:
Con satanica gioia in viso, il giovane ebreo dai neri capelli tende l'osceno agguato alla candida fanciulla, il cui sangue contaminerà col proprio, rubandola al suo popolo.
Vide con gli occhi della mente il bianco e tenero corpo di Sarah giacere aperto sotto il corpaccione peloso di Hoggenheimer e gli venne voglia di uccidere.
Poi l'autore incise una vena del suo sangue afrikaner cosí abilmente che Manfred sentí la propria anima straziarsi sulla pagina.
Furono e sono gli Ebrei a portare i negri in Renania, sempre col segreto pensiero e il chiaro obiettivo di rovinare l'odiata razza bianca mediante l'inevitabile imbastardimento...
Rabbrividí. « Swartgevaur! Pericolo negro! » Quello era sempre stato il grido di raccolta del suo popolo nei secoli passati in Africa: a quel richiamo rispondeva ancora, per atavismo, il suo cuore.
Terminò il libro scosso ed esausto come non l'aveva mai ridotto il ring. Benché fosse già tardi, andò a trovare l'uomo che gliel'aveva dato, e parlarono appassionatamente e seriamente fin dopo mezzanotte.
Il giorno seguente il professore lasciò cadere una parola di approvazione in alto loco. « Ho conosciuto una persona che ritengo molto opportuno affiliare, perché ha mente acuta e ricettiva e ben presto avrà in seno al nostro popolo una posizione di grande rilievo e influenza. »
Alla riunione successiva di una certa società segreta fu dunque deciso di arruolare Manfred De La Rey, già amico di uno dei capi della gioventú studentesca di Stellenbosch.
Cinque giorni la Settimana Roelf e Manfred, per correre, imboc-cavano un sentierino tra le montagne molto ripido e duro. Dopo ot-to chilometri si fermavano a bere nella pozza sotto una cascata candida di schiuma. Roelf guardava Manfred inginocchiarsi sui massi scivolosi, immergere le mani nella pozza e bere a grandi sorsate l'acqua limpida e pura.
« E' una buona scelta », pensava, concordando tra se con la decisione dei superiori. La maglietta leggera e i calzoncini che Manfred indossava mostravano il suo corpo possente e aggraziato: i capelli d'oro ramato e i lineamenti del viso erano di una bellezza irresistibile. Ma la chiave della sua personalità erano gli occhi di giallo topazio. Perfino Roelf si sentiva messo un pò in ombra dalla crescente fiducia e sicurezza di se del piú giovane amico.
« Riuscirà un forte leader, del tipo di cui abbiamo tanto bisogno. »
Manfred si rialzò elasticamente in piedi, asciugandosi la bocca col dorso della mano.
« Dai, alza le chiappe, ronzino », rise. « L'ultimo che arriva è un bolscevico. »
Ma Roelf lo fermò. « Oggi vorrei parlarti un pò », disse, e Manfred si accigliò.
« Ehi, già non facciamo altro che parlare continuamente! E perché poi proprio qui? »
« Qui nessuno ci può sentire. E ti sbagli, Manfred: alcuni di noi fanno qualcosa di piú che parlare. Stiamo preparandoci all'azione, alla lotta dura, il genere che preferisci anche tu. »
Manfred si girò, immediatamente interessato, e venne ad accuc-ciarsi accanto a lui. « Chi si muove? E quale azione? » domandò.
Roelf inclinò leggermente la testa.
« Un'élite segreta di afrikaners militanti, i dirigenti del nostro popolo. Si tratta di uomini che ricoprono posizioni-chiave nel governo, nel mondo accademico e in quello economico della nazione.
Ecco chi sono, Manfred. E non solo i capi di oggi, Manfred, ma anche i capi di domani, persone come me e come te. Ecco chi si muove, Manie. »
« Una società segreta? » chiese Manfred, oscillando sulle punte dei piedi.
« No, Manie, ben piú di questo, un esercito segreto pronto a lottare per il nostro popolo oppresso, pronto a morire per riportare la nostra nazione alla grandezza. »
Manfred si sentì addosso la pelle d'oca, mentre l'emozione della notizia gli si diffondeva per le vene. La sua reazione fu immediata ed entusiastica.
« Soldati, Manie, soldati scelti e arditi della nazione », continuò Roelf.
« Tu sei uno di loro? » gli domandò Manfred.
« Sì, Manie, sono uno di loro, e anche tu. Hai attirato l'attenzione del nostro consiglio supremo. Mi è stato chiesto di invitarti a unirti alla nostra marcia verso il destino, alla nostra lotta per compiere il destino manifesto del nostro popolo. »
«Chi sono i nostri capi? Come si chiama l'esercito clandestino? »
« Lo saprai. Ti diremo tutto quando avrai giurato obbedienza », gli promise Roelf. Poi gli afferrò il braccio con la mano, affondando le dita nel possente bicipite di Manfred, duro come gomma piena.« Accetti la chiamata del dovere? » gli chiese. « Ti unirai a noi, Manfred De La Rey? Indosserai la nostra uniforme e combatterai nelle nostre file? »
Il sangue olandese di Manfred, sospettoso, introverso e portato all'intrigo, era proclive a cogliere questa offerta di clandestinità; mentre il retaggio germanico che pure aveva nel sangue aspirava al-l'ordine e all'autorità di una società di fieri guerrieri. Una sorta di moderni Cavalieri Teutonici, duri e infaticabili nella loro attività rivolta a Dio e alla Patria. E benché non ne fosse consapevole agì anche la propensione al bel gesto teatrale che aveva ereditato dalla madre francese: il gusto della pompa militare, dell'alta uniforme, delle aquile della legione che Roelf gli stava offrendo.
Prese a sua volta il braccio di Roelf e lo guardò a lungo negli occhi in questa stretta cameratesca. « Con tutto il cuore », disse piano Manfred. « Mi unirò a voi con tutto il cuore. »
La luna piena splendeva alta sulle montagne di Stellenbosch, inargentandone le ripide creste esposte e piombando abissi e crepacci in una tenebra ancora più nera. La Croce del Sud brillava alta sull'asse polare, ma il suo chiarore era cancellato da un'altra croce di fuoco accesa al limitare della radura in mezzo alla foresta. Era un anfiteatro naturale, schermato dalle dense conifere che lo circondavano da ogni parte: un luogo segreto, nascosto a occhi ostili o curiosì, perfetto ai loro fini.
Sotto la croce di fuoco si allineavano gli « arditi assaltatori scelti ». Tutti luccicavano di borchie, fibbie e speroni d'ottone: ognuno reggeva una torcia accesa. Non erano piú di trecento i soldati lí con-venuti: essi costituivano un'élite, e la loro espressione era fiera e solenne mentre guardavano sbucare dalla vegetazione l'esiguo manipolo delle nuove reclute. Scesero un breve declivio e traversarono la radura, dove il generale le aspettava per arruolarle.
Manfred De La Rey fu il primo a mettersi sull'attenti davanti ai capì. Indossava la camicia nera, le brache da equitazione e gli stivali lustri che costituivano l'uniforme di questa banda di cavalieri segreti, ma era a testa scoperta e la sua uniforme non si fregiava di tante decorazioni ma solo del pugnale alla cintura.
Il comandante in capo fece un passo avanti e si fermò a mezzo metro di distanza da Manfred. Era una figura imponente, un uomo alto dal viso stagionato dal tempo e la mascella volitiva. Benché un pò grosso in vita - sotto la camicia nera si notava, piú che intuire, la pancetta bianca -, restava tuttavia un uomo nel rigoglio della virilità, un fiero leone nerocrinito sulle cui vaste spalle ben poteva posarsi l'aura del comando e dell'autorità.
Manfred lo riconobbe immediatamente, perché la sua faccia era sempre sul giornale. Era un pezzo grosso del governo, amministratore di una delle province, e la sua influenza era grande e diffusa.
« Manfred De La Rey », chiese il comandante in capo con voce possente, « sei tu pronto a stipulare il patto di sangue? »
« Sono pronto! » rispose Manfred con voce alta e chiara, estraendo il pugnaletto argentato dal fodero.
Dietro di lui, dai ranghi uscí Roelf Stander in uniforme completa, col berretto e l'insegna della croce uncinata sul braccio destro.
Estrasse la pistola dalla fondina, mise il colpo in canna e la puntò al cuore di Manfred, che non batté ciglio. Roelf era il suo padrino: la pistola significava che sarebbe stato lui stesso a ucciderlo se Manfred avesse mai tradito il giuramento di sangue che stava per fare.
Cerimoniosamente il comandante in capo porse a Manfred un foglio di rigida pergamena. Era intestato col simbolo dell'ordine, un corno da polvere da sparo stilizzato, di quelli che adoperavano i Voortrekkers, i pionieri del suo popolo. Sotto era stampato il giuramento. Manfred resse il cartiglio con la sinistra, mentre con la destra si puntava il pugnale al cuore a simboleggiare che era pronto a morire per gli ideali della confraternita.
« Davanti a Dio Onnipotente e ai miei camerati », lesse a voce altissima, « mi assoggetto completamente al servizio del destino che Dio ha assegnato al mio popolo. Giuro di obbedire ai precetti della Ossewa Brandwag, la sentinella del treno afrikaner, e agli ordini dei superiori. Sulla mia vita giuro di tenere il segreto su tutto quello che riguarda la Ossewa Brandwag, e di attuarne con gioia i sacri propositi. Domando che la vendetta mi insegua fino alla tomba del traditore se dovessi tradire i miei camerati, il mio giuramento o il mio Volk. Conto sui camerati ché eseguano la mia supplica: Se avanzo, seguitemi. Se indietreggio, uccidetemi. Se cado, vendicatemi. Dio m'aiuti! »
Manfred si passò la lama argentea sulla pelle del polso. Ne uscì un rivolo di sangue, rosso scuro alla luce delle fiaccole. Lo sparse sul cartiglio del giuramento.
Il comandante in capo fece un passo avanti e l'abbracciò, mentre dietro di lui le file emettevano urla di giubilo guerresco. Al suo fianco Roelf Stander rimise la pistola nella fondina. Tra le ciglia gli brillavano lacrimucce d'orgogliosa commozione. Quando il comandante tornò indietro, Roelf corse ad afferrare la destra di Manfred nella propria. « Fratello mio », disse in un sussurro soffocato. « Adesso siamo davvero fratelli. »
A metà novembre Manfred sostenne gli esami di fine anno e li passò, terzo su 153 matricole.
Tre giorni dopo l'affissione dei risultati, la rappresentativa di boxe di Stellenbosch, guidata dal suo allenatore, partì per prender parte al Campionato interuniversitario. Quest'anno si sarebbe svolto presso l'università di Witwatersrand a Johannesburg, dove in quel momento affluivano pugili universitari da ogni angolo del Sudafrica.
La squadra di Stellenbosch ci andava in treno, salutata alla stazione dagli allegri cori studenteschi dei tifosi. Un viaggio di oltre millecinquecento chilometri l'aspettava.
Lo zio Tromp disse addio con un bacio alle sue donne, cominciando dalla zia Trudi per finire con Sarah, la piú giovane. Manfred lo imitò. Indossava la tenuta della squadra ed era così alto e bello che Sarah non riuscí piú a resistere e scoppiò in pianto quando si chinò su di lei per baciarla. Gli gettò le braccia al collo e strinse con tutta la sua forza.
« Andiamo, andiamo, non fare l'ochetta », la redarguì all'orecchio Manfred. Era un pò turbato dallo strano tumulto che il contatto con la sua guancia di seta gli aveva provocato nella gabbia toracica.
« Oh, Manie, vai cosí lontano! » Cercò di celare le lacrime affondando il viso nel suo collo. « Non siamo mai stati cosí lontani l'uno dall'altra, noi due! »
« Andiamo, scimmietta, la gente ti sta guardando », la rimproverò gentilmente. « Dammi un bacio, che quando torno ti porto un regalo. »
« Non voglio un regalo, voglio te », disse lei tirando su col naso.
Poi alzò il visino dolce e posò le labbra su quelle di Manfred. Aveva la bocca calda e umida che sembrava sul punto di sciogliersi per il proprio stesso tepore. Era dolce come una mela matura.
Il contatto durò pochi secondi, ma Manfred ne fu cosí intensamente consapevole che gli parve di stringerla nuda tra le braccia. Il suo corpo reagì immediatamente, e lui fu colto da un senso di colpa e disgusto di sé. Una tempesta di bassa foia gli ribolliva nel sangue, esplodendogli nel cervello come un razzo inarrestabile. La staccò rudemente da sè, e lei ci restò male: ancora gli tendeva le braccia, mentre lui montava goffamente sul treno tra gli allegri schiamazzi dei compagni di squadra.
Quando il convoglio uscí dalla stazione Sarah si mise un pò di-scosto dalle altre ragazze, e quando quelle si voltarono per andarsene si trattenne ancora un pò a guardare il treno che accelerava correndo verso i monti.
In breve una curva li separò. Manfred allora si affacciò nello scompartimento e vide che Roelf Stander lo guardava perplesso.
Apri la bocca come per dir qualcosa, ma Manfred lo fulminò con lo sguardo.
« Hou jou bek! Chiudi il becco! »
Il Campionato interuniversitario era un torneo di dieci giorni con cinque partecipanti per ogni categoria, sicché ognuno doveva combattere un giorno sí e uno no.
Nella sua categoria Manfred era il numero due, il che significava che probabilmente avrebbe incontrato l'attuale detentore del titolo verso la fine. Questi era un ingegnere appena laureatosi all'università del Witwatersrand. Ancora imbattuto, aveva annunciato l'intenzione di passare professionista subito dopo le Olimpiadi di Berlino, in cui sembrava destinato a ben figurare.
« Il Leone del Kalahari affronta la piú difficile prova della sua carriera folgorante... Sarà capace di incassare, oltre che di picchiare? Ecco la domanda che tutti si pongono », scrisse il critico pugilistico del Rand Daily Mail. « Non sembrano esserci altri pugili capaci di impedire, battendo l'uno o l'altro, l'incontro di De La Rey e Rushmore sabato 20 dicembre 1935. Il destro alla dinamite di Rushmore si troverà di fronte i massacranti uno-due di De La Rey, e chi scrive non vorrebbe perdere l'incontro per tutto l'oro che si cela nel sottosuolo di Johannesburg. »
Manfred vinse i primi due incontri con irrisoria facilità. Gli avversari, già demoralizzati dalla sua reputazione, finirono entrambi al tappeto alla seconda ripresa, sotto le terribili scariche di Manfred.
Mercoledì era giorno di riposo per lui.
Lasciò la camera del pensionato dell'università ospitante alla mattina presto, rinunciando alla colazione per poter prendere il primo treno che partiva dalla stazione centrale di Johannesburg. Era meno di un'ora di viaggio nella prateria.
Mangiò qualcosa al bar della stazione di Pretoria e proseguí a piedi, con andatura meno decisa del solito.
La Prigione Centrale di Pretoria era un brutto edificio quadrato, ancora piú schiacciante e deprimente dentro che fuori. Era lì che venivano eseguite tutte le condanne a morte, e scontati gli ergastoli.
Manfred entrò dall'ingresso dei visitatori e conferì col capo dei secondini che, senza sorridere, gli diede un modulo da compilare.
Alla domanda « parentela col detenuto » esitò un momento, poi con decisione scrisse: figlio.
Quando restituì al carceriere il modulo compilato, l'uomo lo lesse lentamente e poi alzò lo sguardo su di lui, studiandolo con spassionata gravità. « In tutti questi anni non è venuto a trovarlo mai nessuno », gli disse.
«Prima non potevo venire», cercò di giustificarsi Manfred.
« C'erano delle ragioni. »
«E' quello che dicono tutti.» Poi l'espressione del carceriere cambiò. « Lei è il pugile, vero? »
« Proprio così », disse Manfred. Per un impulso improvviso fe-ce all'interlocutore il segno di riconoscimento dell'Ossewa Brandwag e negli occhi del carceriere lampeggio la sorpresa. Poi tornò a guardare il modulo compilato.
« Benissimo allora. Si sieda, verrò a chiamarla quando il prigioniero sarà pronto. » Di nascosto ricambiò il segnale: era dell'OB anche lui.
« Sabato sera demolisci quel bastardo di un collo rosso » gli sussurrò prima di allontanarsi. Rooinek, collo rosso, era il nome spregiativo che gli afrikaners riservavano agli inglesi, e lo stigma dei nuovi arrivati in Africa. Manfred restò sbalordito, ma anche alquanto rinfrancato, della diffusione cosí ampia dell'OB.
Dieci minuti dopo il carceriere accompagnò Manfred in una cella dipinta di verde dalle alte finestre sbarrate, con un tavolo e tre sedie. Su una di queste sedie era seduto un vecchietto sconosciuto.
Manfred guardò oltre di lui cercando con gli occhi suo padre.
Lo sconosciuto si alzò lentamente. Era curvo per gli anni di du-ro lavoro, aveva la pelle tutta intessuta di rughe, pieghe e macchie provocate dal sole. I capelli erano fini e bianchi come cotone greg-gio, e crescevano su un cuoio capelluto picchiettato come un uovo di piviere. Il collo scarno usciva dall'uniforme grezza della prigione come quello di una tartaruga dal guscio, e gli occhi erano scoloriti e cerchiati di rosso e di lacrime che imperlavano le ciglia come ru-giada.
« Papà...? » chiese incredulo Manfred, vedendo il braccio mancante. Il vecchio cominciò a piangere silenziosamente, scuotendo le spalle.
« Papà! » disse Manfred, senza parole per l'orrore. « Cosa ti hanno fatto? »
Corse ad abbracciare suo padre, cercando di nascondere il volto al carceriere, cercando di proteggerlo, di celare le proprie lacrime e la propria debolezza.
« Papà! Papà! » ripeteva impotente, palpandogli la spalla scarnita sotto l'uniforme di telaccia. Poi voltò la testa e guardò il carceriere con un muto appello negli occhi.
« Non posso lasciarvi soli. » L'uomo capiva, ma scuoteva la testa. « E' la regola, e vale piú di quanto valga il mio lavoro. »
« Per favore », sussurrò Manfred.
« Mi dai la tua parola di fratello che non l'aiuterai a fuggire? »
« Ti do la mia parola di fratello! »
« Dieci minuti », disse il carceriere. « Non posso concedervi di piú. » Se ne andò dopo aver chiuso a chiave la porta.
« Papà! » Manfred condusse il vecchio tremante alla sedia, ingi-nocchiandosi davanti a lui.
Lothar De La Rey si pulí le guance bagnate di lacrime col palmo della mano e cercò di sorridere, ma gli venne da piangere ancora. « Ma guarda un pò, piango come una vecchia donna stupida. E'
stato solo il colpo di rivederti dopo tanto tempo. Adesso va tutto bene, però. Fatti guardare, fatti soltanto guardare per un momento. »
Guardò con intensità il viso di Manfred. « Che uomo sei diventato. Bello e forte, com'ero anch'io alla tua età. » Sfiorò con la punta delle dita i lineamenti di Manfred. Aveva la mano fredda e la pelle scabrosa come quella dello squalo.
« Ho letto di te, figlio mio. Ci permettono di leggere i giornali, qui. Ho ritagliato tutte le notizie che ti riguardano e le tengo sotto il materasso. Sono molto fiero di te. Tutti qui sono fieri di te, anche i secondini. »
« Papà! Come ti trattano? » l'interruppe Manfred.
« Mi trattano bene, Manie, proprio bene. » Abbassò gli occhi mentre le labbra gli tremavano per la disperazione. « Solo che... è brutto l'ergastolo, Manie, e certe volte penso al deserto, agli orizzonti sfumati e lontanissimi e al cielo alto e azzurro. » S'interruppe e cercò di sorridere. « E poi penso a te, tutti i giorni: non passa giorno che non rivolga a Dio la preghiera di badare a te e di proteg-gerti. »
« No, papà... per piacere », l'implorò Manfred. « Non fare co-sì, ché fai piangere anche me. » Si tirò su e mise una sedia accanto a quella di suo padre. « Anch'io ho pensato tante volte a te, papà, tutti i giorni. Volevo scriverti: ma lo zio Tromp diceva che era meglio... »
Lothar gli prese la mano per farlo star zitto. « Ja, Manie, era meglio. Tromp Bierman è un uomo saggio. » Sorrise in modo un pò piú convincente. « Ma quanto sei diventato alto! Hai i capelli dello stesso colore dei miei da giovane. Tutto ti andrà bene, lo sento. Che hai deciso di fare della tua vita? Dimmelo in fretta... abbiamo poco tempo. »
« Sto studiando legge a Stellenbosch. Sono terzo in graduatoria dopo gli esami del primo anno. »
« Magnifico, figlio mio, e poi? »
« Non so ancora bene, papà, ma credo di dover combattere per la causa del nostro popolo oppresso. »
« Intendi darti alla politica? » chiese Lothar, e quando Manfred annuì, disse: « E' una strada dura, piena di giravolte e alti e bassi.
Io ho sempre preferito la strada dritta, in sella a un cavallo e col fucile in mano ». Rise sardonicamente: « E guarda dove mi ha portato! »
« Anch'io combatterò, papà. A suo tempo, e su un terreno di mia scelta. »
« Ah, figlio mio, la storia è sempre crudele col nostro popolo.
A volte penso con disperazione che siamo destinati a essere sempre gli ultimi, i paria calpestati da tutti. »
«Ti sbagli! » proruppe Manfred con espressione dura e voce rotta. « Il nostro giorno verrà, sta già sorgendo. Non resteremo a lungo dei paria. » Voleva dir tutto a suo padre, ma gli venne in mente il patto di sangue e restò zitto.
« Manie. » Suo padre si accosto, guardando di qua e di là come un cospiratore prima di prenderlo per la manica e parlargli all'orecchio. « I diamanti... Hai ancora i diamanti? » domandò, per leggere immediatamente la risposta sul viso del figlio. « Che fine hanno fatto? » La delusione di Lothar era tremenda, non si poteva guardarlo in faccia. « Erano la mia eredità per te, tutto quello che potevo lasciarti. Dove sono? »
« Lo zio Tromp li ha trovati anni fa. Disse che erano la moneta del diavolo e me li fece distruggere. »
« Distruggere? » balbettò Lothar, sempre piú sconvolto.
« Sull'incudine, col martello. Li ridussi tutti in polvere uno do-po l'altro. »
Manfred vide risorgere sul viso di suo padre l'antico spirito battagliero. Lothar balzò in piedi e si mise ad agitarsi infuriato per la cella. «Tromp Bierman, se mi capiti sottomano! Sei sempre stato un maledetto bigotto testardo e ipocrita... » S'interruppe e tornò a sedersi accanto al figlio.
« Manie, ci sono ancora gli altri. Ti ricordi il kopje, la collina nel deserto? Li ho lasciati là, per te. Devi tornare a prenderli. »
Manfred distolse lo sguardo. In tutti quegli anni aveva cercato di dimenticare. Era un ricordo sgradevolissimo, di una cattiva azione, associata a vergogna, colpa e terrore. Aveva cercato di chiudere la mente a quel periodo della sua vita. Erano cose di tanti anni prima, ed era quasi riuscito a dimenticarle: ma adesso, alle parole di suo padre, gli tornò in mente la puzza della cancrena, e ricordò il volo della borsa dei diamanti nel crepaccio.
« Ho dimenticato la strada per arrivarci, papà. Non lo ritroverei mai. »
Lothar scuoteva il braccio del figlio. «Hendrick! » berciava.
« Swart Hendrick la sa, ti ci può portare. »
« Hendrick. » Manfred sbatté gli occhi. Un nome semidimentica-to, che tornava dal passato: poi di colpo rivide con gli occhi della mente il testone calvo che pareva una palla di cannone. « Hendrick », ripeté, « Ma chissà che fine ha fatto. E' tornato nel deserto: impossibile rintracciarlo. »
«No, no, Manie. Hendrick è qui vicino, nel Witwatersrand.
Adesso è un grand'uomo, un capo della sua gente. »
« Come lo sai, papà? »
« Le voci corrono, qua dentro sappiamo sempre tutto. Quelli che arrivano portano notizie e messaggi da fuori. Hendrick si è fatto vi-vo, non mi ha dimenticato. Eravamo compagni, abbiamo cavalcato insieme per piú di diecimila miglia e combattuto cento battaglie. Mi ha fatto sapere dove trovarlo se mai riuscirò a scappare da questi dannati muri. » Lothar si chinò su suo figlio afferrandogli la testa con la mano e avvicinandogli l'orecchio alla bocca. « Devi andare a cercarlo. Ti riporterà alla collina di granito vicino al fiume Okavango... oh, Signore, come vorrei poterci venire anch'io, nel deserto, a cavallo con voi! »
La chiave entrò nella porta della cella e Lothar scosse disperatamente il figlio.
« Promettimi che ci andrai, Manie! »
« Papà, quelle pietre portano disgrazia. »
« Promettimelo, figlio mio, promettimelo! Dimmi che andrai a prenderli... se no avrò passato tutti questi anni in galera per niente! »
« Te lo prometto, papà », sussurrò Manfred, mentre il carceriere rientrava in cella.
« Il tempo è scaduto, mi dispiace. »
« Posso tornare domani a trovare mio padre? »
Il carceriere scosse la testa. « Una visita al mese. »
« Ti scriverò, papà. » Si voltò ad abbracciare Lothar. « D'ora in avanti ti scriverò tutte le settimane. »
Ma Lothar annuí con indifferenza. Ormai il suo volto si era chiuso, lo sguardo spento. « Ja », annuí. « Scrivimi, ogni tanto », disse e uscí dal parlatorio.
Manfred rimase incantato a guardare la porta di ferro verde fi-ché il carceriere non gli batté sulla spalla. « Vieni con me. » Manfred lo seguí fino all'ingresso dei visitatori in un groviglio di emozioni forti. Solo quando sbucò fuori dei cancelli, al sole, e alzò gli occhi al serenissimo ed eccelso cielo africano di cui suo padre gli aveva appena parlato con tanta disperata nostalgia, il groviglio di emozioni si dipanò e ne rimase una sola, la rabbia.
Rabbia, rabbia cieca e impotente, che nei giorni seguenti aumentò sempre piú fino a raggiungere il culmine quando, indossando i colori della sua università, passò tra due ali di spettatori diretto al ring, coi guantoni rossi ai pugni e una gran voglia di uccidere nel cuore.
Centaine si destò molto prima di Blaine, come sempre. Ogni momento che passava addormentata accanto a lui le sembrava sprecato. Fuori era ancora buio, perché la casetta era proprio sotto le ripide pareti dell'alta montagna dalla cima piatta che le nascondeva l'aurora. Ma gli uccellini, nel giardino cintato da un muro, stavano già cominciando a cinguettare. Aveva ordinato di piantare ai piedi dei muri i rampicanti che piú li attiravano, tacoma e caprifoglio, e di spargere briciole ogni giorno per instaurare buoni rapporti coi simpatici pennuti.
Ci aveva messo sei mesi a trovare il cottage perfetto. Doveva essere in posizione discreta e riparata, dotato di un parcheggio coperto per celare la sua Daimler e la Bentley nuova di Blaine, due veicoli che attiravano l'attenzione. Doveva essere a dieci minuti di strada a piedi dal Parlamento e dall'ufficio di Blaine, nell'ala dell'imponente edificio di Herbert Baker riservata ai membri del governo. Doveva offrire una veduta della montagna, e sorgere in qualche stradino pe-riferica e modesta, dove non si corresse il rischio di incontrare amici e conoscenti o peggio deputati, avversari politici, concorrenti o giornalisti. Ma, soprattutto, il cottage doveva darle quella sensazione specialissima...
E quando alla fine ci entrò, non vide nemmeno la tappezzeria macchiata e stinta, i tappeti logori fino alla trama: si piazzò in mezzo alla stanza centrale, diede un'occhiata in giro e sorrise. « Qui è vissuta gente felice. Sí, questo va bene, lo prendo. »
Aveva intestato l'immobile a una delle sue compagnie, ma non s'era fidata di nessun altro per arredarlo e ristrutturarlo. Ci aveva pensato lei, da cima a fondo.
« Deve diventare il piú perfetto nido d'amore mai costruito al mondo. » Insomma, si pose il solito obiettivo irraggiungibile, e cominciò a conferire tutti i giorni con una squadra di muratori e artigiani, che buttarono giú i muri tra le quattro piccole camere da letto e le fecero diventare un solo boudoir dall'ampia porta che si apriva sul giardino. Dietro l'alto muro che lo cintava, di arenaria gialla della Table Mountain, ecco incombere la grigia parete della stessa montagna.
Si fece fare bagni separati per se e per Blaine (per lui in marmo italiano color crema con venature rosse e i rubinetti dorati a forma di delfino; per lei una specie di oasi beduina dietro tende di seta ro-sa). Quanto al letto, era un pezzo da museo: Rinascimento italiano, con intarsi d'avorio e foglia d'oro. « Quando non sappiamo che altro fare, possiamo organizzarci un bel torneo di polo », disse Blaine al vederlo. Davanti a questo lettone imperiale, Centaine appese il suo magnifico Turner, tutto luce solare e mare dorato. In soggiorno mise il Bonnard, illuminandolo con un lampadario di cristallo che sembrava un albero di Natale a testa in giú. Poi sparse sulla credenza la sua argenteria migliore.
Assegnò al cottage quattro servitori fissi, tra cui un cameriere personale per Blaine e un giardiniere a tempo pieno. Lo chef era un malese che sapeva preparare i piatti piú fantastici a base di curry e riso pilaf, la cucina che Blaine preferiva.
Una fioraia aveva un contratto per fornire rose gialle fresche a dozzine tutti i giorni, e pensò Centaine a rifornire la cantina con le piú squisite prelibatezze prelevate da Weltevreden. Fece installare anche una cella frigorifera per tenervi prosciutti, salmone affumicato, caviale, burro, formaggi, uova e altri generi analoghi di prima necessità, come le bottiglie di champagne.
Tuttavia, nonostante tutte queste raffinatezze e attenzioni, erano fortunati se riuscivano a passarci insieme una notte al mese. Sí, c'erano altre ore rubate, splendenti come solitari, che Centaine teneva care come una povera mendicante: un pranzo insieme quando il Parlamento faceva pausa, un interludio di mezzanotte quando la seduta legislativa finiva a tarda ora: qualche pomeriggio - ah, cielo, che pomeriggi! - quando sua moglie Isabella credeva che fosse a giocare a polo o a qualche riunione di governo.
E ora Centaine girò piano la testa sul cuscino di pizzo e lo guardò. La luce dell'aurora entrava argentea dagli scuri e incideva i suoi lineamenti come nell'avorio. Pensò che somigliava a un imperatore romano addormentato, con quel nasone imperioso e la bocca inap-pellabile.
« Meno le orecchie », penso ridacchiando tra se. Dopo tre anni
- strano! - la sua presenza bastava ancora a farla sentire una ragazzina. Si alzò pian piano, per non disturbarlo, prese la spazzola e scivolo in bagno.
Si mise a spazzolarsi la chioma nera, cercando spruzzate erige che per fortuna non trovò. Si lavò i denti e poi gli occhi col collirio azzurro finché il bianco non diventò splendente e luminoso. Poi si mise la crema sulla faccia, togliendone ogni eccesso: a Blaine piaceva la sua pelle senza cosmetici. Usando il bidet sorrise ancora, ricordando il finto stupore di Blaine la prima volta che l'aveva visto:
« Magnifico! » aveva gridato. « Un abbeveratoio per il cavallo in bagno, che grande utilità! » aveva ironizzato, giocando sull'ignoranza degli inglesi nei confronti di quell'attrezzo.
A volte era cosí romantico da sembrar quasi francese. Centaine rise per l'impazienza, prese una vestaglia di seta dall'armadio, se l'avvolse addosso e corse in cucina. I servitori erano tutti eccitati e in subbuglio perché il padrone era presente: adoravano Blaine.
« Sei riuscito a trovarli, Hadji? » gli domandò Centaine, usando il titolo dovuto al musulmano che abbia fatto il pellegrinaggio alla Mecca. Il cuoco malese sogghignò come uno gnomo giallastro sotto il suo fez e mostro orgoglioso due grossi salmoni affumicati.
« Arrivati ieri col postale », vantò.
« Hadji, sei un mago », applaudí Centaine. Il salmone affumicato era il cibo preferito di Blaine a colazione. « Glielo farai come piace a lui, vero? » Gli piaceva affogato nel latte. Hadji parve addirittura addolorato dal dubbio di Centaine.
Centaine si divertiva moltissimo a far la parte della moglie, fin-gendo che Blaine appartenesse per davvero solo a lei. Cosí controllò con occhio attento Miriam che macinava il caffè e Khalil che gli smacchiava il vestito. Poi scivolò di nuovo nella camera da letto ancora buia.
Era senza fiato chinandosi su di lui e studiando i suoi lineamenti. Dopo tanto tempo, le faceva ancora quell'effetto.
« Sono molto piú fedele di qualsiasi moglie », mormorò. « Piú ubbidiente, amorosa, affett... »
Il braccio di Blaine scattò cosí all'improvviso che squittí di terrore. L'afferrò, la gettò sul letto e la coprì col lenzuolo.
« Eri sveglio! » lamentò. « Ehi, furbastro, non ci si può mai fidare di te! »
Ogni tanto riuscivano ancora a portarsi reciprocamente alla grande frenesia amorosa, dopo maratone sessuali che alla fine esplodevano in un gran lampo di luce e di colori come il Turner sulla parete davanti. Ma piú spesso, ormai, andava come stamattina: una fortezza d'amore, solida e inespugnabile. Ne uscirono con qualche riluttanza, separandosi lentamente, mentre il giorno riempiva la camera d'oro e in terrazza sentivano Hadji apparecchiare la tavola per colazione.
Gli portò la vestaglia, in broccato di seta cinese, lunga fino ai piedi. Era azzurra, ricamata di perle alla cintura, con disegni cremisi e risvolti di velluto. L'aveva scelta perché era esotica e diversissima dal suo modo di vestire abituale, che era serio e quasi severo.
« Non l'indosserei davanti a nessun altro al mondo », le aveva detto. Dopo il primo shock, però, aveva cominciato a piacergli.
Mano nella mano uscirono in terrazza e Hadji e Miriam raggia-rono di gioia. Inchinandosi, li fecero sedere a tavola. Era inondata di sole.
Con rapida quanto ferrea supervisione Centaine si assicurò che tutto fosse perfetto, dalle rose nel vaso Lalique alla spremuta di pompelmo nella brocca d'argento e cristallo di Fabergé; poi si mise a leggergli il giornale.
Lo faceva sempre nel medesimo ordine: prima i titoli e le notizie parlamentari - che Blaine commentava, discorrendone con lei -, poi le pagine finanziarie e la Borsa. Infine le pagine sportive, con particolare attenzione per le notizie relative al polo.
« Ehi, vedo che ieri hai parlato: "Energica risposta da parte del ministro senza portafoglio", dice qui. »
Blaine sorrise accingendosi a mangiare un filetto di salmone.
« Energica? Macché, "incazzata» è la parola giusta. »
« Cos'è 'sta storia delle società segrete? »
« Una brutta storia. A quanto pare queste vezzose organizzazioni di militanti si ispirano al signor Hitler e alle sue concezioni politiche alquanto barbariche. »
« E' una faccenda seria? » chiese Centaine sorseggiando il caffè.
Non si era mai abituata alle abbondanti colazioni inglesi. L'idea del salmone affumicato al mattino presto le sembrava ancora leggermente raccapricciante. « Sembra che tu non abbia dato importanza alla cosa. Hai liquidato l'interpellanza in maniera quasi sprezzante. » Lo guardò stringendo gli occhi. « Ma era tutta scena, no? Stavi nascondendo qualcosa. » Lo conosceva troppo bene. Lui le sorrise un pò vergognoso.
« Non ti sfugge niente, eh? »
« Non puoi dirmelo? »
« Già, non dovrei proprio. » Si accigliò, ma lei non aveva mai tradito la sua fiducia. « Siamo molto preoccupati » ammise. « Effettivamente l'Ou Baas le considera il pericolo piú grande che si sia mai presentato dopo la ribellione di De Wet nel 1914, quando schierò le sue truppe dalla parte del Kaiser. Si tratta di una spinosissima questione politica, che può diventare esplosiva. » Fece una pausa. Centaine capí che c'era dell'altro, ma aspettò tranquillamente che fosse lui a decidersi a dirglielo. « E va bene », dichiarò. « L'Ou Baas mi ha incaricato di presiedere una commissione d'inchiesta - a livello di governo e segretissima - sulla Ossewa Brandwag, che è la piú estre-mista e la piú grossa di queste società segrete. E' ancora peggiore del Broederbond, che è tutto dire. »
« E perché ha incaricato proprio te, Blaine? E' una faccenda piuttosto rognosa, no? »
« Sí, rognosissima. Mi ha scelto perché non sono afrikaner e dovrei essere un giudice imparziale. »
« Naturalmente ho già sentito parlare anch'io della Ossewa Brandwag. Se ne parla da anni, ma nessuno sembra saperne molto. »
« Sono nazionalisti di estrema destra, antisemiti, antinegri: attri-buiscono alla perfida Albione tutti i mali del mondo. Tengono riunioni segrete a notte fonda e stipulano patti di sangue: una specie di boy-scout neanderthaliani che si ispirano a Mein Kampf. »
« Non l'ho ancora letto. Tutti ne parlano. C'è qualche traduzione in inglese o in francese? »
« Io ho letto una traduzione speciale del ministero degli Esteri. E'
un minestrone farneticante di oscenità, incubi, propositi aggressivi e stupidità pura. Ti darei la mia copia, ma si tratta di pessima letteratura e quelle idee ti farebbero vomitare. »
« Non sarà un grande scrittore », concesse Centaine. « Ma, Blaine, qualunque altra cosa abbia fatto, Hitler ha saputo rimettere in piedi la Germania dopo la disastrosa repubblica di Weimar. La Germania è oggi l'unico paese al mondo dove non esiste disoccupazione e l'economia è in pieno boom. Le mie azioni Krupp e Farben hanno quasi raddoppiato il loro valore in nove mesi. » Si interruppe vedendo la sua espressione. « C'è qualcosa che non va, Blaine? »
Aveva lasciato le posate e la guardava fisso.
« Hai delle azioni dell'industria tedesca degli armamenti? » le chiese con calma, e lei annuí.
« E' il miglior investimento che abbia mai fatto dall'abbandono del gold standard... » Si interruppe: non bisognava mai parlarne.
« Non ti ho mai chiesto di fare qualcosa per me, vero? » le chiese, e lei considerò la faccenda con serietà.
« No, è vero, non me l'hai mai chiesto. »
« Be', adesso te lo chiedo. Vendi le azioni dell'industria bellica tedesca. »
Parve perplessa. « Perché, Blaine? »
« Perché è come investire nella diffusione del cancro, oppure finanziare le campagne di Gengis Khan. »
Lei non rispose, ma la sua espressione si fece lontana, quasi vacua. La prima volta che l'aveva vista cosí si era preoccupato: gli ci era voluto un pò di tempo per capire che, quando faceva quella faccia, stava eseguendo calcoli mentali. Dopo questa intuizione, fu affascinato dalla sua rapidità aritmetica.
Tornò a mettere a fuoco gli occhi già leggermente strabici e sorrise. « Al prezzo di ieri, ci guadagno centoventiseimila sterline. Era anche ora di vendere. Appena apre l'ufficio telegrafico ordino al mio broker di Londra di venderle tutte. »
« Grazie, amore mio », disse Blaine scuotendo malinconicamente la testa. « Ci terrei proprio che facessi i tuoi profitti da qualche altra parte. »
« Potresti aver giudicato male la situazione, chéri », osservò lei con tatto. « Magari Hitler non è poi quell'orco che credi tu. »
« Basta che sia quell'orco che dice di essere in Mein Kampf per qualificarsi per il museo degli orrori. » Blaine mangiò un boccone di salmone affumicato e chiuse gli occhi, in preda a una placida estasi.
Lei lo guardava con piacere quasi pari al suo. Blaine inghiottí, aprì gli occhi, e dichiarò chiuso l'argomento con uno sventolio della forchetta.
« Ma non parliamo piú di queste brutture in un mattino cosí sereno. » Le sorrise. « Leggimi la pagina sportiva, donna! »
Centaine sfogliò rapidamente il giornale e si preparò a leggere a voce alta: ma a un tratto impallidí e vacillò sulla sedia.
Blaine saltò in piedi a sorreggerla. « Che c'è, tesoro? » Era allar-matissimo e quasi altrettanto pallido di lei. Ma Centaine allontanò le sue mani soccorrevoli e rimase a guardare fissamente, tremando, il giornale che aveva in grembo.
Blaine diede un'occhiata alla pagina. C'era un articolo sulla corsa di domenica a Kenilworth, dove lo stallone di Centaine, Bonheur, aveva perduto per un'incollatura. Ma una simile quisquilia non poteva turbare così la sua padrona.
Poi si accorse che stava guardando in fondo alla pagina, seguì il suo sguardo e trovò la foto di un pugile. Era in posa, coi pugni nudi in guardia bassa e l'espressione corrucciata che non riusciva a im-bruttire i bei lineamenti del viso. Centaine non aveva mai mostrato il minimo interesse per la boxe, e Blaine rimase perplesso. La sua perplessità non fu risolta neppure dal titolo dell'articolo, che parlava del Campionato interuniversitario di boxe.
Diede un'occhiata alla didascalia. « Il Leone del Kalahari, Manfred De La Rey, aspirante al titolo universitario nazionale dei mediomassimi, si prepara a un difficile incontro. »
« Manfred De La Rey. » Blaine pronunciò pensosamente quel nome, cercando di ricordare dove l'avesse già sentito. Poi gli venne in mente.
« E' il ragazzo che cercavi al processo di Windhoek! E' lui? »
Centaine non lo guardò, si limitò ad annuire a scatti.
« E chi è costui per te, Centaine? »
Era in preda a una tempesta di emozioni e gli rispose senza pensarci. Forse, se avesse avuto tempo di riflettere, avrebbe usato altre parole:
« E' mio figlio. Mio figlio bastardo. »
Le mani di Blaine le caddero dalle spalle e lei udì il suo gemito soffocato.
« Devo esser pazza! » pensò Centaine. « Mai avrei dovuto dirglielo! Blaine non può capire, mi disprezzerà. »
Non ardì guardarlo. Sapeva che sul suo volto ora si stavano dipingendo sorpresa e indignazione. Chinò la testa e se la prese tra le mani.
« L'ho perduto », pensava. « Blaine è troppo retto, troppo virtuoso per accettare una cosa del genere. »
Poi le sue mani tornarono a toccarla, la fecero alzare in piedi, la costrinsero gentilmente a guardarlo.
« Io ti amo », le disse semplicemente, e le lacrime le inondarono il viso. Lo abbracciò forte forte, nascondendosi nel suo ampio petto.
« Oh, Blaine, sei così buono... »
« Se vuoi parlarmene, sono qui per aiutarti. Se non intendi farlo, posso capire anche questo. Sappi soltanto che... qualunque cosa tu abbia fatto... i miei sentimenti per te non cambiano. »
« Te lo voglio raccontare. » Cercò di ricacciare le lacrime di sollievo e lo guardò negli occhi. « Non volevo nasconderti niente. Era un pezzo che te lo volevo dire, anni ormai, ma non ho mai avuto il coraggio. »
« Ti mancherà qualche altra cosa senza dubbio, amore mio, ma il coraggio proprio no », le disse Blaine facendola sedere accanto a se e prendendole la mano.
« Adesso racconta », le ordinò.
« E' una storia lunga, Blaine, e so che il governo si riunisce alle nove. »
« Gli affari di Stato possono aspettare », dichiarò. « La tua felicità è piú importante. »
Così gli raccontò tutto, da quando Lothar De La Rey l'aveva salvata, alla scoperta dei diamanti della miniera H'ani, alla nascita di Manfred nel deserto.
Non gli nascose niente: né il suo amore per Lothar, l'amore di una ragazza sola e abbandonata per il suo salvatore, né il suo mutar-si in odio alla scoperta che Lothar aveva ucciso la vecchia boscimana a cui doveva la vita; il modo in cui quest'odio si era concentrato sulla creatura che già aveva in grembo, inducendola a rifiutarla, a non volerla nemmeno vedere, affidandola al padre subito dopo il parto.
«E' stata una grande crudeltà», sussurrò. «Ma ero confusa e impaurita, temevo la ripulsa della famiglia Courteney se avessi portato loro un bastardo. Oh, Blaine, me ne sono pentita mille volte, e ho odiato me stessa quanto odiavo Lothar De La Rey. »
«Vuoi andare a trovarlo a Johannesburg? » le chiese Blaine.
« Potremmo farci un salto in aereo a vedere il torneo di boxe. »
L'idea sbalordí Centaine. « Andarci insieme? » gli chiese. « Noi due, Blaine? »
« Non ti lascerei mai andarci da sola. E' una faccenda che ti turba troppo. »
« Ma come puoi allontanarti da casa? Che dirà Isabella? »
« In questo momento sei tu che hai piú bisogno di compagnia », si limitò a dirle. « Vuoi che ci andiamo, allora? »
« Oh sí, Blaine, sí per piacere! » Scacciò l'ultima lacrima col to-vagliolo di pizzo e lui vide il suo umore cambiare. L'affascinava il suo mutar umore come altre donne cambiavano cappellino.
Adesso era vivace, contenta ed efficiente. « Oggi sul tardi Shasa torna dal sud-ovest, telefonerò ad Abe per sapere a che ora è decol-lato il suo apparecchio. Se tutto va bene, potremo partire per Johannesburg domattina, A che ora, Blaine? »
« Piu presto che puoi », le disse. « Sbrigherò il lavoro questo pomeriggio e mi scuserò con l'Ou Baas. »
« In questa stagione il tempo dovrebbe esser buono: al massimo incontreremo qualche temporale nell'highveld. » Gli prese il polso e lo girò per consultare l'ora sul Rolex. « Chéri, se ti sbrighi fai ancora in tempo ad arrivare alla riunione del governo per le nove. »
Lo accompagnò al garage, lo salutò sempre giocando alla brava mogliettina e gli diede un bacio dal finestrino aperto della Bentley.
« Appena arriva Shasa ti telefono in ufficio », gli disse all'orecchio. « Se sei ancora in riunione lascio il messaggio a Doris. » Era la segretaria di Blaine, una delle pochissime persone al mondo che sa-pessero di loro due.
Partito che fu, Centaine tornò di corsa in casa a telefonare. La linea per Windhoek era disturbata, piena di fischi e crepitii: Abe Abrahams sembrava all'altro capo del mondo.
« Sono partiti alle prime luci dell'alba, quasi cinque ore fa », le disse quasi inaudibilmente. « C'è anche David, certo. »
« Com'è il vento, Abe? »
« Dovrebbero averlo in poppa per tutto il tragitto: un vento da venti o trenta miglia all'ora. »
« Grazie, andrò a prenderli all'aeroporto. »
« Te lo sconsiglio », disse Abe, un pò imbarazzato. « Ieri a ce-na, dopo il ritorno dalla miniera, i ragazzi hanno fatto un sacco di misteri, e stamattina non hanno voluto che li accompagnassi al campo d'aviazione. Immagino quindi che siano in compagnia, se mi consenti l'eufemismo. »
Centaine si accigliò per riflesso, anche se non riusciva a trovare in se nessuna vera disapprovazione per le avventure amorose di Shasa. Lo scusava sempre cosi: « E' il sangue dei De Thiry. Non può farne a meno », diceva, con un certo orgoglio indulgente per il grande successo con le donne di Shasa. Decise di cambiare argomento.
« Grazie, Abe. Ho firmato per le nuove concessioni nel Namaqualand, puoi già cominciare a stendere il contratto. » Parlarono d'affari per altri cinque minuti prima che Centaine riappendesse.
Fece altre tre telefonate, tutte d'affari, poi telefonò al suo segretario a Weltevreden e gli dettò quattro lettere e il telegramma con l'ordine di vendere le azioni Krupp e Farben per il suo agente di Londra.
Riappese, convocò Hadji e Miriam e diede loro istruzioni sul mé-
nage del cottage durante la sua assenza. Poi fece un rapido calcolo.
Il Dragon Rapide, il fantastico bimotore azzurro e argento, velocis-simo, che Shasa l'aveva praticamente obbligata a comprargli, faceva di crociera centocinquanta nodi: col vento da venti miglia in coda sarebbe arrivato a Youngsfield prima di mezzogiorno.
« Chissà se i gusti del signorino in fatto di donne sono un pò mi-gliorati nel frattempo. »
Uscí al volante della Daimler e si avviò lungo il fianco della montagna, sotto il District Six, ossia il pittoresco quartiere malese dalle viuzze echeggianti delle grida del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera, degli squilli di corni dei pescivendoli che urlavano i prezzi, e degli strilli dei bambini, simili a un chiassoso cinguettio. Quindi passò davanti all'ospedale Groote Schuur e all'università che sorgeva nella magnifica residenza donata alla nazione da Cecil Rhodes.
« E' forse la piú bella università del mondo », pensò.
I grandi palazzi di pietra con portici e colonne sfilavano davanti a uno sfondo di pini scuri e la nuda, altissima parete della montagna. Ma sui prati subito dietro l'ateneo correvano liberi piccoli branchi di animali delle pianure, zebre, eland (una specie di grossa antilope) e wildebeest (certe gazzelle). L'università la indusse a ripensare a Shasa. Aveva appena finito il primo anno, con risultati apprezzabili anche se non di prim'ordine.
« Ho sempre diffidato dei primi della classe », aveva commenta-to Blaine. « Sono troppo intelligenti per il bene loro e di chi gli sta vicino. Preferisco i comuni mortali, che per raggiungere l'eccellenza devono impegnarsi e sudare. »
« Mi accusi di viziarlo », aveva sorriso lei, « ma poi sei tu che gli trovi sempre la scusa buona. »
« Amore, sappi che esser figlio tuo non è affatto facile per un ragazzo. »
« Pensi che non sia buona con lui? » disse, un pò irritata.
« Anche troppo. E' che non gli lasci spazio. Hai tanto successo, tanta influenza: hai già fatto tutto tu. Cosa può fare per provare che vale? »
« Blaine, guarda che non lo tiranneggio affatto. »
« Non ho detto questo infatti, ma solo che hai una grande personalità. Per questo ti amo, se fossi una comune tiranna ti disprezze-rei », ridacchiò Blaine cingendole le spalle col braccio. « Devi allentare le briglie con lui, Centaine, consentirgli di fare i suoi bravi errori e conquistare qualche successo per conto suo. Se gli piace la caccia grossa, anche se tu non approvi l'uccisione di animali che poi non si mangiano, devi considerare che i Courteney sono sempre stati, tutti quanti, appassionati di safari, e lasciarlo andare. Il vecchio ge-nerate Courteney ha fatto fuori elefanti a centinaia, e anche il padre di Shasa cacciava: lascia che il ragazzo segua le loro orme. Sai, quello e il polo sono le uniche cose che non hai fatto prima tu. »
« Anche volare », precisò lei.
« E' vero, anche volare. »
« Va bene, lo lascerò andare a trucidare le bestie. Ma ora dimmi, Blaine, sarà selezionato per la squadra olimpica di polo? »
« Francamente ti debbo rispondere di no, cara. »
« Ma è bravo! L'hai detto tu stesso! »
« Si », ammise Blaine. « E' abbastanza bravo, nel senso che occhio e braccio sono all'altezza, ma gli manca l'esperienza. Se venisse selezionato, sarebbe certamente il giocatore di polo piú giovane presente alle Olimpiadi. Ma non credo che lo sarà. Clive Ramsay si fa ancora preferire come numero due. »
Lei lo guardò e lui sostenne impassibile il suo sguardo. Sapeva cosa stava pensando: che la selezione della squadra olimpionica dipendeva anche dal suo capitano, cioè Blaine stesso.
« David ci andrà, a Berlino », proseguì Centaine.
« Ma David Abrahams è una gazzella umana », osservo Blaine, ostentando pazienza. « Sui duecento metri, il suo tempo è il quarto del mondo; e sui quattrocento il terzo. Invece il giovane Shasa disputa il posto in squadra a una decina di cavalieri tra i piú bravi del mondo. »
« Darei qualunque cosa perché Shasa andasse a Berlino. »
« Lo so bene », ammise serio Blaine. Infatti, una volta deciso che Shasa avrebbe studiato lí invece che a Oxford, Centaine aveva donato alla facoltà di Ingegneria dell'università di Città del Capo un nuovo padiglione, che si chiamava ora padiglione Courteney. Sì, sapeva che nessun prezzo sarebbe stato considerato troppo alto da lei.
« Ti assicuro, amore mio, che baderò bene... » si interruppe e lei tese l'orecchio attentissima, «... a uscire subito dalla stanza quando qualche selezionatore farà il nome di Shasa. »
« E' sempre cosí virtuoso! » pensò, tormentando il volante della Daimler, in preda alla frustrazione che quel ricordo aveva ridestato. Ma un altro sopravvenne a equilibrare la faccenda, riguardante qualcosa che aveva avuto luogo sul letto rinascimentale intarsiato.
« Be', magari virtuoso non è la parola giusta. O forse sí! » Scoppio a ridere da sola come una scema.
Il campo d'aviazione era deserto. Parcheggiò la Daimler dietro l'hangar, dove Shasa dal cielo non l'avrebbe potuta vedere. Poi prese dal portabagagli la stuoia e si distese sotto un albero ai margini della pista erbosa.
Era una di quelle bellissime giornate estive piene di luce, con qualche nuvola soltanto sopra la montagna e una bella brezza fresca che stormiva tra i pini e rompeva l'afa.
Si mise comoda a leggere Il mondo nuovo di Aldous Huxley, che cercava di finire da una settimana, interrompendosi di quando in quando per dare un'occhiata al cielo settentrionale.
David Abrahams era appassionato di pilotaggio quasi quanto d'atletica. Questo era ciò che all'inizio l'aveva avvicinato a Shasa.
Benché Abe Abrahams lavorasse per Centaine ormai da un pezzo e fosse diventato un vecchio amico, i due ragazzi si erano « scoperti »
solo all'università. Da allora erano diventati inseparabili e avevano fondato il club aereo universitario, che Centaine aveva dotato di un Tiger Moth da addestramento.
David studiava legge, ed era tacitamente inteso che alla laurea sarebbe entrato nello studio legale di suo padre a Windhoek, diventando lui pure, in pratica, un dipendente di Centaine. La quale, quindi, lo osservava da anni, non aveva riscontrato alcun vizio in lui, e approvava la sua amicizia con Shasa.
David era piú alto di suo padre, aveva il fisico snello del corridore e un viso non bello ma simpatico, coi ricci neri e un gran naso a becco che aveva ereditato da Abe. Le sue bellezze erano gli occhi ne-ri semitici e le mani lunghe e sensibili con cui ora stava manovrando l'aeroplano. Volava con dedizione quasi religiosa, sembrava un sa-cerdote intento ai riti di qualche culto arcano. Trattava il velivolo come una bella creatura viva, mentre Shasa pilotava da ingegnere, con piena padronanza e abilità, ma senza la mistica passione di David.
Passione che David metteva anche nella corsa e in tante altre co-se della sua vita. Era una delle ragioni per cui Shasa gli voleva bene.
Aggiungeva qualche spezia alla vita di Shasa, aumentava il piacere delle cose che facevano insieme. Le ultime settimane sarebbero state insopportabili senza David.
Con la benedizione di Centaine, negata strenuamente per quasi un anno e poi misteriosamente prodigata all'ultimo momento, i due avevano preso il Dragon Rapide e il giorno dopo gli ultimi esami erano partiti per la miniera H'ani.
Qui il dottor Twentyman-Jones aveva fatto trovare loro due camion attrezzati di tutto punto con materiale da campeggio, servitori, battitori, scuoiatori e un cuoco. Uno dei geologi della ditta, uomo particolarmente versato per la vita all'aria aperta e la caccia agli animali piú pericolosi, era stato nominato capo della spedizione.
La loro destinazione era la Striscia di Caprivi, quel remoto angolo di natura vergine tra l'Angola e il Bechuanaland. L'accesso alla zona era sottoposto a grandi restrizioni e la caccia era proibita tranne in circostanze eccezionali. I cacciatori invidiosi insinuavano che fosse la riserva privata dei membri del governo sudafricano. Blaine Malcomess era riuscito a ottenere un permesso anche per loro.
Sotto la guida del vecchio geologo, e grazie alla sua mano ferma ed esperta, i due ragazzi erano in breve arrivati a comprendere e a rispettare la natura intatta e la vita che alimentava. Nel giro di poche settimane aveva insegnato loro il posto dell'uomo nel fragile equilibrio dell'ambiente e instillato ai due i principi della caccia etica.
« La morte di un singolo animale è cosa triste ma inevitabile. Invece è una tragedia se muoiono la foresta, la palude o la savana che nutrono intere specie », spiegò. « Se i re e gli aristocratici europei non fossero stati avidi cacciatori, oggi l'orso, il cervo e il cinghiale sarebbero estinti. Furono infatti i cacciatori a salvare i boschi dall'ascia e dall'aratro del contadino. » I due ragazzi ascoltavano attentamente davanti al fuoco da campo. « Chi caccia per amore delle creature che persegue proteggerà dai bracconieri le femmine incinte e gli animali immaturi, e salverà le foreste dalle capre e dal bestiame d'al-levamento. No, miei giovani amici, Robin Hood era uno sporco bracconiere e lo sceriffo di Nottingham aveva ragione. »
Cosí trascorsero giornate incantevoli nella macchia, allontanandosi dall'accampamento alle prime luci, se non prima, e tornando stremati dopo il tramonto del sole. Ognuno dei due riuscí ad ammazzare il proprio leone, e provò la tristezza e l'esaltazione del cacciatore: alla fine erano entrambi quanto mai decisi a preservare quel paese selvaggio e bello dalle scorrerie di uomini avidi e incoscienti. E
Shasa, che la nascita destinava a gran ricchezza e posizione eminen-te, si rese conto di quanta parte di tale responsabilità gli sarebbe un giorno toccata.
Le donne erano risultate quasi del tutto superflue, come aveva avvertito David: tuttavia Shasa aveva insistito per portarle lo stesso, una per sè e una per David.
Quella scelta da Shasa aveva quasi trent'anni. « E' sul violino vecchio che si suonano le canzoni migliori », garantì a David. Era una divorziata. « Non mi alleno mai sui cavalli da polo che mi ap-partengono. » Aveva grandi occhi azzurri, labbra rosse e piene, e non era gravata da un'eccessiva intelligenza.
David l'aveva soprannominata « Jumbo »: « Perché ha una testa cosí dura che potrebbero camminarci sopra due elefanti »
Shasa le aveva detto di portare un'amica per David. E lei aveva scelto una signora alta e bruna, anche lei divorziata. Era incredibilmente carica di orpelli, collane, braccialetti, pendagli, spille e anche un lunghissimo bocchino. Aveva una presenza intensa e vistosa ma non parlava spesso, se non per chiedere un altro gin.
David l'aveva soprannominata « la Cammella » per l'insaziabile sete che dimostrava. Tuttavia le due donne si erano rivelate ideali, perché pur fornendo quanto si chiedeva loro, all'occasione, con vigorosa esperienza, di giorno erano ben contente di starsene a oziare al campo, e la sera, davanti al fuoco del bivacco, non facevano il minimo tentativo di sabotare la conversazione partecipandovi.
« E stata forse la vacanza piú divertente che avrò mai occasione di fare », disse Shasa stendendosi all'indietro e lasciando pilotare il Dragon Rapide a David. Aveva lo sguardo perduto nell'immensità.
Subito si riscosse: « Ehi, ma non è finita! » disse consultando l'orologio. « Manca ancora un'ora all'atterraggio a Città del Capo! Tieni la rotta », disse a David, slacciando la cintura.
« Dove vai? » gli domandò David.
« Non ti metterò in imbarazzo rispondendo a questa domanda, ma non stupirti se tra poco la Cammella ti raggiunge. »
« Sai, tu mi preoccupi molto », disse David, con aria serissima.
« Se continui cosí, finirai per spaccare qualcosa. »
« Non mi sono mai sentito così bene », gli assicurò Shasa levandosi dal sedile.
« Non pensavo a te, benedetto ragazzo, ma a quella poveretta », disse scuotendo la testa. Shasa ridacchiò, gli diede una pacca sulla spalla e si affacciò nell'altra cabina.
La Cammella alzò gli occhi su di lui col suo sguardo cupo ed esaltato e così facendo si rovesciò il gin tonic sulla camicetta. Jumbo ridacchiò e, agitando il culetto, fece un pò di posto a Shasa sul sedile accanto a sé.
Le sussurrò qualcosa all'orecchio e Jumbo parve un pò perplessa, espressione niente affatto insolita in lei.
« Il Club dei 2000 metri di quota? Che roba è? »
Shasa le sussurrò qualche altra cosa e lei guardò giú dal finestrino la sottostante terra.
« Dio del cielo! Non mi ero accorta che eravamo tanto in alto! »
« I membri hanno diritto a un distintivo speciale », le disse Shasa, « tutto d'oro e brillanti. » L'interesse di Jumbo andò alle stelle.
« Oh, santo cielo! Che distintivo? »
« Una passera volante, con ali d'oro e occhi di diamante. »
« Una passera? E perché una passera... » S'interruppe, mentre l'aurora della comprensione sbocciava nei suoi fatati occhi blu.
« Shasa Courteney, sei tremendo! » Abbassò gli occhi e sbatté le ciglia due o tre volte, mentre Shasa strizzava l'occhio alla Cammella dall'altra parte della fusoliera
« Credo che David abbia qualcosa da dirti. »
La Cammella si alzò ubbidiente, col bicchiere in mano e tutti i ciondoli sonanti, e cominciò a vacillare per la carlinga.
Un'ora dopo Shasa si presentò sul cielo dell'aeroporto dalla parte della montagna e atterrò con la disinvoltura di chi spalmi del burro su una fetta ben calda di pane tostato. Prima che l'aereo esaurisse lo slancio, girò il muso verso gli hangar e rullò nella loro direzione.
Facendo rombare il motore di destra, entrò nell'hangar e spense i propulsori. Proprio in quella notò la Daimler gialla ferma in fondo al capannone.
« Per Allah, c'è la mamma! Fa, nascondere sotto il sedile quelle bellezze! »
« Troppo tardi », grugní David. « Jumbo la sta già salutando dal finestrino. »
Shasa si preparò all'ira materna mentre Jumbo scendeva ridacchiando dalla scaletta, sorreggendo una Cammella ormai tradita dalle proprie gambe.
Centaine non disse niente, ma aveva già chiamato il tassì. Come facesse a sapere delle due donne, Shasa non l'avrebbe mai capito, né si sarebbe azzardato a domandarglielo: Centaine le chiamò con un gesto imperioso della mano, le fece salire sferzandole con lo sguardo e ordinò a Shasa di mettere i bagagli nel baule con voce limpida e cristallina. Terminate le operazioni, congedò il tassì intimando al-l'autista di condurle subito dovunque volessero andare.
La Cammella sprofondò sul sedile con gli occhi incrociati, ma Jumbo si sporse dal finestrino e salutò Shasa sventolando il braccio finché non fu fuori vista. Shasa, a testa china, aspettava i gelidi sarcasmi di sua madre.
« Hai fatto buon viaggio, caro? » gli chiese con dolcezza Centaine, porgendogli la guancia da baciare, e le due ragazze non furono mai piú nominate.
« Ottimo! » Il bacio di Shasa risultò pieno di gratitudine e sollievo, oltre che del piacere di rivederla, e cominciò subito a raccon-tarle tutto del safari, ma lei tagliò corto.
« Dopo », disse. « Adesso voglio che tu pensi a far rifornire e controllare l'aereo perché domani si parte per Johannesburg. »
A Johannesburg scesero al Carlton. Centaine possedeva il trenta per cento delle azioni di quella società, per cui quando arrivava le mettevano a disposizione la suite reale.
L'albergo aveva urgente bisogno di restauri, ma aveva il vantaggio di sorgere in pieno centro di Johannesburg. Cambiandosi per cena, Centaine considerò la possibilità di far demolire il palazzo e cambiare destinazione all'area fabbricabile. Avrebbe fatto fare un progetto dai suoi architetti, decise, poi scacciò gli affari dalla mente e per il resto della serata dedicò tutte le proprie attenzioni a Blaine.
Incuranti di alimentare le chiacchiere, ballarono fino alle due del mattino nel night dell'albergo che si trovava nell'attico.
Il giorno dopo Blaine doveva vedere un mucchio di gente a Pretoria - la sua scusa per Isabella -, cosí Centaine poteva passare la giornata con Shasa. Al mattino c'era un'asta di purosangue, ma i prezzi erano ridicolmente alti e non comprarono nemmeno un cavallo. Pranzarono all'East African, dove Centaine gustò, piú del ci-bo, gli sguardi curiosi e invidiosi delle altre donne.
Nel pomeriggio andarono allo zoo. Nutrendo le scimmie e andando in barchetta sul lago, discussero i progetti futuri di Shasa e Centaine fu molto lieta di apprendere che, appena laureato e spe-cializzato, era deciso ad assumersi le proprie responsabilità nella Courteney Mining and Finance.
Arrivarono al Carlton con un sacco di tempo per cambiarsi per il match di boxe. Blaine, già in smoking, aveva in mano un whisky e soda: sprofondato in poltrona, guardava Centaine completare la vestizione. A lei questo piaceva molto. Era un giocare agli sposi.
Lo chiamò per farsi infilare gli orecchini e poi piroetto davanti a lui facendo volteggiare la gonna dell'abito da sera.
« Non sono mai andata a vedere la boxe, Blaine. Non è che siamo vestiti troppo elegantemente? »
« Ti assicuro che la cravatta nera è de rigueur. »
« Mio Dio, sono nervosissima. Non so nemmeno cosa gli dirà, se poi ne avrò l'occasione... » Sospirò. « Ti sei procurato i biglietti, vero? »
Glieli mostrò sorridendo. «Prima fila. Ho anche noleggiato un'auto con autista. »
Shasa entrò già vestito da sera, con la sciarpa di seta bianca sulle spalle e il cravattino annodato con trascuratezza per far vedere che non era una delle moderne burinate con l'elastico.
« Dio, com'è bello », pensò Centaine col batticuore. « Come sal-varlo dalle arpie? »
Shasa la baciò prima di andare a versarle il solito bicchiere di champagne.
« Le rifaccio il pieno di whisky, signore? » chiese a Blaine.
« Grazie, ma non ne bevo mai piú di uno, Shasa », rifiutò Blaine. Shasa si versò un ginger e Centaine pensò con sollievo che l'alcool non sembrava destinato a costituire un problema per suo figlio.
« Bene, mamma », disse Shasa alzando il bicchiere. « Brindo al tuo novello interesse per la nobile arte della boxe. Hai un'idea degli scopi generali che si propone? »
« Penso si tratti di due giovanotti che cercano di ammazzarsi a vicenda in un cerchio di corde, non è cosi? »
Blaine si mise a ridere. « Proprio cosí, solo che il cerchio è quadrato, Centaine. » Non usava mai nomignoli teneri alla presenza di Shasa, e spesso lei si chiedeva se il ragazzo immaginasse il carattere dei loro rapporti. Sicuramente qualcosa doveva sospettare, ma stasera aveva già troppi grattacapi per aprire anche quella porta buia.
Bevve il suo champagne e poi, bellissima nell'abito di seta e nello sfavillio dei suoi brillanti, sottobraccio ai due uomini piú importanti della sua vita, uscí e salí sulla limousine in attesa.
Le strade del quartiere universitario intorno alla palestra erano piene di macchine parcheggiate. Sui marciapiedi una gran folla eccitata di studenti e appassionati di boxe confluiva verso il luogo del match, sicché l'autista restò imbottigliato nel traffico e dovette farli scendere a trecento metri di distanza dall'ingresso. Si unirono quindi alla folla che sciamava a piedi.
L'atmosfera in palestra era rumorosa e impaziente. Quando presero posto in prima fila, Centaine notò con sollievo che tutti, nei primi tre ordini di poltrone, erano vestiti da sera, e che c'erano quasi altrettante donne che uomini. Aveva temuto di esser l'unica.
Cominciarono gli incontri e Centaine cercò di fingersi interessata alle spiegazioni che Blaine e Shasa le davano assiduamente: ma quei pugili cosí leggeri le facevano l'impressione di galli da combattimento denutriti, e la velocità dei colpi che si scambiavano ingannava l'occhio. Inoltre, non era certo per loro che era venuta fin lí.
Terminò l'ennesimo incontro preliminare e Blaine, consultando il programma, l'avvertì che ora veniva il clou. Il pubblico emetteva continui boati assetati di sangue.
« Ecco che viene », le disse Blaine toccandole il braccio. Centaine scoprì che non riusciva a girarsi. Si pentí di essere venuta, non voleva che « lui » la vedesse.
Manfred De La Rey, mediomassimo sfidante, arrivò primo sul ring insieme all'allenatore e ai secondi. Gli studenti venuti da Stellenbosch emisero un ruggito di guerra sventolando le loro bandieri-ne. Subito rispose il grido degli universitari del Witwatersrand, il cui campione giocava in casa e dunque aveva molti piú tifosi. Il pandemonio andava alle stelle. Manfred salí sul quadrato ed eseguí una specie di danza con le mani guantate alte sulla testa e la vestaglia di seta che svolazzava come una toga giudiziaria.
Gli erano cresciuti i capelli e, contrariamente alla moda, non li portava incollati al cranio dalla brillantina, ma liberi di formare un'ondeggiante criniera gialla: non per niente era il Leone del Kalahari! Aveva la mascella forte, quasi troppo, e anche zigomi e bozze frontali erano sporgenti e ben delineati. Ma erano gli occhi a colpire: chiari, implacabili e felini come quelli del gran predatore a cui la stampa l'aveva paragonato.
Le spalle erano molto larghe, i fianchi stretti, e su tutto il suo corpo non si vedeva un grammo di grasso o una piega floscia. Sotto la pelle gli si potevano contare i muscoli a uno a uno.
Shasa si irrigidí sulla sedia, riconoscendolo. Strinse i denti ricordando la violenza dei cazzotti che quel tipo sapeva dare fin da ragazzino, e tornò a sentirsi scivolare in gola il famoso pesce morto che per poco non l'aveva spedito al Creatore. Era come se tutti quegli anni non fossero passati affatto.
« Lo conosco, mamma », le disse a denti stretti. « E' quello con cui avevo litigato sul molo a Walvis Bay. » Centaine gli mise una mano sul braccio per farlo tacere, ma non parlò e non lo guardò. Invece rubò un'occhiata a Blaine, e ciò che vide la sconvolse.
L'espressione di Blaine era tristissima, rabbia e dolore quasi pal-pabili. A mille miglia di distanza riusciva a essere comprensivo e magnanimo: ma con la prova vivente della scostumatezza di lei sotto gli occhi poteva solo pensare all'uomo con cui aveva fatto questo bastardo, e alla sua acquiescenza - anzi, la sua gioiosa partecipazione! - a quell'atto. Pensava al suo corpo, che avrebbe dovuto essere riservato a se, usato da un estraneo... per meglio dire da un nemico contro il quale aveva rischiato la vita in battaglia.
« Mio Dio, perché sono venuta? » Si torturava. Poi sentí qualcosa sciogliersi dentro e conobbe la risposta:
« Carne della mia carne », pensò. « Sangue del mio sangue. »
Le tornò in mente il suo peso in grembo, ricordò gli spasimi vitali che aveva mosso dentro di lei, e tutti gli istinti materni sgorgarono e minacciarono di soffocarla. L'aspro grido della nascita risuonò ancora una volta in lei, assordandola.
« Mio figlio! » rischiò di gridare forte. « E' mio figlio! »
Lo stupendo gladiatore sul ring voltò la testa nella sua direzione e si accorse di lei. Abbassò i guantoni e la fissò con tanto veleno concentrato negli occhi gialli, tanto odio e tanta amarezza, da colpirla come una mazza ferrata in pieno viso. Poi Manfred De La Rey le voltò deliberatamente le spalle e andò al suo angolo.
I tre, Blaine, Centaine e Shasa, sedevano rigidi e silenziosi in mezzo alla folla vociante e schiamazzante. Nessuno guardava gli altri, e solo Centaine si muoveva, torcendo in grembo la falda dello scialle e mordendosi il labbro inferiore perché non tremasse.
Il campione in carica saltò sul quadrato. Ian Rushmore era due centimetri piú basso di Manfred, ma piú largo di spalle e piú massicciò di torace. Aveva lunghe braccia scimmiesche piene di muscoli e il collo cosí corto da parer mancante. Sulla testa come avvitata alle spalle crescevano folti ricci neri e nel complesso il neolaureato ingegnere dava l'idea di un cinghiale fortissimo e pericolosissimo.
Squillò il gong e nel boato della folla i due pugili occuparono il centro del ring. Centaine gemé involontariamente al primo cozzo del pugno guantato su carne e ossa. In confronto ai frulli turbinanti dei pugili di categoria inferiore, questo incontro sembrava uno spettacolo gladiatorio.
Non riusciva a definire alcuna superiorità tra i due che si giravano intorno scambiandosi cazzotti tremendi che rimbalzavano sulla solida guardia dell'avversario. Tra finte, controfinte, schivate e passi di danza si avventarono ancora, mentre la folla tuonava in frenesia impazzita.
Di colpo com'era cominciata la mischia cessò, i pugili si separa-rono e tornarono al loro angolo tra i secondi biancovestiti, che si misero ad assisterli amorosamente, a spugnarli, asciugarli e mas-saggiarli sussurrando paroline.
Manfred bevve un sorso dalla bottiglia che il suo allenatore, un tipo grande e grosso dalla barba nera, gli portava alla bocca. Si ri-sciacquò i denti e poi guardò Centaine, individuandola in mezzo alla folla col suo sguardo giallino, e, senza abbassarlo, sputò l'acqua nel secchio ai propri piedi. Centaine capí che era un segno di disprezzo espressamente dedicato a lei; sputava tutta la sua rabbia: si raggrinzí dalla paura. Sentí Blaine dire qualcosa.
« Per me la ripresa è finita in pareggio. De La Rey non ha con-cesso niente, e si vede che Rushmore lo teme. »
Poi i pugili si rialzarono in piedi, al suono del gong, e ricominciarono a girarsi intorno tirandosi colpi. Sbuffavano come tori af-faticati a ogni pugno dato e preso, i loro corpi erano lucidi di sudore e chiazzati di rosso dove erano arrivati i colpi dell'avversario.
La faccenda continuò per un pezzo e Centaine sentí che le veniva la nausea per la violenza primitiva di quello spettacolo, per i rumori, gli odori e la furia scatenata della lotta.
« Questa ripresa l'ha vinta Rushmore », disse tranquillo Blaine alla fine del round, e Centaine l'odiò, addirittura, per la sua calma. Sentiva di avere un velo di sudore appiccicoso in faccia e la nausea minacciò di sopraffarla mentre Blaine cosí proseguiva: « De La Rey dovrà metterlo al tappeto entro le prossime due riprese, se no Rushmore lo trita a poco a poco. Ogni momento diventa piú sicuro di se ».
Le venne voglia di saltare in piedi e scappare via, ma la tradivano le gambe. Poi suonò il gong e i due tornarono sotto i riflettori.
Centaine cercò di non guardarli ma non ci riuscí: continuò dunque a fissarli morbosamente affascinata e vide la cosa accadere, ne vide ogni vivido dettaglio sapendo che non l'avrebbe mai dimenticato.
Vide il guantone di cuoio rosso balenare trovando un varco nella guardia avversaria, vide la testa dell'altro scattare indietro come l'impiccato preso nel cappio del boia subito dopo l'apertura del trabocchetto fatale. Distinse ogni gocciolino di sudore spruzzata via dalla forza del colpo come al cascar di una grossa pietra nel pozzo, e i lineamenti contorcersi grottescamente in una maschera d'agonia.
Senti il botto, e il secco rumore di qualcosa che si rompeva, denti, ossa o cartilagine, e gridò, ma il suo urlo fu sommerso da quello della folla che prorompeva da migliaia di strozze. Si ficcò le dita in bocca mentre i colpi continuavano a piovere (cosí rapidi da dissolversi davanti agli occhi, cosí rapidi da fare un rumore di frullatore che sbatta una crema densa) e un volto diventava una maschera di carne sanguinolenta. Continuò a urlare guardando l'ira omicida negli occhi gialli del figlio che aveva partorito, guardandolo trasformarsi in una belva feroce, mentre l'uomo che lo fronteggiava diventava un fantoccio barcollante su gambe di legno, poi crollava avvi-tandosi all'indietro e finiva al tappeto, gli occhi aperti puntati contro la luce dei riflettori sopra il ring senza vederla, respirando rumorosamente dal naso rotto e intasato dal sangue che gli colava in bocca. Manfred De La Rey, ancora in preda a esaltazione omicida, danzava sopra di lui cosí frenetico che Centaine si aspettava che da un momento all'altro si mettesse a urlare come un lupo mannaro, o si scagliasse sul pugile atterrato per scotennarlo e sventolarne lo scalpo in segno di osceno trionfo.
« Portami via, Blaine », singhiozzò. « Portami via da questo posto. » Le mani di lui la sollevarono e la condussero fuori, nella notte.
Dietro di loro il boato della folla si attutí. Centaine respirò una boccata di aria fina e frizzante dell'altipiano con l'avidità di una persona salvata appena in tempo dall'annegamento.
« Il Leone del Kalahari si guadagna il biglietto per Berlino », diceva il titolone. Centaine rabbrividì al ricordo, gettò via il giornale e prese il telefono sul comodino.
« Shasa, quando possiamo tornare a casa? » gli domandò appena udì la voce impastata di sonno del figlio. Blaine entrò in camera dal bagno, con le guance bianche di schiuma da barba.
« Allora hai deciso? » le chiese.
« E' inutile cercare di parlargli », gli rispose. « Hai visto anche tu come mi guardava. »
« Forse un'altra volta... » cercò di consolarla lui. Ma vide la disperazione nei suoi occhi e andò ad abbracciarla forte.
David Abrahams migliorò di quasi un secondo il suo record sui 200 metri piani il primo giorno delle prove di selezione per le Olimpiadi. Tuttavia, per reazione, fece meno bene del previsto il secondo giorno, quando riuscí a vincere nei 400 con solo mezzo metro di vantaggio. Il suo nome comunque fu fatto tra i primi al banchetto seguito da un ballo che concluse le prove di selezione della squadra di atletica leggera. Shasa, che gli sedeva accanto, fu il primo a stringergli la mano, congratularsi e dargli una pacca sulla spalla. David sarebbe andato a Berlino.
Due settimane dopo cominciarono le selezioni della squadra olimpica di polo, all'Inanda Club di Johannesburg, e Shasa entrò a far parte della squadra B dei « possibili » contro la squadra A, guidata da Blaine, dei « probabili », nell'ultima partita del torneo preo-limpico.
Seduta in tribuna, Centaine assisté a una delle partite migliori di Shasa, ma con la disperazione nel cuore capí che non bastava. Non fallí un'intercettazione e non sbagliò un tiro nei primi cinque tempi e in un'occasione soffiò la palla sotto il naso del cavallo di Blaine con un'azione talmente audace e bella che tutti gli spettatori balzarono in piedi. Ma non era ancora abbastanza bravo, e lei lo sapeva.
Clive Ramsay, il rivale di Shasa per il posto di numero due della squadra che sarebbe andata a Berlino, aveva giocato bene tutta la settimana. Era un uomo di quarantadue anni, con una carriera di grandi vittorie alle spalle: aveva giocato con Blaine Malcomess almeno trenta incontri internazionali. La sua carriera di giocatore di polo stava appunto culminando, e Centaine sapeva bene che i selezionatori non potevano permettersi di scartarlo in favore di un giocatore piú giovane, piú audace, probabilmente anche piú dotato, ma certo meno esperto e quindi meno affidabile.
Quasi li vedeva scuotere saggiamente il capo, emettendo sbuffi di fumo dal sigaro, tutti d'accordo: « Il giovane Courteney verrà buono la prossima volta ». Già li odiava - compreso Blaine! - quando a un tratto la folla emise un boato e saltò in piedi anche lei.
Grazie a Dio Shasa era uscito nettamente dalla mischia e galoppava lungo la linea laterale pronto a raccogliere il cross del suo numero uno, un'altra giovane promessa, che fronteggiava ora Clive Ramsay a centrocampo.
Probabilmente il fallo non fu intenzionale, ma derivò dalla foga e dalla voglia di ben figurare: sta di fatto che il compagno di Shasa caricò fallosamente Clive Ramsay, il cui cavallo cadde sulle ginocchia e fece volare il giocatore sul durissimo terreno di gioco. Ai raggi x, quel pomeriggio, risultò una frattura multipla del femore che il chirurgo dovette operare.
« Niente polo per almeno un anno », ordinò quando Clive Ramsay uscì dall'anestesia.
Sicché quando i selezionatori si riunirono in conclave Centaine aspettò ansiosamente, consentendosi nuove speranze. Come le aveva detto, Blaine si allontanò dalla stanza quando emerse il nome di Shasa. Ma al rientro fu accolto da un grugnito del presidente.
« Allora va bene, il giovane Courteney sostituisce Clive. » Suo malgrado, Blaine provò una grande sensazione di orgoglio e felicità.
Shasa Courteney era colui che al mondo si avvicinava di piú al figlio che non aveva.
Appena poté, Blaine telefonò la notizia a Centaine « Sarà annunciato solo venerdì, ma Shasa ha già in tasca il biglietto per Berlino. »
Centaine non stava piú nella pelle dalla gioia « Oh, Blaine, tesoro, come farò a trattenermi fino a venerdí? » gridò. « Ah, che bello andare a Berlino tutti e tre assieme! Possiamo prendere la Daimler e attraversare l'Europa in macchina. Shasa non è mai stato a Mort Homme. Possiamo fermarci qualche giorno a Parigi, dove tu mi porterai a cena da Laserre! Ci sono tantissime cose da sistemare, ma possiamo parlarne sabato quando ci vediamo. »
« Sabato? » Se n'era dimenticato, si capiva dal tono.
« Il compleanno di Sir Garry, il picnic sulla montagna! » Sospirò, esasperata. « Oh Blaine, è uno dei pochissimi giorni all'anno in cui possiamo legittimamente stare un pò insieme! »
« E' di nuovo il compleanno di Sir Garry? Cos'è successo, l'anno si è accorciato? » sfotté.
« Uffa, Blaine, ti eri dimenticato! » l'accusò. « Non puoi tradir-mi: quest'anno sarà una festa doppia, il compleanno e la selezione di Shasa per le Olimpiadi. Promettimi che ci sarai, Blaine! »
Esitava ancora. Aveva già detto a Isabella che l'avrebbe portata a trovare la madre a Franschoek.
« Te lo prometto, dolcezza, ci sarò. » Centaine non avrebbe mai saputo quant'era destinata a costargli questa promessa. Infatti Isabella gli avrebbe fatto pagare la promessa infranta con raffinata crudeltà.
Era la morfina a guastarle il carattere, continuava a ripetersi Blaine. Altrimenti sarebbe stata ancora la persona dolce e gentile che aveva sposato. Era colpa del dolore incessante e della droga se era diventata insopportabile, si diceva cercando di salvare il rispetto e l'affetto che nutriva per lei.
Cercò di ricordare la sua grazia di un tempo, così delicata ed eterea da parere un fiore appena sbocciato: ma quella grazia era scom-parsa da un pezzo, i petali della rosa erano appassiti ed emanavano sentore di corruzione. L'odore dolciastro e morboso della droga le trasudava da ogni poro della pelle e anche le piaghe da decubito, che non guariscono mai, emanavano un leggero odore che ormai aborri-va. Gli rendevano sempre piú difficile starle vicino. Quella vista, quel cattivo odore l'offendevano, ma nello stesso tempo lo riempivano di pietà impotente e di rimorsi corrosivi per la sua infedeltà.
Era diventata scheletrica. Non c'era piú carne attorno alle ossa delle gambe che sembravano quelle di un trampoliere, perfettamente dritte e senza forma, interrotte dalle bozze dei ginocchi e concluse dai piedoni, grandi quanto inutili, alle estremità.
Anche le braccia erano altrettanto magre. Non c'era piú carne nemmeno sul viso. Le labbra si erano ritirate sui denti ora sporgenti ed esposti: quando cercava di sorridere la poverina sembrava un teschio, e peggio ancora appariva quando - capitava sempre piú spesso
- una smorfia di rabbia le scopriva i denti e le gengive quasi bianche.
Anche la carnagione era diventata bianca come carta di riso, e altrettanto arida e senza vita, così sottile e trasparente che sulle mani e sulla fronte le vene disegnavano un reticolo azzurrino. Gli occhi erano l'unica cosa ancora viva del suo viso. Adesso vi balenavano lampi maligni, quasi che l'odiasse per il suo corpo ancora sano e vigoroso mentre quello di lei era devastato e inservibile.
« Come puoi farmi questo, Blaine? » gli chiese col tono acuto e lamentoso di tantissime altre volte. « Me l'avevi promesso, Blaine.
Sa Iddio che già non ti vedo mai. Pregustavo questo week-end da tempo... » non la finiva piú, e lui per quanto cercasse di non pensarci, continuava a vedere il suo corpo.
Erano quasi sette anni che non la vedeva svestita quando, solo un mese prima, era entrato nello spogliatoio credendo che lei fosse nel gazebo dove passava quasi tutto il giorno. Invece era lì, nuda sul let-tino, mentre l'infermiera la massaggiava. L'orrore doveva esserglisi dipinto chiaramente sul viso e le due donne l'avevano colto alzando lo sguardo sorpreso su di lui.
Sullo scarno torace di Isabella si contavano le costole. I seni erano flaccide sacche di pelle pendenti dalle ascelle. Il cespuglio scuro dei peli pubici era incongruo e osceno in mezzo al bacino ossuto, da cui le gambe si protendevano stecchite secondo un angolo disartico-lato. Erano cosí scarnite che tra una coscia e l'altra c'era piú di una spanna.
« Va, via! » gli aveva urlato, e lui subito aveva distolto gli occhi ed era quasi fuggito dalla stanza. « Non venire mai piú qui! »
E ora la sua voce aveva lo stesso tono aspro e isterico. « Va, al tuo picnic allora, visto che proprio devi. So bene di essere un peso per te. So che non riesci a star con me piú di qualche minuto... »
Non ce la fece piú. Alzò una mano per farla tacere. « Hai ragione, mia cara. Sono stato un egoista ad accennartelo. Non ne parliamo piú, verrò con te. » Colse il lampo di trionfo nei suoi occhi, e al-l'improvviso, per la primissima volta, la odiò. Prima di riuscire a impedirselo pensò: « Ma perché non muore? Sarebbe meglio per lei e per tutti se morisse ». Inorridito da se stesso, pieno di terribili rimorsi, corse subito da lei, si chinò sulla sedia a rotelle e, prendendole una scheletrica mano, le diede un bacio sulla bocca.
« Perdonami, ti prego. » Ma, senza volerlo, gli apparve l'immagine di lei nella bara. Giaceva bella e serena come una volta, coi capelli ramati di nuovo folti e lucenti sparsi sul cuscino di raso bianco.
Chiuse gli occhi cercando di scacciare il pensiero, ma non ci riuscí; quella visione gli restava in mente anche mentre le teneva la mano.
Lei vi si aggrappò.
« Sarà bellissimo star soli insieme per un pò. » Gli impedí di staccarsi. « Abbiamo cosí poche occasioni di parlare ormai... passi tutto il tempo in Parlamento, e se non sei in riunione col governo sei a giocare a polo. »
« Ti vedo tutti i giorni, mattina e sera. »
« Sí, lo so, ma non parliamo mai. Non abbiamo nemmeno parlato di Berlino, e ormai il tempo stringe. »
« E di che dobbiamo parlare a quel proposito, mia cara? » le chiese con cautela, sottraendosi alla sua stretta e andando a sedersi sulla propria poltrona, dall'altra parte del gazebo.
« Di tantissime cose, Blaine. » Gli sorrise, mostrando le gengive pallide dietro le labbra tirate. Le davano un'espressione astuta, quasi da furetto, che lui trovava quanto mai irritante. « Ci sono un sacco di accordi da prendere. Quand'è che parte la squadra? »
«Non so se vado con la squadra», disse Blaine, sulle spine.
« Forse parto qualche settimana prima e mi fermo a Londra e Parigi per colloqui politici con quei governi prima di proseguire per Berlino. »
«Bisogna sistemare tutto perché possa venire anch'io», disse Isabella, e lui dovette controllarsi molto bene perché lo stava osservando attentamente.
« Sí », disse, « bisognerà organizzare ogni cosa nella maniera migliore. »
L'idea era addirittura intollerabile. Bramava stare un pò con Centaine, dar finalmente un calcio a tutte le finzioni e agli espedienti per non farsi scoprire. « Prima però bisognerà accertarsi, mia cara, che il viaggio non abbia a pregiudicare ulteriormente la tua salute. »
« Tu non vuoi che venga anch'io, vero? » La voce di lei si alzò sempre piú acuta.
« Ma assolutamente... »
« E' un'ottima occasione per liberarti finalmente di me, per lasciarmi qui sola... »
« Isabella, per favore calmati. Non agitarti cosí... »
« Non far finta di preoccuparti di me! Sono nove anni che per te non sono altro che un peso. Sono sicura che mi vorresti morta. »
« Isabella... » Fu scosso dall'esattezza dell'accusa.
« Non fare il santerello con me, Blaine Malcomess. Posso essere inchiodata a questa carrozzella, ma vedo e sento le cose ancora molto bene. »
« Non ho nessunissima intenzione di continuare questo discorso. » Si alzò in piedi. « Ne riparleremo quando avrai ripreso il controllo di te stessa. »
« Sta, seduto! » strillò lei. « Non correr dietro anche stavolta alla tua sgualdrina francese! » Blaine sussultò come se gli avesse tirato un pugno in faccia, e lei continuò ardendo di gioia: « Toh, finalmente l'ho detto! Meno male! Non hai idea di quante volte mi sono trattenuta, ma adesso sono contenta di averlo detto e lo ripeto: sgualdrina! prostituta! »
« Guarda che se continui così me ne vado », l'avvertì.
« Puttana! » disse sfogando tutto il suo risentimento, « Troia!
Bagascia da due soldi! »
Blaine girò sui tacchi e corse giú dai gradini del gazebo.
« Blaine! » gli gridò dietro. « Torna subito qui! »
Ma lui continuò a procedere verso la casa, allora la donna cambiò tono.
« Blaine, mi dispiace, ti chiedo scusa, ma torna indietro per piacere! Per piacere, torna qui! » Non poté negarglielo. Con riluttanza si fermò, tornò da lei e si accorse che gli tremavano le mani per la rabbia e lo shock. Le mise in tasca e si fermo sulla soglia del gazebo.
« E va bene », le disse piano. « E' vera, la storia di Centaine Courteney. L'amo. Ma è anche vero che abbiamo fatto tutto quello che potevamo per risparmiarti ogni dolore e ogni umiliazione. Quindi non parlare mai piú di lei in quel modo. Se avesse voluto, io ti avrei lasciato anni fa. Mi perdoni Iddio, ma ti sarei passato sopra!
Solo lei mi ha trattenuto qui, e ancora mi ci trattiene. »
A questo punto ella era scossa e abbattuta quanto lui, o così egli pensava finché non alzò gli occhi e capi che aveva simulato quel pentimento solo per riaverlo a portata di lingua. « So che non potrò andare a Berlino con te, Blaine. Ne ho già parlato con il dottor Jo-seph e mi ha detto che il viaggio mi ucciderebbe. Tuttavia, so anche cosa stai progettando con quella donna. So che hai usato la tua influenza per far entrare Shasa Courteney nella selezione olimpica so-lo per fornirle la scusa buona per far muovere anche lei. So che stai pianificando un magnifico interludio illecito, e non posso impedirti di andare... »
Egli aprì le braccia in segno di irritata rassegnazione. Era inutile protestare. La voce della donna si alzò nuovamente, querula e pene-trante.
« Ebbene, te lo garantisco: non sarà quella luna di miele che pensate voi due. Ho già detto alle ragazze che verranno con te. Tara e Mathilda Janine non stanno piú nella pelle per l'eccitazione. E ora decidi tu: o sei abbastanza senza cuore da deludere le tue stesse figlie, o a Berlino farai la baby-sitter e non il Romeo. » La sua voce si alzò ancora di piú. « E ti avverto! Se rifiuti di portarle, dirà loro il perché, Blaine Malcomess! Chiamo Dio a testimone che dirò loro che l'amato paparino e un bugiardo e un imbroglione, un libertino e un puttaniere! »
Benché ormai tutti, dai piú noti critici sportivi ai piú grezzi tifosì, si aspettassero che Manfred De La Rey andasse alle Olimpiadi nella squadra di boxe, quando venne l'annuncio ufficiale e si seppe che non solo Manfred era il rappresentante sudafricano dei mediomassimi, ma Roelf Stander quello dei massimi e lo zio Tromp l'allenatore ufficiale della squadra, l'intera città di Stellenbosch - con le autorità accademiche al gran completo - esultò dando vita a spontanee manifestazioni di giubilo e di orgoglio.
Vi furono un ricevimento municipale e una parata per le vie della città, mentre a una riunione plenaria della Ossewa Brandwag il generale comandante li additò a esempio di virilità afrikaner ed esaltò la loro dedizione e la loro abilità sul ring.
« Sono giovani come questi che guideranno la nazione al suo legittimo posto in questa terra », disse loro, e mentre le masse in uniforme della OB facevano il saluto, col pugno destro sul cuore, Manfred e Roelf venivano promossi ufficiali.
« Per Dio e il Volk », disse il generale comandante, e Manfred non aveva mai provato un simile orgoglio e una simile risolutezza a onorare la fiducia riposta in lui.
Nelle settimane che seguirono, l'eccitazione continuo ad aumentare. Andarono dal sarto a farsi preparare l'uniforme ufficiale, pantaloni bianchi, giacca verde e oro e cappelloni tipo Panama: co-si vestiti avrebbero sfilato nello stadio olimpico. Vi furono infinite riunioni di squadra, in cui si trattarono gli argomenti piú disparati, dall'etichetta tedesca al buon comportamento sportivo al programma del viaggio e allo studio delle caratteristiche dei probabili avversari che si sarebbero trovati di fronte sulla strada della finale.
Sia Manfred sia Roelf furono piú volte intervistati dai giornalisti. Articoli su di loro comparvero su tutti i quotidiani e tutte le riviste del paese: parlarono pure alla radio, che dedico loro il segui-tissimo programma: « Questa è la vostra terra ».
Solo una persona sembrava estranea a quella gran febbre: Sarah.
« Le settimane che starai lontano mi sembreranno le piú lunghe della mia vita », disse a Manfred.
« Non fare l'oca », la derise lui. « Finirà tutto in pochi giorni e tornerò con la medaglia d'oro. »
« Non chiamarmi oca! Non dirmelo mai più! »
Smise di ridere. « Hai ragione », le disse. « Meriti ben altro titolo. »
Infatti Sarah si era assunta il compito di cronometrista. Nelle corse serali di Manfred e Roelf, su una strada che saliva tra i monti presso la città, faceva tutte le scorciatoie correndo a piedi nudi ad aspettarli col cronometro nei punti prestabiliti. Si arrampicava tagliando i tornanti e li ristorava con una spugna bagnata e un bicchiere di spremuta d'arancia. Appena serviti gli atleti, ripartiva a razzo oltre la cresta o dall'altra parte della valle per aspettarli alla prossima fermata.
Due settimane prima della partenza Roelf fu costretto a saltare un allenamento per un impegno importante e Manfred fece la corsa da solo.
Imboccò la lunga e ripida salita della montagna di Hartenbosch a tutta velocità, a grandi falcate elastiche, guardando in cima. Sarah lo stava aspettando, contro il basso sole d'autunno che l'incoronava d'oro e rivelava la sua snella figura, nella trasparenza dell'abito leggero, quasi come se fosse nuda.
Arrivò a tutta forza e si arresto con un batticuore dovuto solo in parte alla fatica.
« Com'è bella. » Si stupiva di non essersene mai accorto.. La fissava confuso dalla sensazione improvvisa e dal gran desiderio che provava, un desiderio sempre combattuto e represso, che non aveva mai voluto ammettere e che ora rischiava di consumarlo.
Gli venne incontro per gli ultimi pochi passi: a piedi nudi era molto piú piccola di lui, e questo parve soltanto aumentare la sua gran brama. Gli porse la spugna, ma quando lui non si mosse per prenderla, si avvicino e comincia a tergergli il sudore sulle spalle e sul collo.
« L'altra notte ho sognato che eravamo tornati al campo dei disoccupati », gli sussurrò strofinandogli i bicipiti. « Ti ricordi il campo accanto alla ferrovia, Manfred? »
Annuì. Aveva la gola bloccata, non riusciva a parlare.
« Ho visto mia madre che giaceva nella tomba. Una cosa tremenda. Poi tutto è cambiato, Manie, non era piú mia madre, eri tu. Eri pallido e bellissimo, ma io sapevo di averti perduto... ed ero così addolorata che volevo morire anch'io per restare con te in eterno. »
Manfred l'abbracciò e lei si mise a singhiozzare contro il suo petto. Il suo corpo era morbido, fresco, arrendevole: la sua voce tremava.
«Oh, Manfred, io non voglio perderti. Per favore, torna a me... non potrei vivere senza di te. »
« Ti amo, Sarie. » Aveva la voce roca. Lei sussultò tra le sue braccia.
« Oh, Manie! »
« Non l'avevo mai capito, ma adesso lo so. »
« Oh, Manie! Io l'ho sempre saputo. Ti ho amato fin dal primo momento, fin dal primo giorno, e ti amerò fino all'ultimo », proruppe porgendogli le labbra. « Baciami, Manie, baciami o morirò! »
Le sue labbra morbide accesero qualcosa dentro di lui, e quel fuoco, quella nebbia oscurarono ragione e realtà. Ed eccoli su un soffice letto di aghi di pino, fuori del sentiero, accarezzati dalla tiepida aria autunnale sulla pelle nuda: un'aria meno dolce, per Manfred, del morbido corpo di lei, e delle roride profondità in cui l'accolse e l'avvolse.
Non capí cosa stava succedendo finché lei non diede un grido di dolore e intensa gioia: ma allora era già troppo tardi. Si ritrovò a corrispondere a quel grido, incapace di ritrarsi. L'aveva travolto una possente ondata di marea, che lo depositò dove non era mai stato, in un piacere che nemmeno sognava.
Realtà e coscienza tornarono pian piano, da lontanissimo, ed egli si staccò da lei. Si rivestí guardandola con orrore.
« Cosa abbiamo fatto! E' un peccato imperdonabile. »
« No! » Ella scuoteva la testa con violenza. Ancora nuda gli tese le braccia. « No, Manfred, non è peccato quando due si amano. Co-me può esserlo? E' un dono di Dio, una cosa bellissima e bene-detta. »
La notte prima di partire per l'Europa con lo zio Tromp e la squadra, Manfred la trascorse a casa. Quando tutti dormirono Sarah scivolò nella sua camera. Le aveva lasciato la porta aperta; non protesto nemmeno quando Sarah si liberò della camicia da notte ed entro nel suo letto.
Ci rimase fino alle prime luci dell'alba, quando i colombi, fuori della finestra, cominciarono a tubare. Gli diede un ultimo bacio e gli sussurro:
« Adesso apparteniamo l'una all'altro... per l'eternità. »
Mancava soltanto mezz'ora a che la nave salpasse e la suite di Centaine era affollatissima: i camerieri dovevano passare i bicchieri di champagne sopra la testa degli ospiti. L'unico amico assente era Blaine Malcomess. Avevano deciso di non pubblicizzare il fatto che prendevano la stessa nave, e di incontrarsi solo in alto mare.
Sia Abe Abrahams, raggiante d'orgoglio, sottobraccio a David, sia il dottor Twentyman-Jones, alto e lugubre come un marabù, attorniavano Centaine. Erano venuti a salutarla fin da Windhoek. Naturalmente c'erano anche Sir Garry e Anna, come l'Ou Baas, il generale Smuts, e la sua piccola moglie dai capelli arruffati che la facevano somigliare a un uccellino.
In un angolo della sala stava Shasa attorniato da un gruppo di belle. Stava raccontando una storiella che provocava gemiti di stupore e strilli di divertimento: ma a un tratto perse il fiato e guardò fuori, sul ponte. Ciò che aveva attirato la sua attenzione era una ragazza che passava.
Ne aveva visto soltanto per un attimo il profilo e la testa, una cascata di riccioli ramati: l'andatura l'aveva indotto a trascurare il suo elegante uditorio femminile. Saltò in piedi, rovesciando lo champagne, ma la ragazza era già passata e riuscì a vederne solo la schiena.
Aveva la vita molto sottile, ma un bel culetto pieno che ancheggiava proiettando la gonna di qua e di là. Con un ultimo slancio delle natiche tonde girò l'angolo e lasciò Shasa piú che mai deciso a vederla in faccia.
« Scusatemi, signore. » Il pubblico emise strida deluse. Shasa bu-cò agilmente la cerchia e cominciò a dirigersi tra la folla verso la porta della suite, ma prima che potesse raggiungerla suonò la sirena e si levò il tonante avvertimento: « Ultima chiamata, signore e signori: tutti quelli che non partono, a terra! » Seppe così di non aver piú tempo.
« Probabilmente era racchia... bella dietro, orrenda davanti. E
poi chissà se parte o resta », si consolò. Dopo si trovò a stringere la mano al dottor Twentyman-Jones, che gli fece gli auguri per le Olimpiadi. Cercò di dimenticare quei boccoli ramati e di concentrarsi sui suoi doveri mondani. Ma non era facile.
Al parapetto si mise a scrutare la folla sul molo e sul ponte in cerca della famosa chioma fulva, ma Centaine gli batté sul braccio.
Il pezzo di mare che separava il bastimento dal molo si allargava sempre piú e ancora non aveva scorto la bella.
« Vieni, chéri, andiamo a controllare i posti che ci hanno assegnato in sala da pranzo. »
« Ma sei stata invitata al tavolo del comandante, mamma, non ricordi? »
« Sì, ma tu e David no », osservò lei. « Vieni anche tu, David, andiamo a vedere dove vi hanno sistemato, così se il posto non va bene ce lo facciamo subito cambiare. »
Aveva in mente qualcosa, capì Shasa. Normalmente non si occupava di simili quisquilie: il nome che portava era garanzia sufficiente di un trattamento sempre privilegiato. Se adesso insisteva doveva avere i suoi motivi, e difatti negli occhi le brillava il «lampo ma-chiavellico » che aveva imparato a riconoscere.
« D'accordo, andiamo pure », disse, indulgente. I tre scesero allora per la scala rivestita di noce che portava alla sala da pranzo di prima classe, sul ponte inferiore.
Ai piedi della scala un gruppo di persone avvezze a viaggiare in nave parlottavano col capocameriere. Banconote da cinque sterline sparivano come per magia nelle tasche del compito signore, senza minimamente gonfiarle, mentre sulla lista dei posti certi nomi cambiavano posizione.
In disparte dal gruppo, Shasa riconobbe immediatamente una figura alta e familiare. Qualcosa in essa faceva capire che aspettava qualcuno, e il sorriso smagliante che fece quando vide Centaine chiari a Shasa chi era.
« Buon Dio, mamma! » esclamò Shasa. « Non sapevo che anche Blaine fosse su questa nave! Pensavo partisse piú tardi, insieme agli altri... » S'interruppe. Si era accorto che, alla vista di Blaine, sua madre gli aveva involontariamente stretto il braccio e aveva fatto un sospiro.
« Erano d'accordo », capì con un moto di stupore. « Ecco perché era così eccitata. » La verità gli si affaccio alla mente. « E' una cosa che della propria madre non si pensa, ma sono amanti! In tutti questi anni, come ho fatto a non capirlo prima? » Gli tornarono in mente un mucchio di piccole cose che gli erano parse insignificanti allora, ma adesso acquistavano un significato ben preciso.
« Blaine e la mamma! Certo! Come sono stato cieco! Chi l'avrebbe mai detto... » Lo assalirono emozioni contrastanti. « Di tutti gli uomini che ci sono al mondo, anch'io per mamma avrei scelto lui... » E in quella si rese conto di quanto Blaine Malcomess avesse preso per lui il posto di quel padre che non aveva mai conosciuto.
Il pensiero fu immediatamente seguito da un attacco di gelosia e indignazione morale. « Blaine Malcomess, colonna della società e del governo, e la mamma che non fa che accigliarsi e scuotere la testa per le mie storie... ah, che bricconi, sono anni che se la spas-sano all'insaputa di tutti! »
Blaine venne loro incontro. « Centaine, ma che bella sorpresa! »
Centaine rideva porgendogli la mano. «Santo cielo, Blaine Malcomess, non avevo idea che fosse a bordo! »
Shasa pensò con sarcasmo: « Ma sentì che attori! Hanno preso tutti per il naso per degli anni. Clark Gable e Ingrid Bergman fanno ridere i polli al confronto ».
E a un tratto nulla di tutto questo gl'importò piú. L'unica cosa importante fu che c'erano due ragazze accanto a Blaine, che veniva verso Centaine.
« Centaine, sono sicuro che ti ricordi delle mie figlie. Questa è Tara, e questa Mathilda Janine... »
« Tara. » Silenziosamente Shasa cantò il suo nome. « Tara, che bel nome! » Era la ragazza che aveva intravisto prima sul ponte: mille volte piú abbagliante di quel che aveva osato sperare.
Tara. Era alta, pochi centimetri meno di lui che era uno e ottantacinque: le sue gambe erano rami di salice flessuoso, e la vita come una canna al vento.
Tara. Aveva un viso da madonna, un ovale sereno, e la sua carnagione era un misto di crema e petali di rosa; quasi troppo perfetta, tuttavia redenta dall'insipida vacuità di quei suoi capelli fiammeggianti, castano fulvi, la bocca larga del padre e occhi tutti suoi, grigi e duri come l'acciaio, brillanti d'intelligenza e volontà.
La ragazza salutò Centaine col dovuto rispetto e poi si girò a guardare negli occhi Shasa.
« Shasa, anche tu ti ricordi Tara, vero? » gli disse Blaine. « E' venuta a Weltevreden quattro anni fa. »
Era davvero la stessa bambina pestifera e chiassosa? Shasa la guardo a occhi spalancati... la bimba in gonnella dalle ginocchia sempre sbucciate, che l'aveva messo in imbarazzo con le sue birichi-nate infantili... Non riusciva a crederci. La voce gli tremava in gola.
« Che piacere rivederti dopo tanto tempo, Tara. »
« Ricordati, Tara Malcomess », si ripeteva mentalmente lei,
« autocontrollo e signorilità. » Tremava quasi di vergogna ricordando come l'aveva perseguitato quattro anni prima, come una bambola ansiosa di essere vezzeggiata. « Ero una bestiola scatenata », pensò. Ma le era venuta una tal cotta a prima vista per quel ragazzo, che provava ancora un'eco di quel lontano dolore.
Riuscí tuttavia a dimostrare la giusta sfumatura d'indifferenza mormorando: « Ah sí? Ci siamo già conosciuti? Debbo essermene scordata, scusami ». Gli porse la mano. « Be', lieta di rivederti allora. Shasa ti chiami, no? »
« Mi chiamo Shasa », annuí lui, e le prese la mano come se fosse un talismano miracoloso. « Perché poi non ci siamo piú visti? » si domando, e immediatamente lo capì: se n'erano curati Blaine e la mamma, che non volevano complicazioni. Mancava solo che Tara chiacchierasse con sua madre... Ma Shasa era troppo felice per ar-rabbiarsi ora.
« Hai già prenotato il posto a tavola? » le chiese senza lasciarle la mano.
« Papà siede al tavolo del comandante », disse Tara accennando amorosamente a suo padre. «Sicché noi dovremmo restare da sole. »
«Ah, ma possiamo mangiare insieme noi quattro», suggerí prontamente Shasa. « Andiamo subito a parlare col maìtre. » Blaine e Centaine si scambiarono uno sguardo di sollievo: tutto andava esattamente come avevano pianificato, salvo una piccola piega imprevista.
Mathilda Janine era arrossita dando la mano a David Abrahams. Delle due sorelle era la piú sfortunata, perché non aveva ereditato la bocca del padre ma il nasone e anche le orecchie a sventola.
Inoltre i suoi capelli non erano fulvi ma color carota.
« Ma tanto anche lui ha il nasone », penso arditamente esaminando David. Subito dopo i suoi pensieri partirono per la tangente.
« Se Tara gli rivela che ho solo sedici anni mi getto in mare! »
Il viaggio fu una tempesta di emozioni, pieno di delizie, frustra-zioni e tormenti per tutti loro. Nei quattordici giorni di traversata per Southampton, Blaine e Centaine videro pochissimo i ragazzi, li-mitandosi a incontrarli all'ora dell'aperitivo sul bordo della piscina e dopo cena per i quattro salti di rigore. David e Shasa facevano ballare Centaine, Blaine faceva ballare le figlie. Poi i ragazzi si scambiavano un'occhiata e, adducendo complicate scuse, si allontanavano diretti alla classe turistica dove c'era il vero divertimento, lasciando Blaine e Centaine ai riti raffermi del ponte superiore.
Tara nel suo costume da bagno a un pezzo verde limone costituiva la piú splendida apparizione che Shasa avesse mai adorato. I suoi seni, sotto la tela aderente, avevano la forma delle pere acerbe, e quando usciva dalla piscina grondando acqua dagli arti lunghi ed eleganti egli vedeva il buchino dell'ombelico e i sassolini dei capezzoli sotto il tessuto, e gli ci voleva tutto l'autocontrollo per evitare di gemere forte.
Mathilda Janine e David scoprirono di avere in comune un umorismo acuto e irriverente; passavano quasi tutto il tempo a ridere co-me matti. Mathilda Janine si alzava ogni mattina alle quattro e mezzo per applaudire David che si allenava con cinquanta giri di nave.
« Si muove come una pantera », si diceva. « Lungo, liscio e aggraziato. » Ogni mattina escogitava cinquanta battute di spirito per quando le sfrecciava davanti. Si rincorrevano nell'acqua della piscina e, una volta che erano riusciti ad afferrarsi, lottavano in estasi sott'acqua: ma, a parte qualche furtiva pomiciata sulla porta della cabina che Mathilda Janine divideva con Tara, nessuno volle andare oltre. Benché David avesse tratto profitto dal suo breve rapporto con la Cammella, non gli saltò in mente di lasciarsi andare alle stesse acrobazie con un tipo speciale come « Matty ».
Shasa non aveva inibizioni del genere. Aveva molta piú esperienza, dal punto di vista sessuale, di David, e una volta superato lo sbigottimento iniziale per la grande bellezza di Tara, iniziò un pressan-te e insidioso assedio alla fortezza della sua verginità. Tuttavia i suoi risultati furono anche meno spettacolosi di quelli di David.
Gli ci volle quasi una settimana per arrivare con Tara all'intimità necessaria per spalmarle la crema solare sulla schiena e sulle spalle.
Alle ore piccole, quando si smorzavano le luci e l'orchestrino attaccava l'ultima canzone - la sdolcinata Poinciana - ella posava la guancia vellutata contro quella di lui: ma quando Shasa avvicinava il bacino, gli permetteva quel contatto solo per pochi secondi e poi si ritraeva. Quando infine, lui cercava di baciarla sulla porta della cabina, lo teneva lontano con le mani sul petto, e gli dedicava la risatina sommessa che per lui era diventata la peggiore delle torture.
«La stronzina è completamente frigida», dichiarò Shasa alla propria immagine riflessa nello specchio da barba. « Ha del ghiaccio secco negli slip. » Il pensiero di quei dintorni lo fece fremere di frustrazione. Decise di lasciarla perdere. Non c'erano a bordo altre cinque o sei femmine belle, anche se non giovanissime, che l'avevano guardato con aria inequivocabilmente invitante? « Potrei farmele tutte, invece di sbavare dietro miss mutandine di ghisa... » Ma, do-po mezz'ora, era là che partecipava con lei al torneo di birilli, o le spalmava l'olio solare sulla schiena morbida e impeccabile con dita tremanti di desiderio vano; oppure cercava di non sfigurare nel discutere con lei meriti e demeriti del programma governativo di rito-gliere il voto ai negri della Provincia del Capo.
Aveva scoperto con qualche sbigottimento che Tara Malcomess aveva una coscienza politica altamente sviluppata. Benché Shasa non ignorasse che in futuro - mamma non faceva che ripeterlo - l'aspettava un seggio in Parlamento, doveva ammettere che il suo interesse e la sua padronanza dei complessi problemi del paese non erano minimamente paragonabili a quelli di Tara. Le opinioni della ragazza, poi, lo sconvolgevano quasi come le sue curve.
« Sono d'accordo con papà: invece di togliere il voto ai pochi negri che l'hanno bisognerebbe darlo a tutti », dichiarò.
« Dare il voto a tutti i negri! » Shasa era incredulo e costernato.
« Non dirai mica sul serio, spero! »
« Certo che dico sul serio. Non tutti in una volta, ma gradualmente, a seconda della civilizzazione di ciascuno. Non si possono negare i diritti politici a chi si dimostra all'altezza di esercitarli. Bisognerebbe dare il voto a tutti coloro che hanno un'istruzione o delle responsabilità particolari: in tal modo nel giro di due generazioni ogni uomo e ogni donna, siano bianchi o negri, diventeranno cittadini a pieno titolo. »
Shasa rabbrividí al pensiero. Le sue ambizioni parlamentari potevano essere le prime vittime di una simile riforma... eppure, era forse la meno radicale delle opinioni di Tara.
« Come si può proibire alla gente di possedere la terra nel suo stesso paese, o di vendere il proprio lavoro alle migliori condizioni possibili, mediante la contrattazione collettiva? »
I sindacati erano strumenti di Lenin e quindi del demonio. Era un fatto assodato, che Shasa aveva succhiato col latte della mamma.
« Cristo, è una bolscevica, ma che bella bolscevica però! » pensava. Per interrompere la sgradevole lezione la faceva alzare in piedi.
« Vieni, andiamo a fare una nuotata. »
« E' un fascista ignorante », pensava lei furiosa, ma quando vedeva come lo guardavano le altre dietro gli occhiali da sole le veniva voglia di cavar loro gli occhi. E di notte, quando a letto ripensava al tocco delle dita di Shasa sulla schiena, al contatto del suo corpo sulla pista da ballo, arrossiva nel buio delle proprie fantasie.
« Se lo lascio cominciare, poi non riuscirei a fermarlo, e nemmeno vorrei », pensava, rafforzando la propria severità. « Controllata e distante », si ripeteva, come fosse un incantesimo contro le voglie traditrici del suo stesso corpo.
Per qualche straordinaria «coincidenza» anche la Bentley di Blaine Malcomess era stata caricata nella stiva accanto alla Daimler di Centaine.
« Potremmo andare a Berlino in convoglio! » esclamò Centaine come se l'idea le fosse balenata allora allora. I quattro ragazzi espressero clamorosamente la loro entusiastica adesione, e cominciarono subito a disputarsi i posti. Centaine e Blaine, protestando appena, consentirono a ridursi assieme sulla Bentley, mentre gli altri quattro li avrebbero seguiti sulla Daimler guidata da Shasa.
Da Le Havre imboccarono le polverose strade della Francia nord-occidentale, attraversando città che evocavano in loro tragici ricordi, Amiens e Arras. L'erba ora verdeggiava sui campi di battaglia da dove Blaine era riuscito a tornare, ma c'erano sconfinate distese di croci bianche, che splendevano al sole come tante margherite.
« Voglia Iddio che l'umanità non conosca mai piú un massacro simile », mormorò Blaine, e Centaine gli prese la mano.
Nel paesino di Mort Homme si fermarono sulla strada principale, davanti all'unico albergo. Quando Centaine entrò a chiedere una stanza, la padrona la riconobbe immediatamente e si mise a strillare tutta eccitata.
« Heari, viens vite! C'est Mademoiselle De Thiry da chàteau... »
esclamò correndo a stampare due bacioni sulle guance di Centaine.
Scacciato un commesso viaggiatore, le camere migliori furono messe a loro disposizione. Si rese necessaria qualche spiegazione quando Blaine e Centaine chiesero camere separate, ma la cena che gustarono insieme quella sera inondò Centaine di nostalgia. Erano tutte specialità del paese, terrine, tartufi e tartes, accompagnate dai vini del posto; Madame si era seduta accanto a Centaine e l'aggior-nava sulle novità e i pettegolezzi... degli ultimi vent'anni.
Al mattino presto Centaine e Shasa lasciarono gli altri ancora addormentati e guidarono fino al castello. Ormai non era piú che un ammasso di rovine annerite, coperte di vegetazione, e Centaine pianse per suo padre, che era bruciato con il castello piuttosto che abbandonarlo ai tedeschi avanzanti.
Dopo la guerra, la tenuta era stata venduta per pagare i debiti accumulati dal vecchio in una vita di bagordi. Adesso era della Hen-nessy, la gran marca di cognac: al vecchio non sarebbe dispiaciuto, pensò Centaine sorridendo.
Insieme salirono sul poggio dietro il castello in rovina e Centaine, dalla cima, mostrò a Shasa il punto dove sorgeva il vecchio campo d'aviazione da cui partiva suo padre per le missioni belliche.
« Lo stormo di tuo padre era là, in quel frutteto. Io aspettavo il loro decollo tutte le mattine, da qui. Mentre andavano in battaglia li salutavo. »
« Il loro aereo era il famoso SE5, vero? »
« Alla fine sí, ma all'inizio era quel baracchino del Sopwith. »
Guardava il cielo. « La macchina di tuo padre era dipinta di giallo brillante. Io lo chiamavo le petit faune. Adesso mi sembra di vederlo, con in testa il casco di volo. Quando passava, si toglieva gli occhialoni perché potessi guardarlo negli occhi. Oh, Shasa, com'era giovane, allegro e ardito! Un aquilotto che si alza nel cielo »
Discesero dal paggetto e tornarono piano verso il paese, attraversando i vigneti Centaine chiese a Shasa di fermarsi di fianco a un piccolo granaio di pietra, sul limitare della campagna settentrionale.
Il giovane la guardò perplesso sostare oziosamente sotto il tetto di paglia del granaio, per tornare dopo qualche minuto con un sorrisetto e un lampo malizioso negli occhi.
Colse la sua curiosità e gli disse: « Tuo padre e io ci davamo con-vegno qui ». Shasa, con un lampo di chiaroveggenza, intuí di essere stato concepito lí, in quel cadente granaio nel cuore di una terra straniera. L'intuizione, nel tornare verso l'albergo, gli trasmise una certa inquietudine.
All'entrata del villaggio, davanti alla piccola chiesa dal tetto di rame verde, si fermarono ancora e visitarono il cimitero. La tomba di Michael Courteney era in fondo, dietro un tasso. Centaine aveva commissionato la tomba dall'Africa e non l'aveva mai vista. Un'aquila di marmo, appollaiata su uno stendardo guerresco sforacchiato dai colpi nemici, stava per involarsi ad ali spiegate. Shasa pensò che lo stile della tomba fosse un pò troppo magniloquente per un caduto in guerra.
L'uno di fianco all'altra lessero la lapide.
ALLA MEMORIA DEL CAPITANO
MICHAEL COURTENEY RFC
CADUTO IN BATTAGLLA IL 19 APRILE 1917
NESSUNO FU PIU' AMATO DI LUI
Intorno alla lapide erano cresciute le erbacee. Si chinarono a estirparle. Poi sostarono davanti alla tomba a capo chino.
Shasa si aspettava di rimanere profondamente commosso dalla vista della tomba di suo padre, ma non provò niente di straordinario. Quell'uomo era già polvere quando lui era nato. Si era sentito piú vicino a Michael Courteney a diecimila chilometri da lí, quando aveva dormito nel suo letto, indossato la sua vecchia giacca di tweed a prova di spine, usato il suo fucile Purdey e le sue canne da pesca, la sua stilografica dal pennino d'oro o i suoi gemelli d'onice e platino.
Andarono a piedi fino alla chiesa e trovarono il parroco. Era giovane, non tanto piú anziano di Shasa, e Centaine ne fu delusa perché la sua età tagliava un altro tenue legame con Michael e il passato. Tuttavia staccò due grossi assegni, uno per riparare il tetto della chiesa che ne aveva bisogno, e l'altro per portare ogni domenica, per sempre, fiori freschi alla tomba di Michael. Poi tornarono alla Daimler accompagnati dalle fervide benedizioni del prete.
Il giorno seguente andarono a Parigi. Centaine aveva prenotato per tutti al Ritz.
Blaine e Centaine avevano fittissimi impegni di lavoro. Dalla mattina alla sera dovevano incontrare esponenti del governo francese, partecipare a colazioni d'affari, presenziare a party e via dicendo, sicché i quattro ragazzi rimasero abbandonati a se stessi e ben presto scoprirono che Parigi era la città piú romantica ed eccitante del mondo.
Salirono in ascensore fino al primo piano della Tour Eiffel, poi proseguirono sulla scaletta di ferro fin proprio in cima, da dove contemplarono la città che si stendeva ai loro piedi senza lesinare esclamazioni di stupore. Passeggiarono a braccetto sul Lungosenna e sopra e sotto i favolosi ponti. Tara fotografò gli altri sui gradini di Montmartre sullo sfondo del Sacra Coeur; bevvero cappuccini e mangiarono croissants seduti ai caffè dei boulevards, pranzarono al Café de la Paix, cenarono alla Coupole e andarono a vedere La tra-viata all'Opera.
A mezzanotte le ragazze augurarono la buonanotte e si ritirarono da brave in camera loro: ma Shasa e David le fecero scappare dal balcone e andarono a ballare nelle boites della riva sinistra, ad ascoltare del buon jazz nelle cantine di Montparnasse, dove scoprirono un trombonista negro che faceva venire i brividi, e una piccola brasserie dove si potevano mangiare lumache e fragoline di bosco al-le tre di notte.
Di buon mattino, sgattaiolando per il corridoio dell'albergo per riportare le ragazze in camera, udirono voci conosciute nell'ascensore a gabbia che stava arrivando al piano. Si gettarono per le scale appena in tempo trovando rifugio sul pianerottolo superiore. Mentre le ragazze soffocavano le risate nei fazzolettini, videro Blaine e Centaine, splendidi in abito da sera, uscire dall'ascensore e avviarsi a braccetto per il corridoio verso la suite di Centaine.
Pur avendo lasciato Parigi con rammarico, raggiunsero il confine tedesco in piena euforia. Presentarono i passaporti ai doganieri francesi e furono fatti proseguire con larghi gesti tipicamente gallici verso la dogana tedesca. Lasciarono le macchine alla barriera ed entrarono nell'ufficio, dove colsero immediatamente la ben diversa atmosfera che ci regnava.
I due funzionari tedeschi erano impeccabilmente vestiti. L'uniforme era immacolata, il berretto posto alla giusta angolazione regolamentare sulla fronte. Le fasce con le svastiche, bianche rosse e nere, spiccavano sulla manica, per non parlare degli stivali che emanavano lampi abbacinanti. Sul muro dietro la loro scrivania troneg-giava l'immagine torva e baffuta del Fuhrer.
Blaine posò il mazzetto dei passaporti sul banco con un cordiale Guten Tag, mein Herr e prese a chiacchierare con Centaine mentre uno dei funzionari esaminava i passaporti uno alla volta, confron-tando le persone con le fotografie e timbrandoli poi col visto a svastica e aquila nera.
Il passaporto di David Abrabams era l'ultimo. Quando il funzionario ci arrivò, si fermo a rileggere il nome, poi sfogliò tutte le pagine del libretto con pedantesca attenzione, alzando gli occhi a controllare le reazioni di David al meticoloso esame. Dopo qualche minuto di questa manfrina tutti tacevano e cominciavano a scambiarsi sguardi perplessi.
« Credo ci sia qualcosa che non va, Blaine », disse calma Centaine, e Blaine tornò dalla guardia di frontiera.
« Problem? » chiese. Il funzionario gli rispose in inglese pesantemente accentato ma corretto.
« Abrahams è un nome ebreo, vero? »
Blaine provò un moto d'irritazione, ma prima che potesse rispondere David fece un passo avanti e parlo. « E' un nome ebreo, si! » disse tranquillamente, e il funzionario annuì pensosamente, picchiettando il passaporto col dito.
« Ammette di essere ebreo? »
« Sono ebreo », rispose David con lo stesso tono tranquillo.
« Sul passaporto non c'è scritto », osservo il doganiere.
« Dovrebbe esserlo? » chiese David. Il funzionario alzò le spalle.
Poi gli chiese: «E lei, essendo ebreo, desidera entrare in Germania? »
« Desidero entrare in Germania per prendere parte alle Olimpiadi di Berlino, a cui sono stato invitato dal governo tedesco. »
« Ah! Lei è un atleta olimpionico, un atleta olimpionico ebreo? »
« No, sono un atleta olimpionico sudafricano. E' in regola il passaporto? »
Il doganiere non rispose alla domanda. « Attenda qui, per favore. » Uscí da una porticina col passaporto di David in mano.
Lo sentirono conferire con qualcuno nell'altra stanza: tutti guardarono Tara. Era l'unica che aveva studiato il tedesco per gli esami d'ammissione all'università.
« Che sta dicendo? » le chiese Blaine.
« Parlano in fretta... continuano a ripetere "ebrei" e "OIimpia-di" », rispose Tara. In quella la porticina si aprí e il funzionario tornò con un tipo grassoccio e roseo che era chiaramente un suo superiore, data l'uniforme piú vistosa e le arie che si dava.
« Chi è Abrahams? » domandò.
« Sono io. »
« Lei è un ebreo? Ammette di esserlo? »
« Sí, sono ebreo. L'ho già detto diverse volte. C'è qualcosa che non va nelle mie carte? »
«Aspetti, prego. » Stavolta tutti e tre i doganieri si ritirarono nell'altra stanza, portandosi dietro ancora il passaporto di David. Si sentí squillare il telefono e la voce alta e ossequiosa dell'ufficiale.
« Cosa dicono? » Tutti guardavano Tara.
« Sta parlando con qualcuno a Berlino », disse la ragazza. « Sta spiegando la faccenda. »
Il monologo nell'altra stanza terminò con un secco Jawohl, mein Kapitan ripetuto quattro volte, ognuna un pò piú forte, e un Heil Hitler addirittura gridato. Poi il telefono fece din.
I tre funzionari tornarono. L'ufficiale dalla faccia rosea timbro il passaporto di David e glielo porse con uno svolazzo.
« Benvenuto nel Terzo Reich! » dichiarò. Quindi colse tutti alla sprovvista esibendosi nel saluto nazista: « Heil Hitler! » urlò proiettando il braccio verso di loro.
Mathilda Janine si mise a ridacchiare nervosamente. « Che ro-ba! » Blaine la prese per il braccio e la portò subito fuori.
Cosí entrarono in Germania, in silenzio e mogi mogi.
Alla prima locanda lungo la strada si fermarono e, contrariamente alle sue abitudini, Centaine accettò le camere senza prima ispezionare letti, bagni e cucine. Dopo cena risultò che nessuno aveva voglia di giocare a carte o esplorare il paese: andarono a letto prima delle dieci.
Tuttavia l'indomani a colazione recuperarono un pò di allegria, e Mathilda Janine li fece ridere con una poesia che aveva composto per celebrare le future gesta del padre, di David e di Shasa alle Olimpiadi.
Il loro buon umore aumentò attraversando la bella campagna tedesca, i villaggi e i castelli in cima alle colline che sembravano uscire dalle illustrazioni delle fiabe di Andersen, le foreste di pini scurissi-mi che contrastavano coi campi aperti e i fiumi scroscianti varcati da ponti di pietra. Per via scorgevano gruppi di giovani in costume, i ragazzi in lederkosen e cappello piumato di loden, le ragazze in Dirndls: al passaggio del breve corteo di macchine di lusso salutava-no sventolando la mano.
Pranzarono in un'osteria piena di gente, musica e risate, con un cosciotto di cinghiale con contorno di mele e patate arrosto, bevendo un vino della Mosella che nascondeva nelle sue profondità verda-stre sapore di uva e di sole.
« Sembrano tutti agiati e contenti », osservo Shasa dopo essersi guardato intorno.
« E' l'unico paese al mondo senza disoccupazione e senza miseria », concordò Centaine, ma Blaine bevve un sorso di vino e non fe-ce commenti.
Quel pomeriggio entrarono nella pianura settentrionale che portava a Berlino. Shasa, in testa con la Daimler, a un certo punto si fermò al margine della strada cosí di botto che David dovette attac-carsi al cruscotto e le ragazze, dietro, squittirono allarmate.
Shasa saltò giú lasciando il motore acceso, gridando: « David!
David! Vieni a vedere! Che meraviglia! » Gli altri scesero e si misero a guardare in su, mentre Blaine fermava la Bentley dietro la Daimler e, con Centaine, si accingeva a fare altrettanto riparandosi dal sole con la mano.
Di fianco alla strada c'era un aeroporto. Gli hangar erano dipinti di vernice argentea, e la manica a vento bianca tendeva il lungo braccio alla brezza leggera. Una formazione di tre caccia balenò controsole allineandosi alla pista per atterrare. Erano slanciati come squali, e avevano la pancia e il disotto delle ali verniciati d'azzurro cielo, mentre il sopra era dipinto a macchie mimetiche. Il perno dell'elica era giallo brillante.
« Cosa sono? » chiese Blaine ai due giovani piloti, che gli risposero in coro:
«109.»
« Messerschmitt. »
La canna delle mitragliatrici spuntava dall'angolo avanzato delle ali, mentre la volata del cannoncino inserito nel perno giallo dell'elica guatava come un nero occhio maligno.
« Cosa darei per pilotarne uno! »
« Un braccio... »
« Una gamba... »
« Il Paradiso... »
I tre caccia si misero in fila e scesero verso il campo d'aviazione.
« Dicono che fanno i seicento all'ora... »
« Dio, Dio, ma guardali volare... »
L'eccitazione contagiò le ragazze, che si misero a ridere battendo le mani mentre gli apparecchi passavano bassissimi sopra la loro testa e atterravano poco piú in là.
« Varrebbe la pena di far la guerra solo per pilotare quelle macchine lí », esultò Shasa. Blaine si arrabbiò moltissimo e per non darlo a vedere voltò le spalle al gruppo e tornò in macchina.
Centaine scivolò sul sedile accanto a lui e proseguirono in silenzio per cinque minuti prima che lei dicesse: « A volte è così stupido... ma è ancora un ragazzo, Blaine, non sa quello che dice ».
Lui sospirò. « Eravamo cosí anche noi. Credevamo la guerra un gioco, un gioco glorioso che ci avrebbe reso uomini ed eroi. Nessuno ci parlò delle pance sbudellate, del terrore e della puzza dei morti dopo cinque giorni al sole. »
« Non accadrà piú », disse risoluta e fiera Centaine. « Dio, fa, che non accada piú! » Con gli occhi della mente rivide l'apparecchio in fiamme, e il corpo dell'uomo che amava che si carbonizzava contorcendosi e sfrigolando. Poi il viso non fu piú quello di Michael ma di suo figlio: pensò al bel volto di Shasa che scoppiava come una salsiccia tenuta troppo vicino al fuoco, e ai succhi vitali della sua dolce giovinezza che ne sprizzavano, sprecati.
«Per favore fermati, Blaine», gli sussurrò. «Credo di star male. »
Sarebbero potuti arrivare a Berlino la sera stessa, ma una delle cittadine che attraversavano era in festa e Centaine, informandosi, apprese che era la sagra del patrono locale.
« Ah, fermiamoci qui, Blaine », suggerì, e si unirono alle celebrazioni.
Quel pomeriggio ci fu la processione: un'effigie del santo fu portata a spasso per le stradino di ciottoli, seguita dalla banda e da biondissimi, angelici ragazzini e ragazzine in costume.
«E' la Gioventú Hitleriana», spiegò Blaine. «Una roba tipo i vecchi boy-scout di Baden-Powell, ma con un ben piú forte accento sulle aspirazioni nazionali e il patriottismo tedesco. »
Dopo la parata si ballò in piazza al lume delle fiaccole. Agli angoli stavano dei carri-cisterna che servivano smisurati boccali di birra e bicchieri di Sekt, l'equivalente tedesco dello champagne, mentre cameriere dai grembiuli di pizzo e le guance bianche e rosse come mele mature giravano servendo piatti traboccanti di cibo: zamponi, stinchi, piedini, pesci e formaggi affumicati.
Presero un tavolo in piazza, accolti dalle urla festose e dai brindisi dei vicini, e si misero a tracannare birra, ballare e sottolineare battendo i boccali sul tavolo l'umpappà della banda.
Poi di colpo l'atmosfera cambiò. Le risa dei vicini diventarono false e forzate, e in tutti gli sguardi si leggeva una malcelata tensione. La banda prese a suonare fin troppo forte e quelli che ballavano si misero, se cosí si può dire, a recitare la parte di quelli che ballavano.
In piazza erano comparsi quattro brutti ceffi in camicia bruna, con le bandoliere incrociate sul petto e la solita onnipresente svastica sul braccio. Giravano da un tavolo all'altro raccogliendo offerte in una cassettina.
Tutti facevano l'offerta, ma infilavano la moneta nella fessura senza guardare in faccia lo sgherro che porgeva la cassetta. Quando i quattro passavano al tavolo successivo, gli occupanti del precedente si scambiavano uno sguardo di sollievo.
« Chi sono quelli lí? » chiese Centaine, curiosa.
« SA », rispose Blaine. « Squadre d'assalto, i "bravi" del partito nazionalsocialista. Guarda quello. » Il milite aveva una faccia ottusa da contadino scemo, massiccio e brutale. « Quando serve, un macellaio si trova sempre, non è questo il punto: speriamo solo che la faccia della nuova Germania non somigli alla sua. »
Lo squadrista aveva notato il loro interessamento, che del resto non si erano preoccupati di celare, e i quattro si diressero dritti verso il loro tavolo, con aria risoluta e minacciosa.
« Documenti », disse il nazista.
« Vuoi vedere i documenti », tradusse Tara. Blaine gli porse il passaporto.
« Ah! Turisti stranieri! » I modi degli squadristi cambiarono subito. L'orco fece un sorriso mellifluo e rese il passaporto a Blaine con qualche parola cortese.
« Dice: "Benvenuti nel paradiso della Germania nazionalsocialista" », tradusse Tara, e Blaine annuí.
« Dice che ora vedremo com'è felice e fiero il popolo germanico, e qualcos'altro che non ho capito. »
« Digli che gli auguriamo di rimanere felici e fieri per sempre. »
Lo squadrista raggiò di piacere, e salutò sbattendo i tacchi.
« Heil Hitlert » sbraitò facendo il saluto nazista, e Mathilda Janine scoppiò a ridere irrefrenabilmente.
« Non riesco a controllarmi», disse quando Blaine le rivolse uno sguardo severo, scuotendo la testa. « Mi fanno morire quando fanno così. »
Gli squadristi lasciarono la piazza e si sparse un palpabile sollievo. La banda perse rigidità e i ballerini rallentarono. La gente ricominciò a guardarsi in faccia e a sorridere con naturalezza.
Quella notte Centaine si coprí col piumino d'oca e si rannicchiò contro il fianco di Blaine. « Hai notato? » gli chiese. « Qui la gente sembra sempre sull'orlo del pianto o di una risata isterica. »
Blaine tacque un momento e poi bofonchiò. « C'è nell'aria una puzza che mi preoccupa... un odore di pestilenza. » Rabbrividì e la strinse un pò piú forte.
Con la Daimler in testa sfrecciarono sulla bianca autostrada par i sobborghi della capitale tedesca.
« Quanta acqua, quanti canali, quanti alberi. »
« La città sorge su una rete di canali », spiegò Tara. « Per via dei fiumi intrappolati tra i colli morenici che corrono da est a ovest... »
« Com'è che sai sempre tutto? » l'interruppe Shasa, scherzando ma non troppo perché in fondo era davvero esasperato.
« A differenza di chi so io, ho una certa istruzione », ribatté lei.
« O meglio, non sono proprio analfabeta. »
« Ahi che male, anche a beccarla di striscio », disse David facendo lazzi da morituro.
« Bene, signorina Sotutto », la sfidò Shasa. « Allora dimmi cosa vuoi dire quella scritta lì. » A fianco dell'autostrada c'era un cartel-lone bianco.
La scritta era in nero, e Tara tradusse ad alta voce.
« Dice: Ebreo, tira dritto per questa strada fino a Gerusalemme da dove sei venuto. »
Rendendosi conto di quello che aveva appena detto, arrossí per l'imbarazzo e mise la mano sulla spalla a David che sedeva davanti.
« Oh, David, mi dispiace, non avrei mai dovuto pronunciare una simile infamia. »
David guardava dritto davanti a se. Dopo qualche istante fece un sorrisetto.
« Benvenuti a Berlino », sussurrò. « Centro della civiltà ariana. »
« Benvenuti a Berlino! Benvenuti a Berlino! » Il treno che aveva attraversato mezza Europa scivolava nella stazione tra gli sbuffi di vapore. Le grida di benvenuto erano quasi sommerse dalla banda che suonava una marcia militare.
« Benvenuti a Berlino! » La folla in attesa si fece avanti allorché il convoglio si fermò, e Manfred De La Rey, appena sceso dal treno, si trovò circondato da facce sorridenti, benigne autorità, ragazze con ghirlande di fiori, applausi e pacche sulle spalle, domande di giornalisti e lampi di fotografi.
Anche gli altri atleti, come lui vestiti in giacca di panno verde con filini d'oro, pantaloni, scarpe e panama bianchi, erano attornia-ti dal comitato di ricevimento. Dopo qualche minuto di confusione una voce si levò a stento sopra il fracasso generale.
« Attenzione, prego! Attenzione, per favore. » La banda fece un rullo di tamburo mentre un uomo alto in uniforme scura e occhiali cerchiati in metallo faceva un passo avanti.
« Prima di tutto consentitemi di porgervi il cordiale saluto del Fuhrer e del popolo tedesco. Siate i benvenuti a queste undicesime Olimpiadi dell'era moderna. Sappiamo che rappresentate il coraggio e lo spirito della nazione sudafricana, e auguriamo a voi tutti successo e tante, tantissime medaglie! » Tra gli applausi e le risate il portavoce alzò le braccia. « Vi sono delle vetture in attesa per portarvi al vostro alloggio al Villaggio Olimpico, dove tutto è pronto per rendere il vostro soggiorno tra noi gradito e memorabile. E ora ho l'onore e il piacere di presentarvi colei che nelle prossime settimane vi farà da guida e interprete... » Chiamò qualcuno nella folla e una giovane donna gli si fece accanto, voltandosi a fronteggiare gli atleti da cui si levò immediatamente un brusio di ammirazione.
« Vi presento Heidi Kramer. » Era alta e forte, ma inconfondi-bilmente femminile. Nonostante avesse fianchi e seno giunonici, era dotata di una grazia da ginnasta o danzatrice. Aveva i capelli color dell'alba del Kalahari, pensò Manfred, e quando sorrise mostrò denti perfetti, candidi e regolari, che sembravano di porcellana. Gli occhi poi erano al di là di qualunque descrizione, piú azzurri e piú intensi dell'alto cielo africano a mezzogiorno, e senza esitare Manfred la giudicò la donna piú stupenda che avesse mai visto. Poi rivolse un muto pensiero di scusa a Sarah: ma, a paragone di questa valchiria tedesca, Sarah sembrava una dolce gattina tigrata, mentre l'altra era una giovane pantera.
« E ora Heidi penserà a far scaricare i bagagli e ad accompagnar-vi alle vetture. D'ora in poi, se avete bisogno di qualcosa, chiedete a Heidi! Sarà la vostra matrigna e sorella maggiore. »
Tutti scoppiarono a ridere e applaudire mentre Heidi, sorridente ma efficientissima, prendeva in pugno la situazione. Nel giro di pochi minuti una squadra di facchini in uniforme portava i bagagli della comitiva e Heidi li guidava per il marciapiede sotto la volta vetrata ai magnifici portali della stazione dove già li aspettava una fila di grosse Mercedes nere.
Manfred, lo zio Tromp e Roelf Stander salirono su una macchina e l'autista stava per partire quando Heidi gli fece un segnale. Li raggiunse di corsa. Portava i tacchi alti e quindi doveva tendere i polpacci, che sottolineavano la linea delle gambe e la grazia delle caviglie sottili. Né Sarah né alcun'altra ragazza che Manfred conoscesse al suo paese portavano i tacchi alti.
Heidi aprì la portiera davanti e infilò la testa in macchina.
« Avete obiezioni se salgo con voi, signori? » chiese con un sorriso radioso. Tutti negarono protestando di non avere la benché minima obiezione da fare, perfino lo zio Tromp.
« Salga, salga, salga! »
Si sedette vicino all'autista, chiuse la portiera, e immediatamente si voltò a guardarli, appoggiando le mani sulla spalliera del sedile.
« Sono così eccitata di conoscervi! » esclamò nel suo inglese dal forte accento tedesco. « Ho letto molto del vostro paese, degli animali africani e degli zulu, e un giorno verrò sicuramente a visitarlo.
Dovete promettermi di raccontarmi tutto del vostro bel paese, e io vi racconterò tutto della mia bella Germania. »
Tutti annuirono entusiasti, e lei guardò lo zio Tromp.
« E ora lasciatemi indovinare... Lei è certo il reverendo Tromp Bierman, l'allenatore della squadra di boxe! » Lo zio Tromp si scioglieva dalla gioia.
« Brava! Ha indovinato! »
« Ho visto la sua fotografia », confessò lei. « Come potevo dimenticare una barba così fenomenale? » Lo zio Tromp si mise a ridere. « Ma ora deve presentarmi gli altri. »
« Questo è Roelf Stander, il nostro peso massimo », disse lo zio Tromp. « E questo è Manfred De La Rey, il mediomassimo della squadra. »
Manfred colse una piccola reazione di lei al suo nome, uno stringere appena gli occhi, un sorriso appena accennato: poi rise ancora apertamente e disse: « Diventeremo buoni amici ». Manfred le rispose in tedesco.
« Il mio popolo, gli afrikaners, sono sempre stati amici leali dei tedeschi. »
« Ma lei parla benissimo la nostra lingua! » esclamò Heidi, deliziata. « Dove ha imparato? Ma lo sa che sembra proprio un tedesco? »
Manfred sorrise. « Lo erano mia madre e mia nonna paterna. »
« Allora avrà molti motivi d'interesse nel nostro paese », disse.
Poi tornò all'inglese e cominciò a illustrare la città percorsa dal convoglio di Mercedes nere col gagliardetto olimpico sul cofano.
« Questa è la famosa Unter den Linden, la via che noi berlinesi amiamo di piú. » Era ampia e magnifica, coi tigli che crescevano lungo la passeggiata che divideva le due grandi carreggiate. « E' lunga piú di un chilometro e mezzo. Quello dietro di noi è il Palazzo Reale, e laggiú in fondo c'è la Porta di Brandeburgo. » Le alte colonne del monumento erano tutte imbandierate, dalla quadriga con le figure in cima al selciato molto piú in basso. Le enormi svastiche bianche rosse e nere erano affiancate dalle bandiere coi cinque cerchi olimpici, e insieme garrivano al venticello primaverile.
« Questo è il Teatro dell'Opera », disse Heidi indicando un palazzo dal finestrino. « Fu costruito nel 1741... » cominciò, informata ed esauriente.
« Guardate come vi dà il benvenuto il popolo di Berlino! » gridò col garrulo entusiasmo che sembrava contraddistinguere tutti i cittadini della Germania nazionalsocialista. « Guardate! Guardate! »
Berlino era una città di gagliardetti, striscioni e bandiere. Da tutti ali edifici pubblici, da tutti i negozi, da tutte le case private le bandiere sventolavano a decine di migliaia, fitte di svastiche e cerchi olimpici.
Quando infine arrivarono alla residenza nel villaggio olimpico loro riservata, una guardia d'onore della Gioventú Hitleriana li aspettava con le fiaccole. E c'era un'altra banda, che li accolse con le note del loro inno nazionale, La voce del Sudafrica.
Dentro, Heidi consegno a ciascuno un libretto multicolore in cui erano spiegati tutti i particolari dell'organizzazione e della sistemazione, con minuzia consolante e squisitamente tedesca. Ognuno ricevette tagliandini, distintivi e tutto quel che era necessario per accedere agli spogliatoi degli impianti ecc, ecc. I numeri degli autobus che vi conducevano erano sempre chiaramente elencati.
« Qui potrete giovarvi di un cuoco e una sala da pranzo solo per voi. Lo chef vi preparerà i piatti che desiderate, anche se seguite die-te particolari. A qualsiasi ora ci sono un dottore e un dentista a disposizione. Potete servirvi della lavanderia, della radio e dei telefoni, del massaggiatore, e c'è anche una segretaria dattilografa... »
Era stata prevista ogni cosa, e rimasero sbalorditi di tanta efficienza e organizzazione.
« Cercate le vostre camere, il cui numero è segnato sul libretto, e ci troverete i bagagli. Disfate le valige e rilassatevi. Domattina vi porterò in pullman a visitare gli impianti sportivi del Reichssportfeld, il complesso olimpico. E' a una quindicina di chilometri da qui, sicché partiremo immediatamente dopo colazione, alle otto e trenta.
Nel frattempo, se avete bisogno di qualsiasi cosa rivolgetevi a me. »
« Lo so io cosa ti chiederei di fare », disse sottovoce un solleva-tore di pesi roteando gli occhi, e Manfred strinse i pugni per l'imper-tinenza, anche se Heidi non aveva sentito.
« A domani », concluse garrula, e andò in cucina a parlare col cuoco.
« Quella sí che è una bella donna! » disse lo zio Tromp con un grugnito ammirato. « Ringrazio il cielo dell'abito che porto, della mia età e del fatto che, felicemente sposato come sono, mi trovo al di là di tutte le lusinghe e le tentazioni di Eva. » Si alzarono grida sfottenti di commiserazione per lo zio Tromp, che a questo punto era diventato zio di tutti. « E va bene! » ruggí di nuovo severo.
« Tutti in scarpette, cagnacci neghittosi, ché prima di cena mi fate quindici chilometri di corsa. »
Quando scesero a far colazione trovarono Heidi che li aspettava, fresca e sorridente. Rispose a tutte le domande, distribuí la posta arrivata da casa, risolse decine di piccoli problemi rapidamente e senza far confusione, e quando ebbero mangiato li accompagnò in comitiva alla stazione degli autobus.
Gran parte degli atleti erano già arrivati al villaggio da tutti i paesi del mondo, e regnava una grande eccitazione. Uomini e donne in tuta correvano per le vie, rivolgendosi la parola in una babele di lingue: la loro superba condizione di forma gli si leggeva in faccia, e in tutti i movimenti che facevano. Quando la squadra sudafricana arrivò allo stadio, le dimensioni di questo sbalordirono tutti quanti.
Uno sterminato complesso di sale, palestre e piscine coperte circondava l'ovale dello stadio di atletica leggera. Le file di posti sembravano arretrare all'infinito, e l'altare olimpico, all'altro capo dello stadio, col tripode spento (la fiaccola non era ancora arrivata), dava un senso di solennità religiosa a questo tempio dedicato al culto del corpo umano.
Ci misero tutta la mattina a visitare gli impianti. Avevano mille e mille domande da fare, e Heidi a tutte rispose. Piú di una volta Manfred si trovò a camminarle vicino, e quando parlavano insieme in tedesco nasceva tra loro, anche in mezzo alla folla, un senso di intimità. Non era solo immaginazione, perché anche Roelf notò che Manfred era oggetto di attenzioni speciali.
« Allora, ti piacciono le lezioni di tedesco? » gli chiese innocente-mente a pranzo, ridendo a crepapelle ai ringhi di Manfred.
Gli ospiti avevano fornito degli sparring partners reperiti presso una società pugilistica locale, e nelle giornate che seguirono lo zio Tromp schiacciò a fondo l'acceleratore degli allenamenti.
Manfred demoliva quei poveri diavoli, tempestandoli di cazzotti sull'imbottitura che proteggeva loro il capo e il ventre. Anche con quella corazza nessuno resisteva piú di una ripresa o due prima di chiedere quartiere. Manfred, andando al suo angolo, si guardava intorno e di solito non tardava a individuare Heidi Kramer che assisteva ai suoi allenamenti con uno strano rossore intorno al collo e uno sguardo un pò fisso su quegli incredibili occhioni azzurri: soleva inoltre tenere un pò socchiusa la bocca, da cui faceva capolino la punta della lingua rosa incorniciata da una chiostra di denti candidi e affilati.
Tuttavia fu solo dopo quattro giorni di allenamento che si ritrovò solo con lei. Aveva finito una dura sessione in palestra e, dopo aver fatto la doccia e indossato la maglietta dell'università, era uscito dalla porta principale dello stadio. Era quasi arrivato alla fermata dell'autobus quando lei lo chiamò e lo raggiunse di corsa.
«Anch'io sto tornando al villaggio, devo parlare col cuoco.
Prendiamo lo stesso autobus? » Evidentemente lo stava aspettando.
Si sentí lusingato e un pò nervoso.
Aveva una bella andatura molleggiata, e i capelli le svolazzavano intorno al capo come un lenzuolo di seta d'oro. Camminando a fianco a fianco lo guardava spesso.
« Sono andata a vedere i pugili degli altri paesi », gli disse, « specialmente i mediomassimi, e sono venuta a vedere anche te. »
« Lo so, t'ho notata », disse, accigliato per nascondere l'imbarazzo.
« Non hai nessuno da temere, salvo l'americano. »
« Cyrus Lomax », annuí lui. « Sí, Ring Magazine lo considera il miglior mediomassimo dilettante del mondo. Anche lo zio Tromp è andato a vederlo. Dice che è davvero bravo. Agile e potente, ed essendo un negro si può star certi che è un buon incassatore. »
« E' l'unico che dovrai battere per la medaglia d'oro », concordò lei. La medaglia d'oro... in bocca a quella ragazza tali parole acquistavano una musica irresistibile. « E io verrò a fare il tifo per te. »
« Ti ringrazio, Heidi. »
Salirono sull'autobus. Gli uomini guardavano Heidi con ammirazione, e Manfred era orgoglioso di averla accanto.
« Mio zio è un grande appassionato di boxe. Come me, è sicuro che tu abbia buone probabilità di battere il negro americano. Gli piacerebbe moltissimo conoscerti. »
« Molto gentile da parte di tuo zio. »
« Stasera tiene un piccolo ricevimento. Mi ha chiesto di invitarti. »
« Sai bene che non è possibile. Il mio programma di «allenamento... »
« Mio zio è un uomo importante e influentissimo », insistè lei, chinando il capo da una parte e sorridendogli affabilmente. « Sarà cosa di pochi minuti: ti prometto che sarai a casa prima delle no-ve. » Lo vide esitare ancora e continuò: « Faresti contento mio zio...
e anche me ».
« Anch'io ho uno zio, lo zio Tromp... »
« Se riesco a ottenere il suo permesso, verrai? »
Alle sette, come d'accordo, Heidi era ad aspettarlo con la Mercedes davanti all'ingresso del villaggio olimpico. L'autista gli aprí la portiera posteriore e Manfred sedette sul sedile di pelle accanto a lei.
Heidi gli sorrise. « Ehi, sei bellissimo così elegante! »
Ma anche lei non era messa male. Aveva pettinato i capelli che ora formavano due crocchie dorate e gonfie, come ali d'oro ai lati della testa: le spalle e buona parte del suo seno statuario erano scoperte, e di una nivea perfezione. L'abito da cocktail in taffetà azzurro sottolineava a meraviglia il colore dei suoi occhi stupendi.
« Sei bella », disse in tono di meraviglia. Non aveva mai fatto, prima, un complimento a una donna: ma questa era piuttosto una constatazione. Ella abbassò gli occhi, gesto alquanto modesto per una donna che doveva essere abituata all'adulazione maschile.
« Alla Rupertstrasse », ordinò all'autista.
Percorsero lentamente la Kurflirstendamm, guardando i marciapiedi animati da gente che andava a divertirsi, e poi entrarono accelerando nelle vie molto piú tranquille di un quartiere elegante, la parte occidentale del distretto di Grunewald. Era il sobborgo dei mi-liardari, alla periferia occidentale della città tentacolare, e Manfred si rilassò appoggiandosi allo schienale e girandosi a guardare la bella donna che gli sedeva accanto. Gli parlava con serietà, ponendogli domande sulla sua vita, la sua famiglia e il suo paese. In breve capí che conosceva il Sudafrica molto meglio di quanto ci si potesse aspettare, e si chiese come facesse a sapere tante cose.
Conosceva la storia di guerre, conflitti e ribellioni di quest'ultimo lembo dell'Africa australe, e la lotta del suo popolo contro le barbare tribú di negri: non ignorava la soggezione imposta dai britannici agli afrikaners, e le terribili minacce sua loro esistenza come popolo.
« Gli inglesi », sospirò la ragazza con amarezza palese. « Sono dappertutto, e dappertutto portano guerre e sofferenze: in Africa, in India, nella stessa Germania. Anche noi siamo stati oppressi e perseguitati. Se non era per il nostro amato Fuhrer, saremmo ancora sotto il tallone degli ebrei e degli inglesi. »
« E' proprio un grand'uomo, il vostro Fuhrer », ammise Manfred e poi citò: « Noi dobbiamo combattere per salvaguardare l'esistenza e la riproduzione della nostra razza e della nostra gente, il mantenimento dei nostri bambini e la purezza del nostro sangue, la libertà e l'indipendenza della patria, cosí che il nostro popolo possa maturare per il compimento della missione affidatagli dal Creatore dell'universo.»
« Ma è Mein Kampf! » esclamò lei. « Sei in grado di citare le parole del nostro Fuhrer! » Manfred comprese che era stata raggiunta una pietra miliare del loro rapporto.
« Con quelle parole ha espresso tutto quello che anch'io sento e credo », le disse. « E' un grand'uomo, che merita di guidare una nazione. »
La casa in Rupertstrasse era separata dalla strada da un gran parco sulla riva di uno degli ameni laghi di Havel. Sul viale d'ingresso attendevano parecchie berline con autista, molte delle quali inalberavano gagliardetti con la svastica e conducenti in divisa. Tutte le finestre della grandissima residenza erano illuminate, e quando l'autista si fermò sotto il portico li raggiunse un'onda di musica, voci e risate.
Manfred porse il braccio a Heidi ed entrarono dalla porta principale spalancata, attraversarono un atrio dal pavimento di marmo Bianco e nero e le pareti irte di trofei di caccia, e si fermarono davanti al salone del ricevimento, già pieno di ospiti. Quasi tutti gli uomini erano in uniforme, alta naturalmente e scintillante di mostrine e decorazioni, mentre le donne erano tutte elegantissime, scollate e acconciate all'ultima moda.
Risa e conversazioni cessarono mentre gli ospiti si giravano a guardare gli ultimi venuti, facendo commenti ammirati dato che Manfred e Heidi costituivano proprio una bella coppia. Poi la conversazione riprese.
« Ecco là lo zio Sigmund », esclamò Heidi. Prese per mano Manfred e lo guidò per la sala in direzione di una persona molto alta, in uniforme nera, che appena si accorse della coppia andò loro incontro.
« Mia cara Heidi », disse chinandosi a baciarle la mano. « Ogni volta che ti vedo diventi piú bella. »
« Manfred, ti presento mio zio, il colonnello Sigmund Boldt. Zio Sigmund, permettimi di presentarti Herr Manfred De La Rey, il famoso pugile sudafricano. »
Il colonnello Boldt strinse la mano a Manfred. Aveva capelli bianchissimi pettinati severamente all'indietro su una faccia sottile da accademico, di buona struttura ossea, con un piccolo naso dritto e aristocratico.
« Heidi mi ha accennato che lei è di estrazione germanica », disse con aria interrogativa. Indossava un'uniforme nera con teschi d'argento sui risvolti. Gli ballava incontrollabilmente una palpebra, la-crimando di continuo, sicché doveva asciugarsi con un fazzoletto di pizzo che per questo teneva sempre in mano.
« E' vero, colonnello. Sono forti i legami che mi uniscono al vostro paese », rispose Manfred.
« Ah, ma lei parla un ottimo tedesco. » Il colonnello lo prese per il braccio. « Chissà quanti vorranno conoscerla stasera, ma prima mi dica, che ne pensa di quel pugile negro, l'americano Cyrus Lomax? Che tattica adotterà con lui? »
Con sperimentata abilità, o Heidi o il colonnello venivano a sottrarlo a un gruppo di ospiti per presentarlo al successivo, e quando Manfred rifiutò lo champagne il cameriere gli portò un bicchiere d'acqua minerale.
Tuttavia lo lasciarono un pò piú del solito con un ospite che Heidi gli aveva presentato come il generale Zoller, un alto ufficiale prussiano in uniforme da campo grigia che aveva al collo la croce di ferro: un uomo che, dietro un viso pallido e anodino, si dimostrava di intelligenza vivissima. Costui interrogò minutamente Manfred sulle questioni politiche e sociali sudafricane, e specialmente sui sentimenti dell'afrikaner medio nei confronti della Gran Bretagna e dell'Impero.
Mentre discorrevano, il generale Zoller fumava una sigaretta dietro l'altra. Non erano però sigarette normali, avevano un forte odore d'erba, e si capì l'arcano quando lo si vide boccheggiare ripetutamente per l'asma. A Manfred riuscì simpatico: apprezzava la sua gente e aveva una padronanza addirittura enciclopedica degli affari africani. Il tempo con lui passò in fretta, poi Heidi, come sempre, venne a toccargli il braccio.
« Mi scusi, generale Zoller, ma ho promesso all'allenatore della squadra di boxe di riportargli il suo campione per le nove. »
« Lietissimo d'averla conosciuta, giovanotto », disse il generale stringendogli la mano. « I nostri paesi dovrebbero essere molto piú amici di quanto sono attualmente. »
Manfred lo rassicurò: «Farò tutto quel che potrò perché un giorno lo siano ».
« Buona fortuna ai Giochi, Herr De La Rey. »
Di nuovo in macchina, Heidi osservò: « Sei piaciuto molto a mio zio, e anche ai suoi amici, soprattutto al generale Zoller ».
« Anch'io mi sono divertito. »
« Ti piace la musica, Manfred? »
La domanda lo colse alla sprovvista. « Certa sì, ma non me ne intendo. »
« Wagner ti piace? »
« Sì, mi piace molto. »
« Lo zio Sigmund mi ha dato due biglietti per il concerto della Filarmonica di Berlino di venerdí prossimo. Il giovane direttore Herbert von Karajan eseguirà musiche di Wagner. So che quel pomeriggio hai il primo incontro, ma poi potremmo festeggiare. » Esitò un attimo, poi proseguì rapidamente: « Ti sembrerò sfacciata, ma ti assicuro... »
« No, no. Sarei molto onorato di accompagnarti, sia che vinca o perda. »
« Vincerai », disse lei semplicemente. « So che vincerai. »
Lo lasciò alla residenza della squadra, e aspettò che fosse entrato prima di ordinare all'autista di tornare in Rupertstrasse.
Quando arrivò a casa del colonnello, gli ospiti se ne stavano andando. Aspettò tranquillamente che li avesse salutati tutti: poi, a un suo cenno del capo, lo seguì. Il suo modo di trattarla, adesso, era completamente cambiato: era diventato brusco e da superiore.
Si recò a una porticina di rovere in fondo al salone ed entrò prima di lei. Heidi lo seguì e richiuse la porta, poi si mise sull'attenti, in attesa. Il colonnello Boldt la lasciò in piedi mentre versava due bicchieri di cognac e ne porgeva uno al generale Zoller, che sedeva in poltrona vicino al ciocco che bruciava nel camino. Aveva un dossier sulle ginocchia e stava ancora fumando le sue sigarette per asmatici.
« Allora, Fraulein », disse il colonnello Boldt accomodandosi e facendole cenno di sedere sul divano. « Si sieda. Si rilassi un pò, tanto è a casa di suo «zio». »
Lei sorrise educatamente, ma sedette rigida sull'orlo del divano.
Il colonnello Boldt tornò a rivolgersi al generale.
« Posso chiederle la sua opinione circa il soggetto? » Il generale Zoller alzò gli occhi dalla pratica.
« Sembra ci sia una zona d'ombra intorno alla madre. Sarà davvero tedesca come dice lui? »
« Temo sia impossibile averne conferma. Non si può piú conoscere la nazionalità della madre, anche se a questo scopo ho sguinzagliato tutti i nostri residenti nell'Africa di Sudovest. E' opinione generale che sia morta di parto nel deserto. Tuttavia da parte paterna c'è la prova documentale che sua nonna era tedesca, e risulta anche che il padre abbia combattuto valorosamente per il Kaiser durante l'ultima guerra in Africa. »
« Sì, ho visto », disse il generale senza scomporsi. « Che sentimenti ha manifestato con lei, Fraulein? »
« E' molto fiero del suo sangue tedesco, e si considera un naturale alleato del popolo germanico. E' un grande ammiratore del Fuhrer ed è in grado di citare a memoria lunghi brani del Mein Kampf. »
Il generale si mise a tossire e ansimare e si accese un'altra sigaretta. Poi tornò a dedicare tutta la propria attenzione alla cartelletta rossa con l'aquila e la svastica sulla copertina. Gli altri aspettarono tranquillamente per una decina di minuti, finché il generale tornò a rivolgere lo sguardo a Heidi.
« Che rapporti ha instaurato col soggetto, Fraulein? »
« Come mi aveva ordinato il colonnello Boldt, mi sono comportata in maniera simpatica e gradevole. In tanti modi sottili gli ho fatto capire che suscita il mio interesse di donna. Gli ho dimostrato passione e una certa competenza in fatto di boxe, e un grande interesse per il suo paese e i suoi problemi. »
« Fraulein Kramer è una delle migliori agenti operative », spiegò il colonnello Boldt. « Il nostro dipartimento ha provveduto a fornirle una solida preparazione sulla storia del Sudafrica e lo sport della boxe. » Il generale annuì. « Continui, signorina », ordinò, e Heidi proseguì.
« Gli ho manifestato simpatia per le aspirazioni politiche del suo popolo e gli ho fatto capire chiaramente che gli sono amica, con possibilità di ulteriori sviluppi. »
« Vi è già stata qualche intimità sessuale tra voi? »
« No, signor generale. Ritengo che il soggetto si adonterebbe se procedessi troppo rapidamente. Come sappiamo dal suo dossier, proviene da un ambiente di rigida osservanza calvinista. Inoltre il colonnello Boldt non mi ha ordinato di fargli avances sessuali. »
« Bene », annuì il generale. « Questa faccenda è della massima importanza: lo stesso Fuhrer è a conoscenza dell'operazione. Egli ritiene, come me del resto, che la punta meridionale dell'Africa abbia un'enorme importanza tattica e strategica nei nostri piani di espan-sione mondiale. Controlla le rotte per l'India e l'Oriente, e nell'eventualità che il canale di Suez ci sia precluso quella del Capo di Buona Speranza resterebbe l'unica rotta. Inoltre il sottosuolo del Sudafrica è una vera e propria stanza del tesoro, che contiene mate-rie prime vitali per la preparazione bellica: cromo, diamanti, minerali platiniferi; c'è tutto laggiú. Ponendo mente a questo, e dopo una prima valutazione personale del soggetto, mi sono convinto che occorre procedere. Quindi l'operazione sarà d'ora in poi classificata
"rossa» e avrà il pieno appoggio del dipartimento. »
« Molto bene, generale. »
« Il nome in codice dell'operazione sarà "Spada Bianca", Das Beasse Schwert. »
« Jawohl, mein General. »
« Signorina Kramer, d'ora in poi si occuperà soltanto di questo.
Alla prima occasione intratterrà rapporti sessuali col soggetto in modo da non offenderlo né allarmarlo, ma piuttosto da rafforzare la sua dedizione. »
« Molto bene, signor generale. »
« A suo tempo si renderà forse necessario che lei sviluppi col soggetto rapporti di carattere matrimoniale. Vi è qualche ragione contraria da parte sua? »
Heidi non esitò. « Nessuna, signor generale. Lei può contare interamente sulla mia lealtà e sul mio senso del dovere. Farò qualunque cosa mi si chieda di fare. »
« Molto bene. » Il generale Zoller tossí e ansimò alla disperata ricerca di un pò di fiato, e proseguí con voce rauca. « Ora, colonnello, a noi converrebbe che costui vincesse la medaglia d'oro. Gli con-ferirebbe grande prestigio nel suo paese, a parte l'aspetto ideologico della vittoria di un ariano su una persona di razza inferiore. »
« Capisco, signor generale. »
«C'è qualche serio aspirante tedesco al titolo dei mediomassimi? »
« No, generale. L'unico pugile bianco in grado di vincere è lui.
Possiamo fare in modo che tutti i suoi incontri siano arbitrati da membri del Partito che si attengano alle nostre indicazioni. Certo, se va al tappeto c'è poco da fare... »
« Naturalmente, Boldt. Faccia il possibile; e lei, signorina Kramer, tenga aggiornato il colonnello sui suoi progressi col soggetto. »
Sia i Courteney sia i Malcomess avevano preferito il lussuoso Hotel Bristol al villaggio olimpico, dove si era rassegnato ad andare il solo David, piegandosi al diktat del suo allenatore. Quindi Shasa lo vide ben poco durante gli ultimi giorni di duro allenamento prima dell'inizio dei Giochi.
Mathilda Janine obbligò Tara ad accompagnarla a tutti gli allenamenti di atletica, seguendola in cambio sul campo di polo. Sicché le due ragazze passarono gran parte del loro tempo a trasferirsi dal complesso olimpico al campo di polo, piuttosto decentrato, anche se Tara sapeva far andare molto forte la Bentley verde di suo padre.
La breve interruzione dell'allenamento, combinata all'imminen-za delle gare, parve giovare alla preparazione di David. In quei cinque giorni segnò tempi eccellenti, resistendo stoicamente agli inviti di Mathilda Janine a « scappare un'ora o due » dalle grinfie dell'allenatore.
« Hai ottime possibilità, David », gli aveva detto questi, consultando il tempo dell'ultimo sprint prima della cerimonia ufficiale di apertura. « Metticela tutta e vedrai che porti a casa la patacca. »
Sia Shasa sia Blaine furono molto soddisfatti dei cavalli messi a disposizione dagli ospiti tedeschi. Come tutto il resto al centro d'equitazione (stalle, stallieri e finimenti), rasentavano la perfezione.
Sotto la guida di Blaine, che in campo aveva polso di ferro, la squadra cominciò subito ad allenarsi e ben presto ridiventò una compatta falange di cavalieri.
Tra un allenamento e l'altro andavano a vedere come se la cava-vano le altre squadre, che di lí a poco avrebbero dovuto incontrare.
Gli americani non avevano badato a spese e si erano portati i cavalli oltre l'Atlantico. Gli argentini però li avevano superati, perché avevano portato anche gli stallieri, vestiti come veri e propri gauchos.
« Sono le due squadre da battere » li avvertì Blaine. « Ma anche i tedeschi sono particolarmente forti, e gli inglesi, come al solito, pic-chiano come fabbri. »