SCENA III – Il palazzo del Duca d’Albania

 

Entrano GONERILLA e OSVALDO

 

GONERILLA -

È vero che mio padre vi ha picchiato([25])

per aver redarguito il suo Buffone?

 

OSVALDO -

Sì, signora.

 

GONERILLA -

Non passa giorno o notte

ch’egli non mi combini qualche guaio;

non passa ora, direi, che non prorompa

in  uno di quei suoi eccessi d’ira,

per metterci a soqquadro tutta casa.

Non lo resisto più. I suoi giannizzeri

si fanno sempre più maleducati,

e lui ci sgrida al minimo pretesto.

Fra poco, quando torna dalla caccia,

gli direte che non mi sento bene:

non ho nessuna voglia di parlargli.

Eppoi voi tutti della servitù

fareste bene a rallentar lo zelo

nel servirlo. Dovesse protestare,

niente paura, ne rispondo io.

 

OSVALDO -

Eccolo, arriva, signora. Sentite?

 

 

(Corni da caccia lontani)

 

GONERILLA -

Cercate, voi ed i vostri colleghi,

di assumere quell’aria d’indolenza

che ciascuno ritiene a sé più acconcia:

ci tengo che s’arrivi a un chiarimento.

Se non gli garba più di stare qui,

che vada pure a star da mia sorella

il cui sentire so ch’è uguale al mio

nel non lasciarsi sopraffar da lui,

da questo vecchio mezzo rimbambito,

che ancor pretenderebbe esercitare

quei poteri dei quali s’è spogliato!

È proprio vero, per l’anima mia!,

 

che i vecchi sciocchi tornano bambocci

e van trattati con le vie cattive,

oltre che con le buone,

quando è palese che se n’approfittano.

Tenete a mente quello che v’ho detto.

 

OSVALDO -

Sarà fatto, signora.

 

GONERILLA -

Ed i suoi cavalieri, d’ora innanzi,

siano guardati con occhio più rigido

da parte vostra, senza alcun riguardo

per quel che può seguirne. Non importa.

Avvertite in tal senso anche i colleghi.

Da questo fatto voglio trar pretesto

per cantargliene quattro. E lo farò.

E scrivo subito a mia sorella

di comportarsi alla stessa maniera.

Apparecchiate intanto per il pranzo.

 

 

(Escono tutti)

 

 

 

SCENA IV – La stessa.

 

Entra KENT, travestito([26])

 

KENT -

Se sol riuscirò a cambiare accento

sì da alterare tutta la pronuncia,

potrò forse portare a pieno frutto

quel buon intendimento

che m’ha fatto mutar la mia sembianza.

Dunque, bandito Kent,

se arriverai ad entrare in servizio

presso colui che ha voluto bandirti,

forse accadrà che il padrone che ami

scoprirà quanto bene fai per lui.

 

 

(Corni da caccia più vicini)

 

 

Entra RE LEAR con alcuni dei suoi cavalieri

e altri del seguito

 

LEAR -

Non mi si faccia aspettare un minuto,

per il pranzo! Qualcuno vada dentro,

e guardi che sia pronto.

(Esce un uomo del seguito)

(Vede Kent)

E tu, chi sei?

 

KENT -

Un uomo, signoria.

 

LEAR -

Che professione fai? Che vuoi da noi?

 

KENT -

Io faccio professione, signoria,

di non essere men di quel che sembro:

di servire con piena lealtà

chi m’accorda la sua piena fiducia,

d’amar la gente onesta, e il conversare

con chi è saggio e di poche parole,

di temere i giudizi autoritari,([27])

d’azzuffarmi se non ho altra scelta,

di non mangiare pesce il venerdì.([28])

 

LEAR -

Che cosa sei?

 

KENT -

Uno onesto di cuore.

Povero come il re.

 

LEAR -

Se tu da suddito sei tanto povero

quanto l’è lui da re,

sei povero abbastanza. Che desideri?

 

KENT -

Servire.

 

LEAR -

E chi vorresti tu servire?

 

KENT -

Vossignoria.

 

LEAR -

Sai chi sono, messere?

 

KENT -

No, signore; ma avete nell’aspetto

un qualche cosa, per cui volentieri

vi chiamerei padrone.

 

LEAR -

Quale cosa?

 

KENT -

La maestà.

 

LEAR -

Che servizi sai fare?

 

KENT -

So mantenere un onesto segreto,

so guastare, se devo raccontarla,

una storia abbastanza complicata,

so riferir com’è, senza infiorarlo,

un semplice messaggio:

son capace di fare insomma tutto

che sanno fare gli uomini comuni,

ma il meglio di me è la precisione.

 

LEAR -

Quanti anni hai?

 

KENT -

Non sono tanto giovane,

signore, da invaghirmi di una donna

sol perché sa cantare,

né tanto vecchio da perder la testa

per una pur che sia;

ho quarantotto inverni sulle spalle.

 

LEAR -

Beh, seguimi; se dopo che ho pranzato

non si darà che tu mi piaccia meno,

ti prendo al mio servizio.

(Agli altri)

Il pranzo, dico, il pranzo!

E dov’è quel furfante del mio Matto?

Va’ tu a cercarlo, fallo venir qui.

 

 

(Esce uno del seguito)

 

 

Entra OSVALDO

 

LEAR -

Ehi, tu, messere, mia figlia dov’è?

 

OSVALDO -

Chiedo scusa…

 

 

(Esce subito)

 

LEAR -

Che dice quel baggiano?

Chiamate indietro quel testa di rapa.

 

 

(Esce uno dei cavalieri dietro a Osvaldo)

 

 

Dov’è dunque il mio Matto?

Diavolo, siete tutti addormentati?([29])

 

 

(Rientra il cavaliere che ha seguito Osvaldo)

 

 

Beh, che voleva quel cane bastardo?

 

CAVALIERE -

Dice che vostra figlia non sta bene.

 

LEAR -

Perché il villano, quando l’ho chiamato,

non è tornato indietro?

 

CAVALIERE -

Signore m’ha risposto crudo e netto

che non gli andava.

 

LEAR -

Come, non gli andava!

 

CAVALIERE -

Mio signore, non so che cosa accada,

ma vostra altezza, a mio umile avviso,

non è trattata più in questa casa

con tutto quell’affetto e quel riguardo

cui era abituato. Anzi, è palese

una gran decrescenza di attenzioni,

sia nelle file della servitù

che nello stesso Duca e in vostra figlia.

 

LEAR -

Tu dici, eh?

 

CAVALIERE -

Vogliate perdonarmi

se sbaglio, mio signore, ma il dovere

mi vieta di tener la bocca chiusa

quando ritengo vi si faccia torto.

 

LEAR -

Non fai che ricondurmi alla memoria

un mio sospetto. Ché ho notato anch’io,

da qualche tempo, un po’ di negligenza

nei miei riguardi, ma ne ho dato colpa

a un’eccessiva mia ombrosità,

piuttosto che a un deliberato intento

di sgarbatezza. Vo’ vederci meglio…

Ma dov’è il mio Matto?

Sono due giorni che non si fa vivo.

 

CAVALIERE -

Da quando la mia giovane signora

è andata in Francia, monsignore, il Matto

è molto giù di corda, e…

 

LEAR -

Basta, basta.

L’ho ben notato.

(A uno del seguito)

Tu, va’ da mia figlia,

e dille che desidero parlarle.

 

 

(Esce uno del seguito)

 

 

(Ad un altro del seguito)

 

 

E tu cerca il mio Matto.

 

 

(Esce un altro del seguito)

 

 

Rientra OSVALDO

 

 

Ah, giusto voi, signore! Voi, sì, voi!

Venite qua. Sapete chi son io?

 

OSVALDO -

Voi siete il padre della mia signora.

 

LEAR -

(Rifacendogli il verso)

“Il padre della mia signora…”, eh?,

servo del mio signore! Vil canaglia!

Cane bastardo! Schiavo! Bastardaccio!

 

OSVALDO -

(Gridando in faccia a Lear)

Non sono niente di questo che dite,

io, mio signore, con licenza vostra.

 

LEAR -

Che! Osi tu sostenere il mio sguardo,

manigoldo?

 

 

(Lo percuote)

 

OSVALDO -

Non tollero, signore,

questi modi maneschi…

 

KENT -

(Gli fa uno sgambetto e lo stende a terra)

E neanche questi,

vil pallonaro?([30])

 

LEAR -

(A Kent)

Ti ringrazio, amico.

Mi servi bene, ed io ti terrò caro.

KENT -

(A Osvaldo)

Su, su, messere, rialzatevi, e fuori!

O ch’io v’insegno a stare al vostro posto!

Se poi volete misurare ancora

quant’è lunga, distesa qui per terra,

questa vostra carcassa, rimanete.

Però se vi rimane un po’ di senno,

è meglio che partiate… Ecco, così.

 

 

(Spinge Osvaldo fuori)

 

LEAR -

Caro il mio buon furfante, ti ringrazio.

Ecco un anticipo pei tuoi servizi.

 

 

(Gli dà del denaro)

 

 

Entra il MATTO

 

MATTO -

Permetti allora che l’assuma anch’io

al mio servizio. Toh, il mio berretto.([31])

 

 

(Porge a Kent il suo berretto da buffone)

 

LEAR -

Ah, sei qua, mio bel tomo, come va?

 

MATTO -

(A Kent)

Faresti meglio a portarlo tu, amico,

il mio berretto.

 

KENT -

Perché io, Matto?

 

MATTO -

Perché ti metti a prendere le parti

di uno ch’è in disgrazia. Attento a te,

ché se non sei capace di sorridere

alla parte da dove spira il vento,

presto ti buscherai il raffreddore.

Toh, ecco, prenditi il mio berretto.

Vedi, questo buon uomo

ha messo al bando due delle sue figlie

e della terza ha fatto, a suo dispetto,

una donna felice.

S’hai intenzione di metterti al suo seguito,

devi indossare un berretto così.

(A Lear)

Eh, zietto!([32]) Li avessi io due berretti

e due figlie!

 

LEAR -

Perché, ragazzo mio?

 

MATTO -

Se avessi regalato a loro due

tutto quel che posseggo, come te,

almeno mi terrei i due berretti.

Eccoti intanto il mio.

Un altro chiedilo alle tue figlie

in via di carità.

 

LEAR -

Bada a te, furfantaccio, c’è la frusta!

 

MATTO -

La verità è simile ad un cane

che deve restar chiuso in un canile;

va ricacciato lì dentro a frustate,

mentre madama Cagna

può restare sdraiata accanto al fuoco,

e puzzare.

 

LEAR -

Pestifero bubbone!

 

MATTO -

Compare, vo’ insegnarti un discorsetto…

 

LEAR -

Avanti.

 

MATTO -

Stammi ben attento, zio.

“Mostra men di quel che hai;

“parla men di quel che sai;

“presta men di quel che puoi;

“va’ a cavallo più che a piedi;

“sanne più di quanto credi;

“metti tanto, togli poco,

“resta a casa accanto al fuoco:

“ne trarrai, se t’accontenti,

“per due dieci più di venti”.

 

KENT -

Questo e niente è la stessa cosa, Matto.

 

MATTO -

Allora è simile alla parola

d’un avvocato che non ha parcella;([33])

e niente tu m’hai dato in pagamento.

Sai ricavar qualcosa, zio, dal niente?

 

LEAR -

No, ragazzo: da niente viene niente.

 

MATTO -

(A Kent)

Digli tu, per piacere,

che altrettanto ricava adesso lui

dalle sue terre: se lo dice un matto

non vorrà crederlo.

 

LEAR -

Un Matto amaro.

 

MATTO -

Sai, amico, qual è la differenza,

che c’è tra un matto amaro e uno dolce?

 

LEAR -

No, dimmela, ragazzo.

 

MATTO -

“Quel signore che ti dié

“il consiglio di dar via

“le tue terre, per follia

“venga a far coppia con me:

“è la parte adatta a te.

“Ecco allor due matti a paro:

“matto dolce e matto amaro:

“uno, in veste di buffone, è qui,

“l’altro… eccolo lì”.

 

LEAR -

Che!, ragazzaccio, tu mi dài del matto?

 

MATTO -

Gli altri titoli tuoi li hai dati via

tutti quanti: con questo ci sei nato.

 

KENT -

Tutto matto costui non è, signore.

 

MATTO -

No, in coscienza; non lo permetterebbero

lorsignori gli altolocati e i grandi:

se dovessi far io della pazzia

un monopolio mio, tutti costoro

ne vorrebbero anch’essi la lor parte;

anche le dame… non mi lascerebbero

avere la pazzia tutta per me;

verrebbero a strapparmela coi denti

per avere ciascuna la sua parte.

Zietto, toh, se tu mi dài un uovo,

io ti do due corone.

 

LEAR -

Che corone?

 

MATTO -

Dopo averlo spaccato per metà

e trangugiato il buono, le due cocce.

Quando tu hai spaccato la corona

per metà, e hai dato via così

di qua e di là entrambe le sue parti,

ti sei messo il somaro sulle spalle

per fargli traversare la palude.

C’era rimasto ben poco cervello

dentro quella corona tua pelata

quando da essa hai tolto quella d’oro.([34])

Se sono matto a dirti queste cose,

sia fustigato il primo che lo afferma.

 

 

(Cantando)

“Giammai più di quest’anno

“furono al mondo i matti sfortunati;

“e ciò perché color che senno hanno

“son tutti divenuti dissennati;

“ed il cervello ciascuno sa usare

“solo per scimmiottare”.

 

LEAR -

Da quando in qua, brigante,

hai preso ad imbottirti di strambotti?

 

MATTO -

Da quando tu hai fatto di tue figlie

le tue mamme, zietto; perché allora,

appena hai messo nelle loro mani

lo scudiscio, calandoti le braghe,

(Cantando)

 

 

“piansero quelle d’improvvisa gioia,

“e io presi a cantare per strambotti

“la pena di vedere un tal sovrano

“giocare a nascondino([35])

“per ridursi a finir matto tra i matti.”

 

 

 

Zio, ingaggia, ti prego, pel tuo Matto

un maestro che sia tanto istruito

da insegnargli a mentire:

mi piacerebbe tanto d’impararlo.

 

LEAR -

Se menti, guai a te,

ti farò riempire di frustate.

 

MATTO -

Mi domando che c’è di consanguineo

tra te e le tue figliole:

quelle due vogliono farmi frustare

perché dico la santa verità,

tu vuoi farmi frustare perché mento…

e a volte mi si frusta perché taccio.

Vorrei essere tutto, fuorché un matto;

una cosa non vorrei essere: te, zio.

Tu hai rifilato il tuo cervello

da una parte e dall’altra,

e nel mezzo non ci hai lasciato niente…

Ecco una delle parti rifilate.

 

 

Entra GONERILLA

 

LEAR -

Ebbene, figlia, che ci fa con te

quel reggifronte?([36]) Da alcun tempo in qua

mi sembra di vederti, in verità,

un po’ troppo accigliata.

 

MATTO -

Anche tu, in verità, eri carino

quando non avvertivi alcun bisogno

di darti pena per il suo cipiglio.

Adesso non sei altro che uno zero

senza cifre davanti. Io posso dire

d’essere più di te: io sono matto,

almeno, tu non sei nulla di nulla.

(A Gonerilla)

Sì, sì, terrò la lingua sotto freno.

La vostra faccia, vedo, me l’impone,

pur non dicendo nulla.

“Zitto, ohibò!

“Chi nemmeno una crosta si serbò,

“di tutto stanco, poi ne vorrà un po’

Ecco un baccello di pisello vuoto.

 

GONERILLA -

Sire, non solo questo vostro Matto,

al quale tutto è lecito, mi pare,

ma altri del volgare vostro seguito

trovano ogni momento da ridire

e creare motivi di litigio.

E s’abbandonano continuamente

a intollerabili ed indegne risse.

In coscienza credevo, mio signore,

che col farvi di ciò bene informato,

avrei trovato in voi soddisfazione;

ma mi viene il timore,

per quel che avete testé fatto e detto

che proteggiate un tal comportamento,

o che lo incoraggiate addirittura

col vostro avallo; ché se così fosse,

non resterebbe senza punizione,

tale colpa, e senza alcun rinvio,

anche se il metterla ad esecuzione

possa recare alla vostra persona

tale offesa che in altre circostanze

avrebbe comportato onta per voi,

ma che necessità farà apparire

procedura corretta ed oculata.

 

MATTO -

Eh, già, perché lo sai com’è, zietto:

“Per tanto tempo il passero ha nutrito

“il cuculo al suo nido,

“che i cuculetti se lo son mangiato.”

Fu così che si spense la candela,

e noi restammo al buio.

 

LEAR -

(A Gonerilla)

Tu saresti mia figlia?

 

GONERILLA -

Evvia, signore,

vorrei che usaste la vostra saggezza

della quale vi so certo provvisto,

e rinunziaste a queste esibizioni

che vi stan trascinando da alcun tempo

fuori da quel che siete.

 

MATTO -

Anche il somaro

sa quand’è il carro che tira il cavallo.

Arri, morello, ch’io ti voglio bene!

 

LEAR -

C’è qui qualcuno che mi riconosca?

Non è Lear, questo! Cammina così

Parla così? Sono questi i suoi occhi?

O la sua mente s’è rimbecillita,

o gli è andata in letargo la ragione!

Ah, è sveglio?… Ma no, che non è vero!

Chi di voi mi sa dire chi son io?…

 

MATTO -

L’ombra di Lear.

 

LEAR -

… Vorrei proprio saperlo;

ché questi emblemi di regalità,

la conoscenza e la stessa ragione

mi farebbero credere, ingannandomi,

che avessi delle figlie…

 

MATTO -

Che vogliono ridurre all’obbedienza

il loro genitore.

 

LEAR -

(A Gonerilla)

Il vostro nome, bella gentildonna?

 

GONERILLA -

Questa vostra vanezza, mio signore,

sa molto del medesimo sapore

d’altre vostre recenti stramberie.

Ora vi supplico di non fraintendere

quello che sto per dirvi:

all’età vostra, vecchio come voi siete

 

e venerando, dovreste aver criterio.

Voi mantenete qui, al vostro seguito,

tra cavalieri e lor palafrenieri,

un centinaio d’uomini,

gente sì turbolenta, sregolata,

corrotta, petulante, debosciata,

che questa nostra corte,

contaminata dai loro costumi,

è ridotta a taverna da ribotte.

La continua gargotta, la lascivia

la fanno assomigliare ad una bettola,

a un bordello, piuttosto che a una reggia.

È una vergogna che invoca da sé

immediati rimedi.

Siete dunque pregato da colei

che altrimenti saprà fare di forza

le cose che vi chiede ora di grazia,

di ridimensionar la vostra scorta

e di far che i restanti siano uomini

che si convengano alla vostra età,

e siano soprattutto più coscienti

di se stessi e di voi.

 

LEAR -

(Scattando)

Tenebre e inferno!

Sellate i miei cavalli!

E radunate tutta la mia scorta!

Snaturata bastarda, me ne vado!

Ti toglierò il disturbo. Ho un’altra figlia!

 

GONERILLA -

Voi maltrattate la mia servitù,

e la vostra marmaglia turbolenta

tratta da servi i loro superiori.

 

 

Entra il DUCA D’ALBANIA

 

LEAR -

Guai a chi si ravvede troppo tardi!…([37])

(Al Duca d’Albania)

Ah, siete qui, signore?

E siete voi a voler tutto questo?

Parlate!… Preparate i miei cavalli!…

O ingratitudine, o tu, demonio

dal cuor di pietra, mostro ripugnante

più di quelli che popolan gli abissi,

quando ti manifesti in una figlia!

 

ALBANIA -

Calmatevi, vi prego, mio signore.

 

LEAR -

(A Gonerilla)

Detestato avvoltoio, tu mentisci!

La mia scorta è composta tutta d’uomini

scelti e di non comuni qualità,

che ben conoscono i loro doveri

e rispettano con estremo scrupolo

l’onore del lor nome.

Ah, lievissima colpa di Cordelia!

Quanto turpe mi sei tu apparsa in lei,

da scardinar, come un’arma di guerra,([38])

l’intero quadro dei miei sentimenti

stravolgendoli dalle loro sedi

e scacciando ogni affetto dal mio cuore

per mettere al suo posto solo fiele!

O Lear, o Lear, o Lear,

batti alla porta che ha lasciato entrare

(Si batte la fronte)

la tua follia e ha fatto uscire il senno!

 

 

(A quelli del seguito)

Andiamo, gente mia, andiamo via!

 

ALBANIA -

Mio signore, io sono senza colpa,

com’è vero che non so proprio nulla

di ciò che ha suscitato il vostro sdegno.

 

LEAR -

Può essere, signore.

O tu, Natura, venerata dea,

ascolta! S’era nelle tue intenzioni

di rendere feconda questa donna,

revoca il tuo proposito,

mettile in grembo la sterilità,

che i suoi organi del concepimento

si dissecchino sì che mai un figlio

abbia a sortir dal suo corpo degenere

ad onorarla. O, se proprio hai deciso

ch’ella comunque debba partorire,

fa’ ch’ella generi un figlio di fiele,([39])

che cresca sì perverso e snaturato

da viver sol per esserle tormento,

le scavi rughe sulla fronte giovane

e solchi in faccia per le troppe lacrime;

che volga tutte a scherno ed a disprezzo

le sue pene e le sue gioie di madre,

sì che anch’ella conosca qual dolore

 

tagliente, più del morso d’un serpente,

sia un ingrato figlio … Andiamo, andiamo!

 

 

(Esce precipitosamente)

 

ALBANIA -

Ma, per i sacri dèi che veneriamo,

a che cosa è dovuto tutto questo?

 

GONERILLA -

Non ti preoccupare di saperlo;

lascia che sfoghi i suoi cattivi umori

come gli detta l’età sua barbogia.

 

 

Rientra LEAR, di furia, piangendo

 

LEAR -

Come! Cinquanta dei miei cavalieri

in un sol colpo? Entro quindici giorni?

 

ALBANIA -

Che cosa vi succede, mio signore?

 

LEAR -

Ora lo sentirete… Vita e morte!

(A Gonerilla)

Mi vergogno a tal punto

che una come te abbia la forza

di scrollare la mia virilità,

da far che queste lacrime,

che m’escono cocenti mio malgrado,

ti facciano sembrar degna di loro.

Bufere e nebbie cadan sul tuo capo!

E la maledizione di tuo padre

apra in tutti i tuoi sensi

spaccature non più rimarginabili.

Vecchi miei occhi, inutilmente teneri,

se seguitate a piangere per questo,

io vi strappo dall’orbite,

e vi getto, con l’acqua che versate,

a impastarvi col fango…

A tanto siamo giunti? E così sia!

Ho ancora un’altra figlia

che, son certo, è gentile e ben capace

di recare conforto.

Quand’ella sentirà quel che m’hai fatto,

ti vorrà scorticare con le unghie

quella faccia da lupa.

Con lei saprò riprendere, vedrai,

l’aspetto che tu credi ch’io per sempre

abbia gettato via. Vedrai, vedrai!

 

 

(Esce con Kent e tutto il seguito, meno il Matto)

 

GONERILLA -

Hai sentito, mio caro?

 

ALBANIA -

Gonerilla,

malgrado il grande amore che ti porto…

non mi sento di prender le tue parti

contro tuo padre.

 

GONERILLA -

Basta, non dir più…

(Chiamando)

Osvaldo, ehi, Osvaldo!

(Al Matto)

Anche voi, più furfante che buffone,

fuori di qua, dietro al vostro padrone!

 

MATTO -

Zietto Lear, zietto Lear, aspetta!

Prendi il Matto con te!

“Una volpe incappata alla tagliola

“e questa brutta razza di figliola

“toccherebbero in sorte

“l’una e l’altra la morte,

“se mi venisse il destro

“di barattare questo mio berretto

“con un capestro.

“Così il Matto se ’n va da questo tetto…”

 

 

(Esce)

 

GONERILLA -

Bèi consiglieri aveva intorno a lui!

Una scorta di cento cavalieri.

Bella politica di sicurezza

lasciargli in mano cento uomini armati!

Eh già, così al minimo segnale,

al minimo sussurro, fantasia,

risentimento, disapprovazione,

egli può sempre, con il lor sostegno,

proteggere la sua senil demenza

e avere in sua mercé le nostre vite…

(Chiamando ancora)

Osvaldo, Osvaldo, ohé!

 

ALBANIA -

Mah, forse son timori esagerati…

 

GONERILLA -

È sempre meglio del fidarsi troppo.

Preferisco stornare da me stessa

i malanni che temo,

allo star lì a temere tutto il tempo

di trovarmici dentro ed implicata.

Conosco il suo carattere.

Ho scritto a mia sorella quel che ha detto.

S’ella è ancora disposta ad ospitarlo

col codazzo dei cento cavalieri,

dopo ch’io le ho spiegato a menadito

tutta la sconvenienza della cosa…

 

 

Entra OSVALDO

Oh, finalmente, Osvaldo!

Quella mia lettera per mia sorella

l’avete poi stilata?

 

OSVALDO -

Sì, signora.

 

GONERILLA -

Prendetevi qualcuno e via al galoppo.

La informerete per filo e per segno

di tutti i miei timori;

aggiungetele poi da parte vostra

gli argomenti che meglio ritenete

atti a meglio convincerla.

Andate dunque, e tornate al più presto.

 

 

(Esce Osvaldo)

 

 

No, no, signore mio,

questo remissivo atteggiamento

al latte-miele, se per certi versi

da parte mia non posso condannarlo,

suscita, però, in me assai più critiche

per l’assenza di buon discernimento,

di quanto possa suscitare lode

questa tua perniciosa dabbenaggine.

 

ALBANIA -

Quanto lontano tu sappia vedere

in ciò non so; ma so che molto spesso

cercando il meglio si rovina il bene.

 

GONERILLA -

E allora?

 

ALBANIA -

Allora, chi vivrà vedrà.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA V – Cortile davanti allo stesso palazzo

 

Entrano LEAR, KENT e IL MATTO

 

LEAR -

Va’ avanti tu da Gloucester, al castello,([40])

con questa lettera. Di quanto sai,

a mia figlia non dire più di quello

ch’ella stessa vorrà saper da te

riguardo al contenuto della lettera.

Ma se non muovi presto,

finirà che mi troverai già là

ché sarò giunto ancor prima di te.

 

KENT -

Non dormirò, signore, fino a tanto

che non avrò consegnato la lettera.

 

 

(Esce)

 

MATTO -

Se uno avesse il cervello ai calcagni

pensi gli ci verrebbero i geloni?

 

LEAR -

Certo, ragazzo.

 

MATTO -

Allora stammi allegro,

il tuo cervello non andrà in pantofole.([41])

 

LEAR -

(Ridendo)

Ah, ah, ah, ah, ah!…

 

MATTO -

Ora vedrai quanto l’altra tua figlia

si mostrerà amorevole con te;([42])

perché sebbene ella somigli a questa

come una mela selvatica a un’altra,([43])

io so quello che so.

 

LEAR -

Che cosa sai?

 

MATTO -

Che avrà lo stesso sapore di questa.

Sai perché il naso sta in mezzo della faccia?

 

LEAR -

No. Perché?

 

MATTO -

Con un occhio da una parte

e un occhio dall’altra del tuo naso,

tutto quello che non si sente a fiuto

si scopre a vista.

 

LEAR -

L’ho trattata male.

 

MATTO -

Sai come l’ostrica si fa il suo guscio?

 

LEAR -

No.

 

MATTO -

Manco io. Ma so perché la chiocciola

si porta sempre dietro la sua casa.

 

LEAR -

Perché?

 

MATTO -

Per ripararcisi la testa,

anziché darla via alle sue figlie

e restar con le corna allo scoperto.

 

LEAR -

Voglio dimenticare il mio carattere…

Un padre sì affettuoso!…

Allora, sono pronti i miei cavalli?

 

MATTO -

I tuoi somari sono andati a prenderli.

Sarebbe bello sapere il perché

le Sette Stelle([44]) non son più di sette.

 

LEAR -

Sarà forse perché non sono otto.

 

MATTO -

E sì, certo! Ma bravo!

Saresti stato un ottimo buffone.

 

LEAR -

Riprendermi di forza tutto il mio

da quella là!… Mostro d’ingratitudine!

 

MATTO -

Zietto, se tu fossi il mio buffone,

te n’avrei fatte dare di frustate,

per esserti invecchiato innanzi tempo.

 

LEAR -

Che vuoi dire con questo?

 

MATTO -

Che non avresti dovuto permetterti

d’essere vecchio prima d’esser savio.

 

LEAR -

Oh, no, cieli pietosi, matto no,

non fatemi impazzire!

Conservatemi il seme di ragione!

Non voglio essere matto!

 

 

Entra un GENTILUOMO

 

 

Ebbene, allora, son pronti i cavalli?

 

GENTILUOMO -

Pronti, signore.

 

LEAR -

Vieni via, ragazzo.

 

MATTO -

“Colei ch’è ora illibata pulzella

“e ride alla mia andata

“non sarà a lungo quella

“se non decide di cambiare strada.”([45])

 

 

(Esce con Lear e il Gentiluomo)