Si occupi pure ognuno di ciò che l'attira, gli dà gioia, gli sembra utile. Ma il vero studio dell'umanità è l'uomo.

 

VIII    (Torna all'indice)

 

 

            Pochi sanno occuparsi del passato recente. L'oggi ci tiene con forza legati oppure ci perdiamo nel tempo che fu, e vogliamo rievocare e ripristinare, come che sia, ciò che è perduto per sempre. Persino nelle casate importanti e ricche, che molto debbono agli antenati, va così, che ci si ricorda più del nonno che del padre.

            A simili considerazioni fu indotto il nostro assistente, una volta che passeggiava per il gran parco vetusto del castello - era una bella giornata, di quelle con cui l'inverno simula la primavera, - e ammirava le file alte dei tigli e le impeccabili verzure che aveva fatto piantare il padre d'Eduardo. Erano cresciute magnificamente, secondo i propositi di chi le aveva messe a dimora, e adesso che sarebbe stato il momento d'apprezzarle e di goderle, nessuno ne parlava, non venivano neanche più a vederle, e tutte le cure e le spese erano trasferite nell'area nuova, verso la campagna.

            Lo fece notare, rientrando, a Carlotta, che non se la prese a male. “Sinché la vita ci trascina via,” replicò “crediamo di agire di nostra iniziativa, di essere noi a prescegliere le nostre opere, i nostri svaghi; ma a guardar bene, sono soltanto i disegni e le inclinazioni del secolo che siamo costretti a seguire.”

            “Certo,” annuì l'assistente, “e chi potrebbe resistere alla corrente delle cose che ci stanno intorno? Il tempo cammina, e con esso le idee, le opinioni, i pregiudizi, i gusti. Se la giovinezza d'un figlio coincide proprio con qualche rivolgimento, si può essere sicuri che non avrà nulla in comune con suo padre. Se costui viveva quando si badava a farsi una proprietà, a garantirsela, a cingerla e a delimitarla, a godersela isolati dal mondo, ecco che il figlio cercherà d'espandersi, d'aprirsi, di comunicare, d'abbattere le clausure.”

            “Epoche intere assomigliano al padre e al figlio che lei menziona,” fece Carlotta. “Dei tempi quando non c'era cittaducola che non avesse mura e fossati o dimora feudale che non sorgesse in mezzo alla palude, quando ai castelli più meschini si doveva accedere per un ponte levatoio, a stento ci facciamo un concetto. Adesso anche le città maggiori abbattono i loro bastioni, s'interrano persino le fosse dei castelli dei principi, non ci sono più che grandi agglomerati di case, e attraversandoli viene da credere che regni la pace universale e che l'età dell'oro sia già prossima. Nessuno si trova a suo agio in un giardino, se questo non è come un'aperta campagna: niente deve far pensare all'artificio, alla costrizione, vogliamo respirare liberi, senza riserve. Lei forse pensa, caro amico, che ci si possa volgere a una mentalità diversa, tornare agli usi di prima?”

            “Perché no?” fece l'assistente. “Ogni maniera di vivere ha i suoi svantaggi, la più disciplinata come la più libera, e quest'ultima presuppone abbondanza e genera sprechi. Ma restiamo all'esempio da lei addotto, che è assai significativo. Appena subentra la carestia, subito si ripristina il vivere autarchico. Costretti a giovarsi del proprio pezzo di terra, gli uomini tornano a cintarlo per bene, affinché i frutti siano al sicuro: e da ciò deriva, a poco a poco, una diversa visione delle cose, la stretta necessità economica riprende il sopravvento, e persino chi possiede parecchio pensa di non dover lasciare nulla inutilizzato. Mi creda: è possibile che suo figlio abbia a trascurare tutti questi parchi e torni a richiudersi entro le mura solenni e i filari di tigli del nonno.”

            Carlotta si rallegrò intimamente di sentirsi annunciare un figlio, e così perdonò all'assistente la spiacevole profezia circa la sorte futura del suo bel parco, e gli rispose in tono cordiale: “Noi due non siamo abbastanza vecchi per avere sperimentato più volte contrasti e mutamenti del genere. Ripensando però a quando s'era ragazzi, a ciò di cui si lagnavano le persone in età, e come erano allora città e paesi, non si trova da confutare le sue osservazioni. Ma forse che per questo non ci si deve opporre a tale corso di natura, e cercare di mettere d'accordo il figlio col padre, la prole coi genitori? Mi dice, lusingandomi, che avrò un maschio: è proprio necessario che si trovi un giomo in conflitto col padre? Che distrugga ciò che i suoi hanno realizzato, anziché completarlo e perfezionarlo operando con intenzioni affini?”

            “A ciò la ragione suggerisce un rimedio,” rispose l'assistente, “che tuttavia s'applica di rado. Bisogna che il padre metta il figlio a parte della proprietà, che anche costui pianti e coltivi, che abbia, come lui, e sempre che non nuoccia, piena facoltà d'iniziativa; che la sua opera s'intrecci a quella paterna, non che le resti subordinata. Un virgulto giovane si lega spontaneamente al vecchio tronco, ma un ramo già maturo non vi si innesta più.”

            L'assistente era lieto, dovendo ormai congedarsi, di poter dire qualcosa che tornasse gradito a Carlotta e gli confermasse il favore di lei. Era fuori da troppo tempo, ma non s'indusse a ripartire prima d'essersi convinto che bisognava lasciar passare il parto già prossimo di Carlotta perché si arrivasse ad una decisione in merito a Ottilia. Acconciandosi alle circostanze, e con tale fiducia e proposito, fece allora ritorno presso la direttrice.

            Carlotta, vicina a sgravarsi, si teneva ormai più a lungo nelle sue stanze, frequentando esclusivamente le donne che le si erano raccolte intorno. Ottilia badava alla casa, ma come senza intendere ciò che faceva. Era certo rassegnata, e voleva continuare a sacrificarsi per Carlotta, per il piccolo, per Eduardo, ma non vedeva in che modo ciò potesse avvenire. Niente valeva a preservarla dal definitivo sgomento, se non fare ogni giorno il proprio dovere.

            Venne al mondo, felicemente, un maschio, e le donne sostennero in coro che era tutto suo padre. Ottilia soltanto non fu, nel suo intimo, dell'opinione, mentre si rallegrava con la puerpera e faceva festa al bambino. A Carlotta l'assenza del marito era già riuscita molto penosa, al tempo dei preparativi per le nozze di sua figlia: ora il padre mancava anche alla nascita del figlio, non sarebbe stato lui a fissare il nome con cui l'avrebbero poi chiamato sempre.

            Il primo tra gli amici a venire per gli auguri, fu Mittler, che aveva istruito i suoi informatori affinché gli dessero immediata notizia dell'evento. Si fece avanti, molto soddisfatto, controllandosi un po' verso Ottilia, ma dando fondo al suo entusiasmo con Carlotta; e fu lui a dissipare le angustie e a risolvere le varie difficoltà del momento. Il battesimo non era da rinviarsi: il vecchio parroco, che già teneva un piede nella tomba, avrebbe allacciato, con la sua benedizione, passato e avvenire; il bambino doveva chiamarsi Ottone, non poteva avere altro nome che quello del padre e dell'amico.

            Ci volle tutta l'insistenza del nostro uomo per superare le mille complicazioni, gli ostacoli, le incertezze, gli indugi, i consigli, i dubbi, le opinioni e i ripensamenti, giacché in circostanze del genere, risolto un problema, ne spunta subito un altro, e volendosi usare riguardo a tutti, avviene che qualcuno resta offeso.

            Delle partecipazioni e degli inviti s'incaricò Mittler: dovevano essere pronti al più presto, poiché gli premeva di far conoscere fuori, anche ai malevoli e ai chiacchieroni, un avvenimento che considerava felicissimo per la famiglia. E certo le complicazioni passionali che lo avevano preceduto, al pubblico non erano sfuggite, sempre convinti come sono, che tutto quanto capita, capiti solo per dar materia ai discorsi.

            La cerimonia battesimale doveva essere solenne, ma breve e riservata ai familiari. Si concordò che Ottilia e Mittler tenessero il bambino al fonte. Venne avanti il vecchio pastore, a passi lenti, sorretto dal sagrestano. Pronunziata la preghiera, a Ottilia misero in braccio il piccolo, e quando si chinò a guardarlo, rimase stupefatta: quegli occhi spalancati le parvero i suoi occhi medesimi, una somiglianza così avrebbe dovuto colpire chiunque! Mittler, cui subito dopo toccò di reggere il neonato, anche lui trasalì, trovando che il suo aspetto ricordava in modo sorprendente il capitano: una coincidenza quale ancora non gli era mai capitato d'incontrare.

            La debolezza del vecchio prete non consentiva d'accompagnare la cerimonia altro che con la liturgia consueta. Ma Mittler, compreso dell'importanza del momento, si ricordò delle sue passate mansioni di pastore. Intendeva d'istinto, nelle varie circostanze, come doveva parlare, come doveva esprimersi: e questa volta, poi, tanto meno lo impacciava la presenza esclusiva di una ristretta cerchia d'amici. Così, verso la fine del rito, prese a sostituirsi, senza troppo imbarazzo, al sacerdote, e avviò un vivace discorso sulle sue speranze e i suoi doveri di padrino, tanto più tirandolo per le lunghe quanto più gli pareva di trovare consenso nel volto compiaciuto di Carlotta.

            Che il buon prete volesse sedersi, sfuggì allo zelante oratore, lungi dal pensare che stava aprendo la via a qualcosa di grave. Dopo aver descritto con enfasi i vari rapporti del bimbo coi presenti e messo in tal modo a dura prova il contegno d'Ottilia, si volse infatti al vegliardo con queste parole: “Ed ora, padre venerando, potete esclamare con Simeone: "Signore, lascia che il tuo servo vada in pace, dacché i miei occhi hanno visto il salvatore di questa casa."” Ma mentre ormai stava gloriosamente concludendo e porgeva l'infante al vecchio, lo vide di colpo cadere all'indietro dopo un cenno come per chinarsi. Lo tennero su, lo sistemarono su un sedile, e nonostante ogni soccorso, dovettero constatare che era morto.

            Vedere, considerare tanto prossime la nascita e la morte, la bara e la culla, intendere non solo con la mente, ma proprio con gli occhi, tale contrasto tremendo, fu per tutti difficile, tanto più che la cosa era stata repentina. Solo Ottilia fissò il volto del morto, ancora amabile e mite, con una sorta d'invidia. La vita dell'anima, per lei, era finita: perché doveva durare il corpo?

            Se dunque talvolta, durante la giornata, circostanze penose la inducevano a riflettere sulla caducità delle cose, sul trascorrere e dileguarsi di tutto, aveva però, di notte, il conforto di certe singolari visioni, che la rassicuravano circa l'amato e ridavano certezza e forza alla sua stessa esistenza. Quando, la sera, ritiratasi a riposare, ancora dolcemente indugiava tra il sonno e la veglia, le pareva d'avere innanzi come una scena luminosa, ma di luce mite, e dentro di scorgervi Eduardo, non vestito al modo solito, ma in divisa militare, in atteggiamenti sempre diversi, e tuttavia naturalissimi, e per niente immaginari: in piedi, che camminava, coricato, a cavallo. La sua persona, nitidissima in ogni dettaglio, le si muoveva davanti con spontaneità, senza che lei dovesse intervenire o sforzasse la fantasia. Qualche volta aveva intorno delle cose mobili, più scure dello sfondo chiaro; ma Ottilia non sapeva distinguere quelle ombre, che le sembravano uomini o cavalli, alberi o montagne. Di solito, a tale visione, poi s'assopiva, e quando al mattino, trascorsa una notte tranquilla, si ridestava, era ristorata, consolata: non dubitava che Eduardo vivesse ancora, si sentiva ancora unita a lui dal più intimo rapporto.

 

IX    (Torna all'indice)

 

 

            Era arrivata la primavera, più tardi del solito, ma più repentina e gioiosa. Ottilia trovava ora in giardino il frutto del suo provvedere; ogni pianta germogliava, verdeggiava e fioriva al punto giusto; qualcuna, per l'innanzi tirata su nelle serre ben riparate o in aiuola, ecco che veniva incontro finalmente all'azione della natura, mentre le opere e le cure cessavano d'essere speranzose fatiche soltanto e si trasformavano in un godimento sereno.

            Il giardiniere, però, bisognava consolarlo, per via di certi vuoti aperti nelle file dei vasi dai capricci di Luciana, e perché c'erano ormai degli alberi senza una chioma ben regolata. Ottilia lo rincuorò, che tutto sarebbe andato a posto presto; ma aveva un sentimento troppo profondo del suo lavoro, e un'idea troppo alta, perché questi argomenti potessero servirgli. Un giardiniere non deve distrarsi con passioni e con gusti diversi, allo stesso modo che non deve interrompersi il pacifico ciclo della pianta verso la sua definitiva o transitoria maturità. La pianta è come una persona ostinata, dalla quale tutto s'ottiene purché la si prenda per il suo verso. Nessuno più del giardiniere abbisogna forse di un occhio sicuro, di un ragionare pacato, affinché si realizzi, ad ogni stagione, ad ogni ora, il meglio.

            Qualità del genere quell'uomo eccellente le possedeva tutte, così che ad Ottilia piaceva lavorargli insieme; ma il suo vero talento, negli ultimi tempi, non aveva più potuto esprimerlo: sebbene fosse capace di provvedere al frutteto e all'orto e di far fronte ai problemi di un giardino all'antica, - mentre, di solito, chi riesce in una cosa manca nell'altra - sebbene sapesse competere con la natura medesima nel coltivare agrumi, bulbi, cespi di garofani o primule, le piante nuove e i fiori venuti di moda gli restavano estranei, e di fronte allo sterminato panorama di botanica che via via s'apriva e ai nomi esotici che lo popolavano, aveva come soggezione e diventava dispettoso. Ciò che i padroni avevano ordinato l'anno prima, lo considerava quindi una spesa e uno sciupio inutili, tanto più per la cattiva riuscita di certe piante costose e per i rapporti tutt'altro che buoni che teneva coi negozianti del settore, disonesti, a suo vedere, nelle forniture.

            Aveva escogitato quindi, al proposito, dopo svariati esperimenti, una sorta di programma, cui non mancava l'appoggio d'Ottilia, visto che si basava sul ritorno d'Eduardo, l'assenza del quale pesava ogni giorno di più, in questo come in altri casi.

            E mentre che le piante buttavano sempre più radici e rami nuovi, anche Ottilia si sentiva sempre più legata a quei luoghi. Giusto un anno prima era arrivata da forestiera, come un essere insignificante: quanto aveva guadagnato da allora, ma quanto aveva un'altra volta perduto! Non era mai stata tanto ricca, né tanto povera. Questi due sentimenti s'alternavano ora in lei, o piuttosto venivano ad intimo conflitto, di modo che non trovava scampo se non affrontando i suoi compiti più prossimi con interesse, e anzi con passione.

            Tutto ciò che Eduardo aveva più a cuore, è logico, richiamava le maggiori premure di lei: perché non sperare che tornasse presto, e constatasse di persona, con gratitudine, lo zelo e la dedizione rivolti all'assente?

            Anche in un altro modo, ben diverso, aveva stimolo a lavorare per lui. S'era incaricata particolarmente della cura del bambino, e poté prendersene addirittura la responsabilità esclusiva, giacché s'era deciso di non affidarlo a una balia, ma di allevarlo a latte e acqua. Con la bella stagione, era necessario che prendesse aria: e lei lo portava fuori volentieri, portava quell'innocente addormentato in mezzo ai germogli e ai fiori che un giorno avrebbero sorriso ai suoi giochi di ragazzo, tra i cespugli e le piante destinate a farsi grandi insieme a lui, accompagnando la sua giovinezza. Se si guardava attorno, non poteva nascondersi che sorte privilegiata lo attendesse: quasi tutto ciò che lo sguardo raggiungeva, gli sarebbe appartenuto. Com'era opportuno, per questi vari motivi, che crescesse sotto gli occhi del padre e della madre, e avesse innanzi lietamente la loro unione rinnovata!

            Ottilia, questo lo sentiva tanto chiaro da tenerlo per già deciso, senza pensare affatto a sé. Sotto quel cielo terso, con quel bel sole, le apparve a un tratto evidente che il suo amore, per realizzarsi sino in fondo, doveva perdere ogni traccia d'egoismo; e in certi momenti, le sembrava d'essere già a quel vertice: desiderava soltanto la felicità dell'amico, si credeva capace di rinunciare a lui, di non vederlo addirittura più, pur di saperlo contento. Ma pei sé, era ben sicura di non volere appartenere a nessun altro.

            Si provvide a che l'autunno fosse splendido quanto la primavera. Le piante che chiamiamo estive, quelle che in autunno continuano a fiorire, specie gli aster, le avevano seminate in gran varietà; e trapiantate dappertutto, avrebbero formato, sulla terra, come un cielo stellato.

 

            Dal diario d'Ottilia

            Un pensiero utile, letto in qualche posto, qualcosa d'interessante che abbiamo sentito dire, lo riportiamo senz'altro nel nostro diario. Ma se ci prendessimo la briga d'annotare, dalle lettere degli amici, certe osservazioni originali, certe speciali opinioni, e quelle frasi intelligenti, magari buttate lì a caso, ecco che saremmo ricchi. Le lettere si conservano per non leggerle più: una buona volta, poi, per discrezione, si distruggono, e svanisce così, senza che noi o altri mai più si possa recuperarlo, il più leggiadro e spontaneo fiato di vita. A questa trascuranza mi propongo di rimediare.

            Un'altra volta si rinnova, cominciando daccapo, la fiaba dell'anno. Ci ritroviamo - sia lode a Dio! - di fronte al capitolo più grazioso: viole e mughetti, è come facessero da titolo o da figure. Questa sempre un'impressione piacevole, quando riapriamo a questa pagina il libro della vita.

            I poveri, e specialmente i fanciulli, troviamo da censurarli, quando vanno a mendicare per le strade. Ma non vediamo che, appena c'è da fare, fanno? Appena la natura dispiega i suoi ameni tesori, i bambini, eccoli subito a scoprire un mestiere: nessuno più che mendichi, tutti ti porgono un mazzolino: l'hanno raccolto prima ancora che tu ti scotessi dal sonno, e chi te l'offre, ti guarda non meno caro del dono. Chi si sente, in qualche modo, giustificato a chiedere, non ha mai l'aria miserevole.

            Chissà perché l'anno talvolta è così breve, talvolta così lungo; perché nel ricordo sembra tanto breve e tanto lungo! A me capita per l'anno passato, e soprattutto mi balza all'occhio in giardino, dove caduco e durevole s'intrecciano: ma non c'è nulla di così effimero che non lasci una traccia, qualcosa di simile a sé.

            Può piacere anche l'inverno. Sembra di muoversi con più libertà, quando abbiamo innanzi gli alberi spettrali, e lo sguardo li passa da parte a parte: non sono più niente, ma nemmeno nascondono qualcosa. E quando poi spuntano boccioli e gemme, si è impazienti, sinché non vien fuori tutto il verde, e il paesaggio prende concretezza, e l'albero ci viene incontro come fosse un uomo.

            Tutto ciò che nel suo genere è perfetto, deve superare il genere, diventare qualcosa di diverso, d'incomparabile. Per molte delle sue note, l'usignolo resta un uccello: ma poi trascende la sua specie medesima, e si direbbe voglia mostrare ad ogni altro alato, che significhi davvero cantare.

            Una vita senza amore, senza vicino la persona cara, è come una “comédie à tiroir,” una mediocre commedia con tanti scomparti. Se ne tira fuori uno, un altro, e si rimettono dentro, via via: ma tutto, sia pur che ci sia del buono o del rimarchevole, sta insieme malamente. Bisogna sempre ricominciare da principio, e si potrebbe finire a ogni momento.

 

X    (Torna all'indice)

 

 

            Quanto a Carlotta, è serena e ben disposta. Le dà gioia il bambino così sano, tiene rivolti occhi e anima a quelle membra che ben promettono, e in tal modo si pone in un nuovo rapporto col mondo, con ciò che le appartiene. Torna attiva come prima: ovunque guardi, vede che s'è lavorato parecchio nell'anno trascorso, e le fa piacere. Mossa da uno strano sentimento, si spinge sino alla capanna di muschio, insieme a Ottilia e al piccolo; e mentre costei lo depone sul tavolino come sopra un domestico altare e guarda gli altri due posti vuoti, Carlotta rimembra il passato, e concepisce, per sé e per Ottilia, ancora una speranza.

            Le ragazze giovani magari cercano, con aria modesta, questo o quel giovanotto d'intorno, per vedere, dopo averlo ben esaminato, se sia desiderabile come marito; ma chi deve provvedere per una figlia o per una pupilla, allarga il cerchio della sua indagine. Così appunto fece allora Carlotta: non le pareva impossibile l'unione d'Ottilia col capitano, posto che nella capanna erano già stati a sedere vicini. Non ignorava, d'altronde, che per lui la prospettiva d'un eccellente matrimonio era sfumata di nuovo.

            Ottilia teneva il bimbo, e Carlotta continuò a salire. Intanto le veniva da riflettere. Anche in terraferma si verificano naufragi; scamparne con lestezza e rimettersi in sesto, è ciò che si deve fare. La vita consiste di vittorie e di sconfitte. Quanti mettono in piedi dei progetti, e se li vedono crollare! E quante volte, presa una via, la si deve poi lasciare; quante volte siamo distolti da una meta già bene in vista per volgerci a un'altra più elevata! Un viaggiatore, lungo la strada, ha una ruota infranta, con dispetto, e a causa del molesto contrattempo, stringe conoscenze e relazioni amabilissime, che avranno poi gran peso per tutta la sua vita. Il destino appaga i nostri desideri, ma a modo suo, per poterci dare qualcosa che li sopravvanzi.

            Immersa in riflessioni del genere, Carlotta arrivò sino in cima al colle, al nuovo padiglione. Qui i suoi pensieri ebbero conferma. Lo spettacolo era ben più gradevole di quanto avesse immaginato. Eliminati i particolari meschini, tutto il pregio del paesaggio, ciò che la natura e il tempo avevano apportato, prendeva pieno risalto e richiamava l'attenzione, mentre già verdeggiavano le nuove piante messe a colmare i vuoti e a collegare con eleganza le parti disgiunte.

            L'edificio, ormai, quasi si sarebbe potuto abitare. La vista che si godeva dal piano superiore specialmente, era amenissima. Più si guardava in giro, più bellezze si scoprivano. Che spettacolo dovevano offrire le diverse ore del giorno, la luna e il sole! Che piacere, starsene lassù: a Carlotta, trovando terminati i lavori pesanti, venne una gran voglia d'impegnarsi. Un falegname, un tappezziere, un pittore che sapesse anche cavarsela coi modelli e le dorature, ecco tutto ciò che occorreva, e in breve il padiglione sarebbe stato in ordine. S'approntarono in fretta cantina e cucina: data la distanza dal castello, bisognava avere a disposizione i vari servizi. Poi le due donne col bambino si stabilirono lassù, e da quel punto, come da un nuovo centro, s'irradiavano, per le loro passeggiate, percorsi inattesi. In quella plaga elevata godevano, col migliore sereno, l'aria più fresca.

            Il cammino preferito d'Ottilia - talvolta sola, talvolta col bimbo - portava giù verso i platani sino ad una comoda passerella, e poi al punto dove stava ormeggiata la barca che s'adoperava di solito per traghettare. D'ogni tanto le piaceva andare per acqua, ma senza il piccolo, giacché Carlotta si preoccupava all'idea. Non tralasciava però, tutti i giorni, di fare una visita al giardiniere, su al castello, e d'interessarsi amichevolmente ai suoi crucci per i numerosi virgulti che ora godevano l'aria fresca.

            In quel tempo piacevole giunse opportuna a Carlotta la venuta d'un inglese, che aveva conosciuto Eduardo in viaggio, lo aveva incontrato diverse volte, e adesso era curioso di vedere coi suoi occhi le cose delle quali aveva sentito dire così bene. Aveva con sé una commendatizia del conte, e presentò subito il suo accompagnatore, persona riservata ma simpatica. E mentre percorreva la zona, ora con Carlotta e Ottilia, ora con giardinieri e guardacaccia, ma più spesso col compagno o anche solo, dalle sue osservazioni si poté intendere che, in fatto di parchi, era un conoscitore, e doveva averne disegnati lui stesso. Sebbene anziano, aveva un allegro interesse per tutto ciò che abbellisce la vita e può darle un senso.

            Con lui le signore apprezzarono, per la prima volta appieno, il paesaggio. Il suo occhio esercitato percepiva spontaneamente ogni dettaglio, e tanto più egli si compiaceva delle sue scoperte in quanto non aveva mai visto prima quelle contrade e non sapeva distinguere gli interventi dell'uomo dalle opere della natura.

            Non è esagerato affermare che il parco crebbe e s'arricchì grazie alle sue osservazioni. Comprendeva in anticipo ciò che promettevano le nuove piante che venivano su. Non c'era luogo che gli sfuggisse, per valorizzare qualche bellezza e introdurvela. Ecco che faceva notare una sorgente, e questa, una volta sistemata, avrebbe abbellito tutto un boschetto; oppure una caverna, che, sgombrata e allargata, avrebbe consentito soste piacevolissime, mentre poi sarebbe bastato abbattere qualche albero e da lì si sarebbe goduto della splendida vista di rupi ammassate a mo' di torri. Con i proprietari si rallegrò per il lavoro che restava ancora, e raccomandò che non si dessero troppa fretta, ma che piuttosto serbassero anche per gli anni futuri il piacere di creare e di disporre.

            Del resto, a parte le ore che dedicava alla compagnia, la sua presenza non s'avvertiva nemmeno: era occupato quasi tutto il giomo a riprendere, con una camera oscura portatile, le vedute più pittoresche del parco, e a disegnare, così che dai suoi viaggi venisse qualche frutto utile a sé e agli altri. Questo, da parecchi anni, lo faceva in tutte le regioni che meritassero, e aveva messo insieme una raccolta straordinariamente piacevole e interessante. Mostrò alle signore una grossa cartella che portava, e le intrattenne con le figure e con le sue descrizioni. E loro furono ben liete, standosene in quell'eremo, di girare senza fatica il mondo, di vedersi sfilare davanti spiagge e porti, montagne, laghi e fiumi, città, castelli, e tanti luoghi famosi nella storia.

            Avevano, le due, interessi diversi: più d'ampio orizzonte, per Carlotta, e volti a ciò che avesse importanza storica; mentre Ottilia amava che ci s'occupasse dei posti dei quali Eduardo era solito raccontare, dove aveva sostato e che aveva visitato più volte: ognuno, infatti, trova in un paese, vicino o lontano, certe caratteristiche che lo attraggono, che gli sono specialmente care o lo stuzzicano, a seconda del suo temperamento e per via della prima impressione avutane, di circostanze determinate, dell'abitudine.

            Ottilia chiese dunque al lord che paese gli piacesse di più, e dove, avendo da scegliere, si sarebbe stabilito. E lui ne seppe indicare diversi, dei belli, e raccontò, nel suo strano francese, ciò che gli era capitato laggiù e glieli aveva fatti amare e apprezzare.

            Alla domanda, invece, dove per solito dimorasse e dove desiderasse tornare, rispose, nel modo più spontaneo, ma che le signore non s'aspettavano: “Mi sono abituato ormai a sentirmi dappertutto come a casa mia, e in definitiva non trovo niente di meglio che siano gli altri a costruire per me, a metter giù un po' di verde e a sbrigare gli affari domestici. Della mia proprietà non ho rimpianto, sia per ragioni politiche, sia specialmente perché mio figlio, per il quale, in realtà, tutto avevo sistemato e disposto, - così che passasse a lui, e lo godessimo, speravo, insieme, - non se ne occupa per nulla, ed è andato in India, dove pensa - e non è l'unico - d'impiegare più utilmente la sua esistenza o di buttarla via.

            “Certo, facciamo un gran dispendio di preparativi per la vita. Anziché cominciare subito accontentandoci di uno stato modesto, concepiamo le cose sempre più in grande, e troviamo difficoltà via via maggiori. Chi è che si gode, adesso, il mio palazzo, il parco, i giardini? Non io, neppure i miei: ospiti forestieri, curiosi, viaggiatori impazienti.

            “Anche quando i mezzi non mancano, non ci sentiamo a nostro agio, specie in campagna, dove certe cose cittadine fanno difetto. Il libro che desideriamo con più smania, ecco che non c'è, e proprio ciò di che abbiamo più bisogno, è stato dimenticato. In casa ci si sistema per poi andar fuori, e se non lo facciamo apposta, per volontà o per capriccio, sono le relazioni sociali a farcelo fare, le passioni, il caso, la necessità, e così via.”

            Il lord non immaginava quanto le sue considerazioni toccassero nel vivo le ascoltatrici. Quanto spesso può capitare a chiunque un rischio del genere, che un discorso generico, rivolto magari a persone delle quali si conoscano le reciproche relazioni, si converta in riferimenti ai singoli! Per Carlotta non erano nuove situazioni così, causate sovente senza volere e coi migliori propositi; e il mondo, comunque, le stava innanzi tanto chiaro, che non provava particolare dispiacere, se qualcuno, inavvertitamente e a caso, la costringeva a fermare lo sguardo su un punto sgradito. Ma Ottilia, che in quella sua gioventù quasi inconsapevole, le cose, più che vederle, le sentiva, e poteva, anzi doveva, distogliere gli occhi da ciò che non era da vedere, Ottilia, per quel discorso confidenziale, entrò in una terribile agitazione: si lacerava con violenza, di fronte a lei, il velo grazioso, e ora le sembrava che tutto ciò che s'era fatto sino a quel momento per la casa, la tenuta, il giardino, il parco, e tutto il resto, fosse assolutamente inutile, posto che colui che ne era proprietario, non ne godeva, e anche lui, come il loro ospite inglese, era costretto ad andare per il mondo, incontro ai peggiori pericoli, e per colpa delle persone più care e prossime. A stare a sentire e a tacere, s'era abituata, ma stavolta si trovava nella più penosa delle situazioni, che le successive parole del lord, distaccate, meditate, molto personali, peggiorarono anziché attenuare.

            “Adesso mi pare d'essere nel giusto,” continuò, “considerandomi nient'altro che un viaggiatore, che rinuncia a parecchio per godersi parecchie cose. Sono abituato ai cambiamenti, anzi ne sento il bisogno, come uno spettatore all'opera, che s'aspetta scene sempre nuove proprio perché ne ha già viste tante. Ciò che posso attendermi dalla locanda migliore o dalla peggiore, lo so già; buona o cattiva che sia, però, la trovo sempre diversa, e in definitiva, tanto vale dipendere da un'abitudine forzata quanto dai capricci del caso. Almeno non ho più il fastidio che qualcosa finisca smarrito o si perda del tutto, che la stanza dove si abita sempre, risulti inservibile bisognando di riparazioni, che mi rompano la tazza che adoro e quindi, per un secolo, qualsiasi altra mi guasti il sapore. Tutto questo l'ho gettato alle spalle, e se la casa dove abito prende fuoco, i miei fanno tranquillamente i bagagli, e cambiamo città. E con tutti questi vantaggi, facendo per bene i conti, alla fine dell'anno non ho speso più di quanto mi sarebbe costata casa mia.”

            Durante questo discorso Ottilia continuava a vedersi innanzi Eduardo, Eduardo che viaggiava per strade impraticabili, tra privazioni e disagi, che pativa pericoli e fatiche del campo militare, e s'abituava, in mezzo ai rischi e in quello stato precario, a non avere più né patria né amici, a disfarsi di tutto per non aver più niente da perdere.

            Fu una fortuna che infine si separassero per qualche tempo. Ottilia ebbe modo di ritirarsi a piangere tutte le sue lacrime. Nessun dolore l'aveva mai presa con tanta violenza come questa consapevolezza, che lei medesima cercava di rendere ancora più nitida: avviene, infatti, che quando si è già sulla via d'essere tormentati, uno si tormenti da se stesso.

            La situazione d'Eduardo le appariva così penosa, così miserevole, che decise d'adoperarsi, a qualsiasi costo, perché tornasse con Carlotta: lei avrebbe nascosto in qualche luogo remoto il suo dolore e il suo amore, cercando d'ingannarli con un impegno qualsiasi.

            Intanto il compagno del lord, persona intelligente e pacata, ottimo osservatore, s'era accorto della topica presa dall'amico e gli aveva spiegato quali analogie aveva evocato coi suoi discorsi. Il lord non sapeva niente della situazione della famiglia; ma l'altro, al quale, viaggiando, interessavano soprattutto i singolari effetti delle relazioni naturali o formali e del conflitto tra legge e licenza, tra ragione e intelletto, tra passione e pregiudizio, era già prima venuto a conoscere, e meglio ancora da quando vi era ospite, tutto quanto era avvenuto, e avveniva, in quella casa.

            Al lord fece dispiacere, ma non rimase in imbarazzo. In società si dovrebbe tacere sempre, per non incorrere in alcun guaio: giacché non solo considerazioni motivate, ma persino le osservazioni più banali, possono andare a toccare in modo spiacevole l'interesse dei presenti. “Stasera, comunque, l'aggiusteremo,” fece, “e ci guarderemo da discorsi così in generale. Faccia ascoltare lei qualcosa di tutti quegli aneddoti divertenti e originali, di quelle storie, delle quali ha riempito, nel corso del nostro viaggio, le sue cartelle e la memoria.”

            Ma neppure con le migliori intenzioni riuscì stavolta agli ospiti di distrarre le signore conversando ingenuamente. Dopo che l'amico del lord, con racconti curiosi e singolari, allegri, commoventi e terrificanti, ebbe richiamato a sé l'attenzione, e creata un'atmosfera, gli venne in mente di concludere con una vicenda, curiosa certamente, ma più delicata, senza supporre quanto riguardasse da vicino le ascoltatrici.

 

GLI STRANI FIGLI DI DUE VICINI

            NOVELLA

 

            I figli di due vicini, entrambi di buon casato, un giovane e una fanciulla, in tale rapporto d'età da potersi in futuro sposare, erano cresciuti insieme in questa tenera prospettiva, mentre i genitori si compiacevano dell'unione che sarebbe venuta. Ma presto ci s'avvide che il disegno rischiava di fallire, poiché si manifestava tra i loro caratteri, peraltro eccellenti, un singolare contrasto. Forse si somigliavano troppo. Introversi tutt'e due, di forte volontà, decisi nei loro propositi; i compagni li amavano e li stimavano; quand'erano insieme, uno contro l'altro, sempre; sempre ciascuno a costruire per sé e a distruggere le opere dell'altro, quando s'incontravano; mai gareggiando verso una meta, sempre lottando per uno scopo; buoni e amabili, ma quanto a ciò che correva tra loro, pieni d'odio, addirittura malvagi.

            Questo strano rapporto lo si vide già nei giochi infantili, e poi via via che crescevano. I ragazzi giocano alla guerra, di solito, formano due schieramenti, e si danno battaglia. Così, una volta, quella fanciulla fiera e ardita si mise alla testa di uno dei due eserciti e combatté con tanta violenza e accanimento che gli altri sarebbero fuggiti vergognosamente, se il suo diretto rivale non si fosse mostrato valoroso e anzi, alla fine, non avesse disarmato, e preso prigioniera, lei medesima. Ma anche allora si difese con furia, e lui, per non rimetterci gli occhi e non farle male, fu costretto a ricorrere a una sciarpa di seta che aveva al collo, e le legò le mani dietro alla schiena.

            Lei non gliela perdonò mai, e fece tanto, in segreto, a suo danno, che i genitori, attenti da un pezzo alle strane smanie, si misero d'accordo di separare quei nemici giurati e di rinunciare alle liete speranze.

            Il ragazzo, nel nuovo ambiente, fece rapidi progressi. Riusciva in tutte le discipline. I suoi protettori e una naturale inclinazione lo avviarono alla carriera militare. Ovunque fosse, gli volevano bene e lo tenevano da conto. Il suo temperamento attivo pareva esclusivamente impegnarsi per il benessere e il vantaggio altrui; senza intenderlo, era felicissimo di non aver più contro l'unico, vero avversario assegnatogli dalla natura.

            La fanciulla, invece, ebbe un mutamento improvviso. L'avanzare dell'età, i risultati dell'educazione, e soprattutto un certo sentimento spontaneo, la distolsero dai giochi violenti che soleva fare coi maschi: sembrava, insomma, che le mancasse qualcosa, che non si ritrovasse intorno più niente meritevole del suo odio. E non aveva ancora nessuno che le piacesse.

            Un giovane, d'età maggiore del rivale d'un tempo, d'ottima posizione sociale e finanziaria, assai cercato dalle donne si volse a lei con ogni simpatia. Era la prima volta che aveva vicino un amico, un innamorato, un corteggiatore. La preferenza accordatale su molte altre, più mature, più colte e brillanti, più pretenziose, le riuscì gradita. Le attenzioni di lui, continue senza riuscire moleste, l'appoggio fedelmente prestatole in diverse contrarietà, il modo franco con cui aveva chiesto la sua mano ai genitori, non facendo fretta, però, e solo con grandi speranze, visto che era giovanissima; tutto ciò valse a conquistarla, ed anche v'ebbe parte la consuetudine di rapporti esteriori che la gente ormai teneva per risaputi. L'avevano così spesso trattata da fidanzata, che alla fine si considerò tale, e quando scambiò l'anello con colui che da tempo passava come il suo fidanzato, né lei né altri avrebbero potuto immaginare che li attendesse ancora una prova.

            Il fidanzamento non accelerò il ritmo pacifico della relazione. Lasciarono le cose come prima, soddisfatti di stare insieme spesso: pensavano di godersi ancora quella bella età come una primavera della più impegnata vita futura.

            L'altro giovane, intanto, aveva perfezionato la sua preparazione ed era avanzato meritatamente nella carriera. Venne dunque in licenza, a visitare i suoi. E per una circostanza naturalissima, e tuttavia strana, si trovò davanti, ancora, la bella vicina. Negli ultimi tempi lei non s'era nutrita che d'affetti familiari, gentili, da sposa, e si sentiva in armonia con tutto quanto le stava intorno, credeva d'essere felice, e in un certo senso lo era. Ma adesso, per la prima volta dopo parecchio, aveva di fronte qualcosa. Non da odiare, d'odio non era più capace; e anzi, quel suo odio infantile, che poi, senza saperlo, era stato un modo d'ammirazione, si convertiva ormai in uno stupore lieto, una piacevole curiosità, e nel riconoscimento spontaneo dei pregi di lui, nel farglisi vicina, un po' per caso un po' apposta: tutte reazioni che s'alternavano via via. Erano stati a lungo senza vedersi, e ciò diede motivo a lunghe conversazioni. Persino quelle loro bizzarrie infantili stimolarono, a vederle ormai con gli occhi dell'esperienza, scherzosi ricordi: era come dovessero riparare all'odio e alle beffe d'un tempo, almeno con delle maniere cordiali, dei riguardi; come se a quell'esasperata incomprensione dovesse seguire, reciprocamente, un interesse sincero.

            Il giovane non oltrepassò le misure ragionevoli e opportune. La sua condizione, le sue relazioni, l'ambizione, l'orgoglio, l'occupavano a tal punto, che accolse come una grata sorpresa le attenzioni della bella, senza riferirle specialmente a sé, e senza invidiare il fidanzato, con cui era, del resto, in ottimi rapporti.

            Per lei, invece, fu ben diversa. Sembrava si destasse da un sogno. La lotta contro il vicino era stata la sua prima passione, e quella lotta violenta non era, nella forma contraria, che una violenta inclinazione, quasi innata. Le pareva di ricordare di avergli sempre voluto bene. Le veniva da ridere, di quel loro cercarsi da nemici, con l'arma in pugno; rievocava piuttosto la sensazione deliziosa di quando lui l'aveva disarmata, e s'immaginava d'aver provato la più grande felicità quando l'aveva legata; tutto ciò che aveva architettato per fargli danno, per umiliarlo, non le appariva ormai altro che un innocente stratagemma per richiamare a sé la sua attenzione. Deprecava che si fossero divisi, lamentava il letargo in cui era caduta, malediceva la pigrizia, l'assuefazione, che le aveva fatto prendere per fidanzato una simile nullità.

            Era trasformata, trasformata due volte, verso il passato e verso l'avvenire, comunque si voglia.

            Se qualcuno avesse potuto districare i suoi sentimenti, che teneva segretissimi, e condividerli, non gliene avrebbe mosso rimprovero: il fidanzato non reggeva certo il confronto, a paragonarli. C'era da dargli credito, sì, ma il giovane vicino ispirava la fiducia più assoluta; faceva piacere la sua compagnia, ma l'altro lo si sarebbe desiderato come amico; e nell'ipotesi di particolari necessità, di circostanze eccezionali, dava piena sicurezza, mentre del primo si dubitava. Per queste cose le donne hanno una loro sensibilità, e non mancano i motivi e le occasioni d'affinarla.

            Quanto più la bella alimentava in segreto questi sentimenti - e nessuno era in grado di parlare a pro' del fidanzato, di ricordarle ciò che la situazione e il dovere suggerivano e comandavano, e anzi che sembrava un'esigenza assoluta e irrevocabile - tanto più quell'anima bella si dava alla sua inclinazione. E mentre lei, da un lato, era vincolata indissolubilmente dalle ragioni sociali, dalla famiglia, dal fidanzato, dalla sua parola, quel giovane ambizioso, dall'altro, non faceva mistero delle sue idee, dei progetti, delle prospettive, e la trattava coi modi d'un fratello, persino un po' bruschi talvolta. Quando poi si parlò della sua prossima partenza, fu come risorgesse in lei il temperamento dell'infanzia, con tutta la malizia e l'impulsività, e s'accingesse rabbioso, in anni più maturi, ad operare più profondamente, più disastrosamente. Decise di morire, per punire l'indifferenza di chi aveva odiato e amava ora con tanta passione; per congiungersi in eterno, posto che non doveva possederlo, almeno con la sua memoria, i suoi rimorsi. Dell'immagine di lei morta non si sarebbe liberato più, non avrebbe cessato di rimproverarsi di non avere inteso, indagato, apprezzato i suoi sentimenti.

            Questa follia singolare l'accompagnava ovunque, celata in varie forme. La gente la trovava una persona un po' strana, ma nessuno era così attento o perspicace da scoprire l'autentica causa segreta.

            Amici, familiari, conoscenti, s'erano intanto lambiccato il cervello per escogitare ogni sorta di feste. Non spuntava giorno che non vi fossero in programma novità e sorprese.

            Non v'era luogo pittoresco che non avessero sistemato e abbellito, così da potere accogliere l'allegra folla degli invitati. Anche il giovane vicino, prima di partire, volle fare la sua parte e invitò i fidanzati, insieme a pochi di casa, ad una gita sul fiume. S'imbarcarono su una bella barca, grande, ornata di festoni, un panfilo, che disponeva d,una saletta e d,alcune cabine, e non lasciava sentire, andando per acqua, la mancanza dei comodi che si hanno a terra.

            Si navigava il gran fiume, con musica a bordo. Gli ospiti, per il caldo, s,erano raccolti sotto coperta, impegnati in giochi di società. Il giovane, sempre insofferente di restare ozioso, aveva preso il timone per sostituire il vecchio timoniere, che gli s,era addormentato accanto; e gli serviva tutta la sua attenzione, perché ormai erano quasi al punto dove due isole restringevano il letto fluviale e protendendo qua e là le loro basse rive ghiaiose rendevano pericoloso il passaggio. Preoccupato, gli occhi fissi all,ostacolo, il timoniere ebbe la tentazione di svegliare il vecchio, ma poi riacquistò fiducia, e continuò verso la strettoia. In quel momento apparve sul ponte la sua bella nemica, un mazzetto di fiori tra i capelli. Lo tolse e lo gettò al giovane. “Tienilo per ricordo!” esclamò. “Lasciami stare,” fece lui, afferrandolo. “Ho bisogno di tutta la mia forza, di tutta l'attenzione.” “Non ti disturbo più,” replicò quella, “non mi vedrai più!” E così dicendo, corse sino a prua e si buttò in acqua. Si levarono delle grida: “Aiuto, aiuto, annega!” Il giovane era nell'incertezza più atroce. Al rumore il marinaio si sveglia, vuole riprendere il timone, l'altro glielo lascerebbe, ma non è il momento opportuno: la nave s'incaglia, e contemporaneamente, liberandosi degli abiti che lo impacciano, il giovane si tuffa e prende a nuotare verso la bella nemica.

            L'acqua è un elemento ospitale per chi la conosce e sa come affrontarla. Lo tenne su, e lui, da nuotatore esperto, la controllò. In breve raggiunse la bella, che la corrente portava via; furono travolti entrambi, così da lasciare indietro di parecchio le isole e gli argini, sino dove il fiume ridiventava largo e tranquillo. Solo allora egli si riebbe, uscendo da quel primo impulso che lo aveva fatto agire meccanicamente, senza pensare; levò il capo, guardò attorno, e si diresse con tutte le sue forze verso una lingua di terra cespugliosa che s'allungava nel fiume, piana ed accessibile. Lì portò all'asciutto il suo bottino prezioso, che non dava più segni di vita. Era disperato, quando gli venne sott'occhio un sentiero che s'inoltrava nella macchia. Riprese un'altra volta quel caro fardello, giunse presto in vista d'una casa solitaria, la raggiunse. Era brava gente, una coppia di sposi giovani. Poche parole bastarono per spiegare l'accaduto, ciò che serviva ora. Fece delle richieste, dopo aver riflettuto un istante, e si provvide. Accesero un bel fuoco, stesero sopra un giaciglio delle coperte di lana, portarono subito delle pellicce, dei velli, tutto quanto avevano di caldo. L'ansia di salvare la donna superò ogni altro riguardo: non si trascurò nulla per riportare in vita il bel corpo nudo, semirrigidito. Ci riuscirono. Schiuse gli occhi, vide l'amico, gli cinse il collo con le braccia splendide. Rimase così parecchio; un fiume di lacrime le sgorgava, che la risollevò del tutto. “Vuoi lasciarmi,” chiese, “adesso che ti ho ritrovato così?” “Mai,” esclamò il giovane, “mai!” E non sapeva ciò che diceva o faceva. “Ma abbiti cura,” aggiunse, “pensa a te, per te e per amor mio.”

            Ripresasi, solo allora s'accorse del suo stato. Di fronte all'uomo amato, che l'aveva salvata, non aveva da vergognarsi, ma volle lasciarlo andare, perché provvedesse a sé: aveva sempre addosso i suoi panni fradici, gocciolanti.

            I due sposi si consultarono. Offrirono i loro abiti di nozze, che stavano ancora là appesi, completi per vestire una coppia da capo a piedi, sopra e sotto. In breve gli avventurosi giovani furono rivestiti, e addirittura da festa. Stavano magnificamente, si guardarono con stupore, ritrovandosi, e caddero l'uno nelle braccia dell'altra, in preda a una passione immensa, ma non senza sorridere del loro travestimento. La vigoria giovanile e la spinta dell'amore li ristabilirono presto, non mancava che la musica per invitarli a ballare.

            Passare in pochi attimi dall'acqua alla terra, dalla morte alla vita, dalla cerchia familiare a quel deserto, dalla disperazione all'ebbrezza, dall'indifferenza all'amore e alla passione: la testa non basterebbe a intendere, scoppierebbe o si smarrirebbe; bisogna allora che sia il cuore a fare lo sforzo più grande per superare tanta sorpresa.

            Perduti l'uno nell'altro, solo dopo qualche tempo riuscirono a pensare all'ansia di quelli che avevano lasciato; e non fu senz'ansia e senza angoscia anche per loro, che cercarono d'immaginarsi come si sarebbero presentati. “Dobbiamo fuggire? Dobbiamo nasconderci?” disse il giovane. “Restiamo insieme,” concluse lei abbracciandolo.

            Il contadino, al quale avevano detto del battello in secca, senza chiedere nient'altro, corse al fiume. Ma già galleggiava, disincagliato con gran fatica, e veniva avanti piano, senza una meta precisa, nella speranza di ritrovare i dispersi. Così, quando l'uomo, a forza di grida e di segnali, richiamò i naviganti, e poi, senza smettere d'urlare e di far gesti, corse sino al punto adatto all'approdo, il battello accostò. Che scena, quando sbarcarono! I genitori dei due fidanzati furono i primi a buttarsi giù, il futuro sposo, innamorato, aveva come perso la ragione. Appena ebbero appreso che i ragazzi erano salvi, ecco costoro uscire dai cespugli, in quello strano travestimento. Non li riconobbero sinché non se li trovarono proprio innanzi. “Chi vedo?” esclamarono le madri; “Cosa vedo?” esclamarono i padri. Gli scampati si buttarono in ginocchio. “I vostri figli,” proruppero. “Sposi!” “Perdono!” fece la ragazza. “Dateci la vostra benedizione!” chiese il giovane. “Dateci la vostra benedizione!” ripeterono insieme, mentre tutti erano ammutoliti per lo stupore. “La vostra benedizione!” invocarono per la terza volta. E chi avrebbe potuto negargliela?

 

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            Il narratore fece una pausa, o aveva già finito, quando gli venne da notare che Carlotta era molto turbata. Anzi, si levò e uscì, con un silenzioso cenno di scusa. Conosceva bene la storia: circostanze del genere erano effettivamente toccate al capitano e a una vicina, non proprio uguali al racconto dell'inglese, ma in pratica analoghe; seppure qui fossero più dettagliate e adorne, come avviene quando vicende simili passano di bocca in bocca e poi per la fantasia di qualcuno che le riferisce con spirito e con un certo gusto letterario: così che, alla fine, della realtà, resta tutto e niente.

            Ottilia andò dietro a Carlotta, come gli ospiti medesimi l'esortarono, e allora fu la volta per il lord di accorgersi che forse s'era fatto un errore, e avevano raccontato qualcosa di ben noto in quella casa, o addirittura con essa in rapporto. “Dobbiamo stare attenti,” continuò, “di non seminare altri guai. In cambio di tutte le gentilezze e piacevolezze che riceviamo, mi pare che diamo poca gioia alle nostre ospiti: cerchiamo di prendere congedo come si deve.”

            “Devo riconoscere,” rispose l'amico, “che qui mi trattiene anche qualcosa d'altro, e che non me ne andrei volentieri senza essermelo meglio spiegato e averlo conosciuto appieno. Lei, Mylord, quando ieri giravamo per il parco con la camera oscura, era troppo indaffarato nella ricerca di qualche prospettiva pittoresca per accorgersi di ciò che intanto avveniva. Aveva lasciato il sentiero maggiore piegando verso quel posto poco frequentato sul lago, da dove si domina la riva opposta: Ottilia, che ci accompagnava, lasciò di seguirla, e chiese di poter venire in barca. Io allora le tenni dietro e potei ammirare tutta l'abilità della bella rematrice. Le assicuro di non essermi mai abbandonato ai flutti con tanto piacere, dai tempi della Svizzera, dove pure fanno da barcaiolo le più belle ragazze; non potei però trattenermi dal chiederle perché non aveva voluto percorrere quel sentiero (nel suo rifiuto s'era effettivamente notato una sorta d'angoscioso imbarazzo). "Se non si burla di me," rispose con garbo, "sulla cosa ho da dirle parecchio, seppure rimanga anche per me un mistero. Non ho mai fatto quella via senza che mi venisse addosso una paura strana, mai sentita altrove e che non saprei spiegare. Quindi preferisco evitare di espormi a una sensazione del genere, tanto più che subito mi viene, a sinistra, un mal di capo del quale soffro anche altre volte." Approdammo, Ottilia conversava con lei, e io intanto mi misi ad esplorare quel punto che aveva indicato, da lontano, assai chiaramente. Come restai meravigliato quando trovai evidenti tracce di carbon fossile, e mi convinsi che, scavando un po', ci sarebbe forse da raggiungere un copioso giacimento.

            “Perdoni, Mylord, la vedo sorridere, e so bene che soltanto per la sua saggezza, e perché mi è amico, lei ammette la mia attenzione appassionata per cose nelle quali non crede; ma mi sarebbe impossibile lasciare questo luogo senza aver fatto sperimentare alla piccola il pendolo.”

            Non poteva mancare, il lord, quando si facevano questi discorsi, di ripetere tutti i suoi argomenti contrari, che l'amico ascoltava con aria modesta e paziente, ma sempre restando della sua opinione e senza distogliersi dalle sue intenzioni. E, ogni volta, tornava a osservare che il fatto che tali esperimenti non sempre riuscivano, non era una buona ragione perché si lasciassero, e che anzi tanto più si doveva proseguire la ricerca con serietà e con metodo, rivelando quelle relazioni e reciproche affinità delle materie inorganiche, e quelle tra inorganiche e organiche o interne alle organiche, che al presente restavano occulte.

            Aveva già tirato fuori tutto il suo armamentario d'anelli d'oro, di marcassiti, e d'altri corpi metallici, che portava sempre con sé in un bel cofanetto, e cominciò, per prova, a far penzolare dei metalli appesi al filo sopra altri metalli posti sul tavolo. “Posso consentirle, Mylord, la maliziosa gioia che le si legge in volto alla constatazione che, sebbene io mi dia da fare, non si verifica alcun movimento. Ma la mia operazione è solo un pretesto. Quando torneranno le signore, saranno curiose di sapere quale stranezza noi si stia facendo.”

            Rientrate Ottilia e Carlotta, costei capì immediatamente di che si trattasse. “Ho già sentito parlare di queste cose,” fece, “ma non le ho mai viste nella pratica. Giacché lei, gentilmente, ha già pronto il necessario, mi lasci un po' provare, chissà che non mi riesca.”

            Prese il filo, e siccome s'impegnava sul serio, lo tenne fermo e senza la minima emozione; ma non si vide assolutamente alcun movimento. Poi venne il turno d'Ottilia. Con calma anche maggiore tenne il pendolo sospeso sul metallo, ancor più sciolta e spontanea: ma subito esso fu come preso in un vortice, e si mise a girare, via via che sotto spostavano i metalli, ora da una parte ora dall'altra, descrivendo cerchi oppure ellissi o anche muovendosi in linea retta, secondo quanto lo sperimentatore inglese s'era augurato, anzi in modo superiore alle sue aspettative.

            Anche il lord rimase sconcertato, mentre l'amico, divertito e incuriosito al massimo, non la finiva più di chiedere che l'esperimento si ripetesse e che si variasse. Ottilia fu molto cortese e volle accontentarlo, ma alla fine pregò che la lasciassero stare, perché le s'era manifestato un'altra volta il mal di capo. Al che l'altro, stupito o piuttosto entusiasta, le garantì che l'avrebbe guarita per sempre, solo che volesse affidarsi a una sua cura. Ci fu un momento d'incertezza, ma Carlotta, avendo subito compreso di che si trattava, declinò l'offerta: non pensava di poter sopportare, in casa sua, qualcosa che sempre le aveva ispirato apprensione.

            I forestieri partiti, era rimasto - sebbene stranamente avessero seminato inquietudine - un desiderio di incontrarli ancora, da qualche parte. Carlotta impiegava adesso quelle belle giornate nelle visite di ringraziamento ai vicini, faticando a esaurire la lista, giacché tutti e tutti, alcuni sinceramente, altri per convenienza, le avevano dimostrato premura. In casa le dava una gran gioia vedere il bambino, che meritava proprio ogni affetto, ogni cura: un bambino straordinario, un prodigio, un piacere a rimirarlo, com'era grande, ben proporzionato, e robusto e sano; e ciò che più colpiva, era quella sua duplice somiglianza, via via più rimarchevole: i lineamenti e tutto l'aspetto, nell'insieme, ricordavano il capitano, mentre gli occhi erano quasi ormai lo stesso che quelli d'Ottilia.

            Per via di questa affinità singolare, e forse soprattutto per un tipico sentimento delle donne, che circondano d'ogni tenerezza il figlio dell'uomo che amano, anche se nato da un'altra, Ottilia faceva come da madre al piccolo, o piuttosto era una madre di diversa natura. Quando Carlotta s'assentava, restava lei a casa, sola col bimbo e la bambinaia. Nanny già da un po' era lontana; gelosa che le attenzioni della padrona ormai fossero tutte rivolte alla creaturina, era tornata dai suoi. Ottilia continuava a portare il bambino a prendere aria, e s'abituò a passeggiate sempre più lunghe. Aveva sempre la bottiglietta del latte, per poterlo nutrire, all'occorrenza. Di rado tralasciava di prendere anche un libro, e a quella maniera, reggendo il piccolo mentre camminava e leggeva, aveva proprio l'aria d'una graziosissima “pensierosa.”

 

XII    (Torna all'indice)

 

 

            Raggiunto lo scopo della campagna di guerra, Eduardo ebbe decorazioni e fu congedato con onore. Immediatamente si recò nella sua piccola proprietà, dove lo aspettavano notizie dei familiari, che aveva fatto tener d'occhio, a loro insaputa. Quella dimora tranquilla gli apparve piacevolissima, tanto più che, secondo le sue istruzioni, s'erano introdotte varie modifiche e migliorie, di modo che l'insieme, parco e dintorni, ovviava alla modesta estensione grazie ad una certa atmosfera raccolta e accogliente.

            Poiché una vita impetuosa lo aveva abituato a pronte decisioni, si propose di realizzare senz'altro ciò che aveva avuto tutto il tempo di meditare. Per prima cosa fece venire il maggiore. La gioia dell'incontro fu grande. Le amicizie giovanili, come i vincoli di sangue, hanno questo di vantaggio, che colpi di testa e malintesi, quali che siano, non le scalzano mai completamente, e che quindi, dopo un po', la primitiva relazione si ristabilisce.

            Eduardo, dandogli il benvenuto, s'informò della situazione dell'amico, e apprese che la sorte ne aveva assecondato appieno i desideri. In tono alquanto scherzoso, domandò allora se non fosse anche in programma un bel matrimonio. E l'altro negò, serio e grave.

            “Non posso e non devo nascondere nulla,” continuò Eduardo, “bisogna che ti esponga subito le mie idee e i miei propositi. Tu conosci la mia passione per Ottilia, e da un pezzo avrai capito che quello è stato il motivo perché mi son precipitato in guerra. Non nego d'avere desiderato di farla finita con un vivere inutile ormai senza di lei; ma devo anche dirti che non mi riuscì mai di disperare del tutto. Quella felicità con lei era tanto grande, tanto bella, che era impossibile che io vi rinunciassi. Certi presentimenti mi confortavano, certi segni positivi m'avevano rafforzato a credere che Ottilia potesse diventare mia. Un calice coi nostri nomi, buttato in aria quando posammo la prima pietra, anziché andare in frantumi, l'afferrarono al volo, e ora è di nuovo in mano mia. "Me stesso," mi proposi, dopo tante ore incerte nella solitudine di qui, "me stesso voglio mettere al posto di questo calice, per vedere se la nostra unione sia possibile o no. Parto e cerco la morte, non da folle, ma come uno che spera di vivere. Ottilia dev'essere la posta per la quale combatto, dev'essere lei che io ambisco di conquistare oltre le file nemiche, oltre le trincee e le mura d'ogni fortezza. Grandi cose voglio fare, con l'intento di salvarmi, per avere Ottilia, e non per perderla." Tali i pensieri che mi hanno guidato, e sostenuto per tutti i pericoli: ma adesso mi ritrovo come chi è giunto alla meta, ha superato gli ostacoli, ormai ha la strada sgombra. Ottilia è mia, e ciò che ancora s'oppone tra questa certezza e la sua realizzazione, può apparirmi insignificante.”

            “Hai sgominato con poche battute,” rispose il maggiore, “ciò che si sarebbe potuto e dovuto contrapporti. E tuttavia bisogna ripeterlo. Di considerare, per tutto quanto vale, il rapporto con tua moglie, questo lo lascio a te stesso; ma è tuo dovere nei confronti di lei, nei tuoi medesimi, non chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Come pensare che vi è toccato un figlio, senza subito riconoscere che per sempre appartenete l'uno all'altra, che avete da vivere insieme per via di questa creatura, per pensare a tirarlo su e provvedere al suo futuro?”

            “È mera presunzione dei genitori,” fece Eduardo, “quando s'immaginano che la loro vita abbia tanta importanza per i figli. Tutti gli esseri trovano di che nutrirsi e di che aiutarsi. E se un figlio, perduto innanzi tempo il padre, ha una giovinezza forse meno agevole e senza privilegi, proprio a motivo di ciò sarà preparato prima all'esistenza, coll'imparare a tempo debito che ci si deve adattare agli altri: ciò che tutti dobbiamo imparare, prima o poi. E d'altronde non si pongono, nel nostro caso, problemi del genere: siamo ricchi abbastanza per provvedere a diversi figli, e non è obbligatorio, e neppure ben fatto, concentrare tante fortune in un unico erede.”

            Poiché il maggiore cercava poi, così in breve, di ricordare all'amico i meriti di Carlotta e la loro lunga relazione, Eduardo lo interruppe bruscamente: “Abbiamo fatto una sciocchezza, che ora vedo bene. Chi, ormai maturo, vuole realizzare sogni e speranze di quand'era giovane, s'inganna sempre; ogni decennio della vita ha la sua peculiare felicità, le sue speranze e i suoi disegni. Guai a chi, per certe circostanze o per suo capriccio, pensa di correre troppo avanti o di tornare indietro! Abbiamo fatto una sciocchezza: ma dobbiamo trascinarcela tutta la vita? Dobbiamo forse rinunciare, per qualche scrupolo, a ciò che il costume d'oggi non vieta? In quante occasioni non si rivedono i propri programmi, le proprie opere: e qui non dovrebbe essere così, qui che è in gioco tutto, non un dettaglio, e non si tratta di vivere in un modo o piuttosto in un altro, ma della vita intera!”

            Il maggiore non trascurò di far presenti a Eduardo, insistendo con abilità, i vari legami suoi con la moglie, con le loro due famiglie, e la società, e i beni che possedeva. Ma non riuscì a suscitare in lui il minimo interesse.

            “Tutti questi pensieri, amico,” replicò, “mi sono venuti innanzi nel furore della battaglia, mentre la terra vibrava d'un tuono continuo, le palle ronzavano e sibilavano, i compagni, a destra e a sinistra, cadevano giù, e il mio cavallo fu colpito, il cappello passato da parte a parte. E mi sono apparsi, la notte, accanto al fuoco tranquillo, sotto una volta di stelle. Allora mi venivano in mente i miei legami, e ci meditavo sopra, li rivivevo. Mi sono scelto la mia parte, me ne sono trovato pago, più e più volte, ed ora è definitiva.

            “In momenti così - perché negarlo? - anche tu eri presente, eri nella mia vita: non è forse tanto che siamo uno dell'altro? Se ero tuo debitore in qualche misura, adesso mi trovo in caso di rimborsarti con gli interessi; se sei tu a dovermi qualcosa, eccoti ora in grado di risarcirmi. Lo so, ami Carlotta, e lei lo merita; lo so, non le sei indifferente, e perché non dovrebbe riconoscere quanto vali? Prenditela dalla mia mano stessa, a me porta Ottilia, e saremo gli uomini più felici al mondo.”

            “Proprio perché mi vuoi corrompere con doni così preziosi,” fece il maggiore, “bisogna che io sia più attento ancora, più rigido. La tua proposta, cui devo rispetto, piuttosto che risolvere la situazione, la complica. Qui si tratta di me, come di te; della sorte, ma anche della reputazione, dell'onore di due uomini sino ad oggi irreprensibili, e che corrono il rischio, con un comportamento insolito, - limitiamoci a definirlo così - di figurare in una luce alquanto strana.”

            “Proprio in quanto irreprensibili,” rispose Eduardo, “abbiamo il diritto d'esporci alle critiche, una buona volta. Chi s'è mostrato onesto per tutta la vita, rende onesto un contegno che, nel caso d'altri, risulterebhe ambiguo. Quanto a me, per i cimenti estremi cui mi sono esposto, per le imprese dure e rischiose realizzate a vantaggio d'altri, mi sento autorizzato a far qualcosa anche a mio favore. Circa te e Carlotta, decida l'avvenire. Ma dal mio proposito non potrai distogliermi, né tu né alcun altro. Se mi si vuol tendere una mano, anch'io sono disposto a dare tutto; ma se mi si abbandona o addirittura mi si ostacola, si verrà a un punto gravissimo, e sia come vuole.”

            Il maggiore si teneva in dovere di opporsi in ogni modo ai piani d'Eduardo, e ricorse allora, nei confronti dell'amico, a un'astuzia, simulando di cedere e portando il discorso sui modi e le procedure con le quali realizzare quella separazione e la nuova unione. Così vennero fuori tanti aspetti sgradevoli, molesti e sconvenienti, che Eduardo si fece di pessimo umore.

            “Capisco,” esclamò infine, “che non sono soltanto i nemici, ma anche gli amici, ad attaccare quello che uno desidera. Ciò che voglio, che mi è indispensabile, lo vedo ben chiaro: lo otterrò, e di sicuro presto. Relazioni così, lo so, non si sopprimono né si creano, senza che debba cadere qualcosa che si regge, senza che debba cedere qualcosa che invece resisterebbe. Un problema del genere non si risolve meditandoci sopra: di fronte alla ragione i diritti di ciascuno sono uguali, e quando il piatto della bilancia tende a salire, si può sempre aggiungere un contrappeso. Deciditi dunque, amico, ad operare per me, per te, a districare per me e per te la situazione, a sciogliere e ad annodare! Non lasciarti trattenere da scrupoli; la gente, l'abbiamo già fatta parlare abbastanza, di noi parleranno ancora, e ci dimenticheranno persino, - come tutto, appena smette d'essere una novità - ci lasceranno stare a modo nostro, senza darsi più briga.”

            Al maggiore non restava via d'uscita, e dovette alla fine tollerare che Eduardo, prendendo la faccenda per nota e risolta, entrasse nei particolari, su come sistemare i vari punti, e discorresse insomma del futuro con estrema disinvoltura, e anzi ci scherzasse sopra.

            Ma poi, con aria di nuovo seria e pensosa, riprese: “Se ci abbandonassimo alla speranza, ad aspettare che tutto si sistemi da sé, che il caso ci favorisca, sarebbe un colpevole inganno teso a noi medesimi. Per questa via non possiamo salvarci, non possiamo ritrovare appieno la nostra pace: e come potrei mai consolarmi, essendo, io innocente, la colpa di tutto! Con la mia insistenza ho ottenuto che Carlotta ti prendesse come ospite, e anche Ottilia venne da noi a seguito di quell'evento. Ora non possiamo più controllare ciò che ne è nato, ma siamo in grado di renderlo innocuo e di volgere le nuove relazioni a motivo di felicità. Togli pure lo sguardo dalle meravigliose prospettive che ho evocato, proponi pure, a me, a tutti noi, la triste rinuncia, posto che tu te ne ritenga capace e sia effettivamente possibile: ma decidendo di ripristinare la vecchia situazione, non ci saranno da superare ostacoli sgradevoli, difficili, odiosi, senza che ne venga, poi, neanche un po' di bene, di serenità? E la felice condizione in cui ti trovi ora, ti farebbe piacere, se ti trovassi impedito a farmi visita, a vivere con me? Dopo tutto ciò che è accaduto, sarebbe comunque sempre penoso. Con tutte le nostre ricchezze, io e Carlotta saremmo ben tristi. E se anche vuoi credere, tu e gli altri uomini navigati, che gli anni, la lontananza possano attenuare tali effetti, cancellare solchi tanto profondi, ebbene, proprio di questi anni si tratta, che non vogliamo passare nel dolore e nel rimpianto, ma nella gioia e senza malinconie. Infine, la cosa principale: ammesso che noi si possa sopportare, a misura della nostra condizione esteriore e intima, che ne sarebbe di Ottilia, costretta a lasciare la casa, ad andare tra la gente senza la nostra guida, a vagare dolorosamente per un mondo freddo e perverso? Dipingimi una situazione in cui Ottilia possa essere felice senza di me, senza di noi, e avrai escogitato un argomento più forte d'ogni altro, che io comunque, anche a non volerlo accettare, dovrei prendere in esame e meditare bene.”

            Non era un compito semplice, o per lo meno al maggiore non venne in mente una risposta adeguata. Non gli restò dunque che sottolineare, ancora una volta, quanto quei propositi fossero gravi, seri, e per molte ragioni pericolosi, e che era opportuno almeno riflettere seriamente sul contegno da prendere. Eduardo si lasciò convincere, ma a condizione che l'amico non si sarebbe congedato prima che fossero d'accordo su tutto e si fossero fatti i passi iniziali.

 

XIII    (Torna all'indice)

 

 

            Due estranei, l'uno all'altro indifferenti, se vivono per un po' insieme, svelano a vicenda l'anima loro, e nasce, di necessità, una certa confidenza. Tanto più plausibile che i nostri amici, abitando nuovamente insieme e incontrandosi ogni giorno, ogni ora, finissero per non avere più nulla da celarsi. Rievocavano sempre il passato, e il maggiore non nascose che Carlotta, quando Eduardo era rientrato dal suo viaggio, lo aveva destinato ad Ottilia, e pensava potesse poi sposare la fanciulla. Eduardo, eccitato e sconvolto dalla rivelazione, si diffuse senza ritegno sulla simpatia tra Carlotta e il maggiore, che dipinse a tinte suggestive, visto che gli tornava propizia.

            Negare del tutto, il maggiore non poteva, né del tutto ammetterlo. Ma Eduardo si convinceva, si rafforzava sempre più nel suo proposito: ormai non solo gli appariva realizzabile, ma come già attuato. Bisognava semplicemente che le parti accondiscendessero a ciò che desideravano; il divorzio era sicuro, subito sarebbe seguito il nuovo matrimonio, e lui sarebbe partito per un viaggio con Ottilia.

            Tra le immagini piacevoli che la fantasia si pone, non c'è forse maggiore incanto di quando una coppia di innamorati, di giovani sposi, sognano di godere la loro unione, nuova, fresca, in un mondo nuovo e fresco, e di mettere alla prova e consolidare, a contatto con situazioni sempre diverse, un legame duraturo. Il maggiore e Carlotta dovevano intanto disporre di pieni poteri, per quanto concerneva la materia economica e gli opportuni provvedimenti materiali, in modo che tutto fosse sistemato e ripartito con giustizia ed equità, e le parti restassero soddisfatte. Ciò che Eduardo, però, teneva per fondamentale, - e pareva ripromettersene il maggior vantaggio - era che il bamhino rimanesse con la madre: da ragazzo il maggiore lo avrebbe poi educato secondo i suoi principi, sviluppandone le inclinazioni. Non a caso, al battesimo, gli avevano impartito il nome, Ottone, che portavano entrambi.

            Per Eduardo le cose erano ormai a tal punto, che non volle tardare neanche un giorno a realizzarle definitivamente. Partiti verso la sua tenuta, giunsero a una cittadina, dove aveva una casa; qui intendeva fermarsi e attendere che il maggiore tornasse. Ma non riuscì a dominarsi per la sosta, e preferì accompagnare l'amico attraverso tutto l'abitato. Erano a cavallo, e impegnati nei loro seri discorsi, tirarono avanti.

            All'improvviso avvistarono lontano, sulla collina, il padiglione, e videro per la prima volta le tegole rosse che luccicavano. Eduardo si sente preso da un desiderio irresistibile: la sera stessa bisogna che tutto sia concluso; il maggiore deve presentare con urgenza la faccenda a Carlotta, vincere con la sorpresa la prudenza di lei, e costringerla con la repentina proposta a esporre francamente le sue vedute. Attribuendo a lei i suoi desideri, Eduardo non credeva infatti di far altro che venire incontro alle aspirazioni più vere della moglie; e poiché lui non poteva avere altra volontà, sperava che quella fosse subito d'accordo.

            Si vedeva già innanzi, soddisfatto, un esito positivo: affinché lo si comunicasse immediatamente a lui, che intanto restava in attesa, bisognava sparare alcuni colpi di cannone, e se ormai fosse scesa la notte, accendere dei razzi.

            Il maggiore cavalcò verso il castello. Non trovò Carlotta, e apprese anzi che abitava ormai nel nuovo padiglione, ma che era, al momento, in visita nel vicinato e forse non sarebbe rientrata tanto presto. Tornò allora alla locanda, dove aveva lasciato il cavallo.

            Eduardo, nel frattempo, preso da una smania invincibile, lasciando il luogo in cui stava appostato, si mise per sentieri solitari, noti solo a cacciatori e a pescatori, in direzione del parco, e sul tramonto raggiunse la macchia in prossimità del lago: vedeva per la prima volta in tutta l'estensione quello specchio d'acque.

            Ottilia, durante il pomeriggio, aveva fatto la sua passeggiata lungo il lago. Portando il bambino e, come al solito, leggendo intanto che camminava, arrivò alle querce vicino al traghetto. Il piccolo era addormentato, lei sedette, se lo prese accanto, e continuò a leggere. Il libro era di quelli che attraggono un animo delicato e non lasciano più. Ottilia perse ogni nozione di tempo, senza considerare che per rientrare l'attendeva ancora un bel tratto sino al padiglione. Stava immersa nel suo libro, in se medesima, tanto graziosa a vedersi, che gli alberi e i cespugli intorno avrebbero voluto avere gli occhi per contemplarla e trarne piacere. E c'era un raggio porporino di quel sole basso, che da dietro le dorava guance e spalle.

            Eduardo, riuscendogli di procedere senza essere scoperto e trovando vuoto il parco e deserta la zona, s'azzardò sempre più avanti. Finalmente sbuca dai cespugli presso le querce, vede Ottilia, e lei vede lui; un volo, ed eccolo ai suoi piedi. Dopo un lungo silenzio in cui entrambi cercano di riprendersi, le spiega con poche parole perché e come si trova qui, che ha mandato il maggiore da Carlotta, che forse il loro stesso destino si decide proprio ora; e che non ha mai dubitato dell'amore di lei, come è vero, certamente, anche del reciproco. La prega di dirsi d'accordo. Ottilia esita, lui la scongiura, vuol far valere i suoi diritti d'un tempo e prenderla tra le braccia; lei accenna al bambino.

            Eduardo lo scorge e resta stupefatto. “Gran Dio!” esclama. “Avessi motivo di diffidare di mia moglie, del mio amico, questo volto sarebbe una testimonianza terribile contro di loro. Non è il ritratto del maggiore? Una cosa simile non l'ho mai vista.”

            “Non proprio così,” rispose Ottilia, “dicono tutti che somiglia a me.” “Possibile?” ribatté Eduardo, e in quel momento il bimbo spalancò gli occhi, due grandi occhi neri, penetranti, fondi e gioiosi. Capiva già il mondo, sembrava conoscesse i due che gli stavano innanzi. Eduardo si buttò giù vicino al piccolo, s'inginocchiò ancora davanti a Ottilia. “Sei tu!” fece. “Sono i tuoi occhi. Ma lasciami guardare dentro ai tuoi. Lascia che io nasconda con un velo l'ora infelice da cui questa creatura trasse la vita. Posso turbare la tua anima pura con lo spaventoso pensiero che un uomo e una donna, l'un l'altro come estranei, si siano uniti e abbiano profanato un legame legittimo con la violenza dei loro desideri? O invece, posto che siamo a questo punto, e che il vincolo con Carlotta dev'essere infranto, che tu devi essere mia, perché non dichiararlo? Perché non dire la dura verità: questo piccolo è nato da un adulterio duplice: divide me da mia moglie, e mia moglie da me, quando avrebbe dovuto unirci. Testimoni pure contro di me, questi splendidi occhi dicano ai tuoi che io, tra le braccia di un'altra, appartenevo a te. Possa tu sentire, Ottilia, sentire davvero che quell'errore, quel delitto, non m'è dato d'espiarlo che tra le tue braccia!”

            “Ascolta!” esclamò, balzando su, parendogli udire un colpo, il segnale cioè che aspettava dal maggiore. Era invece un cacciatore, che aveva sparato, lì vicino, per la montagna. E non seguì più nulla. Eduardo era impaziente.

            Solo allora Ottilia s'avvide che il sole era tramontato oltre le cime, con un ultimo riflesso sui vetri più alti del padiglione. “Va via, Eduardo!” esclamò. “Abbiamo rinunciato così a lungo, e sopportato. Pensa a ciò di che entrambi siamo debitori a Carlotta. È lei che deve decidere del suo destino, non possiamo essere precipitosi. Sarò tua, se lei lo concede; altrimenti, devo rinunciare a te. La decisione tu la consideri prossima, dunque possiamo attendere. Torna al villaggio, dove il maggiore crede tu sia rimasto. Quante cose possono venire, che bisognino d'una spiegazione. E mai verosimile che sia un brutale colpo di cannone ad annunciare il successo dell'ambasciata? Forse in questo momento sta cercandoti. Carlotta, non l'ha trovata, sono sicura; potrebbe esserle andato incontro, perché gli avranno detto dov'è. Quanti casi sono possibili. Lasciami! Devo rientrare, adesso. Mi aspetta col bambino al castello.”

            Ottilia parlava in fretta, mentre vagliava le varie eventualità. Vicino a Eduardo era felice, ma sentiva che ormai doveva andarsene. “Ti prego, ti scongiuro, caro,” proruppe, “torna indietro e aspetta il maggiore!” “Obbedisco ai tuoi ordini,” fece Eduardo, e la guardò con passione, poi la strinse forte. Lei lo abbracciò, e lo tenne teneramente a sé. La speranza balenò via sopra il loro capo, come quando dal cielo cade una stella. Sognavano, credevano d'appartenere l'uno all'altra; per la prima volta si scambiarono baci apertamente, liberamente, e si separarono poi quasi a forza, con pena.

            Era calato il sole, già l'aria si faceva scura e una nebbia umida circondava il lago. Ottilia, confusa e inquieta, guardò su verso la casa, e le parve di scorgere sul balcone il vestito bianco di Carlotta. Prendere lungo la riva richiedeva tempo, e lei sapeva con quanta impazienza Carlotta aspettava il bimbo. Di fronte a sé vede i platani, solo un corto braccio d'acqua la separa dal sentiero che la porterebbe subito in cima: col pensiero è già lassù, come con gli occhi. Svanisce in tale affanno ogni esitazione ad avventurarsi col piccolo per il lago. Corre alla barca, e non sente che le batte il cuore, che il passo le si fa incerto, i sensi minacciano di venire meno.

            Salta nella barca, afferra il remo e si stacca dalla sponda. Deve far forza per ciò, rinnova il movimento, lo scafo ondeggia e scivola avanti. Col bimbo in braccio a sinistra, nella mano sinistra il libro, e tenendo con la destra il remo, barcolla anche lei e cade nella barca. Il remo le sfugge, e dalla parte opposta, il libro e il bambino, tutto in acqua. Acciuffa il piccolo per la vestina, ma la posizione scomoda le impedisce di rialzarsi. La mano destra, l'unica libera, non le basta per girarsi e levarsi; finalmente ci riesce, tira su il bimbo, ma gli occhi sono chiusi, non respira più.

            In quel momento Ottilia recupera tutta la sua lucidità, ma tanto più grande è il dolore. La barca è arrivata quasi in mezzo al lago, il remo galleggia lontano, a riva non si vede nessuno, e a che servirebbe vedere qualcuno! Staccata da tutto, si libra su quell'elemento infido, inaccessibile.

            Cerca in se stessa aiuto. Aveva sentito parlare tante volte di come si salvano gli affogati, lo aveva visto la sera del suo compleanno. Spoglia il piccino, e lo asciuga col suo vestito di mussola. S'apre il seno, per la prima volta così sotto il cielo; per la prima volta stringe al casto petto ignudo un essere vivo, non più vivo, ahimè. Le membra gelide dell'infelice creatura le agghiacciano il petto sino in fondo al cuore. Lacrime senza fine le sgorgano dagli occhi e paiono dare un po' di calore, di vita, in superficie, a quel corpo immobile. Lei non cede, lo avvolge nel suo scialle, e a forza di carezzarlo, di stringerlo, col suo fiato, coi baci, col pianto, spera di sostituire i soccorsi che in quella solitudine le mancano.

            Tutto invano! Il bimbo giace tra le sue braccia, rigido, la barca sta senza moto sulla distesa d'acqua; ma anche ora le viene in aiuto la sua anima bella. Si volge al cielo. In ginocchio giù nella barca, leva il corpo senza vita, con le due braccia, sopra il suo petto innocente, bianco come il marmo, e ahimè, similmente freddo. Lo sguardo umido si leva su, e cerca aiuto laddove un cuore pio spera di troverne la più gran copia, quando gli manca ovunque.

            E non si volge alle stelle inutilmente, che ormai scintillano qua e là. S'alza un vento leggero, e sospinge la barca verso i platani.

 

XIV    (Torna all'indice)

 

 

            Corre al padiglione, chiama il chirurgo, gli affida il bambino. L'uomo, calmo e controllato di fronte a qualsiasi circostanza, sottopone il cadaverino, gradualmente, alle pratiche del caso. Ottilia sta lì ad assistere, sempre; lavora, sbriga, accudisce, ma come camminasse per un altro mondo, perché una gran digrazia, come una gran fortuna, muta l'aspetto di tutte le cose. Solo quando il bravo dottore, dopo ogni sorta di tentativi, scuote la testa, e risponde alle sue domande disperate, dapprima col silenzio, poi con un “no” a bassa voce, allora lascia la camera di Carlotta, dove si trovano, e non appena entra nel soggiorno, senza riuscire a raggiungere il divano, sfinita, crolla in avanti sul tappeto.

            In quel momento si sente arrivare Carlotta. Il chirurgo insiste perché i presenti non si muovano, vuol essere lui ad andarle incontro, a prepararla; ma sta già entrando. Trova Ottilia per terra, e una ragazza di casa le si precipita incontro, con urla e pianti. Entra il chirurgo, e Carlotta apprende tutto, di colpo. Oh, repentino svanire di ogni speranza! Il dottore, abile, esperto, savio, la prega soltanto di non voler vedere il bambino, e poi s'allontana per illuderla con nuovi tentativi. Carlotta siede sul divano, Ottilia è ancora giù, ma s'appoggia alle ginocchia dell'amica e sopra abbandona il bel capo. Il buon chirurgo va avanti e indietro; con l'aria d'occuparsi del piccolo, s'occupa delle due donne. E viene mezzanotte così, un silenzio sempre più funereo. Carlotta non si nasconde ormai che il bambino non tornerà in vita, chiede di vederlo.

            Lo hanno avvolto ben bene in panni morbidi, posto in una canestra, che la madre prende accanto a sé, sul divano; si vede il faccino soltanto; è come riposasse, calmo e grazioso.

            Al villaggio s'era venuto presto a sapere della sventura, e la notizia era arrivata alla locanda. Il maggiore, salito per i sentieri che ben conosceva, fece un giro intorno alla casa, e incontrato un servo che correva a prendere qualcosa nell'edificio adiacente, ebbe informazioni più precise e fece chiamar fuori il chirurgo. Costui venne, stupito di trovarsi innanzi il benefattore d'un tempo, gli riferì la situazione e s'incaricò di preparare Carlotta alla visita. Rientrò, avviò un discorso generico richiamando la fantasia di lei da un oggetto all'altro, per rievocarle alla fine l'amico, la sua solidarietà sicura, la sua vicinanza, dapprima intesa come ideale, affettiva, poi concreta. In breve, Carlotta apprese che l'amico era alla porta, che sapeva tutto, e desiderava essere ricevuto.

            Il maggiore entrò, lei lo salutò con un sorriso dolente. Le stava innanzi, Carlotta levò la coperta di seta verde che celava il cadavere, e alla luce incerta della candela egli vide, con un segreto orrore, la sua immagine medesima, irrigidita. Carlotta gli accennò a una sedia, e così, uno di fronte all'altra, in silenzio, passarono la notte intera. Ottilia era sempre reclinata sulle ginocchia di Carlotta, respirava piano, tranquilla; dormiva, o sembrava dormisse.

            Albeggiò, il lume si spense, i due amici parvero destarsi da un brutto sogno. Carlotta, guardando il maggiore, gli disse, calma: “Mi spieghi un po', amico, per quale sorte è arrivato qui, a prendere parte a questa scena di lutto?”

            “Non è il momento,” rispose il maggiore a bassa voce, come aveva parlato anche lei, quasi non volendo svegliare Ottilia, “non è il momento, né il luogo, per reticenze o preamboli o cautele. La situazione in cui lei si trova, è tanto grave, che al confronto perde rilievo anche la cosa, pure importante, per cui sono qui.”

            Le dichiarò, così, sereno e con semplicità, lo scopo della sua missione, in rapporto alle intenzioni d'Eduardo, e che significasse invece la visita per la volontà sua propria, per il suo interesse. Entrambi i punti li espose con tatto, ma con chiarezza. Carlotta stette a sentirlo calma, senza aver l'aria d'essere stupita né contrariata.

            Finito che ebbe il maggiore, replicò lei, con voce tanto bassa che l'altro fu costretto ad avvicinare la sua sedia. “In un caso come oggi non mi sono trovata mai, ma in casi simili ho sempre pensato: come sarà domani? Intendo bene che in questo momento tengo nelle mie mani la sorte di parecchie persone: e ciò che ho da fare, mi è ben chiaro ed è presto detto. Sono d'accordo per il divorzio. Avrei dovuto prendere anche prima la decisione; esitando, contrastandola, ho ucciso io il bambino. Ci sono cose che il destino vuole a tutti i costi. È inutile che ragione e virtù, doveri e santi principi d'ogni sorta, gli attraversino la strada: bisogna che avvenga ciò che a lui sembra giusto, a noi ingiusto; e riesce a imporsi, comunque noi ci si muova.

            “Ma che dico! In realtà il destino vuole realizzare proprio il mio desiderio, i miei propositi, ai quali m'opponevo da sconsiderata. Non ero io stessa a ravvisare in Ottilia ed Eduardo una coppia ideale? Non sono stata io a cercare di avvicinarli? E lei, amico mio, forse che non era al corrente del disegno? E perché non seppi distinguere il puntiglio d'un uomo dall'amore vero? Perché accettai la sua mano, quando, come amica, avrei potuto rendere felici lui e un'altra moglie? Guardi quest'infelice che dorme! Tremo a pensare al momento in cui, uscendo da questo sopore come di morte, riprenderà coscienza. Potrebbe mai vivere, consolarsi, se non sperasse di restituire col suo amore a Eduardo ciò che lei medesima, strumento del caso più singolare, gli ha sottratto? E tutto può restituirgli, tanta è la spontaneità, tanta la passione, con cui l'ama. Se l'amore può sopportare tutto, ancor meglio sostituisce tutto. A me, in un momento simile, non si deve pensare.

            “S'allontani in silenzio, caro maggiore. Dica a Eduardo, che acconsento al divorzio, che affido a lui stesso, a lei, a Mittler, la pratica intera, che non mi preoccupo per il mio avvenire, da qualsiasi punto di vista. Firmerò tutte le carte che mi porteranno: ma solo non si pretenda da me che io partecipi o provveda o dia consigli.”

            Il maggiore si levò. Carlotta gli porse la mano, al di sopra d'Ottilia. Su quella mano cara egli premette le labbra. “E per me, che posso sperare?” sussurrò piano.

            “Lasci che io le resti debitrice della risposta,” fece Carlotta. “Non abbiamo meritato d'essere infelici, ma nemmeno d'essere felici insieme.”

            Il maggiore andò via, pieno di compassione per Carlotta, ma senza poter provare pietà per il morticino. Quella vittima gli pareva necessaria per la felicità di tutti. S'immaginava Ottilia, con un suo proprio bimbo tra le braccia, pieno risarcimento per ciò che aveva sottratto a Eduardo; s'immaginava di tenere in grembo un figlio, che, più a buon diritto del morto, avesse i suoi connotati medesimi.

            Speranze siffatte e dolci fantasie gli riempivano l'anima, quando, di ritorno verso la locanda, s'imbatté in Eduardo, che aveva passato la notte fuori, in sua attesa, visto che né razzi né colpi di cannone avevano annunciato l'esito felice. Sapeva già della disgrazia, e anche lui, invece di piangere la creaturina, vedeva quel fatto, senza poterlo ammettere, come opportuno, così che fosse tolto di mezzo ogni ostacolo alla sua felicità. Facilmente quindi, dopo che il maggiore gli ebbe annunciato, con poche parole, la decisione di sua moglie, si lasciò convincere a far ritorno al villaggio, e da lì alla cittadina, dove avrebbero poi considerato e deliberato i passi successivi.

            Carlotta, una volta lontano il maggiore, restò ancora qualche minuto a sedere, immersa nei suoi pensieri; poi Ottilia levò il capo, fissando l'amica con gli occhi spalancati. Si levò dalle ginocchia di lei, su in piedi, di fronte a Carlotta.

            “E la seconda volta,” prese a dire quella bella creatura, lieve ma ferma insieme, “è la seconda volta che mi accade la stessa cosa. Me l'avevi detto, che nella vita, e sempre in particolari momenti, certi fatti tornano a ripetersi uguali. Ora capisco che l'osservazione era esatta, e devo farti una confessione. Era morta da poco mia madre, io ero piccola, e col mio sgabellino t'ero venuta accanto, mentre sedevi sul divano, come adesso; ti tenevo il capo sulle ginocchia, non dormivo né vegliavo, stavo lì assopita. Sentivo tutto ciò che avveniva intorno, specie i discorsi, chiarissimi; però non potevo muovermi, non potevo esprimermi, e neanche l'avessi voluto, non potevo lasciar intendere che ero cosciente. Allora tu parlasti di me con un'amica; compassionavi la mia sorte, d'essere rimasta orfana; descrivevi la mia situazione di dovere dipendere e le difficoltà che mi sarebbero toccate, a meno che non mi proteggesse una buona stella. Io afferrai con estrema precisione, forse con troppo rigore, ciò che pareva tu desiderassi per me e da me richiedessi. Me ne feci altrettante leggi, per poco che potevo intendere; secondo queste leggi ho vissuto a lungo, ho regolato le mie opere e il mio contegno, al tempo che mi volevi bene, pensavi a me, e mi prendesti in casa, e anche dopo.

            “Ma poi sono uscita dalla mia strada, ho infranto le mie leggi, persino ne ho smarrito il senso, e dopo un fatto atroce, ecco che tu ora mi mostri chiaro, nuovamente, il mio stato, più doloroso ancora che all'inizio. Posando in grembo a te, rigida quasi, ecco che sento un'altra volta all'orecchio, come da un mondo estraneo, la tua voce pacata; sento qual è la mia condizione, ho orrore di me stessa. Ma al pari che allora, nel mio sonno quasi di morte, mi sono tracciata una nuova strada.

            “Sono decisa, come lo ero allora; e ciò che ho deciso, devi saperlo subito. Non sarò mai di Eduardo! In modo terribile Dio mi ha rivelato in che delitto sono caduta. Io voglio espiarlo. Che nessuno pensi di distogliermi dal proposito! E su questa base, cara, carissima, prendi le tue decisioni. Fa tornare il maggiore, scrivigli che non avvii nessuna pratica. Che angoscia avevo, a non potermi neanche muovere, neanche un gesto, quando è andato via! Volevo balzare su, gridare: non dovevi lasciarlo andare con speranze così sciagurate.”

            Carlotta vide lo stato d'Ottilia, lo comprese; col tempo e coi ragionamenti pensava di convincerla un po'. Ma quando tentò alcune parole, che accennavano all'avvenire, all'attenuarsi del dolore, alla speranza: “No!” esclamò Ottilia, in tono d'esaltazione, “non cercare di smuovermi, d'ingannarmi! Nel momento in cui sapessi che hai consentito al divorzio, pago in quelle acque medesime la mia colpa, il mio delitto.”

 

XV    (Torna all'indice)

 

 

            Quando, nella sfera d'una tranquilla esistenza in comune, parenti, amici, compagni, s'intrattengono più del necessario e del giusto su ciò che avviene o deve avvenire, quando ripetutamente si partecipano a vicenda i loro propositi, le iniziative, le occupazioni, e senza in realtà portarsi consiglio, prendono la vita intera come occasione per trinciar consigli, allora, nei momenti gravi, proprio allorché ci si direbbe più bisognosi d'aiuto, d'appoggio altrui, ecco che ciascuno si chiude in sé, cerca d'operare nel suo interesse e a modo suo, e intanto che ci si nascondono a vicenda i mezzi di cui servirsi, è solamente la riuscita, lo scopo finale, il risultato, che torna ad essere dominio di tutti.

            Dopo eventi così eccezionali e dolorosi era venuta, per le due amiche, come una serietà pacata, che s'esprimeva in certi reciproci, affettuosi riguardi. Senza dir niente Carlotta aveva fatto portare il bimbo nella cappella. Riposava là, quella prima vittima di una sorte presaga.

            Carlotta, per poco che potesse, si volse di nuovo alla vita, e anzitutto ritrovò Ottilia, che aveva bisogno di lei. S'occupava specialmente della figliola, senza lasciarlo intendere. Sapeva quanto amava Eduardo, quell'angelo; un po' alla volta s'era ricostruita la scena che aveva preceduto la disgrazia, e ne aveva appreso ogni particolare da Ottilia stessa o dalle lettere del maggiore.

            Ottilia, dal canto suo, rendeva più tollerabile la vita a Carlotta, in quel momento. Era aperta, anzi loquace, ma della situazione presente o dei fatti di poco prima non parlava mai. Che aveva notato, osservato tutto, che sapeva molto, ora veniva in evidenza. Conversava con Carlotta, la distraeva, e l'altra continuava a coltivare in segreto la speranza di vedere un giorno formarsi una coppia che aveva tanto cara.

            Ma per Ottilia era ben diverso. Aveva svelato all'amica il segreto della sua esistenza, era libera ormai dal riserbo d'un tempo, dalla vecchia soggezione. Grazie al rimorso, grazie alla sua decisione, si sentiva sgravata anche dal peso di quella colpa, di quella sventura. Non aveva più bisogno di far forza a se stessa; nell'intimo del cuore s'era perdonata, ma a condizione di rinunciare, e quella condizione restava per sempre intangibile.

            Trascorse così qualche tempo, e Carlotta sentiva che la casa e il parco, i laghi, lo scenario di rocce e di piante, rinnovavano ogni giorno in loro soltanto sensi dolorosi. Era evidente che si doveva mutare residenza, ma come, non era semplice stabilirlo.

            Le due donne dovevano restare insieme? Tale sembrava la prima volontà d'Eduardo; le sue dichiarazioni, la sua minaccia parevano richiederlo: ma come non riconoscere che il loro rapporto reciproco era assai penoso, con tutta la buona volontà, la comprensione, l'impegno? Le loro conversazioni erano evasive. A volte preferivano capire solo a mezzo, più sovente un'espressione finiva fraintesa, se non dalla ragione, dal sentimento. Temevano, a vicenda, di ferirsi, e proprio questo timore era suscettibile di venire ferito, e feriva a sua volta.

            Se si pensava di cambiare, ma anche, almeno per un po', di separarsi, riemergeva il vecchio problema: dove sarebbe andata Ottilia? Quella famiglia ricca e altolocata aveva già fatto, inutilmente, diversi tentativi per procurare a una figliola che dava ottime speranze e avrebbe ereditato il patrimonio, compagne con le quali si divertisse ed entrasse in emulazione. Durante l'ultima visita della baronessa, e anche di recente per via di lettere, Carlotta era stata invitata a mandare Ottilia. E a questo punto tirò fuori ancora il discorso. Ottilia rifiutò tuttavia espressamente d'andare dove avrebbe incontrato ciò che si suol chiamare il bel mondo.

            “Permetta, zia cara,” fece, “che io dica, per non sembrare chiusa e ostinata, quello che diversamente sarebbe doveroso di tacere e celare. Una persona particolarmente disgraziata, sia pure senza colpa, è segnata a dito nel modo più doloroso: la sua presenza suscita una sorta di terrore in tutti coloro che la vedono, che vengono in contatto con lei. Tutti vogliono riconoscere i segni della sciagura che ha sopportato, sono curiosi e insieme hanno paura. Allo stesso modo, una casa, una città, dov'è accaduto qualcosa di terribile, incutono timore ad ognuno che v'entri: la luce del giorno, in quei luoghi, non è più così chiara, e le stelle paiono perdere il loro splendore.

            “Quanta indiscrezione, e tuttavia spiegabile, mostra la gente nei confronti di simili infelici, quanta sciocca petulanza, e che goffa benignità! Mi perdoni, se parlo così: ma ho sofferto incredibilmente per quella povera ragazza, quando Luciana andò a tirarla fuori dalle stanze più remote della casa, e prese ad occuparsene, e la costrinse, con le migliori intenzioni, ai giochi e alla danza. Quando la poverina, sempre più angosciata, finì col fuggire e perse i sensi, e io la tenni tra le mie braccia, mentre tutti, spaventati, eccitati, in realtà s'incuriosivano a lei, non pensavo d'avere innanzi anch'io un destino del genere; ma la mia solidarietà con la sventurata, autentica e spontanea, e ancora viva. Ora posso rivolgere verso me stessa quella compassione, e guardarmi dal dare esca a simili eventi.”

            “Ma, figliola,” ribatté Carlotta, “non potrai sempre sottrarti alla vista della gente. Chiostri non ne abbiamo più, dove un tempo sentimenti così trovavano rifugio.”

            “La solitudine non è un rifugio, zia,” rispose Ottilia. “Il rifugio più sicuro è da cercare dove ci è dato d'essere operosi. Non c'è espiazione, non c'è rinuncia, che sia in grado di sottrarci a un destino presago, una volta che abbia deciso di perseguitarci. Soltanto se devo servire da spettacolo, così nell'ozio, mi è penoso e mi tormenta. Ma se mi trovano mentre lavoro soddisfatta, instancabile a sbrigare i miei doveri, posso sopportare lo sguardo di chiunque, non avendo da temere quello di Dio.”

            “Vorrei sbagliarmi,” fece Carlotta, “ma tu preferiresti adesso tornartene al collegio.”

            “Sì,” rispose Ottilia, “non lo nego. Mi pare una sorte felice, educare gli altri nel modo più comune, quando si è stati educati da esperienze eccezionali. Non vediamo forse, nella storia, che gli uomini che s'erano ritirati nel deserto dopo gravi sciagure morali, non vi poterono restare nascosti e al riparo, come speravano? Furono richiamati nel mondo, per riportare sulla buona via i dispersi: e chi era più adatto a farlo di coloro che già avevano sperimentato gli errori della vita? Furono richiamati per assistere degli infelici: e chi poteva, se non loro, sicuri ormai da ogni male terreno?”

            “Ti scegli una singolare missione,” disse Carlotta. “E io non voglio oppormi: sia come vuoi, seppure, spero, per breve tempo.”

            “Quanto le sono grata,” rispose Ottilia, “di consentirmi questo tentativo, questa esperienza. Se non mi illudo troppo, mi riuscirà. Laggiù mi verranno alla mente tutte le prove che vi sostenni: così modeste, insignificanti, rispetto a quelle che mi attendevano! Sarò serena nel giudicare le difficoltà delle giovani allieve, potrò sorridere dei loro affanni puerili, e tirarle fuori, con mano leggera, dai loro piccoli errori. Chi è felice, non è adatto a educare persone felici: è proprio della natura umana, esigere tanto più da sé e dagli altri quanto più si è avuto. L'infelice soltanto, una volta ripresosi, sa alimentare in sé e negli altri la coscienza che anche un bene modesto lo si può godere con entusiasmo.”

            “Permetti ancora un'obiezione al tuo proposito,” fece Carlotta, dopo avere riflettuto alquanto, “un'obiezione che mi sembra la principale. Non si tratta di te, ma d'una terza persona. I sentimenti di quel buon assistente, ragionevole, pio, tu li conosci; nella carriera che ti sei scelta, gli diverrai ogni giorno più cara, e indispensabile. Dacché già adesso, seguendo il suo cuore, senza di te non vorrebbe vivere, in avvenire, quando sia abituato alla tua collaborazione, non riuscirà più a continuare senza di te la sua opera. In principio gli sarai d'aiuto, dopo guasterai il suo lavoro.”

            “Il destino con me non è stato benigno,” ribatté Ottilia, “e chi mi vuol bene, forse non deve aspettarsi niente di meglio. Ma quell'amico è così buono e sensato che nascerà in lui, spero, un senso di pura devozione verso di me; in me vedrà una persona sacra, capace di riparare forse, per sé e gli altri, a un male orribile, soltanto volgendosi a quel che di santo ci circonda, e unico può difenderci dagli assalti delle potenze maligne.”

            Carlotta volle considerare in silenzio quanto le aveva detto, così spontaneamente, la buona figliola. In varia maniera, ma con discrezione, aveva cercato di sapere se fosse possibile un riavvicinamento a Eduardo. Ma la minima allusione, la più remota speranza, il più lieve sospetto, parevano sconvolgere Ottilia, anzi, una volta che non vi si poté sottrarre, s'espresse al proposito con estrema chiarezza.

            “Se la tua decisione di rinunciare a Eduardo,” le replicò Carlotta, “è così ferma, irrevocabile, allora guardati solo dal pericolo di rivederlo. Lontani dall'oggetto amato, pare che, quanto più intenso è il nostro affetto, tanto più siamo padroni di noi stessi, volgendo verso il nostro intimo tutta la forza della passione che prima agiva all'esterno; ma subito siamo strappati a tale illusione, appena ciò di che ci pareva poter fare a meno, compare di fronte ai nostri occhi, indispensabile ancora. Fa pure adesso quanto ritieni si convenga alla tua situazione; mettiti alla prova, muta magari la tua decisione presente: ma per scelta tua, per esclusiva tua volontà. Non permettere che il caso o la sorpresa ti riportino ai rapporti di prima, altrimenti s'aprirebbe nel tuo animo un dissidio insostenibile. Come dicevo, avanti di fare questo passo, d'allontanarti da me per iniziare una nuova vita, che ti porterà lungo chissà quali vie, considera ancora una volta se realmente puoi rinunciare a Eduardo per sempre. Presa questa determinazione, allora bisogna che si stringa tra noi un patto: non avrai più a che fare con lui, neanche un colloquio, fosse pure che ti cercasse o riuscisse ad arrivare sino a te.” Ottilia non esitò un istante, diede a Carlotta la parola che aveva già dato a se stessa.

            Carlotta continuava ad avere in mente quella minaccia d'Eduardo, che cioè avrebbe rinunciato a Ottilia sinché fosse rimasta con lei. Certo, da allora la situazione era assai mutata, erano avvenute tante cose che quelle parole dettategli dal momento si potevano considerare superate rispetto ai fatti che erano seguiti; e tuttavia lei non intendeva azzardare né intraprendere alcunché che potesse anche lontanamente ferirlo: Mittler avrebbe dunque dovuto esplorare, su quel punto, l'animo d'Eduardo.

            Dopo la morte del piccolo, Mittler aveva fatto parecchie visite a Carlotta, seppure di sfuggita. La sciagura, che rendeva sommamente improbabile che i due sposi si rimettessero insieme, gli aveva fatto molta impressione; ma sempre ottimista e sempre attivo, secondo il suo carattere, aveva accolto con segreto compiacimento la decisione d'Ottilia. Confidava nel tempo, che mitiga gli affanni, pensava di riuscire a ricongiungere i due e vedeva quei moti di passione soltanto come prove imposte all'amore e alla fedeltà coniugale.

            A suo tempo, Carlotta aveva informato per lettera il maggiore della prima decisione d'Ottilia, pregandolo vivamente di convincere Eduardo affinché non intraprendesse altri passi e rimanesse tranquillo, in attesa che la figliola recuperasse il suo equilibrio. Anche dei fatti e delle intenzioni subentrate poi, aveva dato notizia. Ora toccava a Mittler il difficile compito di preparare Eduardo ad un mutamento della situazione. Mittler, però, consapevole che gli uomini accettano magari il fatto compiuto, ma non acconsentono volentieri a ciò che ancora deve avvenire, persuase Carlotta che era meglio rimandare senz'altro Ottilia al collegio.

            Si fecero dunque, appena fu ripartito, i preparativi per il viaggio. Ottilia allestì il bagaglio, ma Carlotta s'accorse che non aveva intenzione di prendere con sé il bel cofanetto, né alcuno degli oggetti che conteneva. Tacque, e lasciò che la fanciulla continuasse in silenzio. Venne il giorno della partenza; la carrozza di Carlotta doveva portare Ottilia, dopo la prima giornata, a pernottare in un luogo che conoscevano, e il secondo giorno, al collegio; Nanny l'avrebbe accompagnata e sarebbe poi rimasta come cameriera. Quella ragazza tanto sensibile, subito dopo la morte del bimbo, s'era riaccostata ad Ottilia, e le s'era affezionata di nuovo, seguendo il suo temperamento e un'istintiva simpatia; anzi, sembrava che con la sua compagnia chiacchierina volesse riparare al tempo perduto e dedicarsi tutta alla sua cara padrona. Era fuori di sé dalla felicità di viaggiare, di vedere paesi forestieri, lei che non era mai uscita dal villaggio dov'era nata: si precipitò dal castello giù sino al paese, dai genitori, dai parenti, per annunciare la sua gran fortuna e per congedarsi. Disgraziatamente entrò nelle stanze che ospitavano dei malati di morbillo, e subito ne fu contagiata. Non vollero, comunque, rimandare la partenza; Ottilia insisteva, aveva già fatto quella strada, conosceva gli albergatori presso i quali doveva alloggiare; ad accompagnarla pensava il cocchiere del castello, non c'era motivo di preoccuparsi.

            Carlotta non s'oppose; col pensiero anche lei affrettava il momento di lasciare quei luoghi. Soltanto volle ancora sistemare per Eduardo le stanze dove aveva abitato Ottalia, esattamente com'erano prima che arrivasse il capitano. La speranza di ristabilire un'antica felicità torna sempre a destarsi nell'animo umano, e Carlotta era autorizzata un'altra volta a nutrire speranze del genere, anzi quasi costretta ad esse.

 

XVI    (Torna all'indice)

 

 

            Mittler, venuto per trattare con Eduardo la questione, lo trovò solo, il capo appoggiato sulla mano destra, il braccio puntellato sul tavolo. Sembrava soffrisse molto. “Ha ancora il mal di capo?” chiese Mittler. “Sì, ce l'ho,” rispose, “e tuttavia non posso odiarlo, perché mi ricorda Ottilia. Forse soffre anche lei, adesso, appoggiandosi dalla parte sinistra, penso, e soffre magari più di me. Perché non devo sopportare, come lei sopporta? Questi dolori mi fanno bene, quasi direi che sono opportuni: solo così mi viene innanzi più forte, più chiara, più viva, l'immagine della sua pazienza, accompagnata da tutte le altre sue virtù; solo nel dolore intendiamo appieno tutte le grandi qualità necessarie per sopportarlo.”

            Trovando l'amico tanto rassegnato, Mittler non fece mistero di ciò che doveva dire, lo espose però a poco a poco, in successione cronologica: come alla signora era venuta quell'idea, come un po' alla volta era maturata in un proposito. Eduardo quasi non reagì. Dalle sue poche parole sembrava di capire che lasciava agli altri ogni decisione; forse era quel male immediato a renderlo insofferente a tutto.

            Appena fu solo, s'alzò, e prese a camminare su e giù per la camera. Non sentiva più il dolore, non s'occupava più di sé per nulla. Già mentre Mittler raccontava, la sua immaginazione d'uomo innamorato s'era messa in moto. Vedeva Ottilia, sola o come lo fosse, lungo la strada ben conosciuta, nella locanda consueta, dove anche lui era stato così spesso; pensava, rifletteva, o meglio, non pensava né rifletteva, desiderava, voleva soltanto. Bisognava che la vedesse, le parlasse. Dove, perché, che ne sarebbe venuto? Non erano problemi da porsi. Non resisteva, bisognava che la vedesse.

            Il cameriere fu informato in confidenza, e riuscì a sapere il giorno e l'ora della partenza d'Ottilia. Spuntò quel mattino, Eduardo non esitò a recarsi da solo, a cavallo, là dove Ottilia avrebbe pernottato. Ma arrivò troppo presto; la locandiera, stupita, l'accolse con gioia. Gli era debitrice di una grossa soddisfazione familiare: Eduardo aveva procurato a suo figlio, valoroso soldato, una decorazione, mettendone in rilievo una certa impresa di cui era stato l'unico testimone, portandolo innanzi al generale, e superando gli ostacoli posti da alcuni malevoli. La donna, ora, non sapeva più che fare per accontentare l'ospite. In fretta sgombrò la saletta migliore, che peraltro serviva anche da guardaroba e da dispensa; ma lui le annunciò l'arrivo d'una signora, che vi avrebbe alloggiato, e per sé chiese che gli preparassero in qualche modo una camera dietro, sul corridoio. La padrona trovò misteriosa la faccenda, ma era felice di rendere un servizio a chi li aveva protetti: Eduardo pareva darvi importanza, e non restò inattivo.

            In che stato d'animo trascorse le lunghe, lunghissime ore, sino a sera! Rimirava tutt'intorno la camera dove l'avrebbe rivista: con quella curiosa aria casalinga, gli pareva un luogo di paradiso! Come si consumò a riflettere se dovesse cogliere di sorpresa Ottilia o piuttosto prepararla! Alla fine, prevalse questa seconda soluzione. Sedette, e scrisse una lettera, destinata a lei.

 

            Eduardo a Ottilia

            Mentre leggi questa lettera, mia adorata, io sono qui vicino. Non avere paura, non inorridire: da me non devi temere nulla. Non voglio costringerti. Non mi vedrai, a meno che tu non lo permetta.

            Pensa anzitutto alla tua situazione, alla mia. Come ti sono grato, di non volere fare un passo decisivo! Ma anche così è importante. Non farlo! Qui, giunta a una sorta di bivio, rifletti ancora: puoi essere mia, vuoi essere mia? Oh, sarebbe un dono grande per tutti, e per me incommensurabile!

            Lascia che ti riveda, che ti riveda con gioia. Lascia che ti porga con la mia voce la bella domanda, e rispondimi con la tua bella persona. Sul mio petto, Ottilia! Dove hai già posato, dove hai il tuo posto per sempre!

 

            Mentre scriveva, lo prese la sensazione che s'avvicinasse la creatura agognata, che quasi fosse presente ormai. Varcherà questa soglia, leggerà questa lettera, mi starà innanzi come un tempo, lei che tanto ho sognato m'apparisse. Ma sarà la stessa? Sarà mutato il suo aspetto, il suo animo?

            Aveva ancora la penna in mano, voleva continuare, ma già la carrozza entrava in cortile. Di fretta, aggiunse: Ti sento arrivare. Per un attimo, addio!

            Ripiegò la lettera, mise l'indirizzo; per sigillarla, mancava il tempo. Corse in una camera da dove poi sapeva come raggiungere il corridoio, ma gli venne in mente, di colpo, che aveva dimenticato sul tavolo orologio e sigillo. Bisognava che lei non li vedesse. Con un salto fu indietro, e riuscì, per fortuna, a riprenderli. Sentiva già la padrona, dall'anticamera, avviarsi per mostrare all'ospite la sua stanza. S'affrettò alla porta, ma era chiusa. Nel balzare dentro, aveva fatto cadere la chiave dall'altra parte, la serratura era scattata, e lui era in trappola! Scosse la porta con violenza, ma non cedeva. Come avrebbe voluto essere uno spirito per passare attraverso le fessure! Invano! Nascose il viso contro lo stipite. Ottilia entrò, la padrona, appena lo scorse, si ritirò. Anche ad Ottilia non poté restare celato più d'un attimo. Si volse verso di lei: i due amanti si trovarono l'uno di fronte all'altra, ancora una volta nelle circostanze più strane. Ottilia lo guardò calma e grave, senza un passo avanti né uno indietro, e quando egli fece un movimento per venirle vicino, arretrò di qualche passo sino al tavolo. Anche Eduardo si tirò indietro. “Ottilia,” esclamò, “lasciami rompere questo silenzio terribile! Siamo ombre soltanto, che si fronteggiano? Ma prima di tutto, ascolta. È un caso che tu mi abbia trovato qui, subito. Hai una lettera, accanto, che doveva servire a prepararti. Leggila, ti prego, leggila! E poi decidi ciò che potrai.”

            Ottilia abbassò lo sguardo sulla lettera, e dopo un istante di riflessione, la prese, l'aperse e la lesse. Senza alcuna reazione in volto, dopo che l'ebbe letta, la rimise giù piano; poi, levate le mani, le congiunse e se le portò al petto, mentre si chinava un po' in avanti; e rivolse a colui che l'incalzava, un'occhiata tale, che fu costretto a rinunciare a tutto ciò che poteva chiedere o desiderare. Ne ebbe il cuore straziato. Non poté sopportare né lo sguardo né il gesto: era come Ottilia fosse lì per cadere in ginocchio, solo che lui avesse insistito. Raggiunse la porta, disperato, e mandò la padrona da Ottilia, che restava sola.

            Camminò su e giù per l'anticamera. S'era fatta notte, ormai, dalla stanza non giungeva alcun rumore. Finalmente ne uscì la locandiera e levò la chiave. La buona donna era commossa, imbarazzata, non sapeva che dovesse fare; poi, mentre andava, allungò la chiave a Eduardo, che la rifiutò. Gli lasciò il lume, allora, e s'allontanò.

            Eduardo, nella pena più fonda, si buttò sulla soglia della stanza d'Ottilia, bagnandola di lacrime. Mai due amanti, forse, trascorsero, tanto vicini, una notte così tormentosa.

            Spuntò il giorno, il cocchiere faceva premura, la padrona aprì la porta ed entro. Trovò Ottilia che dormiva vestita, tornò fuori, e rivolse a Eduardo un sorriso d'intesa. S'accostarono alla dormiente; ma anche questa scena Eduardo non riuscì a sopportarla. La padrona, non azzardandosi a svegliare la fanciulla, le si sedette lì di fronte. Infine Ottilia schiuse i suoi begli occhi, e si levò in piedi.

            Rifiuta la colazione, e viene avanti Eduardo. La supplica: una parola soltanto, ma esprima la sua volontà; lui si conformerà, lo giura. Ma Ottilia tace. Chiede ancora, dolcemente, insiste, se voglia essere sua. Quanta soavità, mentre, con gli occhi bassi, muove appena il capo per far segno di no! Eduardo le domanda se pensi d'andare in collegio. Risponde ancora di no, indifferente. Ma quando le chiede se la può riaccompagnare da Carlotta, ha un cenno di consenso, sollevata. Egli s'affretta alla finestra, per dare gli ordini al cocchiere; ma lei, alle sue spalle, come un lampo è alla porta, giù per la scala, in carrozza. Il cocchiere s'avvia verso il castello; Eduardo viene dietro a cavallo, un po' distante.

 

XVII    (Torna all'indice)

 

 

            Come si meravigliò Carlotta, quando vide entrare Ottilia nella corte del castello, e subito dietro Eduardo a cavallo! Corse alla porta. Ottilia scende e s'avvicina, insieme a Eduardo; prende le mani dei due sposi, con calore, con forza, le congiunge, e scappa verso la sua camera. Eduardo si butta al collo di Carlotta e si scioglie in lacrime; non riesce a spiegarsi, invoca comprensione, chiede che si assista Ottilia, che la si aiuti. Carlotta s'affretta alla camera di lei, e le viene un brivido quando entra: era già sgombrata, non c'erano che le pareti nude, e pareva immensa, squallida. Avevano portato via tutto, e lasciato soltanto, là in mezzo, il cofano, non sapendo dove metterlo; Ottilia, distesa sul pavimento, vi poggiava le braccia e il capo. Carlotta si preoccupa, le chiede che accada, ma non ha risposta.

            Lascia da Ottilia la cameriera, che ha portato qualcosa per rianimarla, e torna da Eduardo. Lo trova in salone, nemmeno lui le spiega. Le si getta innanzi, le bagna le mani di pianto, fugge in camera, e quando Carlotta vuol seguirlo, incontra il cameriere, che le dà qualche notizia, per quanto può. Il resto lo ricostruisce da sé, poi si volge decisa a ciò che il momento richiede. La camera d'Ottilia viene risistemata al più presto; le sue stanze Eduardo le ha trovate come le lasciò, non hanno toccato neanche un foglio.

            Sembra che i tre riprendano come un tempo, ma Ottilia continua a tacere, ed Eduardo non può altro che chiedere a sua moglie quella pazienza che a lui si direbbe manchi. Carlotta manda messaggi a Mittler e al maggiore: il primo non si trova, il maggiore arriva. Con lui Eduardo si sfoga, gli confessa anche il minimo particolare, e così Carlotta viene a sapere ciò che è accaduto, ciò che cambia tanto stranamente la situazione e sconvolge gli animi.

            Parla col marito, affettuosissima. Sa tenersi a una richiesta sola: che si risparmi alla fanciulla, per ora almeno, qualsiasi turbamento. Eduardo sente quanto valga sua moglie, il suo amore, la sua ragionevolezza; ma una passione esclusiva lo domina. Carlotta gli dà speranza, gli promette di consentire al divorzio. Non le crede. È così mal ridotto, che speranza e fiducia, a vicenda, lo abbandonano. Insiste che Carlotta conceda la sua mano al maggiore, è preso come da un'irritazione insensata. Carlotta, per calmarlo, per tenerlo su, fa ciò che chiede. Assicura la sua mano al maggiore qualora Ottilia voglia unirsi con Eduardo, ma all'esplicita condizione che intanto i due uomini partano per un viaggio insieme. Il maggiore, per conto della corte, deve svolgere una missione all'estero, ed Eduardo promette che l'accompagnerà. S'avviano i preparativi, e siccome qualcosa c'è da fare, gli animi si calmano un poco.

            Osservano intanto che Ottilia, ostinata nel suo silenzio, mangia e beve appena. Gliene parlano, s'inquieta. La lasciano stare. Non abbiamo forse quasi tutti la debolezza di non volere tormentare nessuno, anche se si tratta del suo bene? Carlotta considerò i vari rimedi possibili, e infine approdò alla conclusione di far venire dal collegio l'assistente, che aveva molta influenza su Ottilia, e aveva scritto cortesemente, dopo il mancato arrivo di lei, senza che ancora gli avessero risposto.

            Per non sorprendere Ottilia, lanciano l'idea in sua presenza. Non sembra d'accordo, riflette, poi si direbbe pronta alla decisione. Corre in camera sua, e prima ancora di sera, manda agli amici, riuniti insieme, questa lettera.

 

            Ottilia agli amici

            Perché debbo dire espressamente, cari, ciò che s'intende da sé? Sono uscita dalla mia via per non rientrarvi più. Un demone ostile, insignoritosi di me, sembra impedirmelo dall'esterno, quand'anche fossi tornata in armonia con me stessa.

            Era sincero il mio proposito di rinunciare a Eduardo, d'allontanarmi da lui. Speravo di non incontrarlo più. È andata diversamente. Contro la sua volontà medesima, me lo sono vista davanti. Forse la mia promessa di non parlargli più, l'ho presa e interpretata troppo alla lettera. Seguendo, in quell'attimo, il sentimento e la mia coscienza, tacqui, rimasi muta di fronte all'amico, e adesso non ho da dire più nulla. Mi sono imposta, per forza di sentimento, un severo voto monastico, tale che forse angustia chi lo assume sulla base di meditate considerazioni. Lasciate che io v'insista sinché il cuore me lo comanda. Non chiamate intermediari! Non insistete perché io parli, o prenda più cibo e bevanda di quanto mi basta. Aiutatemi, con indulgenza e pazienza, a superare questo periodo. Sono giovane, la gioventù si riprende senza che uno se ne accorga. Tolleratemi con voi, confortatemi col vostro amore, istruitemi con la vostra conversazione: ma lasciate a me sola l'animo mio!

 

            La partenza degli uomini, predisposta da un pezzo, non ebbe più luogo, perché la missione del maggiore era stata rimandata. Proprio ciò che Eduardo desiderava! Rianimato dalla lettera d'Ottilia, incoraggiato da quelle parole di conforto e di speranza, giustificato nel suo ostinarsi, annunciò d'improvviso che non se ne sarebbe andato. “Che stoltezza,” esclamò, “gettare via di proposito, per troppa precipitazione, ciò che più è necessario, indispensabile, e che forse potremmo conservare, anche se rischiamo di perderlo. E perché? Semplicemente perché appaia che uno fa la sua propria scelta. Quante volte, vinto da tale sciocca presunzione, ho lasciato gli amici prima del termine fissato, parecchie ore prima, e persino giorni, pur di non esservi costretto, inevitabilmente, dalla scadenza estrema. Questa volta, però, voglio restare. Perché devo allontanarmi? Lei, da me, non s'è già allontanata? Non mi viene neanche in mente di prenderle la mano, di stringermela sul cuore. Non posso pensarci, mi fa paura. Non è che sia andata via da me: s'è innalzata sopra di me.”

            Così rimase, come voleva, come doveva. Niente eguagliava il suo piacere, del resto, quando si ritrovava con lei. E anche per Ottilia non era morta la stessa sensazione, anche lei non poteva sottrarsi a quell'obbligo felice. Li univa, reciprocamente, un fascino indescrivibile, quasi magico. Abitavano sotto il medesimo tetto; ma persino senza che pensassero l'uno all'altra, occupati da altre cose, distratti qua e là dalla compagnia, finiva che si riaccostavano. Erano in una sala, e dopo un po', ecco che s'affiancavano, o sedevano vicini. Solo una stretta prossimità poteva acquietarli, ma pienamente, e quella prossimità bastava: non c'era bisogno di sguardi, di parole, di gesti, di un contatto; soltanto stare insieme. Allora non erano più due persone, ma una sola, in una beatitudine dimentica e perfetta, in armonia con se stesse e col mondo. Se uno di loro due l'avessero confinato nell'angolo più remoto della casa, l'altro, spontaneamente, senza proporselo, un po' alla volta l'avrebbe raggiunto. La vita era un enigma per loro, e la soluzione la trovavano solo insieme.

            Ottilia era del tutto calma e serena, così che si poteva ormai essere tranquilli sul suo conto. Lasciava di rado la compagnia, ma aveva chiesto di mangiare da sola. Non la serviva che Nanny.

            Ciò che a uno accade abitualmente, si ripete, più di quanto si creda, perché stabilito in modo diretto dal temperamento. Il carattere, la personalità, le inclinazioni, le tendenze, il luogo d'origine, l'ambiente, gli usi, formano un complesso, in seno al quale, come in un elemento o in un'atmosfera, ciascun uomo si muove, dove soltanto sta a suo agio. È per questo che dopo molti anni, e con nostro grande stupore, ritroviamo immutate, persone di cui tanto ci si lagna per la loro mutabilità: immutate e immutabili, nonostante l'infinita serie delle sollecitazioni, dall'esterno e dall'intimo.

            Così anche nella vita quotidiana dei nostri amici quasi tutto continuava a muoversi sui vecchi binari. Ancora Ottilia, con silenziose premure, manifestava la sua dedizione gentile; e pure per gli altri, avveniva che si comportassero secondo la loro natura. In tal modo la cerchia familiare pareva l'immagine della vita d'un tempo, ed era scusabile l'illusione che tutto fosse ancora come prima.

            Le giornate d'autunno, della stessa lunghezza di quelle loro giornate primaverili, verso la stessa ora, dalla campagna li riportavano in casa. I frutti e i fiori della stagione facevano credere che fosse l'autunno di quell'altra primavera; il tempo intercorso era dimenticato: sbocciavano infatti i fiori medesimi che s'erano seminati in quei primi giorni; maturavano frutti sugli alberi che allora s'erano visti in fiore.

            Il maggiore andava e veniva; anche Mittler capitava spesso. Le riunioni serali erano le consuete. Di solito Eduardo leggeva, ma con più vivacità che mai, con più calore, meglio, e persino più allegro, se si vuole. Era come volesse, o coll'allegria o col sentimento, rianimare la rigidità d'Ottilia, disgelarne il silenzio. Sedeva, come allora, in maniera che lei potesse leggergli nel libro, e anzi era inquieto, distratto, se Ottilia non lo faceva, se non era sicuro che seguisse con gli occhi le sue parole.

            I sentimenti spiacevoli, penosi, di quel tempo che avevano attraversato, ormai non c'erano più. Nessuno serbava rancore ad altri; ogni amarezza era scomparsa. Il maggiore accompagnava col violino Carlotta che suonava il piano, mentre il flauto d'Eduardo, come allora, s'accordava col ritmo d'Ottilia alla tastiera. Ci si avvicinava così al compleanno d'Eduardo, che l'anno prima non avevano potuto festeggiare. Questa volta doveva essere celebrato senza niente di particolare, in tranquilla, cara intimità: avevano preso tale intesa, per accenni o per via esplicita. Ma a mano a mano che quel giorno si faceva prossimo, cresceva nel contegno d'Ottilia una solennità, per l'innanzi piuttosto intuita che rimarcata. Spesso pareva passare in rassegna i fiori del giardino; aveva detto al giardiniere di curare le varie qualità di piante estive, e di occuparsi specialmente degli aster, che quell'anno erano fioriti in gran copia.

 

XVIII    (Torna all'indice)

 

 

            La cosa più importante, però, che gli amici notarono con silenziosa attenzione, fu che Ottilia aveva messo mano al suo cofano, per la prima volta, scegliendo e tagliando alcune stoffe, il necessario per un abito solo, ma completo. Quando, aiutata da Nanny, volle rimettere dentro il resto, quasi non ce la faceva: anche così era stracolmo. La ragazzina, avida, non si saziava di guardare, specialmente tutta quella provvista di galanterie, d'accessori: avanzavano scarpe, calze, giarrettiere ricamate, guanti. Pregò Ottilia di un piccolo regalo. Lei disse di no, ma subito aprì il cassetto d'un canterano, e lasciò che vi scegliesse. Alla svelta, come le venne, la bimba arraffò qualcosa, e fuggì via col bottino, per mostrarlo agli altri di casa e raccontare la sua fortuna.

            Finalmente Ottilia riuscì a riporre tutto per bene. Aprì allora un ripostiglio segreto, praticato nel coperchio; lì teneva nascosti i bigliettini e le lettere d'Eduardo, dei mazzetti di fiori secchi, ricordo delle passeggiate d'un tempo, una ciocca di capelli del suo amore, e altro. Aggiunse un oggetto ancora, il ritratto di suo padre, e richiuse piano, poi riappese la chiavetta alla catenella d'oro che le cingeva il collo scendendole in seno.

            Agli amici, frattanto, s'era riaccesa in cuore qualche speranza. Carlotta era convinta che Ottilia, giunto quel giorno, avrebbe parlato di nuovo: aveva sempre mostrato, infatti, una segreta alacrità, una sorta di soddisfazione serena, un sorriso quale aleggia sul volto di chi celi a persone care una gioia imminente. Non sapevano che passava tante ore in uno stato di grave prostrazione, e che si riprendeva, per forza di volontà, solo quando c'era da stare in compagnia.

            Mittler ultimamente s'era fatto vedere più spesso, con soste più lunghe. Quell'ostinato sapeva bene che, per forgiare il ferro, bisogna cogliere l'unico momento giusto. Il silenzio e il rifiuto d'Ottilia li considerava vantaggiosi. Passi per il divorzio non se n'erano ancora fatti; al futuro della ragazza sperava di provvedere con una qualsiasi valida soluzione; prestava orecchio agli altri, dava loro ragione, buttava lì una parola, e alla sua maniera si comportava con abilità.

            Ma non si controllava più appena gli capitava di discutere problemi che considerava importanti. Viveva molto in se stesso, e quando era con altri, di solito si buttava loro addosso. Una volta avviata tra amici la sua foga oratoria, - lo abbiamo già visto sovente - tirava innanzi senza riguardi, come capitava, ferisse o medicasse, giovasse o recasse danno.

            La vigilia del compleanno, Carlotta e il maggiore sedevano insieme, in attesa d'Eduardo, uscito a cavallo; Mittler camminava su e giù; Ottilia era ancora in camera sua, a preparare per l'indomani e a dare istruzioni alla ragazzina, che la capiva perfettamente ed eseguiva benissimo ciò che le veniva ordinato così alla muta.

            Mittler aveva imbroccato proprio uno dei suoi temi preferiti. Egli soleva sostenere che, nell'educazione dei figli come nel governo dei popoli, non v'è nulla di più inopportuno e barbarico che i divieti, le leggi o le ordinanze che proibiscono. “L'uomo,” diceva, “è attivo per sua natura, e a saperlo comandare, s'acconcia subito, opera ed esegue. Per conto mio, preferisco tollerare difetti e vizi sinché non posso imporre la virtù contraria, piuttosto che eliminare un difetto ma non avere al suo posto nulla di buono. L'uomo realizza volentieri il bene e l'utile, solo che possa arrivarci. Lo fa per avere da fare, e non sta a pensarci sopra più a lungo che sulle stupide bricconate che combina quand'è ozioso o s'annoia.

            “Che fastidio mi dà, tante volte, sentire come fanno ripetere ai bambini i dieci comandamenti! Il quarto, certo, è ancora bello, sensatissimo, positivo: "Onora il padre e la madre": se i piccoli se lo ficcano bene in testa, poi hanno tutta la giornata per metterlo in pratica. Ma che dire del quinto? "Non ammazzare". Come se qualcuno provasse il minimo piacere a uccidere il prossimo! Si odia qualcuno, si va in collera, ci si lascia trascinare, e per l'una o l'altra ragione può avvenire magari che si uccida un uomo. Ma non è una barbarie, con dei bambini, questo vietare l'omicidio? Se si dicesse: "Pensa alla vita altrui, evita ciò che può minacciarla, salvala a rischio della tua vita medesima: quando fai male al prossimo, considera che lo fai a te stesso". Questi sì che sarebbero comandamenti, per un popolo civile e che s'uniformi alla ragione! Invece, al catechismo, li riducono a due formulette.

            “E poi il sesto, quello lo trovo addirittura ripugnante. Come? Stuzzicare verso pericolosi misteri la curiosità infantile, anche troppo presaga, suscitare in quelle fantasie immagini e idee insolite, che impongono proprio ciò che si vorrebbe evitare! Sarebbe meglio che chi viola questo comandamento, lo punisse ad arbitrio una giustizia segreta, piuttosto che spettegolarne in chiesa o in piazza.”

            In quel momento entrò Ottilia. “Non commettere adulterio,” continuò Mittler. “Che rozzezza, che frase scurrile! Non suonerebbe meglio, se si dicesse: "Rispetta il legame coniugale. Se vedi due sposi che s'amano, sii lieto e partecipa alla loro felicità come a quella d'un giorno sereno. Se poi il loro rapporto si turba, cerca di riportarlo in chiaro; cerca di calmarli, di rabbonirli, mostra loro i reciproci pregi, e persegui con nobile disinteresse il bene altrui, facendo intendere quale felicità scaturisce dal dovere compiuto, e da questo dovere, in particolare, che accomuna indissolubilmente l'uomo e la donna".”

            Carlotta si sentiva come sui carboni accesi, e tanto più la situazione l'angustiava in quanto era convinta che Mittler non si rendeva conto di ciò che diceva, né dell'ambiente in cui lo diceva. Ma prima che potesse interromperlo, vide che Ottilia, mutata in volto, usciva dalla stanza.

            “Ci risparmi il settimo comandamento, almeno,” fece, con un sorriso forzato. “Tutti gli altri,” ribatté Mittler, “ma che resti salvo quello sul quale sono fondati.”

            Con un grido terribile, Nanny piombò dentro. “Muore! La signorina muore! Venite, venite!”

            Rientrando barcollante nella sua camera, Ottilia aveva trovato tutte le sue cose per l'indomani, ben distese su diverse seggiole, e la ragazza, indaffarata a curiosare qua e là, che aveva esclamato, entusiasta: “Vede, signorina, è proprio un vestito da sposa, degno di lei!”

            Intese quelle parole, s'abbandonò sul divano. Nanny vede la sua padrona impallidire, irrigidirsi. Corre da Carlotta, vengono tutti. Arriva in fretta il dottore: gli pare trattarsi solo di un po' d'esaurimento. Fa portare del brodo, Ottilia lo respinge con ripugnanza, quasi cade in convulsioni quando le accostano la tazza alla bocca. Il dottore, serio e sbrigativo, pone la domanda del caso: cosa ha mangiato Ottilia, oggi? La ragazza esita; lui ripete la domanda, e quella ammette che Ottilia non ha ancora preso nulla.

            Nanny gli sembra troppo turbata. La porta nella stanza vicina, viene anche Carlotta, la ragazza si butta in ginocchio, confessa che da tempo Ottilia non mangia più. I cibi d'Ottilia, perché la padrona insisteva, li ha mangiati lei; e non ha mai detto niente, per i cenni supplichevoli e minacciosi d'Ottilia, e anche perché - aggiunge con innocenza - le piacevano tanto.

            Sopraggiunsero Mittler e il maggiore, e trovarono Carlotta col medico. In un angolo del divano sedeva la pallida creatura celestiale: pienamente in sé, all'apparenza. La pregano di coricarsi; rifiuta, e fa cenno che le accostino il cofano. Vi appoggia i piedi, e resta così semisdraiata, in una posizione migliore. Sembra che voglia prendere congedo; a cenni esprime a coloro che l'attorniano, l'affetto più caro, amore, riconoscenza, chiede perdono, dice un tenero addio.

            Eduardo, smontato da cavallo, sente del fatto, si precipita nella stanza, le s'inginocchia accanto, le prende la mano inondandola di lacrime mute. Sta così lungamente. Infine esclama: “Non devo più sentire la tua voce? Non tornerai in vita con una parola per me? Bene, allora ti seguo: di là parleremo un'altra lingua!”

            Lei gli stringe forte la mano, lo fissa tenera e viva, e dopo un sospiro profondo, un moto delle labbra silenzioso e celeste: “Promettimi di vivere!” esclama, con fatica dolcissima, soave; ma subito ricade. “Lo prometto,” grida lui, di ricambio. Ma le parole vennero tardi: era già spenta.

            Dopo una notte di lacrime, il compito di dare sepoltura a quelle spoglie fu di Carlotta. Il maggiore e Mittler l'assistettero. Eduardo era in stato da far pietà. Appena usciva un po' dalla sua disperazione e tornava in sé, insisteva che Ottilia non la portassero via dal castello, che fosse curata, assistita, e la trattassero come fosse viva: perché morta non era, non poteva essere morta. Lo accontentarono, nella misura almeno in cui omisero ciò che aveva vietato. Non chiese di vederla.

            Ancora un altro spavento venne a turbare gli amici, un'altra bisogna dolorosa a occuparli. Nanny, rimproverata aspramente dal dottore, costretta con minacce a confessare, e dopo la confessione sopraffatta dai rimorsi, era fuggita. La ritrovarono dopo una lunga ricerca, sembrava fuori di sé. I genitori se la presero in casa. Ma anche la migliore delle accoglienze non sembrò giovarle: dovettero tenerla rinchiusa, perché minacciava di fuggire nuovamente.

            A poco a poco Eduardo riuscì a strapparsi dall'abisso della disperazione, ma per sua sventura: gli apparve chiaro, con certezza, che aveva perduto per sempre la gioia della sua vita. S'arrischiarono a osservargli che Ottilia, sepolta in quella cappella, sarebbe rimasta ancora tra i vivi, e che non le sarebbe mancata una dimora quieta e serena. Fu difficile ottenere il suo consenso; e solo a condizione che la portassero in una bara scoperta, e che nella cappella la ricoprisse tutt'al più una lastra di vetro, e che le fosse destinata una lampada perpetuamente accesa, si lasciò convincere, e parve rassegnato.

            Rivestirono il corpo leggiadro dell'abito che lei medesima s'era preparato; le misero sul capo una corona di aster, che splendevano presaghi come una triste costellazione. Per decorare la bara, la chiesa, la cappella, saccheggiarono tutti i giardini: restò uno squallore, come già l'inverno avesse spazzato via dalle aiuole ogni letizia. Di mattina prestissimo fu portata fuori del castello, nella bara scoperta, e il sole che saliva, imporporò ancora l'angelico volto. Tutti s'accalcavano intorno ai portatori, nessuno voleva precedere, nessuno seguire, volevano starle accanto, godere per l'ultima volta la sua presenza. Ragazzi, uomini e donne, non c'era chi non fosse commosso. Inconsolabili erano le ragazze, che sentivano la perdita più da vicino.

            Nanny mancava. L'avevano tenuta a casa, anzi, le avevano nascosto giorno e ora del funerale. Dai suoi, occupava, sorvegliata, una camera verso il giardino. Ma quando sentì suonare le campane, intese subito cosa avveniva, e siccome quella che la teneva d'occhio, curiosa di vedere il corteo, s'era allontanata, uscì per la finestra sul ballatoio, e di là, trovando chiuse tutte le porte, salì sino al solaio.

            Proprio in quel momento, a passo incerto, veniva avanti il corteo, per la via del villaggio ripulita e coperta con un tappeto di foglie. Nanny vide sotto di sé la sua padrona, nitida: più nitida in ogni tratto, più bella, di quanto la vedessero gli altri che seguivano. Ultraterrena, quasi portata su nuvole o su onde, parve accennare un saluto alla sua ancella; e costei, confusa, tremante, barcollante, piombò giù.

            La folla, con grida tremende, si disperse in ogni direzione. Per la calca e le spinte, i portatori furono costretti a deporre la bara. La figliola giaceva lì accanto, le membra apparivano spezzate. La sollevarono, e per caso, o per un arcano suggerimento, la posarono sulla salma; col poco di vita che le restava, sembrava volesse riunirsi alla padrona così amata. Ma appena gli arti ciondolanti toccarono la veste d'Ottilia, e le deboli dita quelle mani congiunte, ecco che la ragazza balzò in piedi, e innalzò al cielo le braccia e lo sguardo, poi si buttò in ginocchio innanzi alla bara, contemplando devota, in estasi, la padrona.

            Infine si levò come ispirata, ed esclamò, con religiosa letizia: “Sì, mi ha perdonato! Ciò che nessuno poteva perdonarmi, nemmeno io a me stessa, mi ha perdonato Dio per mezzo dello sguardo di lei, dei suoi gesti, della sua bocca. Adesso è tornata a riposare, così quieta, così dolce: ma avete visto, quando s'è tirata su, e ha aperto le mani per benedirmi, con che amore mi fissava! Avete udito tutti, siete testimoni, che mi ha detto: "Sei perdonata!" Ormai non sto più tra voi come un'assassina, lei m'ha perdonato, Dio m'ha perdonato, e nessuno può più avercela con me.”

            Attorno la folla si stringeva. Stupefatti, stavano a sentire, e guardavano in qua e in là, senza sapere da dove prendere. “Ora portatela alla sua pace!” disse la ragazza. “La sua parte l'ha fatta e patita, e non può più dimorare in mezzo a noi.” La bara s'avviò di nuovo, Nanny seguì per prima, e giunsero alla chiesa, alla cappella.

            Così posò il feretro d'Ottilia, insieme a quello del piccino, accanto alla testa, e al cofanetto, ai suoi piedi, chiuso in una robusta custodia di quercia. Avevano disposto che una donna vegliasse, per le prime ore, la salma, così soave dietro il coperchio di vetro. Ma Nanny non volle che le sottraessero quest'ufficio; volle restare sola, senza una compagna, e badare assiduamente alla lampada, accesa per la prima volta. Lo chiese con tanta insistenza e ostinazione, che glielo concessero, per evitare una crisi più grave, già prevedibile.

            Ma sola non rimase a lungo. Subito al cadere della notte, quando la lampada, ormai nel suo pieno diritto, allargò oscillando la cerchia di chiarore, la porta si schiuse, e l'architetto entrò nella cappella: in quella luce tenue, le pareti affrescate dalla pietà, gli vennero incontro con un'aria più antica, più suggestiva, di quanto avesse mai potuto immaginare.

            Nanny sedeva a fianco della bara. Lo riconobbe immediatamente; ma tacque, e fece un cenno verso la forma esangue. Così lui si mise all'altro lato, nella sua bella forza giovanile, chiuso in se stesso, rigido, pensoso, le braccia abbandonate, le mani congiunte, che si tormentavano, il capo, lo sguardo, rivolti alla morta.

            S'era già trovato a quel modo innanzi a Belisario. Senza volere, prendeva la posa d'allora; e con quanta naturalezza, anche stavolta! Anche adesso era una dignità somma, rovinata giù dalla sua altezza. E mentre là si piangevano in un uomo, perduti per sempre, il valore, l'ingegno, la forza, il rango, la ricchezza; mentre virtù indispensabili, nei momenti decisivi, alla nazione e al principe, non si pregiavano, e anzi venivano riprovate e messe al bando; qui erano tante altre silenziose virtù, che la natura, appena dopo averle tratte dai suoi copiosi abissi, subito, con mano indifferente, annientava: virtù rare, nobili, belle, accolte sempre con un piacere soddisfatto, per la loro pacifica azione, dal mondo che ne ha bisogno, rimpiante con nostalgico cordoglio.

            Il giovane taceva, e per un po' anche la ragazza. Ma quando vide le lacrime sgorgargli giù e le sembrò disfatto dal dolore, gli parlò con tanta forza e verità, con tanta umanità e sicurezza, che, stupito da quell'eloquenza, egli poté riaversi, e la sua bella amica fu ormai come si librasse, viva e operosa, in una sfera più alta. Il pianto s'asciugò, il dolore si fece più calmo. In ginocchio prese commiato da Ottilia, per Nanny un'affettuosa stretta di mano, e mentre ancora durava la notte, cavalcò via senza vedere nessuno.

            Il chirurgo, quella notte, s'era trattenuto nella chiesa, all'insaputa di Nanny, e venendo la mattina da lei, la trovò serena e racconsolata. S'aspettava delle stranezze, che gli avrebbe raccontato di colloqui notturni con Ottilia, e di visioni del genere; invece, era normale, tranquilla e pienamente in sé. Si ricordava con estrema precisione dei tempi e dei fatti più lontani, e non c'era nulla nei suoi discorsi che deviasse dal corso consueto della verità e della realtà, se si fa eccezione per l'episodio del funerale, che ripeté più volte con gioia: che Ottilia s'era tirata su, l'aveva benedetta, le aveva perdonato, e così lei aveva riavuto per sempre la sua pace.

            L'aspetto d'Ottilia, inalterato e leggiadro, più simile al sonno che alla morte, richiamava molte persone. La gente del posto voleva rivederla, e anche altri dai paesi vicini, tutti volevano udire dalla bocca di Nanny la sua storia incredibile: alcuni per riderci sopra, i più per dubitarne, e pochi per prestarvi fede.

            Ogni bisogno del quale sia interdetta la soddisfazione reale, costringe alla fede. Nanny, che tutti avevano visto sfracellarsi, era guarita per il contatto di quel corpo santo: una fortuna così, perché non doveva toccare anche ad altri? Dapprima furono madri premurose a portare di nascosto i loro bimbi affetti da qualche male, e credettero di notare un miglioramento repentino; poi la fiducia s'accrebbe, e infine non ci fu più nessuno, per vecchio e ma landato che fosse, che non venisse a cercare in quel luogo ristoro e sollievo. Aumentando l'afflusso, fu necessario chiudere la cappella, e anche la chiesa, tranne che nelle ore destinate alle funzioni.

            Eduardo non osò rivedere la scomparsa. Viveva rinchiuso in sé, sembrava non avesse più lagrime, non fosse più capace di soffrire. L'interesse alla conversazione, il gusto della tavola, s'attutiscono in lui giorno per giorno. Lo consola un po' soltanto qualche sorso, da quel calice che gli è stato così cattivo profeta. Gli piace sempre osservare quelle iniziali intrecciate, e allora il suo sguardo, tra serio e lieto, pare significhi che egli non ha smesso di sperare di riunirsi a Ottilia. Ma alla maniera che qualsiasi circostanza si direbbe favorire i fortunati, qualsiasi inezia portarli in alto, i casi più banali amano coalizzarsi a dispetto e a danno degli infelici. Un giorno, mentre Eduardo stava per portare alle labbra il suo calice, gli venne da respingerlo con orrore: era e non era quello, non c'era più un segnetto che serviva a riconoscerlo. Chiama d'urgenza il cameriere, e costui deve confessare che di recente, andato infranto l'autentico, lo ha sostituito con uno uguale, pure questo di quando Eduardo era giovane. Eduardo non riesce ad adirarsi: il suo destino è segnato dai fatti, perché lasciarsi toccare da un simbolo? Eppure si butta giù; da quel momento pare che bere lo ripugni, che s'astenga di proposito dal cibo, dalla compagnia.

            Di quando in quando lo prende un'inquietudine: fa venire un cibo, si rimette a parlare. “Ah, che sfortuna!” fece una volta al maggiore, che di rado lo lasciava. “Ogni mio sforzo non è che imitazione, un faticare a vuoto! Ciò che per lei era beatitudine, per me è pena; e tuttavia, per amore di quella beatitudine, sono costretto ad addossarmi la pena. Devo seguirla, e seguirla per questa via: ma la mia natura mi trattiene, e la mia promessa. È compito terribile, imitare l'inimitabile. Io lo intendo benissimo, mio caro, ci vuol genio per tutto, anche per il martirio.”

            Data la situazione, a che pro' descrivere le premure coniugali o quelle dell'amicizia e della scienza, in cui si prodigarono per un certo tempo coloro che circondavano Eduardo? Alla fine, lo trovarono morto. Fu Mittler a fare la scoperta dolorosa. Chiamò il dottore, e indagò attentamente, al suo solito, le circostanze in cui s'era rinvenuto il cadavere. Carlotta piombò nella stanza; nutriva il sospetto d'un suicidio, voleva incolpare se medesima, gli altri, d'una imperdonabile imprevidenza. Ma il dottore, con ragioni naturali, e Mittler, con ragioni morali, seppero in breve convincerla del contrario. Era evidente che Eduardo era stato sorpreso dalla morte. In un momento di quiete, aveva tirato fuori da una cassettina, da un portafoglio, tutte le cose rimastegli d'Ottilia, sempre tenute segrete, e le aveva schierate davanti a sé: una ciocca, dei fiori raccolti in un'ora felice, e i bigliettini che gli aveva scritto, tutti, compreso il primo, quello che, per caso presago, gli aveva consegnato sua moglie. Non era possibile che quelle cose egli le avesse deliberatamente esposte al rischio d'una scoperta fortuita.

            Così posò, nella pace inviolabile, anche quel cuore poco innanzi agitato da infiniti impulsi. E lui ben si poteva dirlo beato poiché s'era addormentato nel pensiero della santa. Carlotta gli diede il suo posto al fianco d'Ottilia, e dispose che nessun altro, in futuro, fosse sepolto nella cappella. A questa condizione istituì ricchi lasciti per la chiesa e per la scuola, per il pastore e per il maestro.

            Uno vicino all'altra, riposano insieme gli amanti. Aleggia pace sulle loro tombe, e dalla volta li guardano figure d'angeli serene, d'arcana affinità: e che momento felice, quando un giorno si ridesteranno insieme.