Mirò ai tronchi sopra le teste. Il Mauser abbaiò scorticando i mopani. Le schegge volavano lasciando ferite bianche sugli alberi.

« Giú la testa, myne heeren! »

Lothar rideva ancora, isterico, delirante. Si costrinse a smettere, e immediatamente gli apparve il volto di Manie, con gli occhi color topazio bagnati di lacrime e il rivolo di sangue sul labbro superiore.

« Figlio mio », invocò. « Come farò a vivere senza di te! »

Non accettava ancora l'idea che stava per morire, ma l'oscurità gli invase il cervello e la testa gli ricadde in avanti sul ripugnante bendaggio del braccio. La puzza della sua stessa carne in putrefazione entrò a far parte degli incubi che continuarono a tormentarlo anche in stato d'incoscienza. Tornò gradualmente alla realtà, e comprese che il sole stava tramontando perché non picchiava piú con la forza di prima. Un bel venticello rinfrescava la cima della collina e lui se lo bevve come un balsamo. Poi sentí i morsi della sete e con mano tremante afferrò la borraccia. A fatica riuscí a svitare il tappo e bere un sorso: poi la borraccia gli sfuggí di mano e rotolò bagnan-dogli la camicia e rovesciando almeno una pinta del prezioso liquido sulla roccia, dove immediatamente evaporò, prima che Lothar riuscisse a recuperarla in qualche modo. La perdita gli fece venir da piangere. Riavvitò accuratamente il tappo, poi alzò la testa e si mise ad ascoltare.

Sulla collina c'era qualcuno. Sentì il colpo secco della punta ferrata di uno stivale che batteva contro la roccia. Prese una bomba a mano. Col Mauser in spalla si allontanò dal ciglione e appoggiandosi al macigno si alzò in piedi. Ma non riusciva a reggersi, e dovette girare intorno al masso puntandoci la schiena. Si affacciò dall'altra parte. Sulla cima della collina non c'era nessuno.

Dunque stavano ancora scalando la parete. Trattenne il respiro e tese l'orecchio. Risentì dei rumori, molto vicino. Un grattare, uno strusciar di stoffa sulla roccia, un ansimare involontario, un anna-spare appena sotto il ciglione.

« Salgono da dietro », si disse, come chi spieghi a un bambino ri-tardato. Ogni pensiero gli richiedeva un grande sforzo. « La bomba scoppia dopo sette secondi. Troppi. Sono già vicinissimi. » Guardò il goffo e antiquato ordigno che aveva in mano. L'alzò e cercò di togliere la sicura. Era arrugginita e inamovibile. Con uno sforzo immane, provò di nuovo. Ci riuscì. Senti lo scatto del timer che partiva e cominciò a contare.

« Mille e uno, mille e due... » Al quinto secondo si chinò e la fe-ce rotolare oltre il ciglione. Fuori vista, ma molto vicino, qualcuno urlo un avvertimento urgente.

« Cristo! E' una bomba! » e Lothar scoppiò a ridere forte.

« Mangiatevela, sciacalli degli inglesi! » Senti un grande trambu-sto di gente che scappava e si preparò all'esplosione, ma vi fu soltanto il rumore della bomba che rimbalzava come un barattolo giú dal pendio.

« Ha fatto cilecca! » Smise di ridere. « Al diavolo! »

Poi all'improvviso, ma in ritardo, la bomba esplose, ai piedi del colle. Dopo il botto si udirono le schegge fischiare e crepitare sulle rocce, e un uomo gridò.

In ginocchio, Lothar si affacciò al ciglione. Guardò giú. Tre uomini in uniforme kaki scendevano a salti e scivolate giú dalla china.

Appoggiò il Mauser al davanzale di roccia e fece rapidamente fuoco diverse volte. Le pallottole crearono strisce biancastre sul granito di fianco ai soldati atterriti. Saltarono giú dall'ultima balza e si misero a correre verso gli alberi. Uno era ferito dalle schegge: i compagni lo sorreggevano trascinandolo via.

Per quasi un'ora Lothar giacque esausto per lo sforzo prima di riuscire a tornare alla sua postazione sul versante sud. Guardò in basso i cavalli morti che giacevano al sole. Già avevano il ventre gonfio, ma le borracce erano ancora attaccate alle selle. « La cala-mita è l'acqua », sussurrò. « A quest'ora avranno già una gran sete.

La prossima mossa sarà cercare di recuperarla. »

Dapprima credette che il buio fosse di nuovo calato solo nella sua mente, ma quando girò la testa a ovest e vide l'ultimo rosseggia-re del tramonto capì che era giunta la sera. Davanti ai suoi occhi i bagliori arancione svanirono e repentina cadde la notte africana.

Restò disteso tendendo l'orecchio per sentirli quando avessero tentato di recuperare l'acqua, e lo colse la consueta meraviglia ai mi-stici rumori della notte d'Africa: l'orchestra sommessa degli insetti e degli uccelli, le strida dei pipistrelli volanti attorno alla cattedrale di roccia, e, nella sconfinata pianura, il lamento dello sciacallo e l'oc-casionale verso della mellivora. Lothar doveva cercar di filtrare lo sfondo per badare solo a rumori umani provenienti dallo spiazzo al-la base della collina.

Fu il clic del ferro di una staffa che lo mise in allarme. Si affacciò e butto giú la bomba con un volteggio del braccio sull'abisso. Lo spostamento d'aria della potente esplosione gli arrivò in faccia, e al-la fiammata distinse due ombre scure vagolanti nei dintorni del cavallo morto. Siccome non poteva esser sicuro che non ce ne fossero degli altri, gettò anche la seconda bomba.

Al breve lampo arancione li rivide: correvano così in fretta verso gli alberi che certo non li appesantiva nessun carico d'acqua.

« Sudatevela tutta », li maledisse, ma ormai gli restava una bomba soltanto. La strinse al petto come un raro tesoro. « Devo essere pronto quando ritornano. Non posso lasciargli prendere l'acqua. »

Parlava ad alta voce, e sapeva che era un segno di delirio. Ogni volta che sentiva avvicinarsi il capogiro alzava la testa e cercava di mettere a fuoco le stelle.

« Devo resistere », si disse con grande serietà. « Devo trattenerli almeno fino a domani a mezzogiorno. » Cercò di calcolare tempi e distanze ma era ormai troppo per lui. « Devono essere otto ore che Hendrick e Manie se ne sono andati. Proseguiranno per tutta la notte. Non sono piú rallentati da me. Raggiungeranno il fiume prima dell'alba. Se solo riuscissi a tenerli qui altre otto ore, si sgancerebbero di sicuro.. » Ma debolezza e febbre lo sopraffecero e posò la fronte nell'incavo del gomito.

« Lothar! » Era tutta immaginazione, lo sapeva, ma poi il suo nome fu ripetuto. « Lothar! » Alzò la testa e rabbrividí per il freddo della notte e i ricordi che quella voce gli portava.

Apri la bocca e poi la richiuse. Non avrebbe risposto, doveva ri-sparmiarsi il piú possibile. Ma aspettò avidamente che Centaine Courteney lo chiamasse ancora.

« Lothar, abbiamo un ferito. » Giudicò che si trovasse al limite della foresta. Poteva immaginarsela, coraggiosa e risoluta, col mento deciso in su e gli occhi neri.

« Perché devo amarti ancora? » si domandò sottovoce.

« Ci serve l'acqua per lui. » Strano come la sua voce arrivava chiara. Si sentiva perfino il vago accento francese, e chissà perché lo trovò commovente. Gli vennero le lacrime agli occhi.

« Lothar! Vengo fuori a prender l'acqua! » La sua voce era piú forte, piú vicina. Evidentemente era uscita dal riparo.

« Sono sola, Lothar. » Doveva essere in mezzo allo spiazzo.

« Torna indietro! » Aveva cercato di gridare, ma gli era uscito un farfuglio « Ti ho avvertito. Devo farlo. » Armeggiò con la bomba. « Non posso lasciarti prendere l'acqua... per il bene di Manfred.

Debbo farlo. »

Infilò il dito nell'anello della sicura.

« Sono arrivata al primo cavallo », gli gridò. « Prendo la borraccia. Solo una borraccia, Lothar. »

Era in suo potere. Si trovava ai piedi della collina. Non sarebbe occorso un lungo lancio: bastava far rotolare la bomba giú dal pendio e sarebbe atterrata ai suoi piedi.

Immaginò il lampo dell'esplosione, quella carne dolce che aveva cullato la sua, e partorito suo figlio, lacerata e straziata dalle schegge. Pensò quanto l'odiava... e si rese conto che l'amava altrettanto.

Le lacrime l'accecarono.

« Adesso torno indietro, Lothar. Ho la borraccia », gridò. Nella sua voce l'uomo avvertì la gratitudine e un'implicita ammissione che il legame che c'era fra loro non poteva essere troncato, né da azioni di sorta, né dal passar del tempo. Parlò ancora, a voce piú bassa, che lo raggiunse come un sussurro: « Possa Iddio perdonarti, Lothar De La Rey ». E poi piú nulla.

Queste parole gentili lo ferirono profondamente, come tutte le altre che aveva udito da lei. Erano cosí conclusive da sembrargli in-tollerabili, e Lothar appoggiò la testa sul braccio per soffocare l'ur-lo di disperazione che gli si levava in gola. L'oscurità dilagò nella sua mente come un'ala nera di avvoltoio, e si sentì cadere, cadere, cadere...

« Questo qua è morto », disse calmo Blaine Malcomess, in piedi accanto alla figura distesa. Nell'oscurità avevano scalato la collina da due parti; poi all'alba avevano dato l'assalto insieme alla sommità, trovandola indifesa. « Dove sono gli altri? »

Il sergente Hansmeyer sbucò dal cumulo di massi in cima alla collina. « Quassú non c'è nessun altro, signore. Devono essere riusciti a scappare. »

« Blaine! » urlò Centaine da sotto, dove l'avevano obbligata a restare in previsione dell'assalto. «Dove sei? Cosa sta succedendo? » Pochi istanti dopo sbucò a sua volta in vetta alla collina.

« Siamo qui », berciò Blaine. E poi, mentre lei correva verso di loro: « Ti faccio osservare che hai disobbedito a un ordine ».

Ignorò l'osservazione. «Dove sono?» Quando vide il corpo s'interruppe. « Oh Dio, è Lothar. » Si inginocchiò accanto a lui.

« Così questo è De La Rey. Ebbene, temo che sia morto », le disse Blaine.

« Dove sono gli altri? » Centaine lo guardò ansiosamente. Aveva sempre sia temuto sia sperato di incontrare il bastardo di Lothar: si sforzava ancora di evitare di fare il nome del ragazzo, persino tra sé.

« Non ci sono piú », disse Blaine, scuotendo il capo. « Ci sono sfuggiti. De La Rey ci ha ingannati ed è riuscito a trattenerci restando in retroguardia. Gli altri si sono sganciati. A quest'ora avranno già passato il fiume. »

Manfred. Centaine si arrese e lo pensò per nome. Manfred, mio figlio. La sua delusione e il suo senso di privazione furono così forti da scuoterla. Aveva tanto desiderato trovarlo qui, vederlo infine.

Guardò suo padre accasciato, e altre emozioni, da gran tempo se-polte e represse, si levarono in lei.

Lothar giaceva con la faccia appoggiata all'incavo del gomito.

L'altro braccio, fasciato di strisce ricavate da una coperta, sporgeva in fuori. Gli toccò il collo dietro l'orecchio, cercando la carotide, e sentendo il calore febbrile della pelle esclamò immediatamente:

« E' ancora vivo. »

« Sei sicura? » Blaine si chinò accanto a lei. Insieme fecero girare Lothar supino, scorgendo la bomba che aveva sotto.

« Avevi ragione tu », disse piano Blaine. « Aveva davvero un'altra bomba. Poteva ucciderti ieri sera. »

Centaine rabbrividì vedendo il viso di Lothar. Non era piú il bel biondo coraggioso di una volta. La febbre l'aveva divorato, i suoi lineamenti erano crollati come quelli di un cadavere ed era logoro e grigiastro.

« E' molto disidratato », disse Centaine. « C'è ancora dell'acqua in quella borraccia? » Mentre Blaine gli versava acqua in bocca, Centaine gli sciolse la benda.

« Cancrena e infezione del sangue. » Riconobbe le righe livide sottopelle e il fetore della carne in putrefazione. « Quel braccio do-vrà essere amputato. » Benché la sua voce fosse ferma e impersona-le, era sbigottita dal male che gli aveva fatto. Le sembrava impossibile che un sol morso avesse potuto produrgli un simile danno. I denti erano una delle sue bellezze e ne era fiera, li teneva sempre bianchi, puliti e curati. Ma quel braccio sembrava straziato da una bestia divoratrice di carogne, da una jena.

« Sul fiume, a Cuangar, c'è una missione cattolica portoghese », disse Blaine. « Ma sarà ben fortunato se riusciremo a portarcelo vi-vo. Con tutti i cavalli morti meno uno, avremo bisogno di fortuna anche noi per arrivare al fiume. » Si alzò in piedi. « Sergente, mandi un uomo a prendere la cassetta del pronto soccorso e metta gli altri al lavoro: qui mancano ancora diamanti per un milione di sterline. »

Hansmeyer corse via, berciando ordini alla truppa.

Blaine si sedette accanto a Centaine. « Mentre aspettiamo la cassetta del pronto soccorso, sarà meglio perquisirlo. Sarà troppo sperare, ma forse ha tenuto con se una parte dei diamanti rubati. »

« E' troppo sperare senz'altro », concordò Centaine con amara rassegnazione. « I diamanti li hanno quasi sicuramente suo figlio e quel grosso ruffiano nero del suo servo ovambo. E senza le guide boscimane... » Alzò le spalle.

Blaine stese sulla roccia la giacca macchiata e impolverata di Lothar e cominciò a esaminare le cuciture, mentre Centaine lavava il braccio ferito e poi lo fasciava con le bende pulite della cassetta.

«Niente, signore», venne a rapporto Hansmeyer. «Abbiamo ispezionato ogni centimetro di roccia. Qua i diamanti non ci sono. »

« Molto bene, sergente. Ora bisogna portar giú questo straccione senza rompergli il collo. »

« Se lo meriterebbe. »

Blaine rise. « Chiaro, ma non vorremo mica rubare il mestiere al boia, no? »

Nel giro di un'ora erano pronti a muoversi. Lothar De La Rey era stato caricato su una barella a traino costruita con rami di mopani e attaccata all'ultimo cavallo rimasto, su cui montava il soldato ferito, con le schegge di bomba ancora nella schiena e nella spalla.

Centaine si attardò ai piedi del kopje mentre la colonna si avviava ancora una volta a nord, verso il fiume. Blaine tornò indietro e le si mise a fianco.

Le prese la mano e lei sospiro appoggiandosi piano alla sua spalla. « Oh, Blaine, per me moltissime cose sono finite qui, in queste desolazioni dimenticate da Dio, su questo pezzo di roccia bruciato dal sole. »

« Credo di poter capire cosa significhi la perdita di tutti quei diamanti. »

« Dici? Io non credo, invece. Credo di non riuscirci ancora nemmeno io. Tutto è cambiato... anche il mio odio per Lothar... »

« C'è ancora una possibilità di recuperare le pietre. »

« No, Blaine. Tu e io sappiamo che non c'è nessuna possibilità. I diamanti sono perduti. »

Non cercò di negarlo, offrendole false consolazioni.

« Ho perso tutto, tutto quello per cui avevo lavorato tanto per me e per mio figlio. Non resterà niente. »

« Non immaginavo che... » Si interruppe e la guardò con pena e preoccupazione profonde. « E' chiaro che è un brutto colpo, ma definitivo... siamo proprio a questo punto? »

« Sí, Blaine », disse semplicemente. « Crollerà tutto. Non subito, non tutto in una volta, ma d'ora in poi l'edificio comincerà a sgretolarsi, e io mi affannerà invano a puntellarlo. Farò debiti, implorerò, cercherò di guadagnare tempo, ma le fondamenta mi sono crollate sotto i piedi. Un milione di sterline, Blaine, è una somma enorme.

Riuscirò a rimandare l'inevitabile forse per qualche mese, magari un anno, ma il crollo accelererà sempre piú, come capita ai castelli di carte, e alla fine tutto mi cascherà addosso. »

«Centaine, io non sono povero», cominciò. «Potrei aiutarti... » Lei si alzo in punta di piedi e gli mise l'indice sulle labbra.

« Una cosa sola potrei chiederti », gli sussurro. « Non denaro, ma conforto. In futuro ne avrò molto bisogno. Non sempre, solo quando le cose si faranno proprio grigie. »

« Ci sarò ogni volta che avrai bisogno di me, Centaine. Te lo prometto. Devi solo chiamare. »

« Oh, Blaine. » Si volto a guardarlo in viso. « Se soltanto!... »

« Sì, Centaine... se soltanto. » E la prese tra le braccia. Non c'e-ra colpa né paura, e perfino la terribile minaccia della rovina e della distruzione che incombeva su di lei sembrava arretrare quando lei era tra le sue braccia.

« Non m'importerebbe nemmeno di tornar povera, se ti avessi sempre accanto a me », gli mormorò, e lui non seppe cosa dirle. Disperato, si chinò e la fece tacere con un bacio.

Tra i missionari portoghesi di Cuangar uno era dottore. Fu lui ad amputare il braccio di Lothar De La Rey cinque centimetri sotto il gomito. Operò alla luce forte e bianca della lanterna Petromax, con Centaine che l'aiutava sudando sotto la mascherina da chirurgo, rispondendo in francese alle richieste del dottore, cercando di impedirsi di svenire dall'orrore al momento di segar l'osso, in mezzo alla puzza di cancrena e cloroformio, nella baracca di fango e canne col tetto di lamiera che faceva le veci di sala operatoria. Quando il medico ebbe finito, Centaine sgattaiolò nella latrina e vomitò tutta la pena e il ribrezzo. Sola nella capanna della missione che le era stata riservata, sotto la grande zanzariera spettrale, risentiva quel tanfo orribile e disgustoso in fondo alla gola. Sembrava averle impregnato pelle e capelli. Pregò di non dover puzzare mai piú così, e non vivere un'altra ora così straziante come quella in cui aveva assistito all'amputazione di un arto, alla trasformazione in invalido dell'uomo che un tempo aveva amato.

Vana preghiera, perché a mezzogiorno del giorno dopo il prete medico mormorò desolato: « J'ai manqué l'infection, il faut couper encore une fois ». L'infezione continuava a propagarsi e bisognava tagliare un altro pezzo di braccio.

La seconda volta, sapendo ormai cosa aspettarsi, fu per Centaine se possibile anche peggiore della prima. Dovette conficcarsi le unghie nel palmo della mano per impedirsi di svenire quando il prete afferrò la scintillante sega d'argento e tagliò l'omero biancheggiante di Lothar appena sotto la spalla. Nei tre giorni successivi l'uomo rimase in coma, quasi avesse già superato il confine tra la vita e la morte.

« Non posso dire niente », alzò le spalle il prete alle richieste di rassicurazione di Centaine. « E' nelle mani del Signore, ora. »

La sera del terzo giorno, quando entrò nella capanna dove giaceva Lothar, gli occhi di zaffiro giallo mossero nella sua direzione dentro le occhiaie peste, e vide scoccarvi un lampo di riconoscimento prima che le palpebre tornassero a ricoprirli.

Dovettero passare tuttavia altri due giorni prima che il prete permettesse a Blaine Malcomess di andare dal ferito a dichiararlo in arresto con la formula di rito.

« Il mio sergente si occuperà di lei finché padre Paolo non la dichiarerà in grado di affrontare il viaggio. Allora sarà condotto in barca giú per il fiume fino al posto di confine di Runtu, sotto stretta sorveglianza, e di lì per la strada fino a Windhoek dove sarà processato. »

Lothar lo ascoltava, pallido e scheletrito. Il moncherino, avvolto in un turbante di garza macchiata di tintura di iodio, sembrava un'ala di pinguino. Guardava Blaine senza espressione.

« Ora, De La Rey, lei non ha certo bisogno che le spieghi io che nella sua situazione sarà fortunato se riuscirà a evitare la forca. Ma può assicurarsi una certa clemenza se ci dice dove ha nascosto i diamanti, o che cosa ne ha fatto. »

Attese quasi un minuto, cercando di non irritarsi per il freddo sguardo giallo che Lothar gli rivolgeva.

« Capisce cosa sto cercando di dirle, De La Rey? » continuò poi, per rompere il silenzio. Lothar si girò dall'altra parte e guardò fuori della finestra che dava sulla riva del fiume.

« Credo che lei sappia che sono il governatore del territorio. Ho dunque il potere di rivedere il verdetto, e una mia raccomandazione di clemenza sarebbe quasi certamente seguita dal guardasigilli. Non faccia lo stupido, rinunci ai diamanti. Non le serviranno a niente là dove sta andando, e in cambio io le garantisco la vita. »

Lothar chiuse gli occhi.

« Molto bene, De La Rey. Allora ci siamo capiti. Non si aspetti nessuna pietà da me. » Chiamò il sergente Hansmeyer. « Sergente, il prigioniero non ha privilegi, nemmeno uno. Dev'essere tenuto sotto sorveglianza giorno e notte, ventiquattr'ore su ventiquattro, fino al giorno della consegna all'autorità preposta, a Windhoek. La considero direttamente responsabile, chiaro7 »

« Signorsì. » Hansmeyer era sull'attenti.

« Non se lo faccia scappare, Hansmeyer. Ci tengo, a questo qua. Ci tengo parecchio. »

Blaine uscì dalla capanna, e raggiunse Centaine fino al setengi coperto in riva al fiume dove sedeva. Si lasciò cadere su una sedia da campo accanto a quella di lei e si accese un sigaro. Inalò il fu-mo, lo tenne dentro un momento e poi lo soffiò fuori forte e con rabbia.

« E' un tipo intransigente », disse. « Gli ho offerto la mia personale promessa di clemenza in cambio dei tuoi diamanti, ma non si è nemmeno degnato di rispondere. Non ho l'autorità di offrirgli un'amnistia totale ma, se potessi, credimi, non esiterei. Cosí come stanno le cose, però, non c'è nient'altro che io possa fare. » Aspirò ancora dal sigaro e alzò lo sguardo sul gran fiume verde. « Giuro che la pagherà per quello che t'ha fatto... pagherà fino in fondo. »

« Blaine. » Gli posò la mano sull'avambraccio muscoloso. « Il rancore è un sentimento troppo meschino per un uomo della tua statura. »

La sogguardò di sbieco e, nonostante la rabbia, ghignò. « Non mi attribuisca troppa nobiltà, madonna. Sono tante cose, ma non un santo. »

Quando sogghignava così sembrava un ragazzo. Benché gli occhi verdi scherzassero meno, le orecchie a sventola intenerivano al massimo.

« Messere, uno di questi giorni sarà divertente tentare altrimenti i limiti della sua santità... »

Scoppiò a ridere, deliziato. « Proposta spudorata ma interessante! » Poi tornò serio. « Centaine, tu sai che non avrei potuto permettermi questa spedizione. I miei doveri giacciono trascurati da troppo tempo, e incorrerò nella giustificatissima ira dei miei superiori di Pretoria. Debbo quindi tornare in sede il piú presto possibile. Mi sono accordato con padre Paolo per qualche canoa e dei rematori che ci conducano a valle fino al posto di confine di Runtu.

Laggiú spero di potermi procurare un camion della polizia. Hansmeyer e i soldati resteranno qui a fargli la guardia finché De La Rey non potrà affrontare il viaggio. »

Centaine annuí. « Sì, anch'io devo tornare per cominciare a tap-pezzare qualche crepa. »

« Potremmo partire domani all'alba. »

« Blaine, prima di andare vorrei parlare a Lothar... voglio dire, a De La Rey. » Quando lo vide esitare, proseguì persuasiva: « Pochi minuti sola con lui, ti prego, Blaine, è importante per me ».

Centaine si fermò sulla soglia della baracca per far abituare gli occhi alla penombra.

Lothar era seduto sul letto, a petto nudo, con una coperta dozzi-nale sulle gambe. Il suo corpo era magro e pallido: l'infezione l'aveva divorato, e gli si potevano contare le costole.

« Sergente Hansmeyer, può lasciarci soli un momento? » chiese Centaine, e si spostò per lasciarlo passare.

Passando, Hansmeyer le assicurò che sarebbe rimasto a portata di voce.

Nel silenzio che seguí Centaine e Lothar si guardarono negli occhi, e fu lei che cedette e parlò per prima.

« Se volevi rovinarmi ci sei riuscito », gli disse, e lui rispose agitando il moncherino, un gesto insieme patetico e osceno.

« Chi è che ha rovinato l'altro, Centaine? » le chiese, e lei abbassò gli occhi.

« Non vuoi ridarmi almeno parte di quello che mi hai rubato? »

gli chiese lei. « In nome di quello che abbiamo condiviso tanto tempo fa? »

Lui non rispose, ma alzò la mano a toccare la vecchia cicatrice che aveva sul torace. Centaine sussultò, perché gliel'aveva fatta lei sparandogli con una Luger al tempo della delusione e della ripulsa.

« Ce li ha il ragazzo, i diamanti, vero? » gli chiese. « Il tuo... »

stava per dire come al solito « il tuo bastardo », ma si fermò in tempo e disse: « Tuo figlio ».

Lothar continuò a tacere e lei continuò d'impulso: « Manfred, nostro figlio ».

« Non avrei mai pensato di sentirtelo dire », commentò lui, senza nascondere il piacere che gli faceva. « Ti ricorderai che è nostro figlio, concepito con amore, anche quando sarai tentata di distruggere lui pure? »

« E come puoi pensare che farei una cosa simile? »

« Perché ti conosco, Centaine »

« No », scosse violentemente la testa. « Tu non mi conosci. »

« Se ti attraverserà la strada lo distruggerai », disse Lothar tranquillamente

« Lo credi davvero? » Lo fissava. « Mi credi davvero casi spietata, così vendicativa, da rivalermi sul mio stesso figlio? »

« Non l'hai mai riconosciuto come tale. »

« Adesso sì. Negli ultimi minuti me l'hai sentito fare piú di una volta. »

« Mi stai promettendo che non gli farai del male? »

« Io non devo prometterti niente, Lothar De La Rey. Lo sto solo dicendo: non farò del male a Manfred. »

« E naturalmente ti aspetti in cambio qualche cosa da me », sospirò, tirandosi ancora un pò su. Respirava con una certa difficoltà, sudando nello sforzo di combattere la debolezza fisica. Il suo sudore, nella baracca piccola e buia, aveva un odore acre e rancido.

« Mi offriresti qualche cosa in cambio? » gli chiese pacatamente Centaine.

« No », rispose lui. « Niente! » E tornò ad appoggiarsi all'indietro, esausto ma ancora capace di sfida. « E adesso fammi sentire co-me ritiri la tua promessa. »

« Non ho fatto nessuna promessa », disse lei con calma. « Ma, ti ripeto: Manfred, nostro figlio, non ha niente da temere da me. Non farò mai niente per nuocergli deliberatamente. Inutile precisare che questo non vale invece per te. »

Si voltò e disse ad alta voce: « Grazie, sergente, abbiamo terminato ».

« Centaine... » gridò debolmente Lothar quando lei fu sulla soglia. Voleva dirle: « I tuoi diamanti sono in una crepa in cima a quella collina », ma quando lei si voltò si morse la lingua e disse soltanto: « Addio. Centaine. E' finita, finalmente ».

Il fiume Okavango è uno dei piú belli dell'Africa. Nasce sui rilievi dell'altopiano angolano, sopra i milletrecento metri, e scorre verso sud-est con tale impeto e tanta abbondanza di acque verdi che sembra destinato a raggiungere l'Oceano. Invece muore interrato.

Dapprima forma le sue cosiddette paludi, una vasta zona di limpide lagune contornate di papiri e punteggiate da amene isolette su cui crescono palme fruttifere e fichi selvatici: e poi riemerge, ma è l'ombra di se stesso. Rivolo inebetito ed esausto, svapora sparendo per sempre non appena entra nelle sabbie eterne del desolato Kalahari.

Il tratto di fiume che Centaine e Blaine dovevano discendere era l'ultimo prima delle paludi, ossia quello dove la magnificenza dell'Okavango è massima. La loro imbarcazione era di quelle chiamate makaro dagli indigeni: una canoa scavata in un tronco, lunga un pò piú di sei metri, dallo scafo tondeggiante ma non perfettamente dritto.

« Il gufo e la pattina vanno in mare in una bella barca a forma di banana », citò Blaine e Centaine si mise a ridere un pò nervosa, finché non vide con i suoi occhi con quanta maestria i vogatori indigeni sapevano condurre la piroga sbilenca.

Erano due simpatici giganti, neri come il carbone, della tribú ri-vierasca. Avevano l'agilità e l'equilibrio di due ginnasti, e il loro corpo era snello e saldo come quello di una statua greca per l'esercizio di una vita alla pagaia e alla lunga pertica da spinta. Stavano uno a prua e l'altro a poppa, intonando il loro melodioso canto di lavoro e governando la stretta e instabile imbarcazione con agio rilassato e ormai quasi istintivo.

A mezza barca Blaine e Centaine dondolavano seduti su cuscini di pelle d'antilope imbottiti di fiocchi di papiro. La strettezza dell'imbarcazione li costringeva a sedere come in tandem, con Blaine davanti col fucile in mano per scoraggiare eventuali approcci da parte dei numerosi ippopotami che infestavano il fiume. « E' l'animale di gran lunga piú pericoloso dell'Africa », diceva a Centaine.

« E i leoni, gli elefanti e i serpenti velenosi? » ritorse lei.

« Il vecchio ippo ne ammazza due per ogni vittima di tutte le altre specie messe assieme. »

Era il primo giro che Centaine faceva da quelle parti. Essendo una creatura del deserto, non avvezza ai fiumi e ai laghi, restava quasi incredula di fronte all'enorme, sterminata vita che alimentavano. Blaine, invece, conosceva benissimo questo fiume. Ci era già stato con il corpo di spedizione del generale Smuts nel 1915, e poi ci era tornato spesso, a caccia o per studiare la fauna della zona. Sembrava conoscere ogni animale, ogni uccello, ogni pianta, e sapeva centinaia di storie, sia vere sia leggendarie, con cui la intratteneva divertendola molto.

L'umore del fiume cambiava continuamente: ora si stringeva tra alte rive rocciose e sospingeva la lunga canoa come una catapulta. I rematori la guidavano tra spaventosi denti di roccia emergenti dalla corrente con pochi abili tocchi di pagaia, facendola atterrare (se così si può dire) nelle pozze turbinose sottostanti, in un trionfo di spruzzi e di schiuma. Ed ecco subito un'altra strettoia, dove il suo stesso impeto modellava l'acqua in onde che sembravano ferme e cristallizza-te in vetro verde di Murano. Centaine sussultava come sull'ottovo-lante, tra atterrita ed esilarata. Infine sbucarono in un ampio slargo dove il fiume si distendeva fra isolette, sabbioni e coste basse che ospitavano sterminati branchi di bufali, bestie enormi e apparente-mente molto pigre, nere come l'inferno e incrostate di fango secco.

Le corna grandi e appuntite si curvavano malinconicamente sopra le orecchie a trombetta. I bufali, in acqua fino a mezza pancia, si vol-tavano a guardarli incuriositi alzando il muso nero con un'espressione addirittura comica.

« Oh, Blaine! Che animali sono quelli là? E' la prima volta che li vedo. »

« Lechwe. Piú a sud di cui non se ne trovano. »

C'erano vaste mandrie anche di queste robuste antilopi d'acqua, dai mantelli rossi e arruffati, la testa che arriva al petto di un uomo e le lunghe corna armoniosamente ricurve. Le femmine, prive di corna, avevano sul capo una peluria morbida da animale di pezza.

Erano mandrie così sterminate che quando si allontanarono dagli uomini fecero ribollire tanto le acque da produrre il rumore di una vaporiera che passi lontano.

Su quasi tutti gli alberi piú alti in riva al fiume si notavano coppie di aquile pescatrici dalla testa bianca che splendeva al sole. Al silenzioso passaggio del mukoro questi uccelli stridevano in maniera davvero inquietante, gettando il capo all'indietro.

Sui bianchi sabbioni risaltavano le sagome antidiluviane dei coccodrilli, quei sauri tanto brutti e cattivi. Si alzavano sulle zampacce goffe e a fatica si trascinavano in acqua, dove s'immergevano filando poi come siluri, lasciando emergere soltanto le scagliose arcate sopraccigliari .

Nell'acqua bassa colpirono Centaine strani ammassi di macigni tondeggianti punteggiati di rosa. Non li individuò per quello che erano davvero finché Blaine non le disse:

« Guarda! » e i rematori eseguirono una rapida diversione. C'era un bestione che aveva tirato fuori una testa grossa come un barilotto di birra con due occhi rossi e un'enorme bocca rosa picchiettata di eburnei dentoni gialli, accogliendoli con un mugghio simile alla risata sardonica di un dio pazzo.

Blaine alzò leggermente il fucile. « Non farti ingannare dalla gio-vialità. Non è vero che si diverte », disse a Centaine mettendo il colpo in canna.

Proprio in quella l'ippopotamo maschio partì alla carica nell'acqua bassa, sollevando spruzzi giganteschi e diramando ai quattro venti la sua rauca e minatoria risata. Apriva e chiudeva continuamente la bocca, manovrando a tagliola i lunghi e ricurvi denti d'avorio i cui margini affilatissimi potevano tranciare come niente fosse non solo le piú robuste canne di papiro, ma anche le fiancate dei mukoro, per non parlare di qualche incauto nuotatore: in men che non si dica lo avrebbero tagliato a metà.

Il mukoro partì di scatto sotto la possente spinta degli accorti barcaioli, ma l'ippopotamo nuotava sempre piú forte. Blaine balzò in piedi cercando di restare in equilibrio malgrado le fiondate dei rematori. Imbracciò il fucile e fece rapidamente fuoco diverse volte.

Centaine fu investita dallo spostamento d'aria e si voltò aspettandosi di vedere il bestione tutto insanguinato e sforacchiato dalle pallottole. Ma Blaine aveva mirato sopra la testa. Le orecchie setolose vi-bravano sentendo frullare i proiettili poco piú in alto come ali di passero, e l'ippopotamo interruppe la carica, si acquattò a fior d'acqua e rimase a vedere sbattendo gli occhietti porcini. Il mukaro poté allontanarsi senza problemi, mentre l'ippopotamo maschio si immergeva in un gran turbine di acque verdi e scompariva come imbarazzato dal proprio fallimento.

« Tutto bene, Centaine? » Blaine abbassò il fucile.

« Sì, ma che fifa », disse lei, cercando di non mostrarla troppo almeno nel tono di voce.

« Oh, non era cattivo come sembrava. Era piú scena che voglia di ammazzarci. » Le sorrise.

« Sono contenta che tu non l'abbia ammazzato. »

« Non c'era ragione di trasformare il vecchio in una carcassa pu-trefatta di quattro tonnellate, né di lasciare vedove le sue trenta mogli grasse. »

« E' per quello che ci ha attaccato, per proteggere le mogli? »

« Probabilmente, ma non si può mai essere sicuri di niente con gli animali selvaggi. Forse una delle sue compagne è incinta, oppure ha qualche brutto ricordo degli uomini, o forse oggi era solo di cattivo umore. »

La sua calma nelle situazioni d'emergenza l'aveva impressionata quasi come la sua umanità nel risparmiare la pericolosa bestia.

« Solo le scolarette adorano i loro eroi », si rammentò giudizio-samente mentre la canoa proseguiva, e si scoprì a osservare la lar-ghezza delle spalle di Blaine e il suo modo di atteggiare la testa sopra quelle. I suoi capelli scuri erano tagliati corti sulla nuca, e il collo era forte ma non taurino, piacevolmente liscio e proporzionato: solo le orecchie erano troppo grandi e a sventola. Attraverso le punte ro-sa traspariva la luce. Provò una voglia quasi irresistibile di chinarsi a baciarlo sulla pelle morbida dietro l'orecchio, ma si controllò ridacchiando.

Lui si voltò e le chiese con un sorriso: « Cosa c'è di tanto divertente? »

«Una ragazza si sente sempre debole e ridanciana quando il Principe Azzurro l'ha appena salvata da un drago dal fiato di fuoco. »

« Creature mitiche, i draghi. »

« Non sfottere », ribatté lei. « Qui tutto è possibile, perfino principi e draghi. E' la terra del Mai, dove dietro ogni angolo ti aspettano le fate e babbo natale. »

« Lo sai che sei un pò matta? »

« Sí che lo so », ammise lei. « E ho il dovere di avvertirti che la mia malattia è infettiva e contagiosa. »

« L'avvertimento mi giunge troppo tardi. » Scosse tristemente il capo. « Credo di averla già beccata. »

« Bene », disse lei, e cedendo alla voglia che aveva gli diede un bacino dietro l'orecchio.

Lui rabbrividì teatralmente. « Guarda cosa mi hai fatto! » Si voltò a mostrarle la pelle d'oca che gli era venuta sugli avambracci.

« Devi promettermi di non farlo mai piú. E' troppo pericoloso. »

« Come te, non faccio mai promesse », disse Centaine, cogliendo il lampo di rimpianto e colpa nei suoi occhi e pentendosi subito di quella inopportuna allusione alla sua renitenza a prendere con lei un impegno di carattere globale: aveva rotto l'incanto.

Stavano passando davanti a un'altra riva di creta rossa, ma di un rosso così chiaro da apparire quasi arancione, con miriadi di fori perfettamente tondi, e una nuvola viva e turbinante di uccelli dai meravigliosi colori, che andavano e venivano dai buchi dove avevano il nido.

« Mangiavespe rossi », le disse Blaine, condividendo la meraviglia di lei davanti a quella profusione di colori accesi, rosa fiammeg-giante e turchese, code e punte delle ali lunghissime e acuminate co-me stiletti. « Sembrano uccelli così ultraterreni che quasi quasi comincio a crederti: siamo passati attraverso lo specchio. »

Dopo parlarono poco, ma misteriosamente anche il silenzio sembrava avvicinarli sempre piú. Si toccarono solo un'altra volta, quando Centaine gli diede una carezza sul collo, e per un attimo lui le co-prì la mano con la sua, un fuggevole momento di tenerezza.

Poi Blaine conferì brevemente con il capo dei rematori.

« Cosa c'è, Blaine? » gli chiese lei.

« Gli ho detto di scegliere un posto buono per accamparci stanotte. »

« Non è ancora presto? » ribatté Centaine guardando il sole.

« Si », ammise lui girandosi a guardarla con un'espressione un pò melensa. « Ma il fatto è che sto cercando di battere il record del percorso Cuangar-Runtu. »

« Che record? »

« Quello del viaggio piú lento. »

Blaine scelse una delle isole piú grandi. Il sabbione si piegava su se stesso creando un'insenatura segreta, una laguna limpida e verde schermata da alti papiri flessuosi. Mentre i due rematori raccoglievano legna secca per il fuoco e tagliavano papiri per farsene un riparo per la notte, Blaine prese il fucile.

« Dove vai? » gli domandò Centaine.

« A vedere se trovo un'antilope per cena. »

« Oh, Blaine, per piacere non farlo! Non ammazzare niente oggi, è una giornata speciale! »

« Non sei stufa di carne in scatola? »

« Per piacere », insistè lei, e Blaine posò l'arma. Poi, scuotendo la testa e sorridendo fra sè, andò a controllare che le capanne di fra-sche di papiro fossero pronte e i giacigli riparati dalla zanzariera.

Soddisfatto, Blaine mandò via i rematori, che se ne andarono col mukoro.

« Dove vanno? » gli domandò Centaine vedendoli filare giú per il fiume.

« Li ho mandati ad accamparsi sulla riva », rispose Blaine. Entrambi tacquero, senza piú guardarsi, improvvisamente intimiditi e acutamente consapevoli della loro solitudine dopo la partenza della canoa.

Infine Centaine si riscosse e tornò al campo. S'inginocchiò vicino alle borse da sella che costituivano il suo unico bagaglio e senza guardare Blaine gli disse: « E' dall'altro giorno che non faccio il bagno. Andrò a farmi una nuotata nella laguna ». Aveva in mano la saponetta gialla.

« Hai fatto testamento? » le chiese lui.

« Cosa intendi dire? »

« Questo è il fiume Okavango, Centaine. I coccodrilli si pappano le ragazzina come antipasto. »

« Potresti far la guardia col fucile... »

« Lietissimo di servirti... »

« ... e gli occhi chiusi, naturalmente. »

« Allora è inutile, non ti pare? »

Blaine esplorò le rive della laguna e trovò sotto un roccione nero una pozza di acqua bassa, dove un eventuale coccodrillo in arrivo sarebbe spiccato nettamente contro il fondo di sabbia bianca. Salì cima al roccione e si accomodò con il Lee-Enfield senza sicura in grembo.

« Adesso dammi la parola d'onore che non guardi... » gli gridò lei da sotto. Blaine si concentrò su un branco di oche che volavano contro il sole al tramonto, ma nemmeno il frullo delle loro ali pesanti riuscí a impedirgli di sentire distintamente il fruscio degli abiti di Centaine che cadevano.

Senti lo sciabordio dell'acqua che l'accoglieva, il suo gemito di piacere e poi: « Bene, adesso puoi stare attento ai coccodrilli ».

Era seduta sul fondo sabbioso, con la sola testa fuori dell'acqua. Gli voltava la schiena; si era avvolta i capelli a crocchia sulla nuca.

« Ah, che fresco! E' veramente un paradiso. » Si girò a sorrider-gli, e lui vide il lampo della sua carne bianca sott'acqua e pensò di non riuscire a dominare il proprio desiderio. Sapeva che stava deliberatamente provocandolo, ma non riusciva né a resisterle né a ignorarla.

Isabella Malcomess era caduta da cavallo cinque anni prima, e da allora non si erano piú conosciuti come un uomo e una donna.

Una volta ci avevano provato, ma a entrambi riusciva intollerabile ripensare alla penosa umiliazione che avevano patito in quell'occasione.

Lui era un uomo sano di corpo e dotato di una gran gioia di vivere. Gli ci era voluta una grande energia e risolutezza per adattarsi alla vita innaturale e monastica che conduceva. Ma alla fine ci era riuscito, sicché adesso era del tutto impreparato allo scatenamento selvaggio di tutti i suoi desideri e istinti repressi.

« Chiudi ancora gli occhi! » gli gridò allegramente. « Adesso mi alzo e mi insapono un po'! »

Non riuscí nemmeno a risponderle. Stentò perfino a trattenere il mugolio che gli era nato in gola, e rimase seduto fissando il fucile che aveva in mano.

Centaine emise un urlo di terrore. « Blaine! »

Lui saltò in piedi. Centaine era ritta con l'acqua che, smeraldi-na, le lambiva le natiche. Il suo corpo scultoreo, che piú si affinava nella vita snella, risultava irrigidito in una plastica posa di terrore.

Il coccodrillo stava arrivando dalle acque profonde spinto dalle morbide falcate della lunga coda scagliosa. Con il muso spaventoso e corazzato creava nell'acqua ferma un'onda a « V ». Il rettile era lungo quasi come il mukoro, cioè sei metri dalla punta del naso a quella della coda.

« Scappa, Centaine, scappa! » ruggí Blaine, e lei si girò e si mise a correre nella sua direzione. Ma il rettile filava come un cavallo al galoppo, lasciando una scia turbinante, e Centaine si frapponeva impedendo a Blaine di far fuoco.

Questi saltò giú dalla roccia ed entrò in acqua fino al ginocchio, correndole incontro col fucile alto sopra la testa per non bagnarlo.

«Giú! » le gridò. «Buttati giú! » Centaine eseguí immediatamente, tuffandosi verso riva, mentre lui sparava senza por tempo in mezzo in quanto l'enorme sauro stava ormai per raggiungerla.

Il proiettile schiattò sulle scaglie corazzate del cranio mostruoso. Il coccodrillo si inarcò, inondando e spruzzando Blaine e Centaine. Quindi si rizzò sulla gran coda, tirando zampate all'aria con le anteriori e mostrando il ventre giallastro coperto di scaglie a disegni simmetrici, il grugno lungo e spigoloso puntato verso il cielo.

Poi con un verso tra il ringhio e il grugnito si arrovesciò in acqua.

Blaine tirò in piedi Centaine e circondandole la vita con un braccio arretrò verso la spiaggia, sempre sorvegliando il bestione col fucile impugnato come una pistola. Col cranio e il cervello primitivo trapassato, il coccodrillo si dimenava in spaventose convul-sioni. Rotolava girando in tondo senza piú controllo muscolare, ad-dentando l'aria e l'acqua vaporizzata, e sbattendo i dentoni giallastri come un cancello di ferro mosso dal vento.

Blaine cacciò indietro Centaine e imbracciò di nuovo il fucile.

Le pallottole tempestarono ancora la corazza scagliosa, strappando brandelli di pelle e d'osso, mentre il rettile agitava sempre piú debolmente la coda. Si immerse, raggiunse l'acqua profonda e scomparve alla vista dopo un'ultima riemersione pigra, come di gavi-tello.

Centaine tremava ancora di terrore, battendo i denti cosí forte che non riusciva a parlare. « Orribile, oh che terribile mostro! » Si strinse al petto di Blaine rendendo ancora piú indecifrabile il proprio balbettio.

«Va tutto bene adesso. » Blaine cercava di calmarla. «Sta, tranquilla adesso, il pericolo è passato. Se n'è andato. » Appoggiò il fucile alla roccia e la strinse tra le braccia.

La carezzava per tranquillizzarla, dapprima senza passione, co-me avrebbe fatto con una delle sue bambine svegliate da un incubo; ma ben presto divenne acutamente consapevole della serica morbidezza della sua pelle nuda e bagnata. Sentiva tutti i piani della sua schiena, le curve dolci del muscolo da una parte e dall'altra della spina dorsale, e non riuscí a fare a meno di sfiorare con la punta dell'indice la successione delle vertebre. Sembrava una collana di perle sottopelle: la segui fin là dove scompariva nel solco tra le piccole natiche sode.

Adesso si era tranquillizzata un pò, a parte gli ansiti che continuavano a scuoterla: alla carezza di Blaine inarcò la schiena come fanno i gatti, inclinando il bacino verso di lui, che l'afferrò per le natiche e l'attirò decisamente a se. Lei non resistette affatto, ma gli andò incontro con tutto il corpo. « Blaine. » Disse il suo nome e al-zò il volto.

Blaine la baciò selvaggiamente, con la rabbia di un uomo d'onore che si scopra incapace di rispettare un voto, e s'incollarono respirando ognuno il fiato dell'altro, attorcigliando le lingue, bevendosi e frugandosi così in profondità da dover stare attenti a non soffocarsi a vicenda col loro ardore.

Centaine si ritrasse. « Ora », balbettò, « deve accadere ora. » Lui la prese tra le braccia come una bambina e corse come il vento sulla sabbia verso la capanna di papiri. Cadde in ginocchio vicino al giaciglio imbottito di foglie e la depose delicatamente sulla coperta che lo ricopriva.

« Voglio guardarti », farfugliò Blaine, accennando a rialzarsi, ma lei, contorcendosi, riuscí ad afferrarlo.

« Un'altra volta... non posso piú aspettare... per piacere, Blaine.

Oh Dio, fallo subito! » Mentre esprimeva questa invocazione già stava sbottonandogli la camicia, resa goffa dalla fretta, disperata per la frenesia.

Blaine si cavò la camicia e la gettò via, ed ecco che lei lo baciava ancora, tappandogli la bocca, mentre entrambi altercavano con la cintura dei pantaloni, impedendosi a vicenda, ridendo e ansimando, scontrandosi col naso, morsicandosi labbra e denti.

« Oh Dio, sbrigati... sbrigati, Blaine... »

Si strappò da lei e saltellando su una gamba sola cercò di liberarsi dei calzoni bagnati e aderenti. Rischiò di finire a gambe all'aria sulla sabbia bianca, e lei scoppiò a ridere forte. Era cosí buffo e bello e ridicolo, e lei lo desiderava così tanto che se ci avesse messo un attimo di piú qualcosa nel suo corpo certo sarebbe esploso, ucciden-dola - ne era convinta - sul colpo.

« Oh dai, Blaine, vieni, fa, in fretta. »

E finalmente fu nudo: mentre le saliva sopra lei afferrò la spalla con la mano e si inarcò, tirandoselo addosso, allargando le ginocchia e alzandole, mentre con l'altra mano lo cercava, lo trovava e lo guidava dentro di sé.

« Oh Blaine, sei cosí., oh sí, sí, cosí, io non... voglio gridare... »

« Grida! » l'incoraggiò lui, cavalcandola con frenesia. « Qui nessuno ti sente. Grida per tutti e due! »

E lei aprí la bocca e diede fiato a tutta la sua solitudine, a tutto il suo desiderio, a tutta la sua gioia incredula in un crescendo sempre piú acuto cui lui alla fine si uní, urlando pazzamente insieme a lei nell'attimo piú completo e soverchiante dell'esistenza di Centaine.

Dopo, lei pianse in silenzio contro il suo petto nudo, mentre Blaine la guardava perplesso, preoccupato e intenerito al tempo stesso.

« Sono stato troppo rude... perdonami! Non volevo farti male. »

Ma lei scosse la testa e inghiotti le lacrime. « No, no, non mi hai fatto male, è stata la piú bella... »

« E allora perché piangi? »

« Perché tutto quel che c'è di buono nella vita sembra cosí fuggevole... piú è meraviglioso e prima passa, mentre i tempi grami sembrano non finire mai. »

«Non pensarci, piccola mia. »

« Non so come farò a vivere senza di te. Prima era terribile, ma adesso lo sarà mille volte di piú. »

« Anch'io non so come farò a trovar la forza di separarmi da te », sussurrò annuendo. « Sarà la cosa piú difficile della mia vita. »

« Quanto tempo ci resta? »

« Un altro giorno. Poi saremo a Rundu. »

« Quand'ero bambina mio padre mi regalò un pezzo d'ambra che racchiudeva un insetto. Vorrei poter conservare nello stesso mo-do questo momento, catturarlo per sempre nell'ambra preziosa del nostro amore. »

La loro separazione fu un processo graduale, non un misericordioso colpo di ghigliottina. Nei giorni successivi dovettero subire la lenta intrusione delle cose e della gente estranea, una agonia penosa e senza scampo che patirono fino in fondo come bevendo da un cali-ce amaro.

Dalla mattina in cui raggiunsero il posto di confine a Rundu e sbarcarono a parlare col sergente di polizia che lo comandava, parve loro di dover trattare ininterrottamente con degli estranei, di dover stare attenti a ogni sguardo e a ogni sorriso che si scambiavano, a ogni parola e a ogni carezza rubata, il che non faceva altro che renderli ancora piú consapevoli della prossima separazione. Solo quando il polveroso camion della polizia si affacciò dall'altipiano e imboccò l'ultima discesa per Windhoek il penoso processo ebbe termine.

Il mondo li aspettava: Isabella, patetica e tragica nella sua carrozzella, e le figlie vivaci, ridenti e sbarazzine come elfi, che si disputavano gli abbracci di Blaine; il capo della polizia e una miriade di piccoli funzionari, giornalisti e fotografi; Twentyman-Jones e Abe Abrahams, Sir Garry e Lady Courteney, che si erano precipitati a Windhoek appena avevano avuto notizia della rapina, e pile intere di telegrammi di solidarietà e di congratulazioni. Ce n'erano centinaia, tra cui spiccavano quelli del primo ministro e dell'Ou Baas, il Vecchio Boss, ovvero il generale Smuts, oltre a quelli degli amici, dei conoscenti e dei corrispondenti d'affari.

Pure, Centaine si sentiva distaccata da tutto quel chiasso. Assisteva agli eventi come attraverso una cortina che confondeva le forme e ovattava i rumori, una cortina quasi onirica al di là della quale una parte di lei continuava a discendere un fiume smeraldino, a far l'amore nella notte tiepida e dolce con le zanzare ronzanti invano oltre la zanzariera, a passeggiare mano nella mano con l'uomo che amava, un uomo alto, forte e gentile dai teneri occhi verdi, con le mani di un pianista e delle buffe orecchie a sventola.

Dal vagone privato telefonò a Shasa e cercò di congratularsi pas-sabilmente con lui del fatto che l'avessero nominato capitano della squadra di cricket, e della sufficienza che aveva finalmente raggiunto in matematica.

« Non so quando potrò tornare a Weltevreden, chéri. Ho tantissime cose a cui badare. Non abbiamo recuperato i diamanti. Dovrò trattare con la banca e prender nuovi accordi. Ma no, certo che no, sciocchino! Non siamo affatto diventati poveri, non ancora, comunque un milione di sterline sono una somma piuttosto alta da perdere, e poi ci sarà il processo. Sì, è un vero mascalzone, Shasa, ma non so se l'impiccheranno. Buon Dio, no! Non ci lascerebbero assistere... »

Due volte, in quel giorno di separazione, telefonò alla residenza nella speranza che rispondesse Blaine: ma era un'illusione. Due volte le rispose una donna, una segretaria o Isabella, e due volte riappese senza dire una parola.

Si rividero nella sede del governo, ossia nel suo ufficio, il giorno seguente. Blaine aveva indetto una conferenza stampa e in anticamera si affollavano numerosissimi giornalisti e fotografi. Ancora una volta era presente Isabella nella sua sedia a rotelle, con Blaine pre-muroso, e intollerabilmente bello, alle sue spalle. Ci volle tutta la capacità filodrammatica di Centaine per riuscire a stringergli la ma-no in maniera amichevole, e poi mettersi a scherzare coi rappresentanti della stampa, posando anche insieme a Blaine per le fotografie, senza avere un istante per goderselo a suo agio. Ma in seguito, tornando in macchina verso gli uffici della Courteney Mining and Finance Company, dovette sterzare in una strada laterale e fermarsi per riprendersi un pò. Non aveva avuto la possibilità di scambiare nemmeno una parola in privato con Blaine.

Abe la stava aspettando sulla porta d'ingresso della ditta e l'accompagnò di sopra. « Centaine, sei in ritardo. Ti aspettano da quasi un'ora nella sala del consiglio d'amministrazione, e non dimostrano neppure, a quel che mi risulta, soverchia pazienza. »

« E lasciamoli aspettare! » gli disse con una sicurezza artificiale.

« E' meglio che si abituino fin d'ora. » Erano i rappresentanti della banca, ovvero i principali creditori.

« Questa rapina li fa sudar freddo, Centaine. »

I consiglieri d'amministrazione della banca avevano chiesto di vederla dal primo istante che era ricomparsa a Windhoek.

« Dov'è Twentyman-Jones? »

« Stò insieme a loro: cerca di ammansirli. »

Abe le aprì davanti un grosso registro. « Ecco le scadenze dei pa-gamenti degli interessi. »

Centaine diede un'occhiata, ma le sapeva già a memoria. Poteva mettersi a spiattellare date, quote e tassi. Aveva già preparato nei dettagli la sua strategia, ma tutto era irreale e onirico, come un gioco di bambini.

« C'è qualcos'altro da sapere prima di entrare nella fossa dei leoni? » gli chiese.

« Un lungo cablo dei Lloyds di Londra. L'assicurazione non pa-ga perché non c'era la scorta armata. »

« Ce lo aspettavamo già », annuì Centaine. « Che ne dici, ci conviene fargli causa? »

« Non è una risposta da avvocato, lo so, ma ho la sensazione che sarebbe solo una perdita di tempo e denaro. »

« C'è altro? »

« Da parte della De Beers », disse Abe. « Un messaggio di Sir Ernest Oppenbeimer in persona. »

« Sta già fiutando il colpo, eh? » Sospirò, cercando di costringersi a interessarsene, ma invece pensava a Blaine. Lo vedeva chino sulla carrozzella della moglie. Scacciò a stento la sua immagine dalla mente e si concentrò su quanto le stava dicendo Abe.

« Sir Ernest è in arrivo da Kimberley. Sarà a Windhoek giovedí. »

« Guarda un pò che coincidenza », sorrise lei cinicamente.

« Chiede un appuntamento al piú presto possibile. »

« Ha fiuto da iena e occhi d'avvoltoio », disse Centaine. « Sente l'odore del sangue e distingue un animale morente da cento leghe. »

«Vuole la miniera H'ani, Centaine. Sono tredici anni che ci muore sopra. »

« Tutti quanti vogliono la miniera H'ani, Abe. La banca, Sir Ernest, e tutti gli altri rapaci. Ma dovranno vedersela con me. »

Si alzarono e Abe chiese: « Sei pronta? »

Centaine si guardò allo specchio, si aggiustò i capelli, si forbì le labbra con la punta della lingua, e di scatto tutto tornò nettamente a fuoco. Stava andando in battaglia, con la mente lucida, l'intelligenza acutizzata e una nuova sicurezza che si espresse in un gran sorriso fiducioso e protettivo rivolto a se stessa. Era nuovamente pronta.

«Andiamo! » disse, ed entrò a testa alta, con un'espressione quanto mai sicura di sé, nella gran sala del consiglio d'amministrazione dal lungo tavolo di legno pregiato e i lirici panorami del deserto affrescati da Pierneef sulle pareti.

« Vogliate scusarmi, signori », disse a voce alta e sonora, partendo immediatamente all'attacco e spiegando tutta la sua personalità e il suo sex-appeal. Vide gli interlocutori restarne colpiti e proseguì:

« Ma vi assicuro che ora sono a vostra completa disposizione per tutto il tempo che vorrete ».

Nel profondo c'era ancora in lei quel luogo vuoto e dolente che Blaine aveva riempito per pochi fuggevoli istanti, ma ora era fortifi-cato e munito, era di nuovo inespugnabile, e nel sedersi a capotavola ripeteva tra se come un mantra: « La miniera H'ani è mia e nessuno me la prenderà ».

Manfred De La Rey si muoveva nel buio con la stessa sicurezza degli altri due uomini che lo conducevano a nord. Il dolore e l'umiliazione di essere stato scacciato così da suo padre gli conferivano ora una risolutezza d'acciaio e un ardimento superiore. L'aveva chiamato « signorina », suo padre?

« Ma ormai sono un uomo », si disse, accelerando il passo per non farsi distanziare da Swart Hendrick. « Non piangerò mai piú.

Sono un uomo, e lo proverò ogni giorno che vivrò. Te lo proverò, papà. Se mi stai ancora guardando, non dovrai mai piú vergognarti di me. »

Pensò a suo padre solo e moribondo sulla cima della collina, e fu sopraffatto dal dolore. Nonostante la risolutezza nuova, le lacrime l'inondarono e gli ci volle tutta la sua forza di volontà per ricacciarle indietro.

« Sono un uomo, adesso. » Si concentrò su questo, e in verità era alto come un uomo ormai, quasi alto come Hendrick, e le gambe lunghe lo portavano avanti instancabilmente. « Ti renderò orgoglioso di me, papà. Te lo giuro. Te lo giuro su Dio. »

Per tutta quella lunghissima notte non rallentò il passo né emise un lamento. Quando raggiunsero il fiume, il sole aveva superato da poco la cima degli alberi.

Appena ebbero bevuto, Hendrick li fece ripartire verso nord. Seguirono un percorso strano: di giorno si allontanavano dal fiume, nascondendosi nelle rade foreste di mopani, e di notte tornavano a dissetarsi e proseguivano lungo la riva.

Dopo una dozzina di queste notti di marcia forzata Hendrick giudicò che non avessero piú a temere alcun inseguimento.

« Quando traverseremo il fiume, Hennie? » gli chiese Manfred.

« Non lo traverseremo », gli rispose Swart Hendrick.

« Ma il piano di mio padre era passare in territorio portoghese, andare da Alves De Santos, il mercante d'avorio, e poi proseguire per Luanda. »

« Già, quello era il piano di tuo padre », ammise Hendrick. « Ma tuo padre non è piú con noi. Lassú al nord non c'è posto per un negro un pò strano. I portoghesi sono ancora piú duri dei tedeschi, degli inglesi e dei boeri. Ci fregherebbero i diamanti, ci bastonereb-bero come cani e ci manderebbero a lavorare come schiavi. No, Manie, si torna indietro alla terra degli ovambo e ai fratelli della mia tribú, dove son tutti amici e si può vivere da uomini e non da animali. »

« La polizia ci prenderà », obiettò Manie.

« Nessuno ci ha visti. Tuo padre c'è stato bene attento. »

« Ma sanno che eri suo amico e verranno a cercarti. »

Hendrick sogghignò. «Tra gli ovambo non mi chiamo Hendrick, e mille testimoni giureranno che sono sempre rimasto con le mie bestie e non conosco nessun rapinatore bianco. Per i bianchi della polizia i negri sono tutti uguali, e poi ho un fratello, un fratello molto in gamba, che saprà senz'altro dove e come vendere i diamanti per noi. Con queste pietre posso comprarmi duecento bellissime bestie e dieci mogli belle grasse. No, Manie, andiamo a casa. »

« E che ne sarà di me, Hendrick? Io non posso mica venire con voi a vivere tra gli ovambo. »

« Per te ci sono un posto e un piano speciali. » Hendrick mise il braccio intorno alle spalle del ragazzo bianco, con gesto paterno.

« Tuo padre ti ha affidato a me, non devi aver paura di niente. Prima di lasciarti, ti metterò al sicuro. »

« Quando te ne andrai, Hendrick, io rimarrò solo. Non avrò piú nessuno. » Il negro non seppe che cosa rispondergli. Tolse il braccio dalla spalla del ragazzo e parlò bruscamente: « E' ora di ripartire, adesso. Abbiamo ancora tantissima strada da fare ».

Quella notte lasciarono il fiume e tornarono a dirigersi verso sud-ovest, costeggiando le desertiche terre dei boscimani e mante-nendosi in zone un pò piú fornite d'acqua e vegetazione, ma sempre evitando i villaggi e gli incontri finché, venti giorni dopo aver lasciato Lothar De La Rey sulla collina fatale, seguendo la cresta boscosa di una catena di colline, sul far del giorno contemplarono dall'alto uno sparso villaggio ovambo.

Le capanne coniche dal tetto di paglia erano aggregate irregolar-mente a gruppi di quattro o cinque, ognuno chiuso da un recinto di vimini. In mezzo al villaggio c'era il recinto centrale del bestiame, circondato da uno steccato di pali. L'odore di legna bruciata giungeva a loro sui fili di fumo azzurrino, mescolandosi alla puzza di letame e al profumo delle focacce di mais che cuocevano sulla brace.

Alte risate di bambini e voci di donne erano melodiose come cinguettii d'uccelli. Distinsero gli sprazzi colorati dei vestiti delle donne che andavano a prendere l'acqua nel pozzo con gli orci di terracotta bilanciati in testa.

Tuttavia non si avvicinarono al villaggio. Si tennero nascosti oltre la cresta, spiando la presenza di eventuali estranei o qualunque altro segno di attività anormale. Hendrick e Klein Boy discutevano sommessamente di quello che vedevano accadere, interpretando ogni rumore che saliva dal villaggio, finché Manfred perse la pazienza.

« Che cosa stiamo aspettando, Hennie? »

« Solo l'antilone giovane è cosí stupida da saltare sventatamente nella trappola », bofonchiò Hendrick. « Scenderemo quando saremo sicuri. »

A metà del pomeriggio un pastorello guidò un gregge di capre su per la collina. Era tutto nudo se non per la fionda che portava attorno al collo. Hendrick fece un fischio sommesso.

Il bambino sussultò e si mise a guardare impaurito verso il loro nascondiglio. Poi, quando Hendrick fischiò ancora, si avvicinò cautamente. A un tratto il suo volto si illuminò di un sorriso e corse incontro a Hendrick.

Questi, ridendo, lo abbracciò sollevandolo da terra, mentre il bambino eccitatissimo non finiva di salutarlo con gran gioia.

« E' mio figlio », disse Hendrick a Manie, e poi fece al bambino delle domande ascoltando le risposte con la massima attenzione.

« Non ci sono estranei al villaggio », borbottò. « La polizia è stata qui a chiedere di me, ma adesso se ne sono andati. » Sempre col bambino in braccio li guidò giú per la discesa verso il piú grosso gruppo di capanne, ed entrò nel recinto. Il cortile era nudo e sgombro, e il cerchio di capanne aveva le entrate rivolte all'interno. C'erano quattro donne che lavoravano in gruppo, tutte vestite solo di una gonnella di cotonina colorata, di quelle portate in ogni angolo dell'Africa dai mercanti; erano accucciare sui talloni e cantavano sommessamente in coro, pestando i chicchi di mais nel mortaio di legno, coi seni nudi che sobbalzavano a ogni colpo dei lunghi paletti che usavano come pestelli al ritmo della loro canzone.

Una delle donne emise un gridolino, quando vide Hendrick, e gli corse incontro. Era una vecchia, tutta piena di rughe e sdentata, con la testa coperta da quella che sembrava pura lana bianca. Cadde in ginocchio e abbracciò le grandi e forti cosce di Hendrick, mugolando di gioia.

« Mia madre », disse Hendrick, sollevandola. Poi furono circondati da un nugolo di donne tutte contente e ciarliere, che dopo qualche momento Hendrick fece tacere e congedò con un gesto.

« Sei fortunato, Manie », grugní con un lampo di malizia negli occhi. « A te sarà concessa una moglie sola. »

Sulla soglia della capanna piú lontana l'unico uomo di quel kraal sedeva su un basso sgabello. Si era tenuto in disparte da tutta quell'eccitazione, e ora Hendrick andò da lui. Era molto piú giovane di Hendrick, e aveva la pelle piú chiara, quasi color del miele. Tuttavia i suoi muscoli erano stati forgiati e temprati da un duro lavoro fisico, e intorno a lui si distingueva chiaramente l'aura dell'uomo sicuro di se, che ha lottato ed e riuscito. Aveva anche una certa grazia, e lineamenti fini e intelligenti che gli conferivano un'espressione da giovane faraone. In grembo aveva un librone consunto, la Storia d'Inghilterra del Macaulay.

Salutò Hendrick con tranquilla riservatezza, ma il reciproco affetto era evidente al ragazzo bianco che li stava guardando.

« Questo è mio fratello minore: stesso padre, madri diverse. E'

intelligentissimo. Parla afrikaans e inglese molto meglio di me, e sa anche leggere. Il suo nome inglese è Moses. »

« Ti vedo, Moses. » Manie si sentiva un pò a disagio sotto l'esame di quegli occhi penetranti.

« Ti vedo, ragazzo bianco. »

« Non chiamarmi ragazzo », disse Manie, accalorato. « Non so-no un ragazzo. »

I due uomini si scambiarono un'occhiata e sorrisero. « Moses è caposquadra alla miniera H'ani », spiegò Hendrick in tono di chi getti un pò d'acqua sul fuoco, ma l'alto ovambo scosse la testa e rispose nel suo dialetto.

« Non piú, fratello maggiore. Sono stato licenziato oltre un mese fa. E così me ne sto qui seduto al sole a bere birra, leggere e riflettere, svolgendo cioè i compiti onerosi che costituiscono il dovere per un uomo. » Si misero a ridere, e Moses batté le mani e gridò imperiosamente alle mogli:

« Portate la birra. Non vedete che sete che ha mio fratello? »

A Hendrick fece piacere svestirsi degli abiti europei, rimettersi il tradizionale perizoma, e tornare a calarsi nella vita del villaggio. Era bello bere di nuovo la birra di sorgo, acida, effervescente, densa co-me una pappa d'orzo e fresca nelle ciotole di terracotta, parlando tranquillamente di selvaggina e bestiame, di conoscenti, amici e parenti, di morti e nascite e amori. Cosí passò un bel pò di tempo prima che si decidessero ad affrontare i pressanti argomenti che li interessavano.

« Si », annuí Moses. « La polizia è stata qui. Due cani dei bianchi di Windhoek, che dovrebbero vergognarsi di avere tradito la lo-ro tribú. Non erano in uniforme, ma avevano ancora addosso la puzza di polizia. Sono rimasti un bel pò di giorni, a far domande su un uomo chiamato Swart Hendrick: dapprima sorridendo amiche-volmente, e poi sempre piú irritati e minacciosi. Hanno picchiato diverse donne, anche tua madre... » Vide Hendrick irrigidirsi e stringere i denti e prosegui in fretta, « ... che è vecchia ma dura. E' abituata alle botte: nostro padre era un uomo severo. Nonostante le percosse, dunque, non conosceva Swart Hendrick, nessuno conosceva Swart Hendrick, e alla fine i cani della polizia se ne sono andati. »

« Torneranno », disse Hendrick, e il suo fratellastro annuì.

« Sì. Gli uomini bianchi non dimenticano mai. Cinque anni, dieci anni. A Pretoria hanno impiccato uno che aveva ucciso un tale venticinque anni prima. Torneranno. »

Bevvero a turno dalla scodella di birra, sorseggiandola con gusto e passandosi la ciotola nera.

« E così parlavano di una grande rapina di diamanti sulla strada della miniera H'ani, e nominavano il diavolo bianco con cui hai sempre combattuto e cavalcato, e con cui sei andato a pescare sulla grande acqua verde. Dicevano che eri con lui anche a rubare i diamanti, e che quando ti troveranno ti impiccheranno. »

Hendrick ridacchiò e contrattaccò. « Anch'io ho sentito strane storie di un tale che non mi è né sconosciuto né estraneo. Ho sentito dire che lui saprebbe vendere bene i diamanti rubati, perché dalle sue mani passano tutte le pietre che escono illegalmente dalla miniera H'ani. »

« Chissà chi ti avrà raccontato queste vili panzane », ridacchiò imbarazzato Moses, e Hendrick fece un cenno a Klein Boy. Il ragazzo andò a prendere la borsa di pelle che aveva nascosto e la depositò davanti a suo padre. Hendrick l'aprì e a uno a uno tirò fuori i pacchettini disponendoli in fila sulla terra battuta del cortile. Erano quattordici.

Suo fratello prese il primo pacchetto, sfoderò il coltello e tagliò il sigillo di ceralacca. « E' il marchio della miniera H'ani », osservò, tirando fuori con attenzione i diamanti. La sua espressione non cambiò minimamente nell'esaminare il contenuto. Mise da parte il pacchetto e passò al successivo. Non parlò finché non li ebbe aperti ed esaminati tutti per bene. Poi disse piano: «Morte. Qui c'è la morte. Cento, mille morti ».

« Sei capace di venderceli? » chiese Hendrick, e Moses scosse la testa.

« Non ho mai visto tante pietre così grosse e così belle tutte assieme. Provare a venderle in blocco ci porterebbe morte e rovina. Devo pensarci: ma intanto non è prudente tenere queste pietre fatali nel nostro kraal. »

L'indomani all'alba i tre - Hendrick, Klein Boy e Moses - lasciarono il villaggio e salirono sulla cresta della catena di colline, dove trovarono l'albero di legno-ferro che Hendrick ricordava dai tempi in cui era un pastorello. C'era un incavo nel tronco, a dieci metri d'altezza, dove un tempo aveva nidificato una coppia di gufi.

Mentre gli altri stavano all'erta, Klein Boy si arrampicò sull'albero con la borsa di pelle.

Ci vollero tanti altri giorni prima che Moses esprimesse la sua meditata opinione.

« Fratello, questo luogo e questa esistenza non fanno piú per noi. Ho già visto rinascere in te l'irrequietezza; ti ho visto guardare l'orizzonte col crescente desiderio di andartene. Questa vita, in prin-cipio così dolce, sbiadisce in fretta. Il sapore della birra non soddisfa piú, e l'uomo pensa alle imprese compiute altrove, nel vasto mondo, e a quelle forse ancora piú gloriose che lo attendono. »

Hendrick sorrise. « Sei un uomo dalle molte capacità, fratello: anche quella di leggere i pensieri piú segreti nella mente degli altri. »

« Non possiamo piú rimanere qui. Le pietre della morte sono troppo pericolose da tenere e troppo pericolose da vendere. »

Hendrick annuì. « Ti sto ascoltando », disse.

« Vi sono cose che sento di dover fare. Cose che credo siano il mio destino, di cui non ho mai parlato neppure con te. »

« Parlane ora. »

« Mi riferisco all'arte che gli uomini bianchi chiamano politica, da cui noialtri neri siamo esclusi. »

Hendrick fece un gesto di fastidio. « Hai letto troppi libri. Non c'è convenienza in quell'attività. Lasciala ai bianchi. »

« Ti sbagli, fratello. In quell'arte giacciono tesori che fanno impallidire le tue pietruzze biancastre. Non disprezzarla e non scher-nirla. »

Hendrick aprí la bocca per ribattere, ma ci ripensò e la richiuse pian piano. Non ci aveva mai badato, ma era un fatto: suo fratello aveva una grande personalità. La sua presenza e la sua intensità si imponevano irresistibilmente anche a chi non capiva appieno il significato delle sue parole.

« Fratello, ho deciso. Ce ne andremo via. Questo posto è troppo piccolo per noi. »

Hendrick annuì. Il pensiero non lo disturbava affatto. Era sempre stato un giramondo ed era pronto a ripartire anche subito.

« Non dico solo questo Kraal, fratello, dico di abbandonare questa terra. »

« Abbandonare questa terra! » Hendrick fece per alzarsi, poi ricadde sullo sgabello.

« Dobbiamo farlo. Questa terra è troppo piccola per noi e per le pietre. »

« Dove andremo? »

Moses alzò una mano. « Ne parleremo presto, ma prima bisogna che ti liberi del ragazzo bianco che hai portato fra noi, i anche piú pericoloso delle pietre. Rischia di tirarci addosso la polizia bianca ancor prima. Quando l'avrai fatto, fratello, saremo pronti a continuare la nostra opera. »

Swart Hendrick era uomo di grande vigore, sia fisico che mentale. Non temeva quasi niente, era pronto a fare tutto e a patire molto per ottenere quello che voleva, ma aveva sempre seguito qualcun altro. C'era sempre stato un altro uomo ancora piú intrepido e risoluto di lui a guidarlo.

« Faremo come hai detto tu, fratello », accettò, sentendo istintivamente di aver trovato qualcuno capace di sostituire l'uomo che aveva lasciato a morire in cima a una collina nel deserto.

« Aspetterò qui fino all'alba di domani », disse al ragazzo bianco Swart Hendrick. « Se per allora non sarai tornato, saprò che sei al sicuro. »

« Ti rivedrò mai, Hennie? » gli chiese Manfred, turbato. Hendrick esitò, sul ciglio di una promessa a vuoto.

« Credo che d'ora in poi i nostri passi seguiranno sentieri diversi, Manie. » Si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. « Ma ti penserò spesso... e chissà, magari un giorno i nostri sentieri si incroceran-no ancora. » Strinse la spalla del ragazzo e notò che era fasciata di muscoli, come quella di un adulto. « Va, in pace, e sii un uomo co-me tuo padre. »

Spinse via leggermente Manfred, ma il ragazzo bianco esitava.

« Hendrick », gli sussurrò. « Ci sono molte cose che vorrei dirti, ma non trovo le parole. »

« Va, », disse Hendrick. « Lo sappiamo tutti e due: non c'è bisogno di dirlo. Va', Manie. »

Manfred raccolse lo zaino e il rotolo della coperta e uscí dalla macchia imboccando la strada polverosa. Cominciò la discesa verso il villaggio, verso la cuspide della chiesa che in qualche modo considerava il simbolo della sua nuova esistenza, che a un tempo lo attraeva e lo respingeva.

Alla prima curva si voltò. Non c'era piú traccia del grosso ovambo. Proseguì verso la chiesa, in fondo alla strada principale del paese.

Senza farlo di proposito, svoltò dalla strada principale imboccando una laterale che conduceva alla canonica dal retro, costeggiando le latrine: era la stessa strada che aveva fatto con suo padre in occasione dell'ultima visita. La via, stretta, era fiancheggiata da carnose piante di moroto, e si sentiva la puzza dei buglioli dietro le porticine dei cessi in cortile, sul retro delle case. Al cancelletto della canonica si fermò, esitando, poi entrò e imboccò il lungo vialetto a passo di lumaca.

A metà strada fu fermato da un urlo, e si guardò intorno con apprensione. Ecco un altro ruggito, e una voce potente alzarsi in tono di esortazione, o discussione acrimoniosa. Veniva da una baracca sgangherata in fondo al cortile, forse una grossa legnaia.

Manfred deviò per la baracca e si affacciò cautamente alla porta.

L'interno era buio ma appena gli occhi si abituarono Manfred vide che era un ripostiglio per gli attrezzi, o un laboratorio, con forgia e incudine in un angolo e ogni sorta di strumenti appesi alla parete. Il pavimento di terra battuta era sgombro e in mezzo c'era Tromp Bierman, la Tromba del Signore, inginocchiato.

Indossava i calzoni scuri dell'abito, una camicia bianca e la cravatta nera. La giacca era appesa a un paio di tenaglie da fabbro sull'incudine. La barba cespugliosa di Tromp Bierman puntava verso il soffitto e lui aveva gli occhi chiusi e le braccia alzate in un gesto di supplice resa, ma il suo tono non era certo sottomesso.

« Oh Signore Iddio di Israele, ti supplico ardentemente di dare risposta alle preghiere del tuo servo su questo argomento. Come posso fare la tua volontà se non so qual è? Io sono solo un umile strumento, non oso prendere questa decisione da solo. Abbassa lo sguardo, Signore Iddio, abbi pietà della mia ignoranza e stupidità e rendimi note le tue intenzioni... »

Tromp si interruppe di colpo e aprì gli occhi. La gran testa leoni-na si girò e gli occhi, ardenti come quelli di un profeta del Vecchio Testamento, cauterizzarono l'anima di Manfred.

In fretta il ragazzo si levò il cappello informe e madido di sudore, tenendolo con due mani contro il petto.

«Sono tornato, Oom», gli disse. «Come mi avevi detto di fare. »

Tromp lo guardò con occhi feroci. Ciò che vedeva era un ragaz-zotto gagliardo, dalle spalle larghe e gli arti muscolosi, una testa di riccioli biondi e due sopracciglia, invece, nere come il carbone sopra strani occhi color topazio. Cercò di leggere sotto la pallida superficie di quegli occhi e awerti l'aura di decisione e lucida intelligenza che aleggiava intorno al giovanetto.

« Vieni qui », ordinò, e Manfred poso il fagotto e andò da lui.

Tromp gli afferrò la mano e lo fece inginocchiare.

« Inginocchiati, Jong, e rendi grazie al tuo Fattore. Loda il Signore Iddio dei tuoi padri per aver esaudito le mie preghiere al tuo riguardo. »

Diligentemente Manfred chiuse gli occhi e gli strinse la mano.

« Oh Signore, perdona il tuo servo importuno che ha osato sot-toporti altre quisquilie, mentre ti occupavi di affari ben piú gravi. Ti ringraziamo di aver affidato alle nostre cure questo giovane, che forgeremo e tempreremo in una spada. Una potente lama che si abbatterà su tutti i filistei, un'arma che opererà a tua gloria, per la giusta e santa causa del tuo popolo eletto, il popolo afrikaner. » Pungolò Manfred con l'indice.

« Amen! » disse il giovane sobbalzando dal dolore.

« Ti loderemo e ti glorificheremo tutti i giorni della nostra vita, o Signore, e ti imploro di riversare su questo eletto figlio del nostro popolo la forza e la risolutezza... »

La preghiera, punteggiata dai fervidi « Amen! » di Manfred, du-rò finché il ragazzo non fu in preda ai morsi della fame, ai capogiri della stanchezza e a un terribile mal di ginocchia. Finalmente, al-l'improvviso, Tromp lo tirò in piedi e lo mise in marcia verso la porta della cucina.

« Mevrou », risuonò la Tromba del Signore. « Dove sei, donna? »

Trudi Bierman irruppe in cucina di corsa a quel richiamo e si fermò senza fiato davanti al ragazzo in abiti laceri e sporchissimi.

« La mia cucina! » piagnucolò. « La mia bella cucina pulita! Ho appena dato la cera al pavimento! »

«Il Signore Iddio ci ha mandato questo giovane», intonò Tromp. « Lo accoglieremo in casa. Mangerà alla nostra tavola e sa-rà per noi come un figlio. »

« Ma è sporco come un negro! »

« E allora lavalo, donna, lavalo. »

Proprio in quella una ragazza scivolò timidamente nella stanza dietro la figura matronale di Trudi Bierman, e subito, vedendo Manfred, s'irrigidì come una cerbiatta impaurita.

Manfred stentò a riconoscere Sarah. Era ingrassata, e sopra i gomiti ora c'era della carne soda e rosea: non si vedevano piú spi-goli ossuti sopra due braccia simili a stecchi. Le guance un tempo pallidissime erano bianche e rosse, gli occhi opachi e spenti erano vivi e brillanti, e i capelli biondi, spazzolati fino a splendere, formavano due trecce gemelle arrotolate a crocchia sulla testa, e indossava un vestito modesto ma immacolato e lungo fino alle caviglie.

Mandò un grido e corse verso Manfred a braccia aperte, ma Trudi Bierman la afferrò da dietro e la scosse rudemente.

« Ragazzaccia pigra, devi ancora finire gli esercizi di aritmetica.

Torna immediatamente a farli! » La spinse rudemente fuori della stanza e tornò a rivolgersi a Manfred, con le braccia conserte e la bocca atteggiata a una smorfia di disgusto.

« Fai schifo », gli comunicò. « Hai i capelli lunghi come una ragazza. E 'sti vestiti... » La sua espressione si indurí in modo ancor piú preoccupante. « In questa casa vivono dei cristiani! E non si apprezza nessuna abitudine di quel senza-Dio di tuo padre, mi sono spiegata? »

« Ho fame, zia Trudi. »

« Mangerai quando mangeremo tutti, e non prima di esserti lavato. » Guardò il marito. « Menheer, vuoi far vedere al ragazzo co-me si adopera lo scaldabagno a legna? »

Si mise poi di guardia sulla porta del bagno e assistette spietatamente alle abluzioni, spazzando via ogni pretesa di pudore e ogni protesta per la temperatura dell'acqua; e quando lo vide esitare afferrò lei il pezzo di sapone azzurrino e si mise a strofinare senza complimenti il suo corpo fin nelle piú intime e riposte pieghe.

Poi, avvolto in un asciugamano bagnato, lo tirò per un orecchio nel retrocortile, lo fece accomodare su una cassetta da frutta rovesciata e si mise a tosargli i capelli biondi con un paio di forbici da pastore. Quando si passò la mano sulla testa, il ragazzo sentí pungere; e aveva un pò freddo sul collo e dietro le orecchie.

Trudi Bierman raccolse i vestiti con una pantomima di disgusto e aprí lo sportello della stufa del boiler. Manfred fece appena in tempo a salvare la giacca, e quando la donna vide la sua espressione, mentre si allontanava da lei tastando senza darlo a vedere i diamanti cuciti nella fodera, alzò le spalle.

« Magari con una bella lavata e qualche pezza può ancora andare. Nel frattempo ti darò qualche vecchio vestito di Tromp. »

Trudi Bierman prese la fame di Manfred per una sfida alla sua cucina e abilità culinaria. Continuava a riempirgli il piatto ancor prima che avesse finito, restandogli accanto con la pentola e il mestolo in mano. Quando alla fine il ragazzo ricadde all'indietro, sazio, la donna, con una luce di trionfo negli occhi, andò in dispensa a prendere la torta al latte.

Quali estranei in seno alla famiglia, Manfred e Sarah furono col-locati sulle sedie piú basse, al centro del tavolo, dominati da scranni piú alti delle due rosee e grassocce figlie dei Bierman.

Sarah spilluzzicava il cibo con tanta sobrietà da attirarsi l'ira di Trudi Bierman. « Non sono stata lí a far da mangiare perché tu gio-cherellassi col cibo, signorina cara. Starai al tuo posto finché non avrai finito il piatto, spinaci compresi, anche tutta la notte se sarà necessario. » E Sarah si mise a masticare meccanicamente, senza mai distogliere lo sguardo da Manfred.

Fu la prima volta che a Manfred toccò guadagnarsi un pasto con due preghiere, prima e dopo, ciascuna delle quali gli sembrò inter-minabile. Era lí che annuiva ciondolando sulla sedia quando Tromp Bierman lo svegliò di soprassalto con un « Amen! » tonante come una salva di artiglieria.

La casa era già strapiena, con Sarah e le giovani Bierman, sicché a Manfred toccò andare a dormire in un angolo del laboratorio in cortile. La zia Trudi infilò in una cassa i suoi pochi abiti scompa-gnati, preparò il letto su una vecchia rete e un bozzuto materasso di crine e appese un tendone scolorito a un filo per isolare la zona notte.

« Non consumare la candela per niente », l'avvertí la zia Trudi dalla porta del ripostiglio degli attrezzi. « Te ne darò solo una al me-se. Siamo gente frugate noi, lontanissima dalle stravaganze di tuo padre, grazie a Dio. »

Manfred si tirò la coperta grigiastra fin sulla testa rapata per difendersi dal freddo della notte. Era la prima volta in vita sua che aveva un letto e una stanza tutta per sè, e si crogiolò in quella beata sensazione, addormentandosi nell'odor di grasso da ruote, petrolio e braci della forgia.

Si svegliò sentendosi sfiorar la guancia e urlò: dalla tenebra confuse immagini gli si riversavano addosso atterrendolo. Aveva sognato la mano di suo padre, corrosa dalla cancrena, che si levava dalla tomba per ghermirlo: si contorse nelle coperte, atterrito.

« Manie, Manie, sono io. » La voce di Sarah era altrettanto atterrita della sua. Si vedeva la sua silhouette profilarsi contro il chiar di luna che entrava dalla finestra; era sottile e rabbrividiva in camicia da notte. I capelli spazzolati le ricadevano sulle spalle come una nuvola d'argento.

« Che cosa fai qui? » farfugliò. « Non ci devi venire. Devi andare via. Se ti sorprendono... » Si interruppe perché non aveva idea di quali potevano essere le conseguenze, ma sapeva per istinto che sarebbero state severe. Ne sarebbe stato infranto il suo nuovo e piacevole senso di sicurezza e normalità.

« Sono stata tanto infelice. » Si capiva dal tono che stava piangendo. « Fin da quando te ne sei andato. Le ragazze sono così cattive... mi chiamano vuilgoed, spazzatura. Mi prendono in giro perché non so leggere e fare i conti come loro, e perché parlo in maniera strana. Ho pianto tutte le notti da quando sei andato via. »

A Manfred si strinse il cuore. Nonostante la paura di esser scoperto, la prese per mano e la fece sedere sul letto. « Adesso sono qua io, Sarie », sussurrò. « Non lascerò che ti prendano in giro. »

Lei gli singhiozzava sul collo, e lui le disse rudemente: « Non voglio che piangi, Sarie. Non sei piú una bambina. Devi essere coraggiosa ».

« Piangevo perché sono felice », disse tirando su col naso.

« Non piangere piú, neanche quando sei felice », le ordinò. « Hai capito? » E lei si mise ad annuire furiosamente, cercando di ricacciare le lacrime.

« Ho pensato a te ogni giorno », gli sussurrò. « Ho pregato Dio di farti tornare come avevi promesso. Posso venire nel letto con te, Manie? Ho freddo. »

« No », disse lui duro. « Devi tornare, prima che ti becchino qua con me. »

« Solo un momento », lo prego e, prima che potesse protestare, si era già infilata sotto la coperta vicino a lui.

Lo abbracciò forte. La camicia da notte era leggera e lisa, e il suo corpo rabbrividiva dal freddo: non ebbe il coraggio di cacciarla via.

« Cinque minuti », brontolò. « Poi dovrai andartene. »

Presto il suo corpo si scaldò. I suoi capelli, che Manfred aveva contro il viso, sapevano di buono, come un cucciolo. Il ragazzo si sentiva piú grande e importante, e si mise ad accarezzarle la testa con fare paterno e possessivo.

« Credi che Dio esaudisca le nostre preghiere? » gli chiese lei sottovoce. « Ho pregato piú che ho potuto, ed eccoti qui, come avevo chiesto » Tacque un momento. « Però c'è voluto un sacco di tempo e di preghiere. »

« Non me ne intendo di preghiere », ammise lui. « Mio padre non pregava un gran che. Non mi ha mai insegnato come si fa. »

« Be', adesso è meglio che ti abitui », l'avvertì. « In questa casa tutti pregano continuamente. »

Quando infine scivolò fuori dal ripostiglio degli attrezzi e tornò a letto in casa, gli lasciò un posto caldo sul materasso e uno ancora piú caldo nel cuore.

Era ancora buio quando Manfred fu svegliato da uno strepito della Tromba del Signore in persona.

« Dieci secondi ancora a letto e ti becchi addosso un secchio d'acqua fredda, Jong. » E lo condusse, tremante e con la pelle d'o-ca, all'abbeveratoio di fianco alla stalla.

« L'acqua fredda è la cura migliore per i peccati della carne giovane, Jong », gli disse con gusto lo zio Tromp. « Prima di colazione striglierai il cavallo e pulirai la stalla dal letame, capito? »

La giornata si rivelò una girandola vertiginosa di lavoro e preghiera, coi mestieri di casa alternati a lunghe ore di studio e ancor piú lunghe sessioni di preghiera, trascorse in ginocchio, mentre zio Tromp o zia Trudi esortavano Dio a incrementare le loro prestazioni o rovesciar loro addosso ogni sorta di sanzioni.

Tuttavia nel giro di una settimana, Manfred riuscì a cambiare in maniera inavvertita ma definitiva l'organizzazione sociale vigente tra i giovani della casa. Aveva troncato i primi tentativi, furtivi ma concertati, delle sorelle Bierman di sfotterlo con sguardi gelidi e implacabili dei suoi occhi gialli, e quelle si erano ritirate fra trilli di costernazione.

Ma sui libri di scuola la faccenda era ben diversa. Le cugine erano diligenti, e beneficiavano dei risultati di una vita di studi forzati.

Mentre Manfred sudava sulla grammatica tedesca e sul libro di matematica, loro avevano la possibilità di sfoderare sorrisi di superiorità alle sue incerte risposte alle interrogazioni di zia Trudi: e questo era appunto l'incoraggiamento di cui Manfred aveva bisogno.

« Gliela farò vedere io », si ripromise, e si dedicò con tanto impegno al compito di raggiungere e superare le cugine che ci mise dei giorni ad accorgersi di come perseguitavano la piccola Sarah. La crudeltà delle sorelle Bierman era raffinata e subdola: uno scherzetto, una smorfia, un nomignolo; una calcolata esclusione dai giochi e dalle risate; il sabotaggio dei mestieri di casa, una macchia sugli indumenti appena stirati da Sarah, il letto disfatto, del grasso spalma-to sui piatti appena lavati da lei; e risate maligne quando Sarah era castigata per pigrizia e negligenza dalla zia Trudi, che era anche troppo contenta di ottemperare col dorso della spazzola ai suoi sacri doveri di educatrice.

Manfred prese le ragazze Bierman a una a una. Le afferrò per i capelli e guardandole negli occhi da cinque centimeri di distanza fe-ce loro un discorsetto con la voce fremente di passione a stento re-pressa, concludendo con un « e badate bene di non andare a dirlo al-la mamma ». La loro deliberata crudeltà terminò di colpo e, sotto la protezione di Manfred, Sarah fu lasciata assolutamente in pace.

Alla fine di quella prima settimana, dopo la quinta funzione in chiesa di una domenica lunga e noiosa, una delle cugine apparve sulla porta del ripostiglio degli attrezzi dove Manfred, coricato sul letto, studiava la grammatica tedesca.

« Mio papà vuol vederti nel suo studio. » E la messaggera agitò la mano parodiando il disastro incombente.

Manfred mise la testa sotto il rubinetto e cercò di pattinarsi la pelata davanti a un pezzo di specchio appeso sopra il suo letto. Immediatamente le ciocche si rizzarono di nuovo a spuntoni. Rinunciò al tentativo e corse alla convocazione.

Non era mai stato ammesso finora alle stanze anteriori della canonica. Erano sacrosante, e di esse lo studio del pastore era il sancta sanctorum. Le cugine l'avevano già informato, con malcelata soddisfazione, che una convocazione lí non poteva avere altro significato che punizione e dolore. Sulla soglia, Manfred si fermò tremando, sicuro che le visite notturne di Sarah al ripostiglio degli attrezzi fossero state scoperte, e fece un bestiale sobbalzo quando, al suo timido bussare, rispose un tonante ruggito di Tromp. Aprí allora la porta e lentamente si affacciò dentro.

Lo zio Tromp era dietro la scrivania, coi pugni chiusi appoggiati sul piano di cuoio. « Entra, Jong. Chiudi la porta. Non restartene li impalato! » tuonò, lasciandosi cadere pesantemente sulla poltrona.

Manfred restò in piedi davanti a lui, cercando di trovare parole di pentimento e contrizione: ma prima che potesse azzardarle lo zio Tromp parlò di nuovo.

« Ebbene, Jong, tua zia mi ha informato sul tuo conto. » Il suo tono contrastava con la sua espressione feroce. « Mi ha detto che la tua istruzione lascia purtroppo a desiderare, ma che hai buona volontà e ti applichi. » Manfred emise un sospiro di sollievo e fece fatica a seguire il resto del discorsetto, che era una specie di esortazione.

« Noi siamo perseguitati, Jong. Siamo vittime dell'oppressione e del Milnerismo. » Manfred aveva sentito parlare di Lord Milner da suo padre: era il ben noto governatore inglese contrario agli afrikaner, per decreto del quale tutti i bambini che a scuola parlavano quella lingua dovevano indossare un cappello con la scritta: SONO UN ASINO, PARLO OLANDESE.

« C'è solo un modo per sopraffare i nostri nemici, Jong. Dobbiamo diventare piú intelligenti, piú forti e piú spietati di loro. »

La Tromba del Signore si immerse così tanto nelle sue stesse parole da alzare lo sguardo ai complicati stucchi del soffitto con negli occhi una luce di fanatismo tra religioso e politico, consentendo a Manfred di guardarsi furtivamente intorno. La stanza ridondava di mobili.

Tre pareti erano coperte di libri, di argomento religioso o comunque serio. Predominava Calvino, insieme agli autori presbiteria-ni favorevoli al governo ecclesiastico: c'erano anche opere di storia e filosofia, legge, biografie, dizionari, enciclopedie, raccolte di sermo-ni e di inni sacri in antico olandese, tedesco e inglese.

La quarta parete, proprio dietro la scrivania dello zio Tromp, mostrava una galleria di fotografie. Antenati dall'aria fiera, con indosso il vestito della festa, occupavano la prima fila: sotto c'erano congregazioni di devoti, dotti membri del sinodo, tra i quali sempre si riconoscevano le inconfondibili fattezze di Tromp Bierman: una serie di Tromp sempre piú anziani e maturi, a partire dal giovanotto sbarbato e dallo sguardo acceso fino al barbuto e leonino esemplare adulto.

Poi, alquanto incongruamente, e quasi sbalorditivamente, ecco una foto incorniciata e ormai quasi ingiallita, la piú grande e collo-cata nella miglior posizione, che riproduceva un giovane nudo fino alla cintola, con le braghe aderenti e una magnifica cintura scintillante di borchie e medaglioni.

L'uomo in questione era Tromp Bierman a non piú di venticinque anni, ben rasato, coi capelli scriminati in mezzo e piatti e lustri di brillantina, il corpo poderoso costellato di muscoli, i pugni stretti disposti nella classica guardia pugilistica. Davanti aveva un tavolino tutto pieno di coppe scintillanti e trofei sportivi. Il giovane sorrideva: era molto bello e, agli occhi di Manfred, incredibilmente ardito e romantico.

« Sei un pugile! » proruppe, incapace di contenere la propria meraviglia e ammirazione, interrompendo il silenzioso assolo della Tromba del Signore. Il testone irsuto si chinò, sbatté gli occhi ricondotto di colpo alla realtà, e poi seguí lo sguardo di Manfred.

« Non soltanto un pugile », disse lo zio Tromp, « ma un campione. Sudafricano dei mediomassimi, per la precisione. » Tornò a guardare Manfred e vide la sua espressione ammirata. Allora diventò piú cordiale, e si lasciò andare all'onda di quei bei ricordi.

« Hai vinto tutte quelle coppe... e quella cintura? »

« Come no, Jong. Ho fatto correre i filistei. Gliene ho date un sacco e una sporta. »

« Hai boxato solo col filistei, zio Tromp? »

« Erano tutti filistei, Jong. Appena salivano sul ring e me li tro-vavo davanti diventavano filistei e mi gettavo su di loro senza pietà, come la spada e la mazza dell'Onnipotente » Tromp Bierman alzò i pugni serrati davanti a se e mulinò una rapida serie di colpi, che si arrestavano fischiando a pochi centimetri dal naso di Manfred.

« Mi ci guadagnavo da vivere, Jong. Sfidavo chiunque con in palio dieci sterline. Ho incontrato Mike Williams e l'ho messo giú alla sesta, il grande Mike Williams in persona » Grugniva, dondo-landosi e boxando sulla sedia. « Ha! Ha! Sinistro! Destro! Sinistro!

Ho messo al tappeto anche il negro Jephta, e ho conquistato il titolo battendo Jack Lalor nel 1916. Sento ancora negli orecchi gli applausi quando Lalor è andato KO. Ah, che belli gli applausi, Jong, che bello... » Si interruppe e rimise le mani in grembo riassumendo un'espressione dignitosa e severa. « Poi tua zia Trudi e il Signore Iddio di Israele mi hanno chiamato dal ring a un lavoro piú importante. » E lo scintillio di eccitazione scomparve malinconicamente dagli occhi dello zio Tromp.

« Diventare un campione di boxe... Sarebbe un sogno per me », sospirò Manfred, e lo sguardo di Tromp si concentrò pensoso su di lui. Lo esaminò attentamente dalla testa rapata ai piedi grandi ma proporzionati infilati in un vecchio paio di quelle tradizionali calza-ture che gli afrikaners chiamano velstoen.

« Vuoi imparare a tirare? » gli chiese a bassa voce, guardando la porta di sottecchi come un cospiratore.

Manfred non riusciva nemmeno a rispondere, aveva la gola chiusa dall'eccitazione: ma annuì con vigore e lo zio Tromp proseguí nel suo solito tono strepitoso.

« Tua zia Trudi non approva le scazzottate. E ha tutte le ragioni!

E' roba da teppisti. Dimentica queste cose, Jong! Pensa su un piano piú elevato. » Scuoteva la testa così vigorosamente da scomporsi la barba. Tutto quel vigore serviva a reprimere la voglia di insegnargli che era venuta a lui, si capiva chiaramente. Si pettine la barba con le dita e continuò.

« Per tornare a quello che ti stavo dicendo, tua zia e io pensiamo che sia meglio che tu cambi nome per il momento. Adotterai il cognome Bierman, finché non si parlerà piú del processo di tuo padre.

I giornali, questi organi di Lucifero, non fanno che parlare di Lothar De La Rey... Tua zia ha ragione a non farli penetrare in questa casa. Il mese prossimo, quando comincerà il processo a tuo papà a Windhoek, si creerà una grande sensazione, che potrebbe attirare vergogna e disgrazia sul tuo capo e su questa famiglia. »

« Il processo di mio padre? » Manfred guardava il pastore senza capire. « Ma mio padre è morto. »

« Morto? E' questo che credevi? » Tromp si alzo e girò intorno alla scrivania. «Ti chiedo perdono, Jong », disse appoggiandogli entrambe le mani sulla spalla. « Ti ho procurato pene inutili non parlandotene prima. Tuo padre non è morto. E' stato catturato dalla polizia, e il 20 del mese prossimo sarà giudicato dalla Corte Suprema a Windhoek. Rischia la condanna a morte. »

Sorresse Manfred, che aveva accolto la notizia come un fulmine a ciel sereno, e proseguì con un mormorio delicato: « Adesso capisci perché vogliamo farti cambiar nome, Jong».

Sarah si era sbrigata a stirare e poi era scivolata fuori casa.

Adesso era in cima alla catasta di legna, seduta con le gambe penzoloni, a guardare Manfred al lavoro con l'ascia, cosa che le piaceva moltissimo. Era una lunga ascia da usare a due mani, con la testa verniciata di rosso vivo e la lama lucida che Manfred affilava sulla pietra da cote fino a quando tagliava i peluzzi sul dorso della mano.

Si era tolto la camicia e l'aveva data da tenere a lei. Torso e schiena erano lucidi di sudore. Le piaceva l'odore del sudore di Manfred, simile a quello del pane fresco, o di un fico appena spiccato dall'albero in pieno sole.

Manfred piazzò un altro ciocco sul ceppo e fece un passo indietro. Si sputò sulle mani, come sempre, e come sempre anche lei inghiotti per simpatia. Poi riprese in mano la lunga ascia e lei si tese tutta.

« La tabellina del cinque », ordinò, e alzò l'ascia facendole descrivere un ampio giro. Nell'abbattersi sul ciocco la lama fischiava.

Si piantò nel pezzo di legno con uno schianto che Manfred accompagnò con un netto ed esplosivo grugnito d'impegno.

« Cinque per uno cinque », disse lei a tempo con l'ascia muli-nante.

« Cinque per due dieci. » Manfred borbottò, mentre una scheg-gia chiara volava sfiorandogli la testa.

« Cinque per tre quindici. » L'ascia descriveva un cerchio rosso nella luce dorata del sole calante, e Sarah recitava le tabelline con voce acuta, mentre le schegge grandinavano tutt'intorno.

Il ciocco si divise in due proprio mentre Sarah dichiarava che cinque per dieci fa cinquanta. Manie fece un passo indietro, si appoggiò all'ascia e le sorrise.

« Molto bene, Sarah, neanche un errore. »

Lei si crogiolò nel complimento ma, alzando gli occhi, si irrigidì vergognosa e compunta, saltò giú dalla catasta di legna e in un turbine di gonnelle risalì il vialetto e scomparve a casa.

Manfred si voltò. Lo zio Tromp era apparso all'angolo della rimessa, e lo guardava.

« Mi dispiace, zio Tromp », disse chinando il capo. « Lo so che non doveva star qui, ma non sono riuscito a dirle di andar via. »

Lo zio Tromp si staccò dalla parete e si avvicinò a passi lenti a Manfred. Si muoveva come un grosso orso dalle lunghe braccia penzolanti, e girò piano piano intorno a Manfred, esaminandolo con un cipiglio vago, astratto.

Manfred si contorceva, imbarazzato, e lo zio Tromp gli diede un doloroso colpetto nella pancia col pollicione.

« Quanti anni hai, Jong? »

Manfred glielo disse e lo zio Tromp annuì. « Mancano tre anni allo sviluppo completo. Diventerai un bel mediomassimo, direi, a meno che, finendo in volata, non diventi addirittura un peso massimo. »

Manfred si sentì prudere la pelle a quei termini inconsueti eppure tremendamente eccitanti, e lo zio Tromp si allontanò diretto alla catasta di legna. Si tolse la giacca da predicatore e la piegò con cura. La mise sulla catasta, poi si tolse anche la cravatta e ce l'appoggiò sopra.

Tornò verso Manfred tirandosi su le maniche della camicia.

« Allora vuoi diventare un pugile? » gli chiese, e Manfred annuì, incapace di parlare per l'emozione.

« Metti via quell'ascia », ordinò lo zio. Manfred eseguì e tornò a fronteggiare Tromp. Lo zio gli presentò il palmo della mano destra.

« Picchia! » gli disse. Manfred strinse il pugno e tirò un'incerta sventola alla manona dello zio.

« Non stai facendo la calzetta, Jong, non stai lavorando la pasta.

Cosa sei, un uomo o una sguattera? Picchia, signorina, picchia! Così va meglio, ma non farlo girare attorno alla testa, parti deciso! Piú forte! Piú forte! Eh, quasi così! Dài! Adesso prova col sinistro. Be-ne! Destro! Sinistro! Destro! »

Lo zio Tromp ora gli presentava entrambe le mani, schivando e danzandogli davanti, mentre Manfred avidamente lo incalzava, tirando cazzotti alternati alle mani aperte del pastore.

« Va bene », disse Tromp abbassando le mani. « Adesso tirami un pugno. Tirami un pugno in faccia. Dài, coraggio; più forte che puoi, proprio sul naso. Vediamo se mi mandi al tappeto. »

Manfred abbassò i pugni e fece un passo indietro.

« Non posso, zio Tromp, non ci riesco », protestò.

« Cosa? Cosa non posso, Jong? »

« Non ce la faccio a picchiarti. Non sarebbe giusto. Non sarebbe rispettoso. »

« Adesso si parla di rispetto, non di boxe, eh? Si parla di cipria e guanti per signora! » Lo zio Tromp ruggì. « Credevo volessi tirare di boxe. Credevo volessi diventare un uomo, invece sei ancora un bambino piagnucoloso. » Atteggiò la voce a un falsetto rotto. « Non sarebbe giusto, zio Tromp, sarebbe una mancanza di rispetto! » sfotté.

Di colpo la sua mano destra parti e schiaffeggiò Manfred sulla guancia, una bella sberla che gli lasciò i segni rossi delle dita in faccia.

« Non è rispetto il tuo, Jong, è vigliaccheria. Ecco che cosa sei, un vigliacchetto piagnucoloso. Non sei un uomo! Non diventerai mai un pugile. »

Partì l'altra manona, così in fretta e inaspettatamente che Manfred la vide appena. Il dolore dello schiaffone gli riempí gli occhi di lacrime.

«Dovremo farti fare una gonna, signorina, una bella gonna gialla! »

Lo zio Tromp lo stava guardando attentamente, negli occhi, pre-gando in silenzio che accadesse, mentre riversava disprezzo bruciante addosso al gagliardo giovanotto che si ritirava, sbigottito e incerto. Lo incalzò e colpi ancora, tagliandogli il labbro inferiore, spac-candogli la pelle molle contro i denti e facendolo sanguinare sul mento.

« Forza, vieni! » lo esortava intanto silenziosamente, dietro il flusso degli insulti. « Forza, difenditi, per piacere! »

Finché, con una grande esplosione di gioia che rischiò di fargli scoppiare il petto, lo vide accadere. Manfred affondò il mento nel petto e il suo sguardo cambiò. Di colpo si accese di una fredda luce gialla, implacabile come lo sguardo del leone che si prepara ad attaccare, e il giovanotto gli saltò addosso.

Benché vi fosse preparato, e avesse sperato proprio in una reazione del genere, la velocità e l'impeto selvaggio dell'attacco lo presero alla sprovvista. Solo il vecchio istinto del pugile salvo lo zio Tromp, che riuscí a schivare i terribili cazzotti di cui sentì la potenza quando gli sfiorarono la tempia e gli trapassarono la barba. Nei pri-missimi istanti non ci fu tempo per la riflessione: tutte le sue capacità e la sua attenzione gli servirono per restare in piedi e tenere a ba-da l'animale gelido e feroce che aveva risvegliato lui.

Poi l'esperienza e la classe pugilistica, da lungo tempo dimenticate, tornarono a imporsi, e prese a danzare, saltellare e schivare, irraggiungibile, appena oltre l'allungo del ragazzo, parando botte da orbi e considerando l'altro con obiettività, quasi dalla sicurezza dell'angolo del secondo. In breve si accorse con gioia che Manfred, pur essendo un combattente rozzo e inesperto, usava con altrettanta forza e destrezza sia il sinistro che il destro.

« Un ambidestro naturale! Non favorisce il destro, e piazza la spalla dietro ogni colpo senza che nessuno gliel'abbia insegnato », esultò.

Poi tornò a guardarlo negli occhi e restò sbigottito dalla furia che lui stesso aveva scatenato.

« E' un killer. » Aveva riconosciuto lo sguardo. « Ha l'istinto del leopardo che uccide per il gusto del sangue e nient'altro. Non mi ve-de piú: vede solo la preda davanti a sé. »

Queste elucubrazioni riuscirono a distrarlo. Si prese un destro sul bicipite, e capì subito che gli sarebbe venuto un livido senza pari.

Gli si allegarono i denti: il fiato cominciò a bruciargli, raspante, nella gola. Il cuore batteva all'impazzata come un merlo chiuso nella gabbia toracica. Erano ventidue anni che non metteva piede su un ring: ventidue anni di cucina marca Trudi, e di vita sedentaria sulla scrivania e sul pulpito. Mentre davanti a sé aveva una macchina che macinava cazzotti alternati a stantuffo, con gli occhi gialli puntati su di lui con risolutezza vagamente omicida.

Lo zio Tromp cominciò ad averne abbastanza. Attese un destro un pò piú largo degli altri e lascio partire un sinistro d'incontro, il suo colpo migliore, quello che aveva mandato al tappeto, all'epoca, il negro Jephta alla terza ripresa: il colpo entrò nella guardia di Manfred e gli si stampò addosso col classico rumore di ossa sbattute.

Manfred cadde in ginocchio, sbalordito, con lo sguardo giallastro ora meno omicida che perplesso e un pò suonato, come di chi si risvegli dalla trance.

« Sì, giustissimo, Jong! » Il consueto strepito della Tromba del Signore era ridotto a un anfanante mugolio. « In ginocchio! A render grazie al Signore. » Lo zio Tromp si inginocchiò accanto a Manfred e gli passò un braccio intorno alla spalla. Alzò il volto e la voce ancora incerta al cielo. « Dio onnipotente, ti ringraziamo per il fisico vigoroso che hai fornito al tuo giovane servitore. Ti ringraziamo anche per il suo sinistro naturale, pur rendendoci conto che andrà sviluppato parecchio, e ti preghiamo umilmente di riguardare con favore i nostri sforzi di instillare in lui qualche rudimento, almeno, del gioco di gambe. Il suo destro è una benedizione che proviene direttamente da te, di cui ti saremo eternamente grati, anche se bisognerà insegnargli a non telegrafarlo cinque giorni prima. »

Manfred stava ancora scuotendo la testa e massaggiandosi la mascella, ma rispose al pollice che gli s'infilava nelle costole con il solito « Amen! »

« Cominceremo immediatamente con qualche corsetta, o Signore, mentre tenderemo un pò di corde nella rimessa per fargli prendere confidenza col ring. Ti chiediamo altresi di benedire la nostra impresa e di cooperare allo scopo di tenerla segreta alla legittima consorte del tuo servitore. Trudi Bierman. »

Quasi tutti i pomeriggi, col pretesto di visitare qualcuno dei suoi parrocchiani, lo zio Tromp attaccava il cavallo al biroccio e usciva dal cancello salutando con un ampio gesto del braccio la moglie sulla soglia di casa. Manfred aspettava poco distante, sulla strada di Windhoek, già a piedi nudi e in calzoncini, e all'apparire del birocciò si metteva a corrergli accanto mentre lo zio Tromp cercava di in-coraggiare il suo grasso cavallo a un piccolo trotto.

« Dieci chilometri oggi, Jong... arriviamo al ponte sul fiume e ritorno, cercando di metterci un pò meno di ieri. »

I guanti che lo zio Tromp aveva recuperato di nascosto da un baule nella rimessa dove dormiva Manfred erano screpolati per l'e-tà, ma li rappezzarono, e la prima volta che li allacciò ai pugni di Manfred, il ragazzo li annusò.

« Odore di cuoio, sudore e sangue, Jong. Riempitici le nari. D'o-ra in poi ci vivrai assieme. »

Manfred li sbatté uno contro l'altro, e per un attimo negli occhi gli brillò ancora la luce gialla e fredda che suo zio ben conosceva: poi sogghignò.

« Fanno un bell'effetto », disse.

« Non c'è nulla di meglio », concordò lo zio Tromp, accompagnandolo al pesante sacco di tela riempito di sabbia che pendeva in un angolo della rimessa.

« Tanto per cominciare vorrei vederti lavorare un pò con quel sinistro. E' come un cavallo brado: bisogna domarlo e allenarlo, insegnargli a non sprecare forza. Deve imparare a fare quello che vogliamo noi, e smettere di schiaffeggiare l'aria. »

Insieme costruirono il ring, un pò ridotto per mancanza di spazio, piantando i paletti nella terra battuta e cementandoceli. Poi ste-sero della tela sul pavimento. Tela e cemento venivano da qualche parrocchiano ricco che Tromp aveva chiamato a un piccolo sacrificiò « per la gloria di Dio e del Folk», un appello che non poteva essere facilmente ignorato.

Sarah, obbligata al silenzio dal giuramento piú solenne e spaventoso che Manfred e zio Tromp erano riusciti a escogitare, ebbe il permesso di assistere agli allenamenti sul ring, anche se faceva sfacciatamente il tifo per il piú giovane.

Dopo due di queste riunioni, che lo zio Tromp superò senza am-maccature ma ansimando come una vaporiera, il pastore si mise a scuotere la testa. « Inutile, Jong. Qui o bisogna trovare un altro sparring partner o bisogna che riprenda ad allenarmi. »

Così il cavallo fu lasciato nella stalla e lo zio Tromp si mise a correre anfanando a fianco di Manfred sulle lunghe distanze, mentre il sudore gli cadeva dalla barba come le prime pioggie d'estate.

Tuttavia perse miracolosamente la pancia, e ben presto sotto gli strati di grasso molle che gli coprivano spalle e torace cominciarono a delinearsi muscoli duri. Gradualmente allungarono le riprese da due a quattro minuti, con Sarah al cronometro (ossia il cipollone d'argento di zio Tromp, che compensava con la grossezza la scarsa precisione).

Ci volle quasi un mese perché lo zio Tromp potesse dire a se stesso (non certo a Manfred!) che il ragazzo cominciava a somigliare a un vero pugile. A lui disse invece: « Adesso voglio la velocità. Ti voglio rapido come il mamba, coraggioso come il ratel ».

Il mamba è il piú temuto dei serpenti africani. Può diventare grosso come il polso di un uomo e lungo fino a sei metri. Il suo veleno uccide un uomo adulto in quattro minuti, una morte dolorosissi-ma. Il mamba è così veloce da superare un cavallo al galoppo; il suo morso è fulmineo.

Quanto al tasso africano, detto ratel, è un animaletto dotato di una pelliccia floscia ma resistentissima che può sfidare il morso del mastino e le zanne del leopardo. Il suo testone piatto fa rimbalzare, innocue, le piú grevi mazzate, e il suo coraggio è degno di un leone o di un gigante. Di solito mite e paziente, se provocato attacca qualunque animale, anche enorme. Dice la leggenda che il tasso africano, guidato da chissà quale istinto, punti subito ai genitali e li strap-pi con un morso a chiunque - uomo o bufalo, leone o elefante - osi minacciarlo.

« Ho qualcosa da farti vedere, Jong.» Lo zio Tromp condusse Manfred alla grossa cassetta di legno appoggiata alla porta della rimessa e l'apri « E' per te. L'ho ordinato per posta a Città del Capo.

E' arrivato col treno di ieri. »

Piazzò il groviglio di cuoio e gomma in mano a Manfred.

« Cos'è, zio Tromp? »

« Vieni qua che ti faccio vedere. »

In pochi minuti lo zio Tromp sistemò gli elastici e gli ancoraggi.

« Ebbene, che cosa ne dici, Jong?» Fece due passi indietro contemplando l'opera.

« E' il regalo piú bello che mi abbiano mai fatto, zio Tromp. Ma che cos'è? »

« Ti credi un pugile e non riconosci un punching ball? »

« Un punching balì! Chissà quanto dov'esserti costato! »

« Effettivamente un sacco, Jong, ma non dirlo alla zia Trudi. »

« A che cosa serve? »

« A sviluppare la velocità! » gridò lo zio Tromp cominciando a tempestare di colpi l'attrezzo, ritmicamente, beccandolo al volo di destro e di sinistro, facendolo andare senza sosta fin quando l'instancabile pallone non l'ebbe vinta e vide il pastore fermarsi ansimando mentre lui continuava a oscillare indifferente.

« La velocità, Jong! Rapido come il mamba! »

Di fronte alla generosità e all'entusiasmo dello zio Tromp, Manfred dovette fare ricorso a tutto il suo coraggio per dire le parole che da qualche settimana aveva sulla punta della lingua.

Attese fino all'ultimo momento prima di sputarle fuori. « Devo andare via, zio Tromp », e assistette al tormento della delusione e dell'incredulità che si succedettero su quel viso barbuto che aveva cominciato spontaneamente ad amare.

« Andare via? Vuoi lasciare la mia casa? » Lo zio Tromp si fermò di colpo nella polvere della strada di Windhoek e si pulí il sudore con l'asciugamano che portava intorno al collo. «Perché, Jong, perché? »

« Mio padre sarà processato fra tre giorni. Devo andare, ma poi tornerò. Te lo assicuro, torno appena posso. »

Lo zio Tromp ricominciò a correre, calcando la strada diritta che si perdeva in un punto lontano, alzando una nuvoletta di polvere a ogni passo. Manfred scatto a raggiungerlo. Nessuno di loro parlò piú finché non arrivarono al boschetto dove avevano lasciato cavallo e biroccio.

Lo zio montò sul carro e prese in mano le redini. Guardò Manfred che era rimasto a terra.

« Vorrei averlo anch'io, un figlio leale come te », disse pacatamente, facendo capire al cavallo che era ora di mettersi a trottare.

La sera, dopo cena e dopo tutte le preghiere, Manfred si coricò nel suo letto leggendo Goethe alla luce di una candela schermata, si da non tradire la sua stravaganza presso la zia Trudi. Goethe, il poeta preferito di suo padre, non era affatto facile. Il suo tedesco era migliorato moltissimo: due giorni la settimana, la zia Trudi ne de-cretava l'uso obbligatorio in casa, avviando conversazioni erudite cui ogni membro della famiglia era incoraggiato, anzi praticamente costretto, a prender parte. Ma Goethe restava un'altra cosa, ovviamente, e Manfred stava cercando di raccapezzarsi tra verbi che non aveva mai sentito quando il libro gli fu levato di mano.

« Ti rovinerai gli occhi leggendo a lume di candela, Jong.» Era lo zio Tromp.

Manfred sì rizzò subito a sedere. Anche lo zio sedette sul letto e cominciò a sfogliare il libro. Poi parlò senza guardarlo in faccia.

« Rautenbach domani va a Windhoek con la sua Ford T. Porta un centinaio di tacchini al mercato, ma di dietro c'è posto anche per te.

Dovrai acconciarti a un pò di penne di tacchino e a qualche cacchi-na sui vestiti, ma il viaggio non ti costerà niente. »

« Grazie, zio Tromp. »

« In città c'è una vecchia vedova devota e rispettabile, che tra l'altro cucina benissimo. Ti ospiterà lei, le ho scritto. » Tirò fuori un foglio piegato e sigillato con la ceralacca: il magro stipendio di un pastore di provincia non consentiva il lusso di una busta.

« Grazie, zio Tromp. » A Manfred non veniva in mente altro da dirgli. Voleva abbracciare quel testone da orso e baciarlo sulla guancia, ma si trattenne.

« Potrebbero esserci altre spese da fare », continuò lo zio Tromp con qualche imbarazzo. « Non so quando potrai tornare: comunque... » Si frugò in tasca, prese il polso di Manfred e gli ficcò qualcosa in mano.

Manfred guardò le due scintillanti monete da mezza corona che aveva in mano e scosse lentamente la testa.

« Zio Tromp... »

« Non dire niente, Jong... specialmente a tua zia Trudi. » Lo zio Tromp si alzò, ma Manfred lo prese per la manica.

« Zio Tromp... potrò ripagarti, per questa come per tutte le altre cose. »

« Lo so, Jong. Un giorno mi ripagherai abbondantemente in gioie e soddisfazioni »

« No, no, non un giorno: adesso. Posso ripagarti adesso. »

Manfred saltò su dal letto e andò a frugare nella cassa da imbal-laggio rizzata e appoggiata su quattro mattoni che gli faceva da armadio. Ci frugò dentro e tirò fuori una borsa da tabacco gialla.

Tornò dallo zio e slacciò l'apertura, tutto ansioso di piacere.

« Ecco qua, zio Tromp, aprì la mano. »

Sorridendo con indulgenza, lo zio Tromp aprì la zampone dal dorso ricoperto da fitti peli neri e le dita come salsicciotti caserecci dei contadini dei dintorni.

« Che cos'hai li dentro, Jong? » domandò giovialmente, ma il sorriso gli si ghiacciò in volto quando Manfred gli riverso una casca-tella di pietre luccicanti in mano.

« Diamanti, zio Tromp », sussurrò Manfred. « Abbastanza da arricchirti e poter comprare quello che vuoi. »

« Dove li hai presi, Jong? » La voce dello zio Tromp era calma e spassionata. « Come ti sono capitati in mano? »

« Il papà... mio padre. Me li ha messi nella fodera della giacca.

Ha detto che erano per me, per finanziare la mia istruzione e il mio mantenimento e tutte le cose che aveva intenzione di fare per me ma non poteva. »

« Dunque è vero! » disse sottovoce lo zio Tromp. « E' tutto vero quello che dicono i giornali, non sono le solite frottole degli inglesi.

Tuo papà è un rapinatore, un bandito. » La manona si chiuse sul tesoro di pietre luccicanti. « E tu eri con lui, Jong. C'eri sicuramente anche tu quando ha commesso le cose terribili di cui è accusato, e per cui certamente lo condanneranno. Eri con lui, Jong? Rispondimi! » La sua voce si stava alzando come vento di bufera, e adesso si mise praticamente a ruggire. « Hai commesso questo grandissimo peccato con lui, Jong? » L'altra mano scattò avanti e prese Manfred per il bavero della camicia da notte. Attirò la faccia del ragazzo a pochi centimetri dalla sua barba protuberanze. « Confessalo, Jong!

Dimmi tutto, fino all'ultima goccia del male che hai commesso. Eri con tuo padre quando ha assalito quell'inglese per rapinarla? »

« No! No! » disse Manfred, scuotendo la testa come un matto.

« Non è vero! Mio papà non farebbe mai una cosa del genere. I diamanti erano nostri. Me l'ha spiegato benissimo: ci siamo solo ripresi quello che era nostro. »

« Eri con lui quando ha fatto questa cosa, Manfred? Dimmi la verità! » Lo interruppe lo zio Tromp con un altro ruggito. « Dimmelo! Eri con lui? »

« No, zio Tromp, è andato da solo. E quando è tornato era ferito. Aveva il polso... la mano... »

« Grazie, o Signore! » Lo zio Tromp alzò gli occhi al cielo con sollievo. « Perdonalo perché non sapeva quello che faceva, o Signore! E' stato trascinato nel peccato da un uomo cattivo. »

« Mio papà non è cattivo », protestò Manfred. « Era stato im-brogliato e spogliato di tutto. »

« Silenzio, Jong.» Lo zio Tromp si alzò in tutta la sua statura, splendido e terribile come un profeta biblico. « Le tue parole offen-dono il Signore. Le sconterai all'istante. »

Trascinò Manfred per la rimessa e lo spinse davanti all'incudine di ferro nero.

« Non rubare. Questa è la parola di Dio! » Piazzò uno dei diamanti nel centro dell'incudine. « Queste pietre sono il frutto male acquisito di un peccato terribile. » Tastò la rastrelliera e afferro un mazzapicchio da due chili. «Debbono essere distrutte. » Mise il martellone in mano a Manfred.

« Invoca il divino perdono, Jong. Implora il Signore misericordioso e vibra la mazzata! »

Manfred si ritrovò con la mazza in mano, stretta al petto, guardando il diamante sull'incudine.

« Forza, Jong! Distruggi quella cosa maledetta o sii per sempre maledetto anche tu », ruggiva lo zio Tromp. « Colpisci, in nome di Dio! Liberati della colpa e della vergogna. »

Lentamente Manfred alzò la mazza sopra la testa e poi si fermò.

Si giro a guardare il fiero predicatore.

« Colpisci forte », insisteva. « Subito! » E Manfred vibrò la mazzata, col bello stile rotondo che già dimostrava spaccando la legna con la scure. Quando la mazza da demolitore si abbatté sull'incudine, il giovane sbuffò per lo sforzo. Poi lentamente la rialzò.

Il diamante era andato in polvere. Era una sostanza biancastra, piú fine dello zucchero, ma tuttora pregna dei resti del suo fuoco e della sua bellezza: i minuscoli granelli infatti splendevano ancora al-la luce della candela. Quando lo zio Tromp la spazzò via dall'incudine con una manata, la polvere volò creando un arcobaleno luminoso sul pavimento di terra battuta.

Lo zio Tromp mise un'altra inestimabile pietra sull'incudine.

Rappresentava una fortuna, che pochissimi uomini riuscirebbero a guadagnare in dieci anni di duro lavoro.

« Forza! » gridò, e il martello roteò sibilando per aria, e si abbatté sull'incudine come un gong. La preziosa polvere fu spazzata via e sostituita da un'altra pietra.

« Forza! » ruggiva la Tromba del Signore, e Manfred lavorava di martello, grugnendo e singhiozzando in gola a ogni colpo, finché al-la fine lo zio Tromp dichiarò:

« Iddio sia lodato! E' fatta! » e cadde in ginocchio con Manfred davanti all'incudine, come se fosse un altare, nella polvere di diamanti, e si misero a pregare.

« O Signore Gesú, contempla con favore questo atto di peniten-za. Tu che hai dato la tua vita per la nostra redenzione, perdona il tuo giovane servitore corrotto da ignoranza e bambinaggine piú che da volontà di peccare. »

Era mezzanotte passata e la candela si sciolse nella sua stessa ce-ra. Lo zio Tromp si alzò e tirò su anche Manfred.

« Vai a dormire ora, Jong. Per ora abbiamo fatto tutto il possibile per salvarti l'anima. »

Guardo Manfred scivolare sotto la coperta grigia. Poi gli chiese tranquillamente: « Se ti proibissi di andare a Windhoek domattina, mi ubbidiresti? »

« Mio padre! » sussurrò Manfred.

« Rispondimi, Dong, mi ubbidiresti? »

«Non lo so, zio Tromp, ma non credo che ci riuscirei. Mio papà... »

« Hai già tante cose di cui pentirti, e non voglio aggiungerci un atto di disobbedienza. Quindi non ti proibisco di andare. Farai quello che ti dettano la coscienza e la lealtà. Ma per il tuo bene e il mio, quando arrivi a Windhoek usa il cognome Bierman e non De La Rey! »

« Il giudizio è oggi. Ho sempre seguito la regola di non azzardare mai previsioni sull'esito delle cause e dei processi », disse Abe Abrahams, seduto davanti alla scrivania di Centaine, « ma in questo caso faccio un'eccezione: predico che quell'uomo andrà sulla forca. Non c'è il minimo dubbio su ciò. »

« Come fai a essere cosí sicuro, Abe? » gli chiese tranquillamente Centaine, e l'avvocato la guardò con intima ammirazione per un pò prima di risponderle. Indossava un semplice abitino con la vita bassa, che giustificava il prezzo solo per il taglio squisito del jersey di seta. Sottolineava il suo seno piccolo, che era di moda, e i fianchi stretti da ragazzo, davanti alla porta-finestra. La luce forte dell'Africa le formava un'aura radiosa intorno ai capelli: tutto ciò gli rendeva piuttosto difficile concentrarsi sulle ragioni giuridiche di quanto aveva appena affermato. Guardò allora il sigaro che stava fumando e cominciò a elencare i punti del suo discorso.

« Per prima cosa c'è la faccenduola della colpevolezza. Nessuno, e meno che mai la difesa, ha cercato seriamente di mettere in dubbio che sia colpevole come un demonio. Dolo nell'intenzione e nell'esecuzione, dolo nella preparazione, dolo nel tentativo di fuga e in tutte le circostanze aggravanti, dal furto dei cavalli dell'esercito al ferimento di un poliziotto con un'arma da guerra come una bomba a mano. Praticamente la difesa ha bell'e ammesso che la sua unica speranza consiste nell'estrazione di qualche arcano coniglio giuridico dal cilindro dei cavilli per fare impressione su Sua Eccellenza il giudice, cosa che finora però non è ancora avvenuta. »

Centaine sospirò. Per due giorni era stata interrogata come testimone: benché fosse sempre rimasta calma e imperturbabile sotto il fuoco di fila delle domande incrociate dell'accusa e della difesa, cominciava a sentirsi esausta, e in preda a un certo senso di colpa per aver spinto Lothar a quella disperata follia criminale e per guidare attualmente la muta di chi stava per scagliargli addosso tutti i fulmi-ni della legge.

« In secondo luogo », proseguí Abe agitando il sigaro, « ci sono i suoi precedenti. Durante la guerra è stato un traditore e un ribelle con una taglia sopra la testa, un disperato responsabile di un lungo elenco di atti di violenza. »

« Ma è stato amnistiato per i crimini di guerra », osservo Centaine. « Sul relativo decreto c'è la firma del primo ministro e del guardasigilli dell'epoca. »

« Ma peserà lo stesso a suo sfavore. » Abe scuoteva la testa con gravità e consapevolezza. « Dopo un'amnistia del genere, commettere un altro crimine significa mordere la mano del perdono, calpestare la dignità della legge. Ti garantisco che il giudice non gradirà affatto. »

Abe diede un'occhiata alla punta del sigaro. C'erano due centimetri di cenere grigia regolamentare, e ne fu soddisfatto al punto da annuire fra sé. « In terzo luogo », continuò, « l'uomo non mostra alcun segno di ravvedimento... nemmeno l'ombra: non ha detto a nessuno che fine ha fatto il bottino. »

Si interruppe alla vista della faccia di Centaine a sentir nominare i diamanti perduti. Cambio discorso in fretta: « Quarto, gli aspetti emotivi del delitto, commesso contro una signora dell'alta società ».

Rise sotto i baffi: « Una donna così indifesa da strappargli un bracciò con un morso... » Centaine si acciglio e smise di scherzare. « Il tuo coraggio e la tua dignitosa integrità sul banco dei testimoni pese-ranno moltissimo a suo sfavore. Hai ben letto i giornali: parlano di te come di un misto di Giovanna d'Arco e Florence Nightingale, in-sinuando che l'aggressione può aver avuto aspetti che ora il pudore non ti permette di denunciare. Il giudice ti offrirà la sua testa su un piatto. »

Centaine guardò l'orologio. « La corte tornerà a riunirsi tra quaranta minuti. Meglio avviarci. »

Abe si alzo subito. « Nulla mi piace di piú che vedere la giustizia all'opera, il suo passo dignitoso e misurato, con le trappole e i riti della procedura, il lento macinar le prove, lo sceverare il grano dal loglio... »

« Non ora, Abe », lo interruppe sistemandosi il cappello davanti allo specchio. Calò la veletta nera sopra un occhio, inclinò le falde a un angolo elegante, poi si mise sottobraccio la borsetta di coccodrillo. « Andiamo a veder finire questa cosa orribile senza altre perle oratorie da parte tua. »

Salirono sulla collina con la Ford di Abe. La stampa li aspettava davanti all'ingresso: i fotografi infilavano le macchine nei finestrini aperti e accecavano Centaine coi lampi di magnesio. Lei si riparava gli occhi con la borsetta, ma non appena scese dall'auto le furono addosso come un branco di lupi, tempestandola di domande.

« Le farebbe piacere che l'impiccassero? »

« Può sopportare la perdita dei diamanti, la sua compagnia, signora Courteney? »

« Pensa che la corte userà clemenza se De La Rey consentirà il recupero del bottino? »

« Che cosa prova attualmente? »

Abe cercò di farle da scudo, aprendosi la strada a gomitate e tirandola per il polso nella tranquillità relativa dell'aula.

« Aspettami qui, Abe », gli ordinò, e scivolò giú per il corridoio riservato ai testimoni, scostando la gente che si assiepava davanti al-l'ingresso del pubblico che era ancora chiuso. Le teste si voltarono a guardarla, ma le ignorò e s'infilo nella toilette delle signore. L'ufficiò riservato alla difesa era proprio di fronte e Centaine, dopo aver controllato che nessuno piú la osservasse, bussò in fretta a quella porta e scivolo dentro. Si chiuse l'uscio dietro le spalle e, quando gli avvocati difensori alzarono lo sguardo su di lei, disse: « Scusate l'intrusione, gentili signori, ma debbo parlarvi ».

Pochi minuti dopo Centaine raggiunse Abe che la stava aspettando.

« C'è anche il colonnello Malcomess », le disse, e tutte le altre preoccupazioni per il momento furono dimenticate.

« Dov'è? » gli chiese, impaziente di vederlo. Non l'aveva piú visto dal secondo giorno del processo, quando aveva prestato la sua testimonianza con la voce flautata e tenorile che le faceva sempre rizzare la peluria della nuca. La sua deposizione era risultata ancor piú schiacciante per l'imputato a causa della fredda obiettività del racconto. La difesa aveva cercato di confonderlo a proposito della sparatoria con vittime solo equine e soprattutto del lancio della bomba a mano: ma in breve si era resa conto che dalla sua testimonianza non c'era da aspettarsi alcun vantaggio e l'aveva congedato dopo un rapido interrogatorio. Da quel giorno Centaine l'aveva cercato sempre invano con gli occhi.

« Allora, dov'è? » ripeté.

« E' già entrato in aula », le rispose Abe, e Centaine si accorse che gli uscieri avevano aperto l'ingresso.

« C'è Charlie a tenerci il posto, non è necessario immergerci in quella confusione. » Abe la prese sottobraccio e la condusse con calma tra gli ultimi a entrare. I commessi la riconobbero e le fecero largo fino ai posti di terza fila che Charlie aveva occupato.

Centaine stava scrutando il pubblico alla ricerca dell'alta figura di Blaine. Sobbalzò quando la folla per un attimo creò uno spiraglio in fondo al quale lo scorse, dall'altra parte dell'aula. Anche lui la stava cercando e la vide un attimo dopo: sobbalzo a propria volta.

Si guardarono per qualche istante come se i pochi metri che li separavano fossero un insormontabile abisso. Nessuno dei due sorrise, ma neppure distolse lo sguardo. Poi lo spiraglio si richiuse e si persero di vista. Centaine si sedette e fece finta di cercare qualcosa nella borsetta per recuperare la compostezza.

« Eccolo! » esclamò Abe, e per un attimo lei penso che si riferis-se a Blaine. Poi vide che i carcerieri stavano portando dentro Lothar De La Rey.

Benché l'avesse visto tutti i giorni alla sbarra dall'inizio del processo, pure non era ancora abituata al cambiamento del suo aspetto.

Oggi indossava una camicia azzurra sbiadita, da manovale, e braghe scure senza un colore preciso. Gli indumenti sembravano troppo larghi per lui, e una manica era appuntata con una spilla da balia appena sotto il moncherino. Strascicava i piedi come un vecchio, sorretto da uno dei carcerieri per fare gli scalini che conducevano alla sbarra.

Adesso aveva tutti i capelli bianchi, e anche le folte sopracciglia erano spruzzate d'argento. Era incredibilmente magro e la sua carnagione aveva un aspetto terreo e senza vita: sotto il mento e sul collo la pelle formava delle pieghe flosce. L'abbronzatura era scolorita fino a diventare giallina come vecchio stucco.

Sedendo sul banco degli imputati, alzò la testa e diede un'occhiata al pubblico. Nella sua espressione si leggeva un'ansia patetica mentre faceva scorrere lo sguardo sulle panche. Poi Centaine vide il lampo di gioia nei suoi occhi e il sorriso represso appena trovo chi stava cercando. Aveva assistito a questa scenetta tutti i giorni, per cinque volte quindi, sicché ora si voltò subito a vedere la persona del pubblico che attirava così l'attenzione di Lothar.

« Silenzio in aula », gridò l'usciere. Nello scalpiccio creato dai presenti che si alzavano in piedi entrò il giudice Hawthorne con i due giudici a latere. Hawthorne, il presidente di questo tribunale, era un ometto dai capelli d'argento e l'espressione arguta e benevola di un maestro di scuola: sembrava incredibile che fosse il cinico di-spensatore di condanne a morte che diceva Abe.

Né lui né i due giudici a latere indossavano le ridicole parrucche e le tenute variopinte dei giudici inglesi. La legge olandese era fondata sul diritto romano e molto piú austera nelle sue manifestazioni di funerea pompa. I tre giudici erano avvolti in semplici toghe nere, con cravatte bianche a sbuffo, e confabulavano sottovoce mentre tutti gli altri presenti in aula, tossicchiando e strascicando i piedi, tornavano ad accomodarsi. Poi il giudice Hawthorne alzò gli occhi e si preparò a sbrigare la formalità di rileggere i capi d'imputazione e dichiarare aperta la seduta.

Un grande silenzio si accampò in aula. I giornalisti si chinarono sui taccuini, e perfino gli avvocati, in prima fila, si calmarono e tacquero un pò. Lothar, con espressione impenetrabile, mortalmente pallido, fissava il giudice come tutti.

Il magistrato consultava i propri appunti, per aumentare la tensione. Con istinto da guitto la protrasse fino agli estremi limiti della tollerabilità. Poi alzò lo sguardo e senza ulteriori indugi, con voce sonora, si lanciò nella sua parte.

Per prima cosa elencò le accuse, cominciando dalle piú gravi: tre tentati omicidi, due aggressioni aggravate, una rapina a mano armata. I capi d'imputazione erano ventisei in tutto e ci vollero quasi venti minuti per esaurirli.

« La pubblica accusa ha presentato i capi d'imputazione in maniera ordinata e convincente. »

Il suo rappresentante, dalla faccia tutta rossa, gongolò al complimento e Centaine si sentí irragionevolmente irritata da questa piccola manifestazione di vanità.

« La corte è stata particolarmente colpita dalle prove fornite dai principali testimoni a carico. Soprattutto la testimonianza di Sua Eccellenza l'Amministratore ci è stata di grande aiuto. E' una vera fortuna poter giovarsi di un testimone di questo calibro per quanto riguarda il dettagliato resoconto dell'inseguimento e dell'arresto dell'imputato, fase in cui sono stati commessi i piú gravi reati che questa corte è chiamata a giudicare. » Il giudice alzò gli occhi dalle carte e guardò Blaine Malcomess. « Sia quindi messo a verbale che il colonnello Malcomess ha fatto una favorevolissima impressione a questa corte, e che la sua testimonianza è stata accolta senza riserve. »

Dal posto di Centaine si vedeva solo la nuca di Blaine. Mentre il giudice lo guardava, le orecchie a sventola diventarono rosse, e Centaine si sentí invasa da una grande tenerezza nel notarlo. Quell'imbarazzo le pareva addirittura commovente.

Subito dopo, il giudice guardò lei.

« L'altra testimone a carico che si è condotta impeccabilmente e la cui deposizione è cristallina è la signora Centaine Courteney. La corte è pienamente consapevole della durezza e della gravità della prova inflittale, e del coraggio da lei dimostrato non soltanto in quest'aula. Ancora una volta è stata una fortuna potersi giovare della sua testimonianza chiara e dirimente per raggiungere il convincimen-to sempre mai necessario a emanare una sentenza. »

Mentre il giudice parlava, Lothar De La Rey voltò la testa e si mi-se a fissare Centaine. Quegli occhi chiari, che l'accusavano a loro volta su un piano piú elevato di quello del codice, la donna non riuscí a sostenerli. Abbassò lo sguardo sulla borsetta che teneva in grembo.

« Invece la difesa è riuscita a produrre solo un testimone, l'accusato stesso. Dopo matura considerazione, siamo giunti al convinci-mento che le prove da lui addotte sono inaccettabili. Il suo atteggiamento è rimasto sempre ostile e non-collaborativo. Rigettiamo in particolare l'asserzione dell'imputato di aver fatto tutto da solo, quando le testimonianze del colonnello Malcomess e dei suoi uomini chiariscono incontrovertibilmente che ha avuto dei complici. »

Lothar De La Rey voltò la testa lentamente in direzione del giudice e ricominciò a fissarlo con quell'espressione gelida e ostile che aveva tanto fatto inquietare Hawthorne nei primi cinque giorni del processo. Il giudice gli restituí lo sguardo e proseguí.

« Abbiamo quindi preso in esame tutti i fatti e le prove che ci so-no stati sottoposti raggiungendo un verdetto unanime. Abbiamo giudicato l'imputato Lothar De La Rey colpevole di tutti i ventisei reati di cui è accusato. »

Lothar non batté ciglio, ma dall'aula si levò come un sospiro co-rale, immediatamente seguito dal brusio dei commenti. Tre giornalisti saltarono in piedi e si precipitarono fuori. Abe si voltò a guardare Centaine, annuendo.

« Te l'avevo detto », le mormorò. « E' la forca. » I commessi cercavano di ristabilire l'ordine. Il giudice venne loro in aiuto. « Silenzio o non esiterò a fare sgombrare l'aula », avverti, e tutti zittirono

« Prima di passare alla sentenza, ascolterà qualunque cosa voglia aggiungere la difesa a favore dell'imputato. » Il giudice Hawthorne si volto a guardare il giovane avvocato difensore di Lothar, che si alzo subito in piedi.

Lothar De La Rey era in bolletta e non poteva permettersi un difensore di fiducia. L'avvocato Reginald Osmond era stato designato dalla corte a rappresentarlo d'ufficio. Nonostante la sua giovinezza e inesperienza - era il suo primo processo in cui c'era in ballo la pe-na capitale -, Osmond finora si era comportato in maniera passabile, data anche la situazione disperata del suo cliente. I suoi controinterrogatori, benché assolutamente inefficaci, erano stati almeno abili e vivaci, e non aveva consentito all'accusa di procurarsi vantaggi indebiti.

« Se Vostro Onore me lo consente, avrei intenzione di produrre un testimone a discarico. »

« Andiamo, andiamo, avvocato Osmond, come può pensare di introdurre un altro testimone a questo stadio del processo? C'è forse qualche precedente di ciò? » Il giudice lo guardava accigliato: il giovincello pretendeva di sconvolgergli il copione.

« Le faccio rispettosamente presente il processo Van der Spuy del 1923 e il processo Alexander del 1914. »

Il presidente conferì per qualche istante coi due giudici a latere e poi alzo gli occhi con un'espressione vanamente esasperata. « D'accordo, avvocato, sentiamo pure questo testimone. »

« Grazie, signore. » Osmond era cosí sconvolto da questo suo successo che balbettò, chiamando a testimoniare la signora Centaine De Thiry Courteney.

In aula piombò un silenzio sbalordito. Perfino il giudice Hawthorne non credeva alle proprie orecchie. Mentre Centaine si alzava per andare a deporre, si levò una voce dal pubblico: « Mettigli il cappio al collo a quel bastardo, bellezza! »

Il giudice Hawthorne recuperò in fretta la padronanza e si mise a dardeggiare sguardi di fuoco per identificare il disturbatore.

« Non tollererò altre interruzioni del genere. Vi ricordo che il reato di oltraggio alla corte è punito con pene severe », bercio. Perfino i giornalisti si misero tranquilli e si chinarono sui loro taccuini.

Il commesso accompagno Centaine al banco dei testimoni, la fe-ce giurare e sedere, mentre tutti i presenti, compresi i giudici, la guardavano: la maggior parte con aperta ammirazione, qualcuno, tra cui Blaine e Abraham Abrahams, con turbamento e perplessità.

L'avvocato Osmond si alzo in piedi per iniziare l'interrogatorio, la voce bassa e rispettosa incrinata da una nota di nervosismo.

« Signora Courteney, vuol dire alla corte da quanto tempo conosce l'imputato... » e qui si corresse in fretta, perché Lothar De La Rey non era piú imputato, essendo già stato riconosciuto colpevole:

« ... pardon, il detenuto »

« Conosco Lothar De La Rey da quasi quattordici anni. » Centaine guardo in faccia la figura grigia e curva alla sbarra.

« Vuoi essere tanto gentile da descriverci le circostanze del vostro primo incontro? »

« Era il 1919, e io ero sperduta nel deserto. Dopo il naufragio del Protea Castle ero stata gettata sulla Costa degli Scheletri. Per un an-no e mezzo ho vagato per il deserto del Kalahari con un piccolo gruppo di boscimani San. » Tutti sapevano la storia: all'epoca aveva fatto sensazione, ma ora il racconto della stessa Centaine, fatto col suo vago accento francese, la riporto all'attenzione di tutti.

Rievocò la desolazione e la sete, le paurose traversie e la solitudine che aveva sofferto, nel silenzio perfetto dell'aula. Perfino il giudice Hawthorne era immobile, come inchiodato al suo scranno, col mento appoggiato sulle mani, intento ad ascoltarla con la massima attenzione. Erano tutti con lei, mentre lottava con le sabbie onnipresentì del Kalahari, vestita di pelli d'animale, col bambino appena nato in braccio, intenta a seguire le tracce di un cavallo ferrato, il primo segno di civiltà che vedeva in tutti quei mesi di disperazione.

Patirono il freddo insieme a lei e condivisero la sua tragica solitudine nelle notti africane del deserto, quando ogni possibilità di salvezza sembrava sfumata; la esortarono mentalmente a proseguire instancabile, in direzione di un lontano e ancora invisibile fuoco da campo: rabbrividirono di terrore insieme a lei davanti alla sagoma sinistra e fatale del leone che le si era parato davanti; sussultarono con lei, quasi sentissero anch'essi il ruggito di un leone vicino nelle tenebre notturne.

Il pubblico sospiro e proruppe in esclamazioni di orrore quando racconto la sua lotta per la propria vita e quella del bambino; i giri del leone sempre piú vicino, che l'incalzava fin sull'albero di mopani, e poi cominciava ad arrampicarsi come un gatto che non intende rinunciare a un passero. Centaine descrisse l'ansito del suo fiato rovente nel buio; lo strazio al sentirsi ghermire la gamba dai suoi artigli lunghi e gialli e tirare, tirare irresistibilmente giú dall'albero.

Non riuscí a continuare, e qui intervenne gentilmente l'avvocato Osmond: «Fu in questo momento che intervenne Lothar De La Rey? »

Centaine si riscosse. « Scusate... tutto mi è ritornato in mente al-l'improvviso... »

« La prego di non affaticarsi troppo, signora Courteney », le disse il giudice venendole in aiuto. « Aggiornerò la seduta, se vuole... »

« No, grazie. Vostro Onore. Non è necessario. » Si raddrizzò e riprese a guardare l'aula. « Sì, fu proprio in quel momento che Lothar De La Rey intervenne. Era accampato li vicino, e i ruggiti l'avevano messo in allarme. Uccise il leone un attimo prima che mi sbra-nasse. »

« Dunque le salvò la vita, signora Courteney. »

« Sì, mi salvò da una morte terribile, e con me salvò anche il mio bambino. »

Il signor Osmond chinò la testa in silenzio, lasciando gustare al pubblico e ai giudici tutta la drammaticità di quel momento: poi chiese, con gentilezza: « E che cosa successe dopo, signora? »

« Ero rimasta priva di conoscenza per via della caduta; la ferita alla gamba si infettò. Rimasi fuori di me per parecchi giorni, completamente incapace di prendermi cura di me stessa e di mio figlio. »

« E quale fu il comportamento dell'accusato, allora? »

« Mi curò. Medicò le ferite e soddisfece tutte le esigenze mie e del bambino. »

« Le salvò la vita una seconda volta? »

« Si », annuí Centaine. « Mi salvò di nuovo. »

« Ora, signora Courteney. Sono passati parecchi anni. Lei è diventata una donna ricca, ricchissima, vero? »

Centaine restò in silenzio, e Osmond proseguí. « E un giorno, tre anni fa, il condannato è venuto a chiederle un aiuto finanziario per la sua impresa di pesca e inscatolamento del pesce. E' esatto? »

« Si rivolse alla mia compagnia, la Courteney Mining and Finance, per ottenere un prestito », disse Centaine, e Osmond continuò a farle raccontare tutto sino alla fine, quando aveva mandato gli ufficiali giudiziari a requisire la fabbrica e i pescherecci.

« Quindi, signora Courteney, si può dire che Lothar De La Rey abbia avuto ragione di ritenersi trattato ingiustamente, se non addirittura deliberatamente rovinato dalla sua azione? »

Centaine esitò. « Le mie azioni si sono sempre fondate su solidi principi economici, quelli che regolano il mondo degli affari. Tuttavia sono pronta ad ammettere che, dal punto di vista di Lothar De La Rey, le mie azioni potevano anche sembrare deliberatamente in-tese a rovinarlo. »

« All'epoca egli l'accusò di questo? »

Centaine si guardò le unghie rispondendo qualcosa-sottovoce.

«Mi dispiace, signora, ma debbo chiederle di ripetere la risposta. »

Lo guardò con gli occhi fiammeggianti e parlò con voce rotta.

« Sì, dannazione. Disse che volevo distruggerlo. »

«Signor Osmond! » Era il giudice Hawthorne, ritto sul suo scranno; che lo guardava con espressione severa. « Insisto perché tratti la testimone con maggiore considerazione! » Tornò a sedersi comodo, chiaramente turbato dal recital di Centaine, e poi tornò ad alzare la voce. « Sospendo la seduta per un quarto d'ora per dare modo alla signora Courteney di riprendersi. »

Alla ripresa dell'udienza Centaine tornò al banco dei testimoni, dove sedette tranquillamente attendendo che le formalità fossero completate e il signor Osmond potesse riprendere l'interrogatorio.

Dalla terza fila Blaine Malcomess le sorrise, per incoraggiarla, e lei si rese conto che se non distoglieva immediatamente lo sguardo da lui chiunque in quell'aula le avrebbe letto in viso i propri sentimenti. Si costrinse quindi a guardare da un'altra parte e lo sguardo le cadde sulla galleria del pubblico.

Era uno sguardo ozioso. Aveva dimenticato il modo in cui Lothar De La Rey scrutava in essa ogni mattina, ma adesso la vedeva dal suo stesso punto di vista. E di colpo i suoi occhi volarono verso l'angolo piú lontano della galleria, irresistibilmente attirati da altri due occhi che, con l'intensità di un fascio luminoso, si erano puntati su di lei; e le toccò sussultare, perché aveva l'incredibile impressione di fissare un altro Lothar De La Rey. Un Lothar come quello che aveva conosciuto tanti anni addietro, dallo sguardo color topazio, fiero e intelligente, con due sopracciglia arcuate e regolari sopra: occhi giovani, indimenticabili e non dimenticati. Ma quegli occhi non erano piú nella faccia di Lothar: Lothar era sul banco degli imputati, non lontano da lei, curvo, grigio e spento. Questa faccia invece era giovane, forte e piena d'odio, e lei sapeva chi era, lo sapeva con l'istinto sicuro di una madre. Non aveva mai visto il figlio minore: per sua volontà era stato portato via appena nato, e lei aveva distolto lo sguardo per non incontrare il suo volto nemmeno per un istante. Ma ora lo riconosceva, e le sembrava che il nucleo stesso della sua esistenza, il grembo che l'aveva nutrito, le dolesse sotto il suo sguardo, e dovette coprirsi la bocca per evitare di prorompere in un grido di dolore.

« Signora Courteney! Signora Courteney! » Il giudice la chiamava, in tono allarmato, e Centaine si costrinse a voltare la testa nella sua direzione.

«Sta bene, signora Courteney? Si sente in grado di continuare? »

« Grazie, signore, sto benissimo. » La sua voce sembrava venire da una grande distanza, e le ci volle tutta la sua forza di volontà per non tornare a guardare il ragazzo tra il pubblico: Manfred, suo figlio.

« Molto bene. Avvocato Osmond, può continuare. »

Occorse un altro grande sforzo di volontà a Centaine per concentrarsi sulle domande dell'avvocato, che la riportava alla rapina e alla lotta sul letto di un fiume asciutto.

« Se ben capisco allora, signora Courteney, egli non le ha torto un capello finché lei non ha tentato di prendere la doppietta? »

« Proprio così. Fino a quel momento non mi toccò. »

« Ci ha già raccontato che aveva in mano la doppietta e stava cercando di caricarla. »

« Esatto. »

« E l'avrebbe adoperata, se fosse riuscita a ricaricarla? »

«sì.»

« Ci può dire, signora Courteney, se avrebbe sparato per uccidere in tal caso? »

« Mi oppongo! » saltò su il pubblico accusatore. « Si tratta di una domanda puramente ipotetica. »

« Signora Courteney, può astenersi dal rispondere se vuole », le spiegò il giudice Hawthorne.

« Risponderò », disse con voce sonora Centaine. « Sì, avrei cercato sicuramente di ammazzarlo. »

« Pensa che il prigioniero lo sapesse? »

« Eccellenza, mi oppongo! Come fa a saperlo, la testimone? »

Prima che il giudice potesse intervenire, Centaine rispose. « Mi conosceva, mi conosceva bene. Sapeva che se solo avessi potuto l'avrei ucciso. »

Le emozioni a lungo represse esplosero a questo punto in aula, e ci volle quasi un minuto per riportare la calma. Nella confusione Centaine tornò a guardare tra il pubblico: finora era riuscita a resistere e a non farlo.

Il posto era vuoto. Manfred se n'era andato, e si sentì confusa per la sua diserzione. Osmond ricominciava a farle delle domande e perse la prima.

« Mi scusi, può ripetere la domanda? »

« Signora Courteney, le ho domandato se l'aggressione del mio cliente, allorché lei aveva la doppietta in mano, intenzionata a usarla per ucciderlo... »

« Mi oppongo, signor giudice! La testimone aveva semplicemente intenzione di difendere se stessa e i suoi beni », tuonò il pubblico accusatore.

« Dovrà riformulare la domanda, avvocato Osmond. »

« Benissimo, signore. Signora Courteney, vuoi dirci se il mio cliente ha usato contro di lei un'energia superiore a quella necessaria per disarmarla? »

« Mi dispiace. » Centaine non riusciva a concentrarsi. Aveva voglia di guardare ancora tra il pubblico. « Non capisco la domanda. »

« Il prigioniero ha usato piú forza di quella necessaria a disarmarla e impedirle di sparargli? »

« No, no, mi ha solo preso la doppietta e l'ha gettata via. »

« E poi, quando gli ha morsicato il polso... quando gli ha affondato i denti nella carne viva, infliggendogli una ferita destinata a causargli l'amputazione del braccio, l'ha colpita o le ha inflitto una benché minima rappresaglia? »

« No. »

« Chissà che male doveva fargli il polso... tuttavia egli non uso mai la forza contro di lei, vero? »

« No. » Centaine scosse la testa. « Era... » cercò le parole. « Era stranamente delicato, quasi gentile. »

« Capisco. E, prima di andarsene, il condannato si assicurò che avesse abbastanza acqua per sopravvivere? E le diede consigli utili per il suo benessere? »

« Controllò che avessi abbastanza acqua di riserva, e mi consigliò di restare accanto al veicolo finché non fossero venuti a soccor-rermi. »

« E ora, signora Courteney... » Osmond esitò per delicatezza.

« Sulla stampa si è insinuato che il prigioniero l'abbia sottoposta a violenze di carattere... indecente... »

Centaine l'interruppe, furiosa. « L'insinuazione è oscena e completamente infondata. »

« Grazie, signora. Ho solo un'altra domanda da farle: lei cono-scova bene il mio cliente. E' stata con lui a caccia quando l'aveva appena salvata, e doveva procurare della carne per lei e per il bambino. Dunque l'ha visto sparare? »

«Sí.»

« Secondo lei, se il prigioniero avesse voluto uccidere lei o il colonnello Malcomess o qualunque altro poliziotto che l'inseguiva, sarebbe stato in grado di farlo? »

« Lothar De La Rey è uno dei migliori tiratori che io conosca.

Avrebbe potuto ammazzarci tutti piú di una volta. »

« Non ho altre domande da rivolgere alla testimone. »

Il giudice Hawthorne prese lungamente appunti sul suo taccuino prima di alzare gli occhi sul pubblico accusatore.

« Vuol effettuare il controinterrogatorio della testimone? »

Il rappresentante dell'accusa si alzò, un pò a disagio. « Non ho altre domande da porre alla signora Courteney. »

Si rimise a sedere e alzò lo sguardo irritato verso il ventilatore che girava pigro sul soffitto.

« Signora Courteney, la corte la ringrazia delle ulteriori prove che ci ha fornito. Può accomodarsi al suo posto. »

Centaine era cosí intenta a scrutare la galleria del pubblico alla ricerca di suo figlio Manfred che inciampò in un gradino. Sia Abe sia Blaine balzarono in piedi per sorreggerla. Arrivò prima Abe, che poi l'accompagnò al suo posto.

« Abe », gli sussurrò impaziente. « C'era un ragazzo nella galleria del pubblico mentre stavo deponendo. Biondo, sui tredici anni, anche se ne dimostra sedici o diciassette. Si chiama Manfred, Manfred De La Rey. Trovalo. Voglio parlargli. »

« Subito? » Abe sembrava stupito.

« Sì, immediatamente. »

« Mi perderò l'istanza di riduzione della pena... »

« Vai! » berciò lei. « Trovamelo! » E Abe balzò in piedi, si inchinò ai tre giudici e corse fuori dell'aula proprio mentre l'avvocato Reginald Osmond si alzava nuovamente in piedi.

Osmond parlò con sincerità e passione, servendosi a tutto vantaggio del suo cliente delle dichiarazioni di Centaine, riprendendone le precise parole: « Mi ha salvato da una morte tremenda, e con me ha salvato mio figlio ». Osmond effettuò una pausa significativa e poi continuò. « Il condannato riteneva di meritare la gratitudine e la generosità della signora Courteney. Si era posto in suo potere chie-dendole del denaro in prestito, e credeva - sbagliando ma in buona fede - che la sua fiducia in lei fosse stata tradita. » La sua eloquente richiesta di attenuazione della pena andò avanti per una buona mezz'ora, ma Centaine pensava piú a Manfred che al destino di suo padre. Lo sguardo che il ragazzo le aveva rivolto dalla galleria del pubblico l'aveva profondamente turbata. C'era un odio addirittura palpabile, che aveva risvegliato in lei il senso di colpa, un senso di colpa che credeva di aver sepolto tantissimi anni prima.

« Ora resterà solo, avrà bisogno di aiuto », pensò. « Devo trovarlo. Devo cercare di risolvere i suoi problemi in qualche modo. »

Ora capì perché per tutti quegli anni avesse sempre respinto cosí decisamente il ragazzo, pensando a lui sempre e solo come al « bastardo di Lothar », e perché aveva sempre cercato di evitare ogni contatto con lui. Infatti era bastato vederlo in faccia una sola volta per far cadere tutte le difese che aveva costruito così accortamente, e per far rivivere i naturali sentimenti di madre che aveva seppellito così profondamente in sé.

«Trovamelo, Abe», sussurrò, e si rese conto che Reginald Osmond aveva concluso quel supplemento di arringa con un appello finale: « Lothar De La Rey si sentiva perseguitato a torto. In seguito a ciò, ha commesso una serie di crimini gravi e inqualificabili. Tuttavia. Vostro Onore, molte delle sue azioni dimostrano che non è un uomo malvagio, anzi pronto alla compassione, ma preso in un in-granaggio di tempestose emozioni e avvenimenti troppo potenti perché vi potesse resistere. Merita una condanna severa, la società giustamente la esige: ma io faccio appello a voi, signori della corte, affinché mostriate un pò della stessa compassione di cui oggi, qui, ha dato prova la signora Courteney, e non infliggiate a quest'uomo finito, che ha già pagato la sua colpa con la perdita di un arto, la massima pena prevista dalla legge ».

L'avvocato sedette in un silenzio che si protrasse per parecchi minuti, finché il giudice Hawthorne non parve risvegliarsi dalla sorta di reverie in cui era piombato. « Grazie, avvocato Osmond. Ora la corte si ritirerà in camera di consiglio. La sentenza sarà emessa questo pomeriggio alle due e mezzo. »

Centaine corse fuori dell'aula, cercando Abe o suo figlio. Trovò Abe sulla scalinata del palazzo, in piena conversazione con uno dei poliziotti di guardia. Si interruppe subito e le andò incontro.

« L'hai trovato? » gli chiese, tutta ansiosa.

« Mi dispiace, Centaine. Non c'è traccia di un ragazzo come quello che mi hai descritto. »

« Voglio che lo trovi e me lo porti assolutamente, Abe. Serviti di tutti gli uomini che vuoi. Non m'importa quello che può costare. Setaccia la città. Fa, tutto il possibile per rintracciarlo, deve pur abitare da qualche parte. »

« D'accordo, Centaine. Mi metterò subito all'opera. Dici che si chiama Manfred De La Rey... dunque è parente del rapinatore? »

« E' suo figlio », gli disse.

« Capisco », disse meditabondo Abe. « Posso chiederti perché lo vuoi cosí appassionatamente, Centaine? Che cosa gli farai quando l'avrai trovato? »

« No che non me lo puoi chiedere. Limitati a scovarlo. »

« Perché lo voglio trovare? » si chiese poi, con le stesse parole di Abe, Centaine, perplessa. « Perché lo voglio, dopo tutti questi an-ni? » La risposta era del tutto ovvia. « Perché è mio figlio. »

« E che cosa farò quando l'avrò trovato? Ha il dente avvelenato nei miei confronti. Mi odia, gliel'ho letto negli occhi. Non sa chi so-no in realtà: gli ho letto anche questo. E allora cosa farò quando me lo troverò di fronte? » Si dette una risposta altrettanto semplice:

« Non lo so. Non lo so proprio ».

« La massima pena prevista dal codice per i primi tre reati commessi dall'imputato è la morte per impiccagione », disse il giudice Hawthorne. « L'imputato è già stato riconosciuto colpevole sia di questi delitti sia degli altri elencati nell'imputazione. Normalmente questa corte non avrebbe esitazioni a infliggergli simile condanna.

Tuttavia, la straordinaria deposizione di una altrettanto straordinaria signora ci induce ad alcune riflessioni. I fatti volontariamente esposti dalla signora Centaine De Thiry Courteney risultano ancora piú notevoli se si pensa che quella donna ha sofferto molto a cagione dell'imputato... fisicamente, emotivamente e materialmente...

inoltre si prestano a essere fraintesi e ritorti contro di lei da persone invidiose e meschine.

« In trentatré anni di servizio nella magistratura non mi era mai capitato di assistere a una deposizione cosí nobile e magnanima, e ritengo quindi che la nostra deliberazione debba essere temperata dall'esempio offertoci dalla stessa signora Courteney. » Il giudice Hawthorne si inchinò leggermente verso Centaine. Poi si tolse il pince-nez dal naso e guardò Lothar De La Rey.

« L'imputato si alzi », disse.

« Lothar De La Rey, lei è stato riconosciuto colpevole di tutti i reati ascritti, che ai fini della sentenza risulteranno conglobati in uno. La pena che questa corte le infligge è l'ergastolo. »

Per la prima volta dall'inizio del processo Lothar De La Rey mostrò qualche emozione. Sembrava che le parole del giudice fossero sferzate a cui cercasse di sottrarsi. I lineamenti del volto cominciarono a contorcersi, una palpebra si mise a tremargli incontrollabilmente, e alzò l'unica mano che gli rimaneva verso il magistrato in toga sul suo scranno.

« Piuttosto uccidetemi! » urlò. « Impiccatemi, ma non rinchiu-detemi come un animale... »

I carcerieri lo portarono via mentre crollava il capo e si agitava, distrutto dal verdetto: tutta l'aula taceva investita da un'ondata di umana compassione. Perfino il giudice ne fu toccato: col viso turbato e mesto. Si alzò e lentamente uscí dall'aula coi suoi due colleghi.

Centaine restò seduta, guardando i banchi vuoti e la gente che sfollava in silenzio come a un funerale.

« Piuttosto uccidetemi! » Sapeva che non avrebbe mai dimenticato quell'implorazione. Chinò la testa e si coprí gli occhi con la ma-no. Col pensiero rivedeva Lothar com'era quando l'aveva conosciuto, duro e snello come un leone rosso del Kalahari, con gli occhi chiari che scrutavano lontananze perdute nella foschia azzurrina, creatura degli spazi sconfinati inondati di bianca luce solare. E pensò alla sorte che l'aspettava adesso: stare rinchiuso per sempre in un'angusta cella, privato a vita del sole e del vento del deserto.

« Oh, Lothar », gridò dal profondo dell'anima sua, « com'è possibile che qualcosa di tanto grande e bello un tempo sia finito cosí?

Ci siamo distrutti a vicenda distruggendo anche il bambino che con-cepimmo nella splendida stagione del nostro amore. »

Riaprí gli occhi. L'aula si era svuotata e penso di essere rimasta sola, finché non avverti una presenza vicino a lei. Subito si volto e vide che c'era Blaine Malcomess.

« Ora capisco quant'era giusto che ti amassi », le disse piano.

Stava in piedi dietro di lei, con la testa china verso la sua, ed ella lo guardo sentendo il terribile fardello della pena e del rimpianto cominciare ad alleggerirsi.

Blaine le prese la mano e la strinse tra le sue. « Ho lottato continuamente con me stesso da quando ci siamo separati, cercando di trovare la forza di non rivederti mai più. C'ero quasi riuscito. Ma quello che hai fatto oggi ha cambiato tutto. Ormai onore, dovere e tutto il resto non significano piú niente per me quando ti guardo.

Fai parte di me, e io devo stare con te. »

« Quando? »

« Il piú presto possibile », disse lui.

« Blaine, nella mia lunga vita ho fatto molto male agli altri, infliggendo dolore e infelicità. Adesso basta. Anch'io non posso vivere senza di te, ma non voglio sacrificare nessuno al nostro amore. Ti vorrei tutto intero, ma mi accontenterò di meno, per il bene della tua famiglia. »

« Sarà molto difficile, forse impossibile », l'avverti sottovoce.

« Ma accetto le tue condizioni. Non faremo male agli altri. Pure, io ti voglio cosí tanto che... »

« Lo so », gli sussurrò alzandosi a guardarlo negli occhi. « Ab-bracciami, Blaine, solo un momento. »

Abe Abrabams stava cercando Centaine nei corridoi del palazzo di giustizia. Raggiunse la porta dell'aula e scostò silenziosamente il battente.

Centaine e Blaine Malcomess erano abbracciati nel corridoio, dimentichi del mondo circostante. Li guardò un attimo senza capire, poi richiuse la porta e si mise di guardia, agitato da mille timori e speranze di felicità per lei.

«Ti meriti amore», sussurrò. «E quest'uomo può dartelo, a Dio piacendo. »

« Il Paradiso Terrestre doveva essere un pò cosí », pensava Centaine. « Ed Eva doveva sentirsi come mi sento io oggi. »

Andava piano, piú piano di quanto fosse mai andata quand'era al volante. Benché il suo cuore ardesse d'impazienza, lo tenne a bada.

« Sono rimasta senza vederlo per cinque lunghi mesi », si diceva.

« Cinque minuti in piú di attesa non faranno che rendere ancora piú dolce il momento in cui potrò riabbracciarlo. »

Nonostante le migliori intenzioni di Blaine e tutte le sue assicurazioni, le condizioni poste da Centaine prevalsero. Non erano piú stati insieme dopo gli attimi rubati in quell'aula giudiziaria. Per tutto quel tempo erano rimasti separati da centinaia di chilometri: Blaine monopolizzato dai suoi doveri a Windhoek, Centaine a Weltevreden, a lottare disperatamente giorno e notte per la sopravvivenza dell'impero finanziario ora scosso dagli spasimi dell'agonia, atterrato dalla perdita di tutti quei diamanti, nessuno dei quali era stato mai recuperato. Dentro di se, Centaine paragonava quel colpo a una delle freccette avvelenate di O'wa, il piccolo boscimano giallo: sembravano un giocattolo innocuo, ma erano capaci di ammazzare le piú grandi bestie dell'Africa. Indebolivano e lentamente paralizza-vano la vittima, che dapprima barcollava incerta sulle zampe, poi cascava e giaceva ansimando, in attesa del plumbeo sudario della morte che si spandesse per vene e arterie, o del colpo di grazia del cacciatore.

« E io sono in questo stato adesso, paralizzata e a terra, mentre i cacciatori si avvicinano. »

In quei mesi aveva lottato con tutta la sua risolutezza ed energia, ma ormai era stanca... stanca fino all'ultima fibra della mente e della carne, fino all'osso. Si guardò nello specchietto retrovisivo e si riconobbe a stento. Aveva gli occhi spenti e le occhiaie infossate che il trucco non riusciva a celare. Era una maschera di stanchezza e disperazione. Gli zigomi sembravano trasparire sotto la pelle cerea, e agli angoli della bocca si distinguevano ruchette d'esaurimento.

«Ma oggi metterò da parte la disperazione. Non ci penserò, neanche un momento. Penserò invece a Blaine e al magico scenario che la natura ci offre. »

Aveva lasciato Weltevreden all'alba ed era ormai duecento chilometri a nord di Citta del Capo, sfrecciava nella vasta pianura spoglia del Namaqualand e puntava giú dove la verde corrente di Benguela carezzava le scogliere occidentali d'Africa, pur se l'oceano non si vedeva ancora.

Le piogge erano arrivate tardi quell'anno, ritardando la fioritura primaverile, per cui, benché ormai mancassero poche settimane a Natale, il veld era ancora tutto vestito coi colori della festa. Per la maggior parte dell'anno queste pianure erano spoglie e spazzate dal vento, scarsamente abitate e ben poco invitanti. Ma adesso le lievis-sime ondulazioni erano tutte coperte di un mantello ininterrotto di vegetazione, dai colori così vividi da confondere lo sguardo. C'erano fiori di cinquanta varietà diverse, e ogni specie si raggruppava facendo macchia e trasformando il paesaggio in una specie di divino mosaico, cosí luminoso che pareva splendere di luce incandescente riflessa dagli empirei celesti con un'intensità di colori che l'occhio trovava quasi dolorosa.

La strada di terra battuta, ineguale e serpeggiante, era l'unico punto di riferimento in questo splendido caos, e anche quella si perdeva ben presto tra le erbe. I solchi erano separati da una fioritura selvaggia di fiori di campo che strisciavano sotto il ventre dell'automobile producendo un rumore come di torrente montano. In cima a un'ondulazione Centaine fermò la macchina.

Davanti a lei si stendeva l'oceano, una distesa verde punteggiata di creste bianche che confinava con quest'altra distesa di boccioli multicolori. Dal finestrino aperto la brezza marina le scompigliò i capelli piegando miliardi di steli e facendoli cosí respirare all'unisono col mare.

Sentí le preoccupazioni e le pene di quegli ultimi mesi dissiparsi alla presenza di tanta bellezza vibrante, e rise spontaneamente di gioia commossa, riparandosi gli occhi da quell'esplosione di fiori arancione, rossi e gialli, scrutando in basso alla ricerca della costa.

« Non è che una capanna », le aveva detto Blaine nell'ultima lettera. « Due stanze senz'acqua corrente, un focolare all'aperto e nessuna comodità. Ma ci passo le vacanze da quando ero bambino, e adoro il posto. Non ci ho portato piú nessuno da quando è morto mio padre. Appena posso ci vado, sempre da solo. Sarai la prima. »

E le accludeva una cartina disegnata per consentirle di arrivarci.

La scorse subito, proprio in riva all'oceano, sul promontorio della baietta. Il tetto di paglia era annerito dagli anni, ma i muri spessi di argilla cruda erano imbiancati e dello stesso colore delle creste di spuma che incoronavano le onde verdi del mare. Un fil di fumo anneriva il cielo azzurro, dirigendosi proprio verso di lei.

Oltre la casa scorse del movimento e distinse una figuretta umana sulla scogliera, e tutt'a un tratto fu divorata dalla fretta.

Ma il motore non voleva piú partire. Azionò l'avviamento fino a scaricare la batteria.

« Merde! E poi ancora merde! » Era una macchina vecchia, stra-pazzata da uno dei sovrintendenti della tenuta di Weltevreden finché lei non l'aveva adibita alla sostituzione della Daimler distrutta. Il fatto che si guastasse proprio adesso aveva l'effetto di ricordarle sgradevolmente tutte le sue difficoltà, che era appena riuscita a mettere temporaneamente da parte, e di farle rimpiangere l'epoca felice in cui poteva permettersi una Daimler gialla nuova ogni anno.

Tolse il freno a mano e lasciò che l'auto si avviasse da sola giú per la discesa. Prese una rincorsa sufficiente, riuscí a far partire il motore tra sbuffi di fumo azzurrino: dopo di che si precipitò giú per la strada a tutta velocità e in breve si fermò dietro il bianco cottage.

Corse agli scogli neri sopra l'oceano e le alghe danzanti al ritmo della risacca e si mise a gridare sventolando la mano, nel frastuono che quasi annullava i suoi strilli: ma lui la sentí e alzò la testa, la vi-de e le corse incontro saltando da una roccia scivolosa all'altra.

Indossava solo un paio di calzoncini kaki, e aveva in mano una sfilza di aragoste ancora vive. Gli erano cresciuti i capelli dall'ultima volta che l'aveva visto. Erano bagnati e ricciuti per via del sale marino, e lui rideva, mostrando i dentoni candidi. Si era fatto crescere i baffi. Non era sicura che le piacessero, ma questo pensiero affondò nel gorgo di ben altre emozioni e Centaine si lanciò ad abbracciare il suo nudo petto.

« Oh, Blaine », singhiozzava. « Oh, Dio, quanto mi sei mancato! » Poi gli porse le labbra. Il suo viso era bagnato di spruzzi e la sua bocca era salata. I baffi le facevano il solletico. No, non le piacevano proprio... ma ecco che già l'aveva presa in braccio e correva verso il cottage, mentre lei gli si aggrappava forte al collo, sobbal-zandogli addosso al ritmo della sua lunga falcata, ridendo come una matta per la gran voglia che aveva di lui.

Blaine sedeva su uno sgabello a tre gambe davanti al fuoco all'aperto, dove la legna odorosa del milkwood spargeva per l'aria un fragrante profumo d'incenso. Centaine stava producendo della schiuma da barba nella ciotola per tagliargli i baffi, mentre Blaine si lamentava.

« Ci sono voluti cinque mesi per farli crescere, e ne ero cosí fiero... » Si ritorse per l'ultima volta la punta del baffo. « Mi danno un'aria così ardita, non trovi? »

« No », disse secca Centaine. « Preferirei farmi baciare da un porcospino. » Si chinò su di lui e gli spennellò della schiuma densa sul labbro superiore, poi fece un passo indietro e lo contemplò come un pittore potrebbe fare con un quadro.

Appollaiato sullo sgabello, Blaine era ancora nudo come Adamo, perché venivano dal letto. A un tratto Centaine fece un sogghi-ano malizioso. Prima che potesse intuire le sue intenzioni e ripararsi, lei aveva fatto un passo avanti e gli aveva spennellato un baffo di schiuma sulla piú intima propaggine.

Si guardò atterrito. « Anche lui? » le domandò.

« Sarebbe come tagliarmi il naso per far dispetto alla mia faccia », ridacchiò lei. « O qualcosa del genere. » Poi inclinò la testa da una parte ed espresse un'opinione critica. « Devo dire che il diavoletto col baffo sta molto meglio di te. »

« Piano coi diminutivi », l'ammoni lui, cercando l'asciugamano.

«Tranquillo, vecchio mio, non ho nessuna intenzione di lasciarti mancare di rispetto », disse avvolgendosi la salvietta attorno alla vita.

« Cosí va meglio. Adesso posso concentrarmi sul mio lavoro senza distrazioni. » Prese in mano il rasoio e cominciò ad affilarlo sulla striscia di cuoio con rapidi colpi esperti.

« Dove hai imparato? Comincio a ingelosirmi. »

« Mio padre », gli spiegò. « Gli regolavo sempre i baffi. Adesso tienti forte! »

Gli prese tra indice e pollice la punta del naso e tiro su.

Blaine attacco la preghiera del Ringraziamento con vocetta nasa-le. « Per quanto stiamo per ricevere... » Chiuse gli occhi e sussulto quando la lama d'acciaio calo sulla pelle scabrosa, falciando. Centaine fece un passo indietro e pulí il rasoio pieno di schiuma e di pe-li, lo posò e gli passò un polpastrello sul labbro superiore pulito.

« Meglio da guardare, meglio da toccare », gli disse. « Ma c'è un'altra prova da fare. » E lo bacio.

« Mmhmml » fece poi, mugolando la sua completa approvazione. Senza nemmeno interrompere il bacio gli sedette in grembo.

Si rivelo un bacio di lunghezza cinematografica, al termine del quale lei si alzo e guardò in basso. L'asciugamano era scivolato via.

« Riecco il diavoletto baffuto, evidentemente in cerca di guai. » Si chino a ripulirlo delle ultime tracce di schiuma da barba.

« Vedi, anche lui sta meglio raso. »

Blaine si alza riprendendola in braccio. « Cara la mia donna, adesso ti faccio vedere io chi e che comanda qua. » E la porto al letto addossato alla parete piú lontana.

Molto piú tardi ci sedevano sopra, fianco a fianco, con le gambe incrociate e una variopinta coperta basuto sulle spalle. Guardavano il fuoco guizzare, ascoltavano l'oceano e il vento che giocherellava nella paglia del tetto. Avevano in mano una scodella di zuppa di pesce.

« E' una delle mie specialità », si era vantato Blaine, ed eccola lì, piena di grossi tocchi d'aragosta e del pesce chiamato galjoen, tutta roba pescata quel giorno stesso. « E' capace di far rivivere chi si trovi a un passo dalla morte per consunzione. »

Blaine ricarico due volte le scodelle, perché entrambi avevano una fame da lupo. Poi Centaine ando al fuoco, con il corpo nudo splendente dei suoi bagliori aranciati. per portargli una brace e ac-cendergli il sigaro. Ravvivato il fuoco, torno sotto la coperta raggo-mitolandosi accanto a lui.

« Hai poi trovato quel ragazzo che cercavi? » le domandò oziosamente. « Abe Abrahams è venuto da me a chiedere collaborazione, sai. »

Non sapeva certo quanto la domanda l'aveva sconvolta, perché Centaine era riuscita a mascherare il riflesso di irrigidimento del suo corpo e si era limitata a scuotere la testa. « No. Era sparito. »

« Era il figlio di Lothar De La Rey. L'ho intuito. »

«Sí», ammise Centaine. «Ero preoccupata per lui. Dopo la condanna del padre dov'essere rimasto solo e abbandonato. »

« Continuerò a cercarlo », le promise Blaine. « E ti farò sapere se salta fuori qualcosa. » Le accarezzò i capelli. « Sei una persona gentile », le sussurrò. « Non c'era nessuna ragione al mondo che te ne preoccupassi tu. »

Rimasero in silenzio ancora un pò, ma il riferimento al mondo esterno aveva rotto l'incanto e avviato una serie di pensieri che doveva essere per forza seguita fino in fondo.

« Come sta Isabella? » chiese lei, e sentí i muscoli del torace dell'uomo gonfiarsi e indurirsi sotto la sua guancia. Prima di rispondere, Blaine tirò una boccata dal sigaro.

« Le sue condizioni stanno peggiorando. Atrofia dei nervi della parte inferiore del corpo. Piaghe. E' ricoverata all'ospedale Groote Schuur da lunedí. Le ulcerazioni alla base della spina dorsale sembrano proprio inguaribili. »

« Mi dispiace, Blaine. »

« Ecco come ho fatto a procurarmi questi pochi giorni liberi. Ho mandato le bambine dalla nonna. »

« Provo rimorso. »

« Se non potessi vederti, starei ancora peggio », le rispose lui.

« Blaine, dobbiamo assolutamente attenerci alla nostra decisione. Non dobbiamo far del male né a lei né alle tue figlie »

Lui rimase zitto, poi di colpo gettò il sigaro nel fuoco, dall'altra parte della stanza. « Pare che dovrà andare a farsi operare in Inghilterra. Al Guy's Hospital c'è un chirurgo che fa miracoli. »

« Quando? » Si sentiva il cuore in petto come una palla di cannone, pesantissimo e soffocante.

« Prima di Natale. Dipende dalle analisi che le stanno facendo adesso. »

« E certo tu dovrai andare con lei. »

« Significherebbe dimettermi dalla carica di amministratore e rovinare le mie possibilità di... » Si interruppe: non aveva mai parlato con lei delle sue ambizioni.

« Le tue possibilità di diventare un giorno ministro e magari capo del governo », finì Centaine per lui.

Si girò, le prese la faccia tra le mani e la guardò negli occhi. « Lo sapevi? » le chiese, e Centaine annuì.

« Mi giudichi crudele? » le domando. « A lasciar andare Isabella da sola, per le mie ambizioni egoistiche? »

« No », gli rispose seria. « So che cos'è l'ambizione. »

« Mi sono offerto », le disse, mentre ombre scure gli trascorreva-no negli occhi verdi. « Isabella non ha voluto. Ha insistito che restas-si qui. » Riattirò la testa di lei sul suo petto, e le carezzò i capelli sulla tempia. « E' una persona straordinaria. Ha un grande coraggio. Il dolore non l'abbandona mai adesso, sai? Non riesce a dormire senza laudano. E ce ne vuole sempre di piú, perché il dolore cresce ogni giorno. »

« Mi sento assai colpevole, Blaine, ma nonostante tutto sono contenta di questa possibilità di stare con te. In fondo non le sottraggo niente. »

Ma non era vero, e lei lo sapeva bene. Restò sveglia a lungo dopo che lui si fu addormentato. Teneva l'orecchio appoggiato al suo petto e sentiva il suo cuore e il suo respiro.

Quando si svegliò, lui indossava i calzoncini kaki e stava andando a pesca sulla scogliera con una lunga canna e il mulinello. « Tra venti minuti torno con la colazione », le promise lasciandola raggomitolata sul letto, ma tornò anche prima con un pesce color argento e grigio topo lungo come il suo braccio che rapidamente preparò e mise sulla griglia. Poi la raggiunse e le strappò la coperta di dosso.

« Va, a nuotare! » le disse con un sogghigno sadico, mentre lei si metteva a urlare.

« Tu sei matto. L'acqua è freddissima! Mi farai morire di polmonite! » Continuo a protestare strepitosamente mentre lui la trascinava giú per la scogliera fino a una pozza di acqua calma tra le rocce, dove la buttò.

L'acqua era trasparente come aria, e così fredda che quando uscirono il loro corpo era tutto rosa intenso, e i capezzoli di lei sporgevano duri e scuri come olive mature. Ma tutto quel gelo aveva aguzzato l'appetito: spruzzarono di limone la carne bianca e succulenta del pesce (un galjoen) e se lo divorarono in un attimo con aggiunta di pane e burro salato di fattoria.

Finalmente sazi, si abbandonarono sulle sedie e Blaine la guardò. Indossava soltanto uno dei suoi golf blu da marinaio, che le arrivava alle ginocchia. Si era acconciata i capelli ribelli e intrisi di sa-le a crocchia e li teneva a posto con un nastro giallo.

« Potremmo andare a fare una passeggiata », le propose, « Oppure... »

Centaine ci penso qualche secondo e poi decise: « Oppure, oppure ».

« I suoi desideri, madonna, sono ordini », le rispose in tono cortese, sfilandole immediatamente il golf di dosso.

Verso metà mattina era sdraiato sulla schiena, mentre Centaine, coricata su un fianco, gli stuzzicava labbra e naso con una piuma uscita dalla cucitura del cuscino.

« Blaine », gli disse sottovoce, « sto per vendere Weltevreden. »

Lui aprì gli occhi, le catturo il polso e si rizzo subito a sedere.

« Vendere? E perché? »

« Perché devo », gli rispose semplicemente. « La tenuta, la casa e tutto quel che c'è dentro. »

« Ma perché, tesoro mio? So quanto significhi per te. Perché venderla? »

« E' vero, Weltevreden rappresenta moltissimo per me », ammise. « Ma la miniera H'ani rappresenta di piú. Se vendo casa e tenuta, c'è una possibilità, una piccolissima possibilità che possa salvare la miniera. »

« Non lo sapevo », le disse con gentilezza. « Non avevo idea che le cose ti andassero così male. »

« E come potevi saperlo, amore mio? » Gli carezzo la faccia.

« Non lo sa nessun altro. »

« Ma non capisco... la miniera H'ani... sicuramente renderà abbastanza da... »

« No, Blaine. Oggi nessuno compra diamanti. Non si compra piú niente, in realtà. E' questa terribile crisi, questa depressione...

La nostra quota è stata drasticamente ridotta. Il prezzo a cui ci pagano le pietre oggi è pari alla metà di quanto ce le pagavano cinque anni fa. La miniera H'ani non è piú nemmeno in pareggio. Perde qualcosina ogni mese. Ma se riesco a resistere fin quando l'economia mondiale riprende... » Si interruppe. « L'unica possibilità che ho di farcela consiste nel vendere Weltevreden. E' tutto quel che ho da vendere, ormai. In questo modo potrò forse resistere fino alla metà dell'anno prossimo, e sicuramente per allora questa terribile depressione sarà finita. »

« Sicuramente sì! » concordò lui. E dopo una breve pausa: « Centaine, io ho un pò di denaro... »

Gli posò il dito sulle labbra, sorrise malinconicamente e scosse la testa.

Lui le allontanò la mano e insisté: « Se mi ami, devi lasciare che ti aiuti ».

« Il nostro patto, Blaine », gli ricordò. « Non dobbiamo far del male a nessun altro. Quel denaro appartiene a Isabella e alle tue figlie. »

« Appartiene a me », disse lui. « E se io decido... »

« Blaine! Blaine! » lo fermò. « Mi occorre un milione di sterline per salvarmi ora! Un milione di sterline! Ce l'hai, tu? Una cifra inferiore sarebbe sprecata, sparirebbe semplicemente nel pozzo senza fondo dei miei debiti. »

Scosse piano la testa. « Così tanto? » Poi ammise sconsolato:

« Non ce l'ho. Non ho nemmeno un terzo di quei soldi ».

« Allora non parliamone piú », gli disse con fermezza. « Adesso fammi vedere come si fa a pescare qualche gambero per pranzo. Non voglio piú parlare di cose sgradevoli per il resto del tempo che passeremo insieme. Ce ne vorrà anche troppo per le grane in seguito. »

L'ultimo pomeriggio salirono sulla collina dietro il cottage, tenendosi per mano tra i fiori. Il polline colorava loro le gambe di giallo-zafferano, e le api indisturbate si alzavano a nugoli, per tornare subito dopo a posarsi.

« Guarda, Blaine, guarda come ogni fiore gira la testa per seguire il sole. Io sono come un fiore, e il mio sole sei tu, amore mio. »

Vagarono per la collina. Blaine raccolse i fiori piú belli e ne fece una corona per lei. Gliela mise in testa. « Ti incorono Regina del mio cuore », salmodiò, e benché lo dicesse ridendo i suoi occhi erano seri.

Fecero l'amore distesi sui fiori, schiacciando petali e steli che li racchiusero in una nuvola profumata. Dopo, Centaine, rannicchiata tra le sue braccia, gli disse: « Sai che cosa farò? »

« Dimmelo », le suggerì, roco dal piacere.

« Darò loro qualcosa di cui parlare », disse. « Fra un anno potranno magari dire: "Centaine Courteney ha mollato", ma dovranno aggiungere: "però l'ha fatto con stile". »

« Cosa ti proponi di fare? »

« Un grandissimo ricevimento per Natale. Aprire per una settimana la casa di Weltevreden, con champagne e balli tutte le sere! »

« Servirà anche per ingannare un pò piú a lungo i creditori », disse lui, sogghignando. « Ma non credo che tu ci abbia neppure pensato, vero? Sei una volpe ingenua. »

« Non è l'unica ragione. Ci darà la possibilità di vederci: perché tu ci verrai, vero? »

« Dipende. » Parlava nuovamente sul serio, ed era evidente che la cosa dipendeva da Isabella. Ma non lo disse. « Dovrei trovare un'ottima scusa per venire: ma davvero ottima. »

« Te la darò io », replicò Centaine, tutta eccitata. « Organizzerò un torneo di polo! Inviterò squadre da tutto il paese e tutti i migliori giocatori. Tu sei il capitano della nazionale, non ti potrai rifiutare, no? »

« Non vedo come », ammise lui. « Che volpe, che volpe! » disse scuotendo la testa, ammirato.

« Ti farò conoscere il mio Shasa. Te l'ho detto che non fa che torturarmi per esserti presentato, da quando sa che ti conosco. »

« Ne sarò felicissimo. »

« Dovrai rassegnarti a essere adorato come un eroe. »

« Potresti invitare qualche squadra di giovani », le suggerì Blaine. « Organizzare un torneo anche per loro. Mi piacerebbe veder giocare tuo figlio. »

« Oh, Blaine! Che magnifica idea! » Batté le mani, eccitata.

« Povero il mio ragazzo! Sarà probabilmente l'ultima volta che po-trà montare un cavallo suo. Infatti mi toccherà venderli insieme alla tenuta», sospirò. Le ombre tornarono a incupirle gli occhi per un momento, ma si riprese subito e con lo sguardo di nuovo brillante ripeta: « Te l'ho detto: lascerò in grande stile ».

La squadra di Shasa, la Weltevreden Invitation, composta di giocatori sotto i sedici anni, era riuscita ad arrivare in finale, soprattutto per via degli handicap. Shasa era l'unico giocatore con handicap positivo: degli altri tre membri, due erano «scratch handicaps », e l'altro « minus ».

Come che fosse, ora si trovavano di fronte i Natal Juniors, quattro dei migliori giocatori della categoria, tutti classificati due o tre punti tranne il capitano, Max Theunissen. Questi rientrava nei limiti di età per pochi mesi. Era classificato giocatore da cinque punti, il miglior giocatore africano della sua categoria d'età: era dotato di statura, peso, occhio e potenza di polso. Sapeva giovarsi al meglio di tutte le sue doti, giocando pesante.

Shasa era il secondo miglior giocatore del paese, con quattro punti, ma non aveva ancora il peso e la forza dell'altro. Max era poi aiutato dai compagni di squadra, forti pure loro, mentre Shasa aveva una squadra di brocchi, e non poteva fare tutto da solo.

In cinque tempi Max aveva segnato nove punti nonostante la disperata difesa di Shasa, cancellando l'handicap della squadra: sicché le due compagini cambiarono cavalli per l'ultimo tempo trovandosi in perfetta parità.

Shasa balzò giú di sella con la faccia tutta rossa per lo sforzo, la frustrazione e la rabbia. Sgridò il primo stalliere: « Abel, non hai tirato bene il sottopancia! »

Lo stalliere nero scosse la testa nervosamente. « L'ha controllata lei, signorino Shasa. »

« Non rispondere! » Ma non guardava neppure Abel. Stava scrutando dall'altra parte del campo, verso i cavalli della squadra del Natal, dove Max Theunissen era circondato da uno stuolo di ammiratori. « Per questo tempo monterò Tiger Shark », gridò ad Abel sempre senza guardarlo.

« Ma aveva detto Plum Pudding! » protesto lo stalliere.

« E adesso dico Tiger Shark. Cambia sella e controllagli le fasce agli anteriori. »

Plum Pudding era un cavallo piccolo, e già un pò avanti negli anni, e anche un pò rotondetto: ma aveva un grande istinto per la palla e si piazzava sempre dove Shasa meglio poteva tirare. I due avevano sviluppato un magnifico rapporto. Tuttavia, conforme-mente all'età avanzata, Plum Pudding stava diventando un pò troppo timoroso. Non gli piacevano piú le galoppate rompicollo, e scartava nervoso quando doveva correre spalla a spalla con un altro cavallo. Shasa aveva notato che dall'altra parte del campo Max Theunissen aveva fatto preparare il suo stallone nero Nemesis. Negli ultimi quattro giorni, con questo animale aveva terrorizzato tutti i giocatori della categoria junior, sfiorando sempre cosí maliziosamente il fallo da mettere a malpartito gli arbitri: in tal modo era sempre riuscito a far deviare gli altri cavalieri dalla loro linea di tiro, anche se avevano il diritto di precedenza, e ad affrontare i contrasti coi giocatori piú leggeri con un vigore talmente sadico da sfiorare due o tre volte, e una volta provocare, un incidente in seguito al quale il piccolo Tubby Vermeulen della squadra del Transvaal era caduto cosí malamente da rompersi il polso e slogarsi la spalla.

« Forza, Abel, non startene lí impalato, sellami Tiger Shark »

Tiger Shark era un giovane stallone reduce da un solo anno di addestramento: era un brutto animale, dalla testa a martello e spalle potentissime che lo facevano sembrare addirittura gobbo. Anche il suo temperamento non era affatto amabile. Scalciava e mordeva senza preavviso, a volte era quasi intrattabile, e aveva un lato aggressivo che si esprimeva nella tendenza a caricare: finora non aveva mai evitato alcun contatto, per quanto pesante. In qualunque altro caso Shasa si sarebbe affidato al vecchio Plum Pudding, ma Max aveva fatto sellare Nemesis e Shasa sapeva benissimo cosa significava.

Nell'ultimo tempo l'asta della mazza gli si era incrinata. Se la slegò dal polso, la buttò per terra e gridando il proprio numero andò dagli arbitri a farsela sostituire.

« Bunty, devi muoverti un pò di piú quando avanziamo, e tenerti pronto a ricevere il mio passaggio. Ti fai sempre lasciare indietro, brocco! » Shasa si interruppe, improvvisamente conscio del suo to-no sgradevole, quando si accorse che il capitano della nazionale (e semidio personale di Shasa), Blaine Malcomess, li stava osservando.

Si era avvicinato in silenzio e adesso si appoggiava alla ruota posteriore del carro, con le caviglie incrociate e le braccia conserte. Aveva in testa un panama a tesa larga inclinato alla sgherra e un enigmati-co mezzo sorriso sulla bocca larga. Shasa era sicuro che li disappro-vasse e cercò di mascherare lo scorno.

« Salve, signore. Stiamo prendendo una bella scoppola, temo », lo salutò, cercando di sorridere senza grandi risultati. Nonostante quanto si sforzavano di insegnargli a scuola, non gli piaceva perdere, non gli piaceva affatto.

Invece di criticare il cattivo umore di Shasa, Blaine ne era deliziato. La voglia di vincere era la cosa principale, e non solo sul campo di polo. Non era sicuro che Shasa Courteney l'avesse: per uno della sua età, la mascherava già molto bene. Offriva sempre ai piú anziani la maschera educata, all'antica, che sua madre e la scuola di lusso gli avevano inculcato: ma chissà che cosa c'era sotto.

Comunque, Blaine l'aveva osservato attentamente negli ultimi quattro giorni. Aveva visto che Shasa era un ottimo cavaliere, dotato di una impostazione naturale, aveva un occhio acutissimo e una battuta fluida e potente. Era irruente e temerario, sicché spesso commetteva fallo tagliando la strada ed effettuando altre giocate pericolose. Ma Blaine sapeva che con l'esperienza avrebbe imparato a nascondere il gioco duro agli arbitri.

Gli altri requisiti di un forte giocatore di classe mondiale erano la potenza fisica, che sarebbe venuta con l'età, la dedizione all'allenamento e l'esperienza. Quest'ultima era cosí importante che i giocatori di polo raggiungevano il vertice della capacità a quarant'anni o giú di lí. Lo stesso Blaine vi era appena approdato, e poteva contare su altri dieci anni di eccellenza.

Shasa Courteney era un giocatore promettente, e ora che Blaine gli aveva letto dentro la voglia di vincere e la rabbia alla prospettiva della sconfitta, gli sorrise. Ricordava che cosa aveva risposto lui stesso, all'età di Shasa, a suo padre che lo esortava a perdere con piú classe: « Non voglio abituarmici troppo! »

Blaine represse il sorriso e gli disse sottovoce: « Shasa, permetti una parola? »

« Naturalmente, signore. » Shasa accorse alla convocazione levandosi rispettosamente il cappello.

« Ti stai lasciando mettere sotto da Max », gli disse tranquillamente Blaine. « Non stai dando il massimo. Nei primi quattro tempi avete preso quattro goal, ma nell'ultimo Max ne ha segnati cinque. »

« Sí, signore. » Shasa si accigliò di nuovo, senza accorgersene.

« Pensaci su, ragazzo. Che cosa è cambiato? »

Shasa scosse la testa e poi sbatté gli occhi quando capí. « Mi ha attirato sempre sulla destra. »

« Giusto », annuí Blaine. « Per riceverti sul suo lato forte. Nessuno l'ha mai attaccato dall'altra parte, non una volta in cinque giorni.

Cambia posto con Bunty e vagli addosso da sinistra: entra forte e ca-ricalo duro, una volta sola. Qualcosa mi dice che il giovane Max non gradirà la sua stessa medicina. Credo che basterà una dose. Nessuno ha ancora visto il vero colore del suo fegato: e io sospetto che ci sia qualche striatura verde di fifa! »

« Intende dire... che devo commettere volontariamente fallo su di lui? » gli chiese Shasa, sbalordito. Per tutta la sua vita era stato istruito al gioco leale, tra giovani gentlemen. Nessuno gli aveva mai dato un consiglio simile.

«Non pensarci neppure! » disse Blaine strizzandogli l'occhio.

« Vogliamo soltanto imparare a perdere con classe, vero? »

Da quando Centaine li aveva presentati, andavano molto d'accordo. Naturalmente la reputazione aveva reso tutto piú facile a Blaine: godeva già dell'ammirazione e del rispetto di Shasa fin da prima e, con la sua esperienza di ufficiale e politico capace di piegare gli altri alla propria volontà, gli era riuscito facilissimo conquistare un ragazzo inesperto e credulone.

Inoltre Blaine era seriamente intenzionato ad andare d'accordo con lui. Non solo per la ragione che Shasa era figlio della donna che amava, ma anche perché era un ragazzo simpatico e in gamba, intelligente e ardito: e perché Blaine non aveva, e sapeva che non avrebbe mai avuto, un figlio suo.

« Stagli sempre sotto, Shasa, e giocalo come ti ha giocato lui », finí il consiglio, e Shasa sorrise, con la faccia illuminata di piacere e determinazione.

« Mille grazie, signore. » Si rimise il cappello e si allontanò, con la mazza in spalla, i calzoni bianchi macchiati di lucido da sella e la maglia gialla bagnata di sudore.

«Bunty, ci scambiamo posizione», gridò, e quando Abel gli portò Tiger Shark gli diede un colpetto sulla spalla: « Avevi ragione, vecchio brontolone, avevo controllato io il sottopancia ». Fece mostra di controllarlo di nuovo e Abel si mise a ridere quando Shasa al-zò gli occhi dalla cinghia e gli disse: « Adesso non potrai piú dar la colpa a me! »

Senza toccar le staffe saltò in groppa a Tiger Shark.

Blaine si allontanò verso la tribuna, cercando con gli occhi il cappello giallo-vivo di Centaine.

Era attorniata da uomini. Blaine riconobbe Sir Garry Courteney e il generale Smuts, assieme ad altre tre personaggi influenti, un banchiere, un ministro del governo Hertzog e il padre di Max Theunissen.

« Sempre gentarella per la signora Courteney », scherzò tra se, incapace di reprimere una fitta di gelosia.

L'invito di Centaine non era giunto solo ai migliori giocatori di polo del paese, ma ai personaggi principali di tutti gli ambienti: politici, professori universitari, grandi proprietari terrieri, magnati delle miniere, uomini d'affari, editori di giornali, e perfino alcuni artisti e scrittori.

Il castello di Weltevreden non poteva alloggiarli tutti, sicché Centaine aveva dovuto affittare un intero albergo, il vicino Alphen Hotel, che pure un tempo faceva parte della dimora di famiglia dei Cloete. Oltre alla cerchia degli ospiti consueti, erano piú di duecento quelli che venivano da fuori: Centaine aveva noleggiato un treno intero per coloro che venivano dal nord, con cavalli e tutto, e ormai da cinque giorni il divertimento era continuo.

La mattina si svolgevano gli incontri del torneo di polo giovanile, seguiti da un banchetto all'aperto: il pomeriggio le partite piú importanti, poi cena e danze per tutta la notte.

Una mezza dozzina di orchestrine suonavano a turno, sicché non c'era mai un momento senza musica. Negli intervalli, sfilate di moda, numeri di varietà, aste di beneficenza di opere d'arte e vini d'annata, un'asta di purosangue, un concours d'élégance per veicoli a motore e belle guidatrici, una caccia al tesoro, un ballo in maschera, tornei di tennis, croquet e bridge, gare a cavallo di corsa a ostacoli, un motoci-clista che faceva il giro della morte, marionette per i piccini e una squadra di bambinaie professioniste per tenerli sempre occupati.

« E io sono l'unico che sa di che cosa si tratta in realtà », disse tra se Blaine guardandola da lontano. « E' una follia, e in un certo senso anche immorale. Non è piú suo, il denaro che spende. Ma io l'amo per il suo coraggio nelle avversità. »

Centaine avvertì il suo sguardo e girò la testa nella sua direzione.

Per un momento si guardarono, con un'intensità non diminuita dalla distanza, poi lei tornò a rivolgersi al generale Smuts onorando di una bella risata la sua ultima battuta.

Blaine bramava andar da lei, solo per starle vicino, aspirare il suo profumo e ascoltare la sua voce un pò roca e ingentilita dal vago accento francese: ma invece partí con decisione verso la sedia a rotelle di Isabella. Era il primo giorno che Isabella si sentiva abbastanza be-ne da venire a vedere il torneo, e Centaine aveva fatto costruire una rampa speciale per permetterle di accedere alla prima fila di posti in tribuna.

La madre di Isabella, coi capelli d'argento, le sedeva accanto insieme a quattro amiche e ai loro mariti; ma le due figlie scesero di corsa dalla tribuna quando videro avvicinarsi Blaine, e si misero a saltellargli attorno lanciando gridolini di gioia. Poi lo trascinarono letteralmente al suo posto, accanto a Isabella.

Blaine baciò per dovere la guancia che Isabella gli porgeva, serica e pallida. La pelle era anche fredda: il suo alito sapeva di laudano. Le pupille dei suoi grandi occhi dilatate dalla droga, le conferivano un aspetto pateticamente vulnerabile.

« Ho sentito la tua mancanza, tesoro », gli sussurrò, ed era la verità.

Appena Blaine l'aveva lasciata, si era guardata disperatamente intorno per individuare Centaine Courteney, consolandosi un tantino solo al vederla circondata di ammiratori, un pò piú in alto, in tribuna.

« Ho dovuto far due chiacchiere col ragazzo », si scuso Blaine.

« Ti sentì meglio? »

« Grazie, il laudano sta facendo effetto. » Gli sorrise cosí coraggiosa e tragica che egli tornò a chinarsi per baciarla. Poi, rialzando-si, guardò di sottecchi in direzione di Centaine, sperando che non avesse notato quello spontaneo gesto di tenerezza: ma lo stava proprio osservando, anche se distolse immediatamente gli occhi.

« Papà, le squadre tornano in campo. » Tara lo spinse giú, per farlo sedere. « Forza, Weltevreden! » strillò, e Blaine poté concentrarsi sulla partita piuttosto che sul suo dilemma.

Cambiando campo, Shasa passò con la squadra sotto la tribuna.

Ritto sulle staffe, si aggiustava il sottogola guardando Blaine, che lo incoraggiò alzando il pollice. Il ragazzo gli sorrise. Poi si rimise seduto in sella e fece girare Tiger Shark per fronteggiare la squadra del Natal che sfilava in braghe e berretto bianco, stivali e camicia nera con le maniche corte. Aveva un'aria esperta e temibile.

Max Theunissen si accigliò quando si accorse che Shasa aveva cambiato posizione. Spronò il cavallo e fece un segnale con la mano al suo numero due, dall'altra parte del campo, per tornare a posto proprio mentre l'arbitro trotterellava in mezzo e lasciava cadere la palla bianca in radica di bambú.

L'ultimo tempo si aprí con una mischia confusa, tra colpi man-cati e la palla che rotolava beffarda tra gli zoccoli dei cavalli. Poi uscí allo scoperto e Bunty, sporgendosi dalla sella, azzeccò il primo bel tiro della partita, un gran drive di diritto dietro il quale il suo cavallo partí d'istinto all'attacco, che gli piacesse o no.

Poiché era stato l'ultimo a toccar palla aveva il diritto di precen-denza, e il cavallo gli si era piazzato nel modo migliore: ma Max Theunissen fece girare Nemesis e lo stallone nero in due balzi partí al galoppo. Il padre di Max non aveva speso invano mille sterline per quel cavallo, e il nero e possente animale si precipitò addosso a Bunty come una valanga.

Bunty si guardò indietro e Shasa lo vide impallidire.

« Hai la precedenza, Bunty », gli gridò per incoraggiarlo. « Non deviare! » Ma proprio in quella vide Max piantare il calcagno nella pancia del suo cavallo, che deviò leggermente. Era un attacco pericoloso e scorretto, e se Bunty non avesse ceduto sarebbe stato certamente fallo. Ma la tattica del terrore riuscì ancora: Bunty cedette il passo. Max si gettò trionfante all'inseguimento della palla, racco-gliendosi e sporgendosi di sella a mazza alzata, tutto concentrato sulla sfera che saltellava sull'erba proprio davanti a lui, preparandosi a colpirla di rovescio.

Non aveva visto Shasa che arrivava da sinistra, ed era impreparato alla gran velocità che Tiger Shark sviluppò quando Shasa gli af-fondb il tallone nella pancia. A un angolo perfettamente regolare si trovarono quindi in due a disputarsi la palla. Poiché nessuno di loro l'aveva toccata per ultimo, non c'erano precedenze: appena si af-fiancarono, entrambi al gran galoppo, Tiger Shark una testa dietro il grande stallone nero, Shasa gli diede un segnale col tallone e Tiger Shark rispose con gioia. Cambiò direzione di colpo e caricò con tutta la potenza delle sue spalle grosse e un pò deformi. La collisione fu cosí improvvisa e violenta che perfino Shasa, che pure se l'aspettava, fu quasi scaraventato giú di sella e finí sul collo di Tiger Shark.

Blaine aveva ragione, il lato sinistro era il debole di Max Theunissen, quello che aveva assiduamente protetto fino ad allora; e Tiger Shark aveva scelto il tempo alla perfezione per sfruttare la debolezza. Nemesis scartò e inciampò, finendo con la testa tra le ginocchia anteriori. Max Theunissen volò in avanti, con le redini ancora in mano. Per un terribile momento Shasa credette di averlo ammazzato.