Così passavano i suoi giorni, in un eterno oscillare tra speranza e dolore, tra pianto e serenità, tra progetti, disegni, e disperazione. A vedere Mittler non si stupì. Ne aspettava da tempo la venuta, e quasi ne fu lieto. Credeva che lo avesse mandato Carlotta e quindi s'era già preparato scuse e pretesti d'ogni genere, e persino drastiche proposte; ma siccome contava d'apprendere qualcosa di Ottilia, Mittler gli giunse gradito come un messaggero celeste.
Rimase quindi contrariato e irritato quanto sentì che Mittler non veniva di là, ma per propria iniziativa. Il cuore gli si chiuse, e il discorso, alle prime battute, stentava ad avviarsi. Ma Mittler sapeva bene che un animo impegnato in faccende d'amore ha un impellente bisogno d'esprimersi, d'esporre ad un amico le sue peripezie, e si adattò questa volta, dopo qualche schermaglia, a mutare ruolo e a fare da confidente piuttosto che da paciere.
Quando poi, in tono cordiale, prese a rimproverare Eduardo per la sua vita solitaria, costui replicò: “Oh, non saprei come trascorrere il tempo più piacevolmente! Sono sempre occupato con lei, sempre vicino a lei. Ho il vantaggio inestimabile di potermi immaginare dov'è Ottilia, dove va, dove sta, dove indugia. Me la vedo davanti, che lavora e traffica come di consueto, che compie e intraprende, è naturale, sempre ciò che più mi piace. Ma così non è sufficiente, perché come si può dare felicità lontano da lei? E allora la mia fantasia escogita ciò che dovrebbe fare Ottilia per essermi più vicina. Scrivo delle lettere per me, dolci e piene di confidenza, firmandole col suo nome, poi a queste lettere rispondo, e conservo tutto il carteggio. Ho promesso di non muovere un passo verso di lei, e lo manterrò. Ma che cosa le impedisce di essere lei a cercarmi? Che Carlotta abbia avuto la crudeltà di strapparle la promessa, il giuramento di non scrivermi, di non darmi notizie? Possibile, verosimile, però inaudito, intollerabile. Se mi ama - come credo, come so - perché non si decide, perché non s'azzarda a fuggire e a gettarsi nelle mie braccia? Dovrebbe, penso qualche volta, potrebbe farlo. Quando nell'atrio c'è movimento, guardo alla porta. "Ora entra!" mi dico, spero. Ah, ma se il possibile è impossibile - mi viene da fantasticare - bisogna che l'impossibile diventi possibile. Di notte, mentre veglio e la lampada getta un chiarore incerto nella stanza, allora sì la sua figura, il suo spirito, un'idea di lei dovrebbe aleggiare, venire avanti, stringermi, un momento solo, per darmi la certezza che mi pensa, che è mia.
“Mi resta appena una gioia. Quando le vivevo accanto, non la sognavo mai; ma adesso, così divisi, nel sogno stiamo insieme. E cosa strana: da quando ho fatto conoscenza, qui vicino, di altre piacevoli persone, ecco che in sogno m'appare la sua immagine, come volesse dirmi: "Guardati pur d'attorno, non troverai nulla di più bello, di più caro di me!" Così la sua figura penetra in tutti i miei sogni. Tutte le esperienze avute con lei incalzano, e si sovrappongono alle mie di oggi. C'è da sottoscrivere un contratto, ecco la sua mano e la mia, la sua firma e la mia, si cancellano a vicenda, s'intrecciano. E anche tali capricci della fantasia danno non poco dolore. Talvolta fa qualcosa che offende l'idea pura che ho di lei: allora, proprio perché provo un tormento indescrivibile, sento quanto l'amo. Talvolta - ciò che all'opposto della sua natura - si prende beffe di me, mi molesta: e subito la sua immagine cambia, quella faccina tonda, angelica, s'allunga: ho davanti un'altra. Ma io resto irritato, scontento, avvilito.
“Non sorridete, caro Mittler, o anche sorridete, magari. Oh, io non mi vergogno di questa debolezza, di questa inclinazione, folle, se volete, insensata. No, non avevo mai amato: adesso sperimento cosa vuol dire. Sinora la mia vita è stata soltanto un preludio, un indugiare, oziare, sprecar tempo, sinché non ho trovato lei, non l'ho amata, e ho conosciuto l'amore autentico, pieno. Apertamente non me lo hanno mai rinfacciato, ma alle spalle dicevano di me che sono un pasticcione, uno che, nelle sue faccende, tira via in qualche maniera. Può darsi: ma non m'ero ancora imbattuto in un mestiere nel quale mostrarmi maestro. Voglio vedere ora chi mi supera in fatto d'amare. Certo, è un'arte miseranda, di dolori e di pianto. Ma io, per me, la trovo naturale, e così mia, che difficilmente vi rinuncerei.”
Con questo discorso vivo e sincero, Eduardo s'era sfogato: ma gli aspetti della sua singolare situazione erano apparsi ben chiari, uno per uno, davanti ai suoi occhi, così che, sopraffatto dal penoso contrasto, scoppiò in lacrime, tanto più fitte quanto più il cuore gli s'era intenerito nella confessione.
Mittler, vedendo che lo scopo della sua venuta era più che mai lontano dopo l'erompere della passione di Eduardo, non poté celare il suo temperamento brusco, la sua logica rigorosa, ed espresse in tono sostenuto la sua franca disapprovazione. Eduardo - consigliò - doveva dominarsi, considerare gli obblighi verso la sua dignità virile, né doveva dimenticare che per un uomo è motivo d'onore sapersi controllare nella sventura, sopportare il dolore con indifferenza e dignità, in modo da venire stimato, considerato e preso ad esempio.
Inquieto, penetrato dai sentimenti più angosciosi, com'era Eduardo in quegli istanti, tali parole non poterono che suonargli vuote e inutili. “Ha un bel dire chi è felice, chi sta hene,” continuò, “ma si vergognerebbe, se vedesse quanto riesce molesto a chi soffre. Si pretende una pazienza senza limiti, un dolore senza limiti non può ammetterlo chi vegeta nella sua tranquillità. Ci sono dei casi, sì, ce ne sono, nei quali ogni conforto è da disprezzare, e la disperazione è dovere. Un greco, nobile scrittore, che pure ben sa rappresentare gli eroi, non si perita di farli piangere sotto l'impeto del dolore. Lo dice addirittura a mo' di sentenza: "Sono buoni gli uomini facili al pianto." Lungi da me, chi ha cuore arido e cigli asciutti! Maledico i fortunati, ai quali l'infelice deve soltanto servire da spettacolo. Nella situazione più crudele, in angustie fisiche e morali, costui deve oltretutto atteggiarsi nobilmente per ottenere il loro plauso, e morire da gladiatore, con dignità, sotto i loro occhi, affinché ancora lo applaudano, mentre spira. Grazie per la vostra visita, caro Mittler. Ma mi farete un gran piacere, se darete un po' un'occhiata al giardino, al paesaggio qui intorno. Poi ci rivediamo. Intanto cercherò di mettermi più calmo, più simile a voi.”
Mittler preferì cambiar tono, piuttosto che interrompere un dialogo che non era sicuro di potere riprendere facilmente. Anche Eduardo continuò volentieri, posto che il discorso volgeva verso i suoi scopi.
“Certo,” fece, “valutare il pro e il contro, parlarne e riparlarne, non serve a nulla. Pure, così conversando, finalmente ho inteso, finalmente ho sentito senz'ombra di incertezza, a quale decisione dovevo venire, a quale decisione sono venuto. Davanti mi sta la vita di oggi, il futuro: ho solamente da scegliere tra l'infelicità e la gioia. Procuratemi il divorzio, egregio Mittler, tanto necessario e di fatto già esistente, ottenetemi il consenso di Carlotta! Non voglio dilungarmi sui motivi che mi inducono a credere non sia difficile averlo. Andate, carissimo, ridateci la pace a tutti, fateci felici!”
Mittler esitava. Eduardo proseguì: “La mia sorte, quella d'Ottilia, è di non separarci: ci riusciremo. Vedete questo calice? Porta incise le nostre iniziali. Fu lanciato in aria nel giubilo d'una festa, nessuno doveva servirsene più, doveva frantumarsi sulla roccia. Ma lo presero al volo. Io l'ho ricomprato a caro prezzo, e vi bevo ogni giorno, per convincermi ogni giorno che non si possono distruggere i legami fissati dal destino.”
“Povero me!” esclamò Mittler. “Che pazienza debbo avere con gli amici! Adesso anche la superstizione, che detesto come la cosa per gli uomini più nociva. Ci trastulliamo coi presagi, coi sogni, e con essi diamo importanza ai fatti della vita di tutti i giorni. Ma quando è la vita medesima a diventare importante, quando intorno a noi tutto si muove e ribolle, allora la tempesta, a motivo di tali fantasmi, non fa che apparire più tremenda.”
“Consentite che, nell'incertezza della vita,” disse Eduardo, “tra la speranza e la disperazione, resti al cuore che naufraga una sorta di stella polare, verso cui levare lo sguardo, anche se non serva alla rotta.”
“Lo consentirei senz'altro,” replicò Mittler, “se vi fosse da aspettarsene un po' di coerenza. Ma ho sempre notato che ai segni ammonitori nessuno bada, solo a quelli che lusingano e illudono è rivolta l'attenzione, solo a quelli si dà fede.”
Giacché ormai Mittler si vedeva attirato in certe regioni tenebrose nelle quali, quanto più indugiava, tanto più si trovava a disagio, accolse quasi di buon grado l'urgente preghiera di recarsi da Carlotta. Che cosa avrebbe avuto ancora da opporre a Eduardo, in quel momento? Prendere tempo, esaminare la situazione delle due donne, questo era quanto, a parer suo, gli rimaneva da fare.
Si trasferì in fretta da Carlotta, che trovò, come sempre, calma e serena. Gli raccontò volentieri tutto ciò che era accaduto: dai discorsi di Eduardo lui non ne aveva appreso che le conseguenze. Per parte sua, tastò il terreno con cautela, ma non poté guardarsi dal pronunciare, sia pure di sfuggita, la parola “divorzio”. Che meraviglia, che stupore provò - e, date le sue concezioni, anche sollievo - quando Carlotta, dopo tante cose spiacevoli, alla fine gli disse: “Devo credere, devo sperare che tutto si risistemerà, che Eduardo si riaccosterà a me. E come potrebbe essere diversamente, posto che mi trovo in stato interessante?”
“Ho inteso bene?” fece Mittler. “Benissimo,” rispose Carlotta. “Mille volte benedetta la notizia!” esclamò lui, congiungendo le mani. “Conosco la forza di un simile argomento sull'animo di un uomo. Quanti matrimoni ho visto conclusi per questa via, rafforzati, rimessi in sesto! Lo stato in cui siete, convince più di mille parole, è davvero il più interessante che ci sia. Però,” proseguì, “per ciò che mi riguarda, ho tutti i motivi d'essere contrariato. In questo caso, lo vedo bene, il mio amor proprio non viene certo lusingato. Con voi la mia attività non mi frutta alcuna riconoscenza. Mi capita come a quel dottore, un mio amico, al quale riuscivano tutte le cure che faceva, per pura carità cristiana, ai poveri, ma di rado arrivava a guarire un ricco, che lo avrebbe pagato bene. Fortunatamente qui la faccenda va a posto da sola, altrimenti tutte le mie fatiche, tutti i miei discorsi sarebbero stati inutili.”
Carlotta gli chiese di portare la notizia a Eduardo, con una lettera, e di vedere un po' che cosa si dovesse fare, decidere. Ma lui non volle. “È già tutto fatto,” esclamò. “Scriva lei. Qualsiasi portalettere vale quanto me. Io devo andare, ormai, dove servo di più. Tornerò solo per gli auguri, tornerò per il battesimo.”
Carlotta restò poco soddisfatta di Mittler, come era già capitato altre volte. Le sue maniere spicce davano qualche risultato, ma spesso la sua precipitazione causava guai. Nessuno più di lui dipendeva da convinzioni abbracciate lì per lì. Il messo di Carlotta arrivò da Eduardo, che lo accolse quasi spaventato. La lettera poteva decidere in un senso o nell'altro. A lungo esitò prima di aprirla, e come restò colpito leggendola, e si fece di pietra alle ultime frasi!
Ricorda le ore notturne, quando, in modo avventuroso, visitasti tua moglie come un amante, l'attirasti irresistibilmente a te, la stringesti tra le braccia come l'amata, la sposa. Veneriamo in questa singolare circostanza la volontà del cielo, che ha disposto, per il nostro rapporto, un nuovo vincolo, nel momento in cui la nostra felicità rischia di sfasciarsi e di dileguare.
Ciò che in quegli istanti passò nell'animo di Eduardo, sarebbe difficile da descrivere. In situazioni del genere finiscono per riemergere vecchie abitudini, vecchie pratiche, utili ad ammazzare il tempo e a riempire in qualche modo la vita. Per un nobile, la caccia e la guerra sono risorse di tal fatta, sempre disponibili. Eduardo s'augurò un pericolo da fuori, per controbilanciare quello che portava dentro. S'augurò di morire, perché il destino minacciava di farglisi insopportabile: anzi, per lui era un conforto pensare che non sarebbe esistito più, e così avrebbe fatto felici le donne amate, i suoi amici. Nessuno pose ostacoli alla sua volontà, giacché tenne celata la decisione. Con tutte le formalità preparò il testamento; lasciare quella proprietà a Ottilia gli diede una sensazione di dolcezza. Provvide per Carlotta, per il nascituro, per il capitano, per la servitù. La guerra, che s'era riaccesa, favorì i suoi disegni. Le incongruenze della vita militare, in gioventù, gli avevano dato molte noie, e per esse aveva abbandonato il servizio. Adesso gli parve invece splendido partire con un generale del quale poteva dirsi: sotto la sua guida la morte e probabile, la vittoria sicura.
Ottilia, dopo che anche lei ebbe appreso il segreto di Carlotta, colpita quanto Eduardo, e più, si chiuse in sé.
Non aveva più nulla da dire. Sperare non poteva, desiderare non le era lecito. Uno sguardo dentro di lei consente tuttavia il suo diario, dal quale pensiamo di trarre qualche pagina.
SECONDA PARTE
Nella vita di tutti i giorni accade spesso quello che, nell'epopea, apprezziamo di solito come un accorgimento del poeta, che cioè, quando i protagonisti s'allontanano, si nascondono, s'abbandonano all'inerzia, ecco un secondo, un terzo, che non avevamo neppure notati, ne prendono il posto, e spiegando la loro attività, ci appaiono degni d'interesse, di partecipazione, persino di lode e di stima.
Così, dopo che Eduardo e il capitano se ne furono andati, si rese di giorno in giorno più importante quell'architetto, dal quale ormai dipendeva esclusivamente l'organizzazione e l'esecuzione di tanti lavori: era preciso, capace e molto attivo, si rendeva utile anche alle signore in mille modi, e teneva loro compagnia nelle ore più calme e noiose. Già il suo aspetto era tale da ispirare fiducia e muovere alla simpatia. Quello che si dice un giovanotto, ben fatto, snello, un po' alto forse, educato ma non timido, spontaneo ma non petulante. S'incaricava di buon grado d'ogni sorta di cure e di fastidi, e siccome era abilissimo nel far di conto, presto l'amministrazione domestica non ebbe più segreti per lui e il suo proficuo intervento s'estese a tutti i campi. Solitamente gli si facevano ricevere i forestieri ed era bravissimo a stornare una visita impreveduta o almeno a preparare, in simili casi, le signore, affinché non ne avessero fastidio.
In particolare, lo impegnò parecchio, un giorno, un giovane avvocato, che veniva da parte di un nobile dei dintorni, con una questione non grave, ma tale da toccare nel vivo Carlotta. Dobbiamo riferire questo fatto, perché mise in moto diverse cose, che altrimenti sarebbero rimaste bloccate.
Abbiamo già visto come Carlotta aveva risistemato il cimitero. Tutte le lapidi erano state rimosse e addossate al muro, oppure lungo il basamento della chiesa; il piano lo avevano livellato. Tranne il largo sentiero che portava alla chiesa e costeggiandola alla porticina dalla parte opposta, era stato tutto seminato a trifoglio, di varie qualità, verdissimo e rigoglioso. A partire dal fondo, sulla base di un ordine stabilito, si sarebbero piazzate le sepolture nuove, ma sempre livellando il terreno e seminandolo. Non si poteva negare che tale sistemazione offrisse una vista rasserenante e solenne a quanti, nei giorni di festa, andavano in chiesa. Persino l'anziano pastore, restio alle novità e sulle prime contrario all'iniziativa, era tutto felice ormai, quando, all'ombra dei vecchi tigli, indugiando all'uscio di dietro, come Filemone con la sua Bauci, contemplava, invece dei monticelli delle tombe, un bel tappeto fiorito, prezioso, oltre a tutto, alla sua economia, giacché Carlotta aveva lasciato alla parrocchia l'utile del terreno.
Ciononostante alcuni s'erano subito lagnati che in questo modo il luogo dove riposavano i loro morti non fosse più indicato, e così ne fosse cancellata anche la memoria: le lapidi messe al riparo portavano sì il nome, ma non dicevano dove il defunto giacesse, e proprio questo “dove” era l'importante, sostenevano molti.
Era di tale avviso anche una famiglia lì vicino, che già da parecchi anni s'era riservata un'area, per sé e per i suoi, in quel cimitero comune, e allo scopo aveva fatto una piccola donazione alla chiesa. Appunto costoro avevano mandato il giovane avvocato a revocare la donazione e a notificare che i pagamenti sarebbero cessati, posto che la condizione cui erano subordinati era stata unilateralmente soppressa e non s'era tenuto alcun conto delle rimostranze e delle opposizioni. Carlotta, responsabile prima di quella risistemazione, volle parlare lei stessa col giovane, il quale espose con vivacità, ma senza alzare la voce, le ragioni sue e dei suoi clienti, e diede agli interlocutori di che riflettere.
“Loro vedono,” disse, dopo un breve preambolo per motivare la sua insistenza, “loro vedono che sta a cuore al più umile come al più alto in grado, che sia marcato il luogo dove si custodiscono i suoi. Per il più povero dei contadini, quando seppellisce un bimbo, è di conforto mettere sulla tomba una fragile croce di legno, ornarla con una corona, per conservare il ricordo almeno quanto dura il dolore, se pure un segno siffatto, come il lutto stesso, sarà consumato dal tempo. La gente che sta bene, le corone le fa di ferro, le fissa e le protegge in mille modi, e così si conservano per anni. Siccome, poi, anche queste, alla fine, cadono, e non si notano più, per i ricchi non c'è di meglio che collocare una lapide: può mantenersi per generazioni e venire rinnovata e restaurata dai discendenti. Ma non è la pietra a richiamarci, bensì ciò che essa ricopre, ciò che in quel punto è affidato alla terra. Non si tratta della memoria, ma della persona in sé, non del ricordo, ma della presenza. Un caro scomparso lo si ritrova più da vicino e più intimamente in una fossa che in un monumento, che in realtà significa poco; tuttavia intorno ad esso, come intorno a un segnacolo, continuano a raccogliersi sposi, parenti, amici, anche dopo la loro dipartita; e il vivo deve pur garantirsi il diritto di respingere e allontanare dai suoi morti gli estranei e i malevoli.
“Ritengo quindi che il mio cliente abbia pienamente ragione di revocare la donazione. Ed è misura ancora mite, dal momento che i membri di questa famiglia sono colpiti in un modo che non consente risarcimento. Devono rinunciare alla commozione, dolorosa e dolce insieme, di quando si porta ai propri cari un omaggio funebre, alla confortatrice speranza di riposare un giorno accanto a loro.”
“La questione non è tanto importante,” rispose Carlotta, “da doverne fare l'oggetto d'una causa. Così poco mi pento della mia iniziativa, che rimborserò volentieri la chiesa, di ciò che verrà a perdere. Soltanto, devo dirle francamente: i suoi argomenti non mi hanno convinto. La nobile idea di una sostanziale uguaglianza di tutti, almeno dopo la morte, mi sembra consoli di più di questo ostinarsi a tenere in piedi le nostre individualità, gli affetti, le diverse condizioni. Ma lei cosa ne pensa?” domandò, volgendosi all'architetto.
“In merito a un simile argomento,” replicò costui, “non vorrei né discutere né decidere. Consenta che io esprima, in tutta modestia, ciò che tocca più da vicino la mia arte e il mio modo di pensare. Giacché non ci è più concessa la felicità di stringerci al petto, racchiusi in un'urna, i resti della persona cara, giacché non siamo così ricchi o imperturbabili da conservarli incorrotti in grandiosi sarcofaghi - anzi, non troviamo più posto, per noi e i nostri, neppure nelle chiese, ma ci mandano fuori all'aperto - abbiamo tutte le ragioni, signora, per approvare la soluzione adottata da lei. Quando i membri d'una comunità giacciono insieme, in tante file, essi riposano vicino, in mezzo ai loro cari. E poiché la terra, prima o poi, dovrà accoglierci tutti, non trovo nulla di più naturale e opportuno, che spianare i tumuli innalzati senz'ordine e via via sprofondanti, di modo che a ciascuno torni più lieve, portata da tutti, la coltre.”
“Ma senza un segno di ricordo, senza niente che muova la nostra memoria, dovrebbe scomparire tutto così?” fece Carlotta.
“Niente affatto,” proseguì l'architetto. “Non il ricordo si deve eliminare, ma la pretesa d'associarlo a un luogo. L'architetto, lo scultore, hanno il massimo interesse a che l'uomo s'attenda da loro, dalla loro arte, dalla loro mano, un prolungamento della sua esistenza. E perciò intenderei che monumenti bene ideati e bene eseguiti, non si debbano disseminare isolati e come capiti, ma collocare in un luogo dove possano durare. Siccome persino le persone pie e d'alto rango debbono rinunciare al privilegio di avere i loro resti nelle chiese, almeno si sistemino in esse o anche in bei porticati intorno alle sepolture, monumenti e lapidi. Per questi c'è un'infinità di stili da suggerire, un'infinità di ornati.”
“Visto che gli artisti sono tanto ben provveduti,” replicò Carlotta, “mi dica un po': com'è che non si esce mai dal solito obelisco misero misero, dalla colonna mozza o dall'urna cineraria? Invece delle mille idee che lei vanta, io ho visto sempre solo delle copie.”
“Da noi, certo, è così,” convenne l'architetto, “ma non dappertutto. Bisogna ammettere che né l'invenzione né un'appropriata esecuzione sono tanto semplici. Nel caso di cui si parla, in particolare, riesce talvolta difficile attenuare la tristezza del tema ed evitare di cadere nello spiacevole mentre si tratta una materia spiacevole. Schizzi di monumenti d'ogni genere, ne ho raccolti parecchi, e li posso mostrare: ma il più bel monumento dell'uomo resta pur sempre la sua immagine. Più di qualsiasi altra cosa essa dà un'idea di ciò che egli fu; è il miglior testo da annotare, con poche o molte note; solo che bisognerebbe procurarla nell'età migliore, e questo di solito lo si trascura. Nessuno si preoccupa di conservare la forma vivente, e quando lo si fa, si fa in modo precario. In fretta si prende la maschera al morto, si mette su un piedistallo, e si fabbrica ciò che chiamano un busto. Com'è raro che l'artista sia in condizione di ridargli vita davvero!”
“Lei ha proprio portato il discorso a un punto per me favorevole,” disse Carlotta, “forse senza saperlo o volerlo. Dunque, l'immagine di un uomo è qualcosa d'autonomo; dove sta, sta di per sé, e non possiamo pretendere che ne indichi esattamente la sepoltura. Ma vuole che le confessi una mia strana reazione? Persino per i ritratti non ho troppa simpatia: mi paiono sempre muovere un rimprovero silenzioso; alludono a qualcosa di remoto, di distaccato, e mi rammentano come sia arduo rendere giustizia al presente. Se si pensa quanti uomini abbiamo visti, conosciuti, e si considera che per noi hanno significato ben poco, e così noi per loro, che malinconia! Incontriamo il tipo brillante, senza conversare con lui; il dotto, senza imparare; quello che ha viaggiato, senza trarne notizie; l'affettuoso, senza usargli cortesia.
“E purtroppo questo non avviene soltanto con chi s'accosta di sfuggita. Gruppi e famiglie si comportano similmente verso i membri più cari, città verso i cittadini più degni, popoli verso i principi migliori, nazioni verso i loro uomini preminenti.
“Mi capitò, altra volta, di sentir porre un quesito: perché dei morti si dice bene senza riserve, e per i vivi si usa sempre una certa cautela? La risposta fu: perché da quelli non abbiamo niente da temere, e questi potrebbero ancora attraversarci la strada. Tanto è pura, la sollecitudine per la memoria degli altri! Per lo più, non è che un trastullo da egoisti, mentre più serio sarebbe invece, e santo, tenere sempre attivi e fecondi i nostri rapporti con chi resta qui.”
Stimolati dall'incontro e dai discorsi che erano seguiti, il giorno dopo si recarono al cimitero, e l'architetto avanzò qualche utile proposta per abbellirlo e dargli un'aria più serena. Ma il suo impegno finì con l'estendersi anche alla chiesa, edificio che sin da principio aveva richiamato la sua attenzione.
Questa chiesa esisteva da parecchi secoli, costruita nel rispetto delle proporzioni, secondo lo stile tedesco, e decorata con gusto. C'era da pensare che l'architetto d'un convento vicino si fosse applicato con competenza ed entusiasmo anche a questa fabbrica minore; a contemplarla, essa ispirava ancora un suggestivo raccoglimento, sebbene la risistemazione dell'interno per il culto protestante le avesse sottratto qualcosa della sua serena maestà.
All'architetto non riuscì difficile ottenere da Carlotta una modesta somma, con la quale contava di ripristinare interno ed esterno nello stile originario, combinandoli col cimitero che si stendeva lì davanti. Lui stesso aveva una notevole abilità manuale, e diversi operai tuttora occupati nei lavori del padiglione, decisero di trattenerli, finché non fosse ultimata anche questa pia intrapresa.
Al momento d'ispezionare l'edificio e i suoi annessi, si scoprì, con gran stupore e gioia dell'architetto, una cappellina laterale poco appariscente, di proporzioni ancor più geniali e leggere, dalla decorazione ancor più accurata e piacevole. Conteneva anche resti di sculture e pitture del precedente culto cattolico, che sapeva contraddistinguere le varie festività con tutta una serie d'immagini e d'arredi e le celebrava ciascuna in modo diverso.
L'architetto si sentì invogliato a comprendere senz'altro la cappella nel suo progetto, e a trasformare l'esiguo ambiente in un monumento del passato e del gusto antico. Già s'immaginava di decorare liberamente quelle pareti nude e di esercitarvi il suo talento pittorico. Ma in casa, per il momento, tenne il segreto.
Anzitutto mostrò alle signore, come aveva detto, riproduzioni e schizzi di monumenti sepolcrali antichi, urne e oggetti del genere. E quando si venne a parlare dei semplicissimi tumuli dei popoli settentrionali, esibì la sua collezione d'armi e arnesi d'ogni tipo in essi ritrovati. Li teneva tutti, bene ordinati e trasportabili, in cassetti e scomparti, su ripiani intagliati e coperti di panno, così che quelle cose vecchie e solenni, presentate in tal modo, s'illeggiadrivano, e volentieri si dava un'occhiata, come fossero le scatole di un mercante di mode. E posto che s'era deciso a tirarle fuori e che l'isolamento in cui vivevano richiedeva un po' di distrazione, prese l'abitudine di arrivare ogni sera con una parte dei suoi tesori. Erano, per lo più, d'origine tedesca: bratteati, talleri, sigilli e simili. Tutti quegli oggetti indirizzavano la fantasia verso tempi più remoti; e siccome s'era messo anche a illustrare i suoi discorsi con esemplari delle prime stampe, silografie e rami, e intanto la chiesa, giorno per giorno, secondo un'analoga intenzione, veniva riportata al passato, grazie al colore e alle altre decorazioni, ormai veniva da chiedersi se vivessero effettivamente nell'epoca moderna o se avere usi, costumi, maniere e opinioni tanto diverse, fosse soltanto un sogno.
Dopo simili premesse, una cartella piuttosto gonfia che egli mostrò da ultimo, fece grande impressione. Non conteneva quasi altro che figure disegnate al tratto, che però, ricalcate direttamente sugli originali, mantenevano tutto il carattere antico, tanto suggestivo a contemplarsi! Ogni persona esprimeva il modo più puro d'esistere; bisognava, senz'eccezione, considerarli buoni, se non nobili. I volti, i gesti spiravano un sereno raccoglimento, una spontanea accettazione dell'Essere che ci sovrasta, una quieta dedizione, un'attesa amorosa. Il vecchio con la testa calva, il ragazzo ricciuto, il giovane allegro, l'uomo grave, il santo già trasfigurato, l'angelo nel suo volo, sembravano tutti beati in un innocente appagarsi, in un attendere pio. L'atto più insignificante aveva qualcosa della vita celeste e pareva connaturato in ognuno un sacro atteggiamento rituale.
Ad una simile sfera, certo, i più guardano come ad un'età dell'oro ormai dileguata, come a un paradiso perduto. Forse Ottilia soltanto era nel caso di sentirsi tra creature affini.
Chi avrebbe potuto opporsi quando l'architetto si offrì di affrescare nella cappella, secondo questi modelli, gli spazi tra le ogive, e di lasciare in tal modo stabile memoria di sé, in un luogo dove s'era trovato così bene? Della cosa egli parlò con un po' di malinconia: dallo stato dei lavori poteva intendere, infatti, che la sua presenza in tanto eletta compagnia non sarebbe durata in eterno, anzi, forse sarebbe dovuta cessare presto.
Quelle giornate, d'altronde, non erano ricche d'avvenimenti, ma davano piuttosto occasione a conversazioni profonde. Ne prendiamo quindi motivo per riportare qualcosa di ciò che Ottilia s'era annotato nei suoi quaderni: alla qual materia non troviamo tramite più opportuno di un paragone che emerge spontaneo, considerando quelle pagine gentili.
Sappiamo di una certa pratica, diffusa nella marina inglese. Tutto il sartiame della flotta reale è fabbricato in modo che vi sia sempre intrecciato un filo rosso: non si può tirarlo fuori, altrimenti l'insieme non tiene più, e serve a indicare anche per i pezzi più piccoli, che appartengono alla corona.
Alla stessa maniera corre per il diario d'Ottilia un filo d'amore e di dedizione, che collega le parti e contraddistingue il tutto. Grazie ad esso, le osservazioni, le considerazioni, le massime citate, e il resto che vi si trova, risultano strettamente peculiari di chi lo ha scritto, e ricche per lei di un senso speciale. Anche preso singolarmente, ogni passo da noi scelto e riportato ne fornisce la prova più certa.
Dal diario d'Ottilia
Riposare a fianco di coloro che si amano, è la più piacevole prospettiva che si possa ideare, se ci si spinge col pensiero oltre la vita. “Ricongiungersi ai propri cari” è un'espressione tanto dolce!
Ci sono monumenti e ricordi di vario genere, che ci riaccostano assenti e defunti. Nessuno ha il significato di un ritratto. Parlare col ritratto d'una persona amata, anche quando non le somiglia, in qualche modo stimola, come stimola talvolta litigare con un amico. Si sente con piacere che si è in due, e che tuttavia non ci si può separare.
Talora ci s'intrattiene con uno che è presente, come con un ritratto. Non c'è bisogno che parli, che ci guardi, che s'occupi di noi: noi lo vediamo, ci sentiamo in rapporto con lui, e queste relazioni possono persino svilupparsi, senza che egli vi contribuisca, senza che s'accorga di comportarsi verso di noi né più né meno come un ritratto.
Non si è mai contenti del ritratto di una persona che si conosce. Perciò ho sempre compianto i ritrattisti. È raro che da qualcuno si pretenda l'impossibile, e proprio da costoro lo si esige. Dovrebbero includere nel ritratto, per ognuno, il suo rapporto verso la persona raffigurata, di simpatia o d'avversione; non dovrebbero soltanto esprimere come loro intendono una persona, ma come ognuno potrebbe intenderla. Non mi stupisco che simili artisti, un po' alla volta, diventino degli originali, indifferenti e inaccostabili. E non sarebbe gran male, se non fossimo costretti, appunto per questo, a privarci del ritratto di tanti che amiamo e ci sono cari.
È proprio vero che la collezione dell'architetto, le armi e gli utensili antichi seppelliti col morto sotto la terra e i sassi, dimostrano quanto sia vana, per gli uomini, ogni cura volta a conservare la loro personalità dopo la morte. E quante contraddizioni in noi! L'architetto riconosce d'avere aperto lui stesso le tombe di questi antenati, e poi continua ad occuparsi dei monumenti per i posteri.
Ma perché poi si dev'essere tanto tragici? Forse che tutto ciò che facciamo, lo facciamo per l'eternità? Non ci si veste la mattina, per spogliarsi la sera? Non si va in viaggio, per ritornare? E perché non dovremmo desiderare di riposare coi nostri cari, fosse soltanto per un secolo?
A vedere tutte quelle lapidi infossate o consunte dal passo dei fedeli, e le chiese medesime sprofondate sui sepolcri che custodivano, la vita dopo la morte può ben apparire una seconda vita, alla quale si giunge nell'immagine, nell'epigrafe, e in cui s'indugia più a lungo che nella vita dei vivi. Ma anche questa immagine, questa seconda esistenza, prima o poi, si spegne. Il tempo non si lascia sottrarre i suoi diritti: quelli sugli uomini come quelli sui monumenti.
È tanto piacevole occuparsi di qualcosa che si conosce solo a metà, che non si dovrebbe censurare il dilettante alle prese con un'arte che non imparerà mai, né dovrebbe essere lecito criticare l'artista che abbia voglia di sconfinare dalla sua arte in un terreno contiguo.
Con simile indulgenza volgiamoci a considerare i preparativi dell'architetto per affrescare la cappella. I colori erano pronti, già prese le misure e disegnati i cartoni; lasciando la pretesa di creazioni originali, egli s'era attenuto ai suoi modelli; la difficoltà restava quella di distribuire acconciamente le figure sedute e volanti, decorando con gusto la superficie prescelta.
Piazzata l'impalcatura, il lavoro fu portato avanti, e una volta raggiunto qualche risultato degno d'interesse, non poté contrariarlo che Carlotta e Ottilia facessero una visita. I visi parlanti degli angeli, i panneggi bene animati contro lo sfondo azzurro del cielo, rallegravano l'occhio; quella pietà serena muoveva a raccoglimento, toccava dolcemente l'animo.
Le signore lo avevano raggiunto sul palco, e appena Ottilia ebbe inteso la facilità e semplicità del procedimento, quasi d'un tratto maturasse in lei ciò che già a scuola aveva appreso, mise mano ai colori e ai pennelli, e via via istruita, realizzò con precisione e abilità un panneggio assai complicato.
Carlotta, sempre contenta che Ottilia in qualche maniera s'occupasse e si distraesse, li lasciò fare e se n'andò per abbandonarsi ai propri pensieri e rimuginare dentro di sé considerazioni e crucci che non poteva riversare su nessun altro.
Mentre la gente comune, reagendo con passione a banali contrarietà, non fa che strapparci un sorrisetto pietoso, guardiamo invece con reverenza a un animo in cui sia stato posto il seme d'un grande destino, e che debba attendere l'evolversi di tale concepimento, e non sia in grado, o abbia facoltà, d'affrettare né il bene né il male, né la fortuna né la sventura, che ne possano derivare.
Eduardo, per il tramite del messo medesimo inviatogli in quel suo eremo, aveva dato una risposta cordiale e comprensiva, però seria e controllata piuttosto che affrettuosa e confidenziale. Poco dopo era scomparso, e sua moglie non riuscì ad averne più notizia, sinché non scoprì, per caso, il nome nei giornali, ricordato con onore tra coloro che s'erano distinti in un importante episodio di guerra. Seppe così che scelta aveva fatta, apprese che era scampato a gravi pericoli; ma subito intese che ne avrebbe cercati di più gravi, e ne dedusse senz'altro che, sotto ogni riguardo, ben difficilmente si sarebbe trattenuto dalle più drastiche soluzioni. Questi pensieri li tenne sempre per sé, e per quante ipotesi esaminasse, non ne trovò neppure una che valesse a tranquillizzarla.
Ottilia, ignara di tutto ciò, intanto s'era appassionata a quel lavoro, e aveva ottenuto agevolmente da Carlotta il permesso di continuarlo in modo sistematico. Si andò avanti con rapidità, e ben presto il cielo azzurrino ebbe tutti i suoi nobili abitatori. A forza d'esercizio, Ottilia e l'architetto, giunti alle ultime figure, acquisirono più scioltezza, ed esse riuscirono manifestamente migliori. I volti, poi, affidati al solo architetto, rivelarono via via una singolare peculiarità: somigliavano tutti ad Ottilia. La vicinanza della bella ragazza doveva aver lasciato un'impressione così viva nell'animo del giovane, non ancora appropriatosi di un modello di fisionomia naturale o artistico, che a poco a poco, nel passaggio dall'occhio alla mano, prese a non andar perduto più nulla, e anzi l'uno e l'altra operavano nel massimo accordo. A farla breve, uno degli ultimi volti gli venne a perfezione, e pareva Ottilia medesima, che guardasse giù dagli spazi celesti.
La volta era finita; le pareti, s'erano proposti di non decorarle, tingendole semplicemente in bruno chiaro; le sottili colonne e delicati rilievi scolpiti dovevano spiccare grazie a un colore più scuro. Ma, come avviene in simili casi, che una cosa ne chiama un'altra, decisero anche di dipingere dei festoni di fiori e di frutti, come per collegare il cielo alla terra. Qui Ottilia era proprio nel suo campo. Il giardino offrì i più bei modelli, e sebbene le ghirlande fossero molto ricche, le terminarono prima di quanto avessero pensato.
Era tutto però ancora in disordine e da sistemare. I palchi, accostati alla rinfusa; le assi, buttate in un mucchio; il pavimento, già ineguale, ancor più sciupato da diverse macchie di colore. L'architetto pregò allora le signore di volergli concedere otto giorni, e intanto di non entrare più nella cappella. Infine, una bella sera, le invitò entrambe a recarvisi; e poiché preferiva non accompagnarle, si congedò.
“Qualunque sorpresa ci abbia preparato,” fece Carlotta, dopo che lui fu via, “in questo momento, non ho proprio voglia d'andare laggiù. Pensaci tu, e mi riferirai. Certamente avrà combinato qualcosa di bello. Io lo gusterò prima nella tua descrizione, poi nella realtà.”
Ottilia, sapendo che in certi casi Carlotta si aveva riguardo ed evitava le emozioni, specie quelle improvvise, s'avviò subito da sola, e senza volere si guardava intorno a cercare l'architetto, il quale, però, non comparve più e doveva essersi nascosto. Trovò aperta la chiesa ed entrò. Ormai era completamente restaurata, ripulita e consacrata. Si fece alla porta della cappella, il greve battente coperto di bronzo le si schiuse innanzi con dolcezza. E restò meravigliata all'aspetto inatteso di quel luogo già noto. Dall'unica, alta finestra pioveva una luce solenne, policroma, filtrata dai vetri a colori. L'ambiente ne traeva un tono insolito e spirava tutta una sua suggestione. La bellezza della volta e delle pareti era esaltata dallo splendido pavimento, composto di mattonelle di forma originale, che erano state collocate, secondo un bel disegno, su uno strato di gesso. Mattonelle e vetri, l'architetto li aveva fatti apprestare segretamente, di modo che s'era potuto sistemarli in breve. S'era provveduto anche per i posti a sedere. Fra le antiche suppellettili chiesastiche avevano rinvenuto alcuni stalli di coro ben scolpiti, e questi facevano ora la loro figura tutt'intorno alle pareti.
Ottilia rivide con piacere cose che conosceva già e tuttavia le si presentavano come un insieme nuovo. Indugiò, camminò su e giù, guardò e riguardò, infine sedette in uno degli stalli, e mentre alzava gli occhi e li volgeva in giro, fu come non esistesse più e insieme esistesse, avesse e non avesse percezione di sé, come se tutto ciò che aveva di fronte, e lei medesima, dovesse svanire; e solo quando il sole abbandonò la finestra, sin allora illuminata intensamente, Ottilia si riscosse e s'affrettò verso il castello.
Non mancò di colpirla una singolare coincidenza: la sorpresa della cappella era venuta la vigilia del compleanno d'Eduardo. Certo aveva sperato di festeggiarlo ben diversamente. Quanti fiori dappertutto, per quel giorno! Invece ora tutta la ricchezza dell'autunno stava lì, non raccolta. I girasoli ancora levavano il volto al cielo, gli aster, tranquilli e schivi, ancora fissavano innanzi a sé, e quanto s'era preso per farne corone, era servito di modello alla decorazione di un luogo adatto tutt'al più, sempre che non fosse rimasto un capriccio d'artista e lo si fosse utilizzato a qualche scopo, a farne un sepolcreto.
Non poté non ricordare il rumoroso darsi d'attorno d'Eduardo, quando lei aveva compiuto gli anni; non poté non ripensare al padiglione nuovo, sotto il cui tetto s'erano ripromessi tante ore care. Ecco, quei fuochi artificiali le tornavano agli occhi, alle orecchie, con fragore, quanto più era sola, tanto più impressi nella fantasia; ma con tutto ciò, la sua solitudine non faceva che crescere. Non s'appoggiava più al suo braccio, non aveva più speranza di poter ritrovare in lui un sostegno.
Dal diario d'Ottilia
Devo registrare un'osservazione del giovane artista: “Nel caso dell'artista come in quello dell'artigiano, si vede in modo chiarissimo che l'uomo meno di tutto riesce a possedere ciò che gli appartiene più strettamente. Le sue opere lo lasciano, come gli uccelli il nido in cui furono covati.”
Specie all'architetto tocca, in proposito, la sorte più singolare. Quante volte impiega tutto il suo ingegno e la sua passione per realizzare ambienti, dai quali deve escludere se stesso! Le sale dei re gli debbono la loro magnificenza, ma lui non ne gode l'effetto. Nei templi, pone una barriera tra sé e il Santissimo; non gli è più lecito calcare i gradini da lui collocati per il rito che innalza i cuori, così come l'orafo adora soltanto da lontano l'ostensorio in cui ha montato smalto e gemme. Al ricco, insieme alle chiavi del palazzo, l'architetto consegna tutte le comodità e gli agi, senza nulla goderne. In questo modo l'arte non s'allontanerà, a poco a poco, dall'artista, posto che l'opera, come un figlio uscito di casa, non ha più rapporto col padre? E che incentivo doveva trarre da se medesima, quando le spettava d'occuparsi quasi solo di opere pubbliche, di ciò che apparteneva a tutti, e quindi anche all'artista!
Avevano, i popoli antichi, una credenza densa di significato, che può apparire spaventosa. Immaginavano che in grandi caverne i loro progenitori, assisi all'intorno su troni, tenessero una muta assemblea; e che, quando entrasse un ospite nuovo, se degno, si levassero e gli dessero un cenno di benvenuto. Ieri, mentre sedevo nella cappella e di fronte al mio stallo scolpito ne vedevo tutt'intorno tanti altri, quell'idea m'è sembrata umana e piacevole. “Perché non puoi restare seduta?” ho pensato tra me. “Restare, tranquilla e assorta, tanto, tanto tempo, sinché non vengano gli amici, e allora ti leveresti e mostreresti loro il posto con un segno cordiale.” I vetri a colori tramutano il giorno in un crepuscolo raccolto e qualcuno dovrebbe donare una lampada perpetua, affinché poi la notte non sia soltanto tenebra.
Di se stesso uno può farsi l'idea che vuole, ci si immagina sempre, però, dotati della vista. Io credo che sognamo semplicemente per non cessar di vedere. Potrebbe ben accadere che un giorno la luce interiore uscisse da noi, di modo che non ce ne servisse più alcun'altra.
L'anno si spegne. Il vento trascorre sulle stoppie e non trova più niente da muovere; solo le bacche rosse di quegli alberi snelli sembrano ancora volerci ricordare qualcosa di lieto, così come il battere cadenzato del trebbiatore desta il pensiero che nella spiga recisa si nasconde tanto nutrimento e tanta vita.
Dopo simili eventi, dopo avere percepito con tanta immediatezza la caducità e il vano di tutte le cose, come dovette colpire Ottilia, cui non si poté più tenerla celata, la notizia che Eduardo s'era affidato alla sorte incerta della guerra! Non si risparmiò, purtroppo, nessuna delle considerazioni che la circostanza le suggeriva. Fortunatamente ognuno di noi può assorbire la sventura solo sino ad un certo punto; ciò che va oltre, ci annienta oppure ci lascia indifferenti. Ci sono situazioni in cui timore e speranza, identificandosi, s'eliminano a vicenda e si perdono in un'oscura insensibilità. Come potremmo, altrimenti, sapere i nostri cari lontani in continuo pericolo e tuttavia tirare avanti con la vita di tutti i giorni?
Perciò fu come se uno spirito benigno avesse provveduto per Ottilia, quando d'improvviso una fragorosa brigata fece irruzione nel silenzio in cui lei, solitaria e inattiva, minacciava di chiudersi; le dettero parecchio lavoro, concretamente, e la distrassero da se stessa, mentre in lei veniva stimolata la coscienza della propria forza.
La figlia di Carlotta, Luciana, era appena passata dal collegio al gran mondo, s'era appena vista attorniata da una numerosa società in casa della zia, che, volendo piacere, realmente piacque: un giovane ricchissimo sentì ben presto la brama d'averla per sé. Il suo cospicuo patrimonio gli dava facoltà di poter dire suo, in ogni campo, il meglio, e gli pareva così di non mancare d'altro che d'una moglie perfetta, tale che il mondo avesse da invidiargliela, come tutto il resto.
In questa faccenda di famiglia Carlotta s'era parecchio impegnata, ad essa dedicando ogni attenzione, ogni lettera, tranne quelle intese ad ottenere notizie più precise circa Eduardo. Così che Ottilia, negli ultimi tempi, s'era trovata anche più sola del solito. Sapeva, certo, dell'arrivo di Luciana, e in casa aveva preso quindi le misure più necessarie, ma quella visita non la si immaginava tanto prossima. Si pensava di scrivere ancora, di mettersi d'accordo, di fissare i particolari, quando repentinamente la tempesta s'abbatté sul castello e su Ottilia.
Arrivarono dapprima cameriere e servi, vetture cariche di bauli e di casse, pareva che di padroni, in casa, ce ne fosse già il doppio o il triplo. Ma infine, ecco apparire loro, gli ospiti: la prozia con Luciana e alcune amiche, il fidanzato, anche lui col suo seguito. Ecco il vestibolo pieno di valigie, di sacche, e d'altre custodie di cuoio; con gran tribolazione si smistarono le varie cassette, le borse; reggere, strascicare, non era mai finita. E intanto una pioggia violenta, causa di non poco disagio. Questo pandemonio, Ottilia l'affrontò con impegno imperturbabile, anzi, eccelse per calma e per maestria: ben presto i bagagli furono a posto, in ordine perfetto. Ciascun ospite ebbe il suo alloggio, ciascuno trovò le sue comodità, convinto d'essere servito bene perché era libero di servirsi da sé.
Tutti, a questo punto, si sarebbero volentieri goduto un po' di riposo, dopo gli strapazzi del viaggio; al fidanzato sarebbe piaciuto avvicinare la suocera per assicurarla della serietà del suo amore e delle sue intenzioni corrette. Ma Luciana non stava quieta un momento. Ora le era consentito, finalmente, di montare a cavallo. Il fidanzato ne aveva di belli, e ci si dovette mettere subito in sella. Vento, temporale, pioggia, tempesta, non c'era da pensarci: pareva che unico scopo della vita fosse infradiciarsi e rasciugarsi. Se le veniva in mente d'uscire a piedi, non si chiedeva che vestiti portasse, e che scarpe: niente, doveva vedere il parco, del quale aveva sentito tanto parlare.
Dove non poté andare a cavallo, andò a piedi. In breve, tutto fu visto, tutto fu giudicato. Con un temperamento tanto impetuoso, non era facile tenerle testa. La compagnia attraversò, di consegueza, non poche situazioni critiche, ma soprattutto le cameriere, che non avevano mai finito di lavare, di stirare, di scucire e ricucire.
Ispezionate casa e tenuta, subito si sentì in dovere di far visita al vicinato, tutt'intorno. E siccome ciò avveniva a gran velocità, a cavallo o in carrozza, i confini di questo vicinato si allargarono assai. Al castello, poi, si ebbe l'invasione di coloro che ricambiavano le visite, e per non correre il rischio che venissero a vuoto, si destinarono al ricevimento determinati giorni.
Mentre Carlotta era occupata con la zia e il rappresentante dello sposo a stabilire le condizioni del matrimonio, e Ottilia si dava da fare col personale affinché nulla mancasse in tanta confusione, e quindi metteva in movimento cacciatori e giardinieri, pescatori e negozianti, Luciana continuava a somigliare a una cometa infocata, che si tiri dietro una lunga coda. Nei ricevimenti la consueta conversazione non tardò a riuscirle insipida. A stento lasciava in pace i più anziani, intenti alle carte; ma chi appena si muovesse un po' - e chi non si lasciava smuovere da tanta deliziosa insistenza? - doveva venire a ballare, o almeno prender parte al movimentato gioco dei pegni e delle penitenze. E sebbene tutto ciò, come poi il riscatto dei pegni, avesse per centro lei, pure nessuno, e specialmente nessun uomo, di qualsiasi sorta, ne usciva scontento; anzi, alcune persone in età e importanti, riuscì a guadagnarsele completamente, col fatto d'informarsi circa il loro compleanno od onomastico e di festeggiarlo, quando veniva, in modo speciale. La favoriva, in questo, una sua abilità, per cui, mentre tutti si sentivano privilegiati, ognuno credeva d'esserlo di più: debolezza, della quale persino il più vecchio della compagnia si rese manifestamente colpevole.
Il suo programma sembrava volto a conquistare uomini che contassero, che avessero rango, prestigio, celebrità o qualche altro merito, a farsi beffa della saviezza e del buon senso, e a rendere gradito sinanco ai più posati quel suo temperamento scatenato e stravagante. Ma non è che i giovani restassero esclusi: ciascuno aveva la sua parte, la sua giornata, la sua ora, in cui lei sapeva incantarlo e avvincerlo. Sull'architetto aveva posto gli occhi ben presto, ma questi aveva un'aria così ingenua, coi suoi gran riccioli neri, se ne stava tanto riservato in disparte, dava ogni volta risposte tanto brevi e sensate, peraltro senza mai mostrarsi incline a maggiore confidenza, che alla fine, un po' controvoglia un po' per furbizia, lei decise di farne l'eroe del momento e d'ascriverlo in tal modo alla propria corte.
Non per niente s'era portata tutti quei bagagli, alcuni arrivati anche dopo di lei. Era il necessario per potersi continuamente mutare d'abito. Le piaceva cambiarsi tre o quattro volte al giorno, indossando via via, dalla mattina alla sera, vestiti della foggia in uso; ma talvolta faceva anche la sua uscita in costume, come contadina o pescatrice o fata o fioraia. Né disdegnava di travestirsi da vecchia, di modo che tanto più fresco spuntasse il suo faccino dal cappuccio. In effetti, riusciva a mischiare realtà e artificio a tal punto, che la si sarebbe detta parente dell'ondina della Saale.
Questi travestimenti, però, le servivano soprattutto per certe pantomime e danze, nelle quali rappresentava con abilità diversi tipi e personaggi. Un cavaliere del seguito s'era preso l'incarico d'accompagnare le sue figurazioni al piano, con quel po' di musica necessaria: bastava scambiassero due parole, e subito erano affiatati.
Un giorno che, nella pausa d'un ballo animatissimo, la invitarono a improvvisare una simile pantomima - ma era stata lei stessa, di nascosto, a lanciare l'idea - parve imbarazzata e sorpresa e, contrariamente al solito, si fece pregare. Si mostrò indecisa, lasciò la scelta al suo pubblico e lo richiese d'un soggetto, come usano gli improvvisatori, sinché, alla fine, l'accompagnatore, col quale doveva essere d'accordo, si mise al piano e attaccò una marcia funebre, pregandola di voler rappresentare Artemisia, un ruolo che s'era studiato con tanto impegno. Allora si lasciò convincere, e dopo una breve assenza, riapparve, al ritmo tenero e mesto della marcia funebre, nelle vesti della vedova regale, avanzando con passi cadenzati e reggendo innanzi a sé un'urna cineraria. Dietro a lei portarono una grande lavagna, con un pezzo di gesso appuntito in un tiralinee d'oro.
Uno dei suoi vagheggini e aiutanti, cui lei sussurrò all'orecchio, andò subito a invitare l'architetto, o piuttosto a costringerlo, e quasi a trascinarlo fuori, affinché, nel ruolo di mastro costruttore della regina, disegnasse la tomba di Mausolo, e figurasse quindi, non come comparsa, ma come vero e proprio personaggio dell'azione. Per quanto imbarazzato egli potesse sembrare all'aspetto - nel suo vestito moderno, tutto nero e semplicissimo, faceva uno strano contrasto coi crespi, coi veli, le frange, le perline, i fiocchi, le corone - interiormente seppe subito controllarsi, col risultato, però, che lo spettacolo riuscì ancor più singolare. Si mise, con gran serietà, davanti alla lavagna, sostenuta da un paio di paggi, e disegnò con molta attenzione e precisione un sepolcro certo più adatto ad un re dei longobardi che a quello di Caria, ma così ben proporzionato, così solenne nelle varie parti e geniale nella decorazione, che fu un piacere vederlo via via nascere, e destò ammirazione, una volta compiuto.
Durante tutto questo tempo, egli non s'era quasi mai rivolto alla regina, dedicando ogni attenzione al suo lavoro. Quando, da ultimo, le si inchinò e fece intendere che credeva d'avere pienamente eseguito i suoi ordini, lei espresse il desiderio, levando innanzi l'urna, che fosse disegnata in vetta al monumento. E lui la disegnò, ma poco volentieri, perché non s'intonava col progetto. Quanto a Luciana, la sua impazienza fu placata: non è che mirasse ad ottenere dall'architetto un disegno a regola d'arte; avesse abbozzato con due segni qualcosa di appena simile a un monumento, e per il resto del tempo si fosse occupato di lei, ciò avrebbe meglio assecondato il suo scopo e i suoi desideri. Comportandosi come si comportò, la mise invece nel più grande imbarazzo; infatti, sebbene cercasse di variare alquanto l'azione, ora esprimendo dolore, ora dando cenni e comandi, ora con l'approvare ciò che a poco a poco prendeva forma, sebbene talvolta quasi lo distraesse, semplicemente per entrare con lui in un qualsiasi rapporto, pure egli restava così rigido, che troppo spesso fu costretta a far ricorso alla sua urna, stringendola al petto e alzando gli occhi al cielo, e anzi, dato che situazioni simili s'evolvono in crescendo, finì per somigliare ad una vedova di Efeso piuttosto che a una regina di Caria. La pantomima andò quindi per le lunghe, e il pianista, di solito assai paziente, non sapeva più in che melodia rifugiarsi. Ringraziò Dio quando ravvisò l'urna sulla sommità della piramide, e involontariamente, allorché la regina volle significare la sua gratitudine, cadde in un tono allegro, di modo che la rappresentazione uscì di registro, ma gli spettatori furono felicemente sollevati, e subito separandosi, manifestarono la loro festosa ammirazione sia alla dama, per le eccellenti capacità espressive, sia all'architetto, per il disegno artistico ed elegante.
Specialmente il fidanzato s'intrattenne con l'architetto.
“Mi dispiace,” gli disse, “che il disegno sia un genere così effimero. Permetta almeno che quello lo faccia portare in camera mia, e che io e lei si possa discorrerne.” “Se ha piacere,” replicò l'architetto, “posso mostrarle dei disegni rifiniti di edifici e monumenti simili, dei quali questo non è che un abbozzo buttato giù a caso.”
Ottilia non era lontana e venne avanti. “Non dimentichi,” fece all'architetto, “di mostrare al signor barone, se potrà, la sua raccolta. E un amatore dell'arte e dell'antichità. Sarei lieta che loro due si conoscessero meglio.”
Sopraggiunse Luciana, e domandò: “Di che si parla?”
“Opere d'arte,” rispose il barone, “una raccolta che appartiene al signore, e che, all'occasione, ci mostrerà.”
“Potrebbe portarcela qui subito!” esclamò Luciana. “Non e vero, la porta subito?” insistette vezzeggiandolo, mentre con le due mani gli dava una stretta cordiale.
“Forse non è il momento giusto,” obiettò l'architetto.
“Come?” esclamò Luciana, in tono di comando. “Non vuole ubbidire alla sua regina?” e si diede ancora a pregarlo scherzosamente.
“Non sia ostinato!” disse Ottilia, a mezza voce.
L'architetto s'allontanò con un inchino, non si capiva se d'assenso o di diniego.
Era appena uscito, che Luciana cominciò a rincorrersi per il salone con un levriere. “Oh, come sono sfortunata!” fece, imbattendosi per caso in sua madre. “Non ho portato con me la mia scimmia. Me l'hanno sconsigliato, ma è stata la pigrizia della mia servitù a privarmi di questo piacere. La farò venire, qualcuno deve andare a prendermela. Solo che potessi vederla in ritratto, sarei già contenta. Ma la farò dipingere, certo, e non dovrà più staccarsi da me.”
“Forse ti posso consolare,” rispose Carlotta, “facendoti venire dalla biblioteca un volume intero con le più strane figure di scimmie.” Luciana diede un grido di gioia, e portarono il grosso in-folio. La vista di queste mostruose creature tanto simili all'uomo e ancor più umanizzate dall'illustratore, la riempì di giubilo. Ma soprattutto si sentì felice scoprendo via via, per ciascun animale, la somiglianza con persone che conoscevano. “Non somiglia allo zio?” esclamò, implacabile. “E questa, al mercante di mode M., questa al parroco S., e quest'altra... a coso, come si chiama?, in persona. In fondo, le scimmie sono i veri Incroyables, e non si capisce perché si debba escluderle dalla buona società.”
Questo lo diceva appunto in seno alla buona società, ma nessuno se la prese a male. Erano così abituati a permettere molto alle sue moine, che ormai permettevano tutto alla sua screanzataggine.
Ottilia, intanto, conversava col fidanzato. Sperava che tornasse l'architetto, e che le sue raccolte, tanto più serie e piacevoli, liberassero la compagnia da quella sfilata di scimmie. Nell'attesa, s'era messa a parlare col barone, impegnandolo in vari argomenti. Ma l'architetto tardava, e quando finalmente giunse, si mischiò con gli altri, senza aver portato niente e facendo come non gli avessero mai chiesto nulla. Ottilia apparve per un attimo - come dire? - irritata, indignata, colpita. Lo aveva pur pregato gentilrnente, e aveva inteso far passare al fidanzato un'ora di svago, secondo i suoi gusti, visto che, per innamorato che fosse, sembrava rammaricarsi del contegno di Luciana.
Le scimmie dovettero far luogo a una cenetta. I giochi di società, il ballo ancora, infine i crocchi d'una conversazione già annoiata, lo sforzo di risuscitare un'allegria già spenta, durarono, anche stavolta, ben oltre la mezzanotte. Per Luciana era ormai un'abitudine, infatti, di mattina amare il letto e la sera detestarlo.
In corrispondenza con questo periodo si trovano pochi avvenimenti registrati nel diario d'Ottilia, e invece molte più massime e sentenze riferite alla vita o ricavate da essa. Siccome però, per la maggior parte, non possono essere il frutto di sue personali riflessioni, è probabile che qualcuno le avesse passato uno scritto, dal quale trascriveva ciò che le tornava gradito. Certi spunti più suoi, e celati, si riconosceranno dal solito filo rosso.
Dal diario d'Ottilia
Scrutiamo tanto volentieri nel futuro, perché tanto volentieri volgeremmo a nostro favore, con taciti desideri, ciò che in esso oscilla, l'incerto.
Difficilmente si sta in una compagnia numerosa, senza pensare che il caso che ha raccolto tante persone, non debba ricondurci anche i nostri amici.
Si ha un bel vivere ritirati, prima che uno se ne accorga, si ritrova debitore o creditore.
Se incontriamo qualcuno che ci deve gratitudine, subito ricordiamo il motivo. Ma quante volte incontriamo qualcuno cui siamo noi a dovere gratitudine, e non ricordiamo più nulla!
Confidarsi è natura. Accogliere la confidenza così come vien fatta, è educazione.
Nessuno parlerebbe molto in società, se sapesse quante volte fraintende gli altri.
Si cambiano tanto spesso i discorsi altrui nel ripeterli, semplicemente perché non si sono compresi.
Chi parla da solo in pubblico a lungo, senza adulare gli ascoltatori, suscita antipatia.
Ogni parola che si dice, fa pensare al suo contrario.
Contraddizione e adulazione guastano entrambe il dialogo.
Le compagnie più piacevoli sono quelle, nelle quali regna, tra i componenti, un sereno rispetto reciproco.
Niente rivela meglio il carattere degli uomini, di ciò che essi trovano ridicolo.
Il ridicolo nasce da un contrasto morale, che si propone in modo innocuo ai nostri sensi.
L'uomo sensuale ride spesso dove non c'è niente da ridere. Qualunque cosa lo stimoli, vien fuori il suo benessere intimo.
Seguendo l'intelletto, quasi tutto è ridicolo; seguendo la ragione, quasi niente lo è.
Ad un uomo anziano rimproveravano d'occuparsi ancora di donne giovani. “È l'unico modo,” rispose, “per ringiovanirsi, e ciò lo vogliono tutti.”
Si lascia che ci rinfaccino i nostri difetti, ci si lascia castigare, e per essi si sopportano pazientemente non pochi mali; ma si perde ogni pazienza, se dobbiamo rinunciarvi.
Certi difetti sono necessari perché un individuo esista. Ci spiacerebbe se i vecchi amici lasciassero certe loro particolarità.
Si dice “vuoi morire?”, quando uno fa qualcosa di contrario alla sua natura e ai suoi modi.
Quali difetti è lecito conservare, anzi, coltivare in noi? Quelli che lusingano il nostro prossimo, piuttosto che ferirlo.
Le passioni sono difetti o virtù, ma elevati di grado.
Le nostre passioni sono vere e proprie fenici. Come la vecchia è bruciata, subito la nuova esce dalle ceneri.
Le grandi passioni sono malattie senza speranza. Ciò che potrebbe guarirle, è proprio ciò che le rende pericolose.
La passione confessandola s'esalta e s'attenua. In nessun'altra cosa sarebbe forse più da desiderare la via di mezzo, che nel confidarsi e nel tacere con coloro che amiamo.
Senza posa, dunque, Luciana sferzava innanzi a sé, nel vortice degli impegni di società, l'ebbrezza di vivere. Di giorno in giorno la sua corte personale s'allargava: alcuni erano colpiti e attirati dal suo temperamento dinamico, altri sapeva conquistarseli con la gentilezza e coi favori. Era estremamente generosa. Siccome, per l'affetto della zia e del fidanzato, tante cose belle e ricche le erano piovute addosso di colpo, sembrava che non avesse il senso della proprietà e non conoscesse il valore di ciò che le si era accumulato intorno. Non esitava neppure un istante a togliersi magari uno scialle di pregio per buttarlo sulle spalle d'una cameriera che le paresse vestita troppo poveramente in confronto alle altre; e lo faceva come celiando, con tanto garbo, che nessuno poteva rifiutare il dono. Uno del seguito portava sempre una borsa, e aveva l'incarico, quando arrivavano in un luogo, d'informarsi dei più vecchi e malati, e d'alleviarne, almeno temporaneamente, la condizione. S'era guadagnata così, per tutta la zona, una gran nomea, che qualche volta le riuscì persino incomoda, giacché finiva con l'attirare postulanti troppo molesti.
Nulla però accrebbe questa fama quanto la singolare e assidua benevolenza nei riguardi d'un infelice giovane, che sfuggiva ogni compagnia, per bello e prestante che fosse, avendo perduto in guerra, pur gloriosamente, la mano destra. La mutilazione lo angustiava a tal punto, e talmente lo irritava dovere tutte le volte raccontare la disgrazia ai nuovi conoscenti, che preferiva starsene per conto suo, dedito alla lettura e allo studio, e non aver più a che fare con la società.
A Luciana l'esistenza del giovane non rimase celata. Dovette venir fuori dal suo guscio, e frequentare dapprima una compagnia ristretta, poi più ampia, infine non poté più avere riserve. Lei lo trattava con più garbo di chiunque altro; e soprattutto, adoperandosi ad ovviare alla sua sventura, con attenzioni continue gliene faceva apprezzare il valore. Mangiando, doveva sederle accanto; era lei a tagliarli il cibo nel piatto, perché poi non avesse da adoperare altro che la forchetta. Se era costretto a cedere il posto a persone anziane o di maggior rango, quella sollecitudine s'estendeva attraverso tutta la tavola, e i camerieri dovevano provvedere con la loro solerzia a ciò che la distanza rischiava di sottrargli. Infine, lo incoraggiò a scrivere con la sinistra; tutti gli scritti doveva indirizzarli a lei, e così, lontani o vicini che fossero, erano sempre in rapporto. Senza che sapesse spiegarsi come, da quel momento ebbe effettivamente inizio, per il giovane, una nuova vita.
Si potrebbe credere che un contegno simile dovesse dispiacere al fidanzato. Al contrario! Tali premure costui le ascriveva a tutto merito di lei, e non se ne dava per nulla pensiero, ben sapendo con che zelo quasi esagerato rimuoveva da sé ciò che appena appena le paresse compromettente. Voleva far gazzarra con tutti a suo piacere, e si era sempre in pericolo d'essere urtati da lei o stiracchiati o in qualche maniera presi in giro; ma nessuno, a sua volta, poteva permettersi qualcosa del genere e azzardarsi a toccarla, nessuno poteva, neanche lontanamente, ricambiare una libertà che si fosse presa; nei propri confronti, costringeva gli altri entro i limiti della più rigorosa correttezza, salvo rischiare lei, ogni momento, d'oltrepassarli nei confronti altrui.
Si sarebbe detto, in sostanza, che tenesse per norma, d'esporsi indifferentemente alle lodi e alle critiche, al favore e al disfavore. Se infatti cercava in mille modi di cattivarsi le persone, poi di solito rovinava tutto, a causa d'una mala lingua che non perdonava. Non ci fu visita nel vicinato, non ci fu castello o dimora in cui l'avessero ricevuta cordialmente insieme al seguito, senza che lei, rientrando, rivelasse platealmente la sua inclinazione a prendere dal lato ridicolo tutti i rapporti umani. In un posto, tre fratelli che, a forza di complimenti su chi dovesse sposarsi per primo, ormai non avevano più l'età giusta; in un altro, una ragazza piccina, maritata a un vecchio d'alta statura; in un altro ancora, viceversa, un piccoletto vispo vispo, che stava con una goffa gigantessa. In una certa casa, ad ogni passo s'inciampava in un bambino; in una cert'altra, vi s'adunasse pure una folla, c'era un senso di vuoto, perché non avevano bambini. Quei due sposi anziani avrebbero fatto meglio ad andarsene alla svelta, affinché in calsa tornasse finalmente l'allegria, visto che non avevano eredi legittimi. E quella coppia giovane, perché non si dava ai viaggi, se non sapeva d'amministrazione domestica?
Come sulle persone, trovava da ridire sulle cose, dalle architetture alle varie suppellettili, sino ai servizi da tavola. Specialmente ciò che ornava le pareti le suggeriva osservazioni spiritose. Dall'arazzo vetusto alla modernissima tappezzeria di carta, dal venerando ritratto di famiglia all'incisione più frivola, tutto aveva da subire l'esame, tutto veniva, per così dire, consumato dalla sua ironia. C'era da meravigliarsi che, nel giro di cinque miglia, qualcosa esistesse ancora.
Forse non c'era vera e propria cattiveria in quel caustico censurare. Erano piuttosto i capricci dell'egoismo a stuzzicare di solito Luciana, e tuttavia nei suoi rapporti con Ottilia si manifestava un autentico rancore. Al tranquillo, incessante operare della cara fanciulla, universalmente notato e lodato, lei guardava con disprezzo. E una volta che il discorso cadde sullo zelo con cui Ottilia s'occupava del giardino e delle serre, non soltanto se ne burlò, con l'aria di stupirsi che non si vedessero - di pieno inverno! - né fiori né frutti, ma da allora in poi prese a farsi portare, ogni giorno, piante verdi, rami, quanto insomma fosse in germoglio, e li sprecava a decorare le stanze e la tavola: non senza disappunto d'Ottilia e del giardiniere, che vedevano distrutte le loro speranze per l'anno venturo, e forse anche oltre.
Similmente turbava il pacifico ritmo della casa, in cui Ottilia era a suo agio. Ottilia doveva accompagnarla, se usciva in slitta o in carrozza; doveva venire ai balli, che si davano nel vicinato; non doveva temere né freddo né neve, e neppure le notti più tempestose, posto che tanti altri non ne morivano. Per tali pretese la delicata fanciulla soffrì non poco, ma Luciana non ne cavò nulla: seppur vestita con la massima semplicità, Ottilia era sempre la più bella, o almeno così pareva agli uomini. Fosse, nell'ambiente meno raccolto, al primo posto o all'ultimo, li attirava tutti intorno a sé, con la sua dolcezza. Persino il fidanzato di Luciana s'intratteneva sovente con lei, tanto più che desiderava consiglio e aiuto per una faccenda che gli stava a cuore.
Aveva approfondito la conoscenza dell'architetto; con lui aveva parlato parecchio di storia, a proposito della sua raccolta, e in altri casi, specie visitando la cappella, aveva anche imparato ad apprezzarne il talento. Il barone era giovane, ricco; aveva interessi di collezionista, pensava di costruire. Entusiasta, ma sprovvisto di cognizioni, gli sembrò d'avere trovato nell'architetto, il suo uomo, col quale realizzare, in una volta, diversi scopi. Ne aveva accennato alla fidanzata, e costei l'aveva approvato, molto soddisfatta: forse, però, più per la prospettiva di portar via il giovanotto a Ottilia - le pareva un po' preso - che per l'effettiva intenzione di sfruttarne le capacità. Sebbene in quelle sue feste si fosse mostrato assai operoso e avesse sfoderato, nell'una o nell'altra occasione, non poche risorse, Luciana restava infatti convinta d'essere lei, ad ogni modo, la più abile; e siccome le sue idee erano di solito banali, bastava a realizzarle l'accuratezza d'un bravo cameriere non meno di quella dell'artista più raffinato. Se si dava a celebrare un compleanno o qualche altra solennità, più in là di un'ara su cui sacrificare o d'una testa, di gesso o viva, da incoronare, la sua fantasia non arrivava.
Al fidanzato, che chiedeva quali impegni legassero l'architetto alla casa, Ottilia poté dare tutte le informazioni. Sapeva che già da un po' Carlotta si dava da fare per trovargli un altro posto. Se non fosse arrivata la loro compagnia, appena terminata la cappella sarebbe partito, data l'opportunità, e anzi la necessità, che durante l'inverno le opere edilizie fossero sospese: era, di conseguenza, auspicabile che l'ottimo artista venisse impiegato e valorizzato da un nuovo mecenate.
I rapporti personali tra Ottilia e l'architetto erano nitidissimi, senz'ombra d'equivoco. La sua presenza gradevole e attiva le faceva piacere, la distraeva, come fosse vicina a un fratello maggiore; ogni sentimento per lui, pacifico e scevro di passione, restava sul piano d'una parentela. Nel suo cuore non c'era più posto, era colmo, sino all'orlo, dell'amore per Eduardo; e soltanto Dio, che tutto compenetra, poteva insieme possederlo.
Intanto, via via che ci s'inoltrava nell'inverno e il tempo peggiorava e le strade diventavano impraticabili, tanto più allettava trascorrere in così buona compagnia le giornate ormai brevi. Ad ogni fase di magra subito subentrava l'inondazione della casa da parte di una vera folla. Arrivavano ufficiali dalle guarnigioni più lontane, i più raffinati interessando a tutti, i più grezzi mettendoli a disagio; né mancavano borghesi, e un bel giorno, del tutto inaspettati, giunsero anche il conte e la baronessa.
La presenza di costoro inaugurò un'autentica corte. Gli uomini di un certo rango si raggrupparono intorno al conte, mentre le signore rendevano omaggio alla baronessa. Non durò a lungo lo stupore di vederli insieme e così allegri; appresero, infatti, che la moglie del conte era morta, e che al più presto, appena lo consentissero le convenienze, si sarebbe dichiarata la nuova unione. Ad Ottilia venne in mente la loro prima visita, e parola per parola, tutto ciò che s'era detto a proposito di matrimonio e di divorzio, d'unione e di separazione, e di speranza, attesa, privazione, rinuncia. Quei due, allora senza prospettive, ecco che le stavano innanzi ormai prossimi alla felicità sognata! Dal petto le uscì involontario un sospiro.
Luciana, appena seppe che il conte era appassionato di musica, subito volle organizzare un concerto, in cui pensava di cantare accompagnandosi sulla chitarra. E così si fece. Lo strumento non lo suonava male, e la voce non dispiaceva, ma le parole, quelle si capivano poco, come al solito quando canta con la chitarra una bella tedesca. Tutti sostennero, comunque, che aveva cantato con molta espressione, e le toccarono grandi applausi. Solo che si verificò, in questa occasione, un singolare incidente. Faceva parte della compagnia un poeta, oggetto lui pure dei disegni di Luciana, che desiderava le dedicasse qualche poesia, e appunto perciò aveva cantato prevalentemente cose sue. Costui fu gentilissimo, come tutti, ma lei s'aspettava di più. Diverse volte cercò di lasciarglielo intendere, ma non riuscì a nulla, sinché, impazientita, gli mandò uno della sua corte per sapere se fosse entusiasta della splendida esecuzione musicale delle sue splendide poesie. “Poesie mie?” fece quello, stupefatto. E aggiunse: “Perdoni, ma non ho sentito che vocali, e neanche tutte. Ad ogni modo, è mio dovere dichiararmi grato per l'intenzione tanto cortese.” L'altro tacque, e si guardò dal riferire, mentre il poeta cercò di cavarsi d'imbarazzo con qualche complimento inzuccherato. Luciana non nascose il suo desiderio d'avere qualcosa scritto proprio per lei. Non fosse stata villania, egli le avrebbe proposto l'alfabeto, perché si fabbricasse da sé dei versi d'elogio, adattabili a una musica qualsiasi. Ma era destino che l'ambiziosa non uscisse senza scorno dalla vicenda. Poco dopo apprese che, quella sera stessa, egli aveva composto, per una delle melodie preferite da Ottilia, un testo graziosissimo, qualcosa che valeva ben più di un complimento formale.
Luciana, che, come tutte le persone col suo temperamento, mischiava sempre ciò che le giovava a ciò che le nuoceva, volle cimentarsi, a questo punto, anche nella recitazione. Aveva una buona memoria, però, ad esser franchi, una dizione inespressiva e tumultuosa, e tuttavia senza passione. Il suo repertorio comprendeva ballate, racconti, e quant'altro è usuale in simili trattenimenti. S'era poi presa l'abitudine, assai infelice, d'accompagnare con gesti la recitazione, di maniera che l'elemento epico e lirico, più che associato, veniva sgradevolmente confuso con quello drammatico.
Il conte, uomo molto acuto, che subito s'era fatto un'idea della compagnia, con le simpatie, gli amori, i gusti diversi, suggerì a Luciana - fortuna o disgrazia che fosse - un nuovo tipo di spettacolo, adatto alla sua personalità. “Abbiamo qui tanti con una corporatura armoniosa,” osservò, “che sarebbero certamente in grado di imitare movimenti e atteggiamenti propri della pittura. Perché non provare a riprodurre dei veri quadri, scelti tra i più noti? Un'imitazione siffatta, se anche richiede faticosi preparativi, ha un fascino incredibile.”
Luciana non tardò ad intendere che si sarebbe trovata nel suo campo. La sua statura, la sua persona fiorente, il volto regolare ma espressivo, le trecce castane, il collo sottile, tutto pareva lì per una pittura. E solo che avesse saputo che era più bella da ferma che quando si muoveva, perché allora dava in goffaggini, si sarebbe dedicata con zelo ancor maggiore a quelle figurazioni.
Ci si mise alla ricerca di riproduzioni di quadri celebri, e si scelse innanzitutto il Belisario di van Dyck. Un uomo d'una certa età, alto e robusto, doveva rappresentare la figura sedente del generale cieco, mentre l'architetto avrebbe impersonato, standogli di fronte, il guerriero attristato e mosso a compassione, cui realmente somigliava un po'; Luciana s'era presa per sé, con una certa modestia, la parte della giovane donna nello sfondo, che conta sul palmo della mano una cospicua elemosina tratta da una borsa, intanto che una vecchia sembra dissuaderla e avvertirla che sta per dare troppo. Non dimenticarono anche l'altra figura femminile, già in atto di porgere l'elemosina al generale.
Intorno a questo quadro, e ad altri, si diedero da fare molto seriamente. Il conte accennò qualcosa all'architetto circa l'allestimento, e subito costui preparò una sorta di teatro e provvide all'illuminazione. Si era ormai avanti nei preparativi, quando s'accorsero che una simile intrapresa richiedeva molti mezzi, e che, nel cuore dell'inverno e in campagna, più d'una esigenza sarebbe andata elusa. Affinché niente patisse ritardi, Luciana allora fece ridurre in pezzi quasi tutto il suo guardaroba, in modo da ricavarne i diversi costumi immaginati ad arbitrio dai pittori.
Giunse la sera fissata, e di fronte a un gran pubblico, tra applausi unanimi, si tenne la rappresentazione. Una musica espressiva accentuò l'attesa, poi si cominciò proprio col Belisario. Le figure erano così azzeccate, i colori distribuiti con tanto gusto e le luci con tanta abilità, che davvero pareva di trovarsi in un altro mondo: solo che il contatto con la realtà concreta, anziché con quella fantastica della pittura, dava come un senso d'angoscia.
Cadde il sipario, ma dovettero, a richiesta, rialzarlo più volte. Un intermezzo musicale intrattenne il pubblico, che doveva avere la sorpresa, a questo punto, di un quadro di genere più elevato, un celebre Poussin: Ester e Assuero. Qui Luciana era stata più abile. Nel ruolo della regina cui mancano i sensi, poteva spiegare tutte le sue grazie, mentre per le fanciulle che sorreggono Ester, s'era scelta accortamente personcine piacevoli e ben fatte, ma nemmeno alla lontana paragonabili a lei. Dal quadro, come dagli altri, Ottilia restò esclusa. Sul trono aureo, per raffigurare il re simile a Giove, avevano posto l'uomo più bello e vigoroso della compagnia, così che il quadro acquistò veramente una perfezione incomparabile.
Per la terza scena avevano pensato alla cosiddetta Ammonizione paterna di Terburg: chi non conosce la splendida incisione che il nostro Wille trasse da quel dipinto? Un piede accavalciato sull'altro, un padre siede con aria nobile, e sembra parlare alla coscienza di sua figlia, ritta davanti a lui. Costei, figura magnifica in abito di raso bianco con tante pieghe, appare soltanto di schiena, ma allude, in tutto il suo essere, al raccoglimento. Che poi l'ammonizione non sia né aspra né umiliante, lo s'intende dal volto e dai gesti del padre; mentre la madre, lo sguardo fisso in un bicchiere, che sta per vuotare dell'ultimo sorso di vino, si direbbe nasconda un certo imbarazzo.
In questo quadro Luciana figurò al meglio di sé. Le trecce, la forma del capo, il collo, la nuca, li aveva d'una bellezza straordinaria, e la vita, quasi celata dall'odierna moda classicheggiante, prendeva risalto invece dal costume antico, sottile e snella, graziosissima; l'architetto s'era anche dato premura di disporre nel modo più naturale tutte quelle pieghe del raso bianco, sicché la riproduzione al vivo, senza dubbio, risultò di gran lunga superiore al modello e suscitò generale entusiasmo. Non finivano più di chiedere la replica, e il desiderio naturalissimo di contemplare anche il volto della bella creatura che avevano visto sempre di spalle, prese a tal punto il sopravvento che un tipo spiritoso, per l'impazienza, gridò a gran voce le parole che si mettono talvolta a piè di pagina: tournez, s'il vous plaît, destando uno scroscio d'applausi. Gli interpreti, però, sapevano bene ciò che loro convenisse fare, e s'erano troppo impadroniti del significato di quelle opere d'arte per cedere al voto comune. La figliola restò immobile, in atto vergognoso, senza largire agli spettatori l'espressione del volto; il padre, immobile a sedere, con aria ammonitrice; la madre non distolse naso e occhi dal bicchiere trasparente, in cui, per quanto lei ostentasse di bere, il vino non scemava. Quant'altro, poi, ci sarebbe da dire delle minori figurazioni che seguirono, derivate dalle scene di fiera e d'osteria della pittura olandese!
Il conte e la baronessa infine partirono, promettendo di tornare nelle prime, felici settimane del loro prossimo matrimonio. Carlotta sperava ormai, dopo due mesi non poco impegnativi, di potersi liberare anche del rimanente della compagnia. Della felicità di sua figlia era sicura, una volta sbollita l'ebbrezza giovanile d'andar sposa, giacché il fidanzato si considerava l'uomo più felice del mondo. Molto ricco e di carattere piuttosto moderato, sembrava lo attirasse singolarmente il privilegio di possedere una moglie che piacesse a tutti. Era fatto così, che rapportava tutto a lei, e a se stesso solo per via di lei: di modo che gli riusciva spiacevole se un nuovo venuto, anziché rivolgere subito a Luciana tutte le sue attenzioni, cercava d'entrare in più stretti rapporti con lui - come capitava spesso con le persone anziane, inclini ad apprezzare le sue doti - e non s'occupava altrimenti della fidanzata. Quanto all'architetto, si venne presto a un accordo: ai primi dell'anno costui lo avrebbe seguito e avrebbero passato insieme il carnevale in città, dove Luciana s'aspettava le più grandi soddisfazioni dalla replica di quei riuscitissimi quadri e da cento altre faccende, tanto più che la zia e il fidanzato parevano trovare irrisoria qualsiasi spesa per farla divertire.
Era giunta l'ora del commiato, ma ciò non poteva avvenire nelle forme consuete. Una volta che tra gli scherzi saltò fuori che le provviste invernali di Carlotta ormai dovevano essere allo stremo, il nobiluomo che aveva fatto da Belisario e disponeva certo di cospicue sostanze, entusiasta dei pregi di Luciana ai quali da tempo rendeva omaggio, esclamò, senza pensarci troppo: “Allora, facciamo alla maniera dei polacchi! Venite da me, e mangiate la mia roba! Poi si va da un altro, e così via!” Detto e fatto, Luciana fu d'accordo. Il giorno dopo i bagagli erano già pronti, e lo sciame si gettò su una nuova tenuta. C'era spazio anche là, ma scarse comodità e poca organizzazione: donde diversi inconvenienti, che furono lo spasso di Luciana. Si viveva in modo sempre più sregolato e convulso. Allestirono battute di caccia nella neve altissima, e quant'altro di più disagevole sapessero inventare. Le donne non potevano sottrarvisi più che gli uomini, e così passarono di tenuta in tenuta, cacciando e cavalcando, correndo con la slitta e facendo gran fracasso, sinché finalmente furono vicini alla capitale: e allora, apprendendo come ci si divertiva a corte e in città, le fantasie presero un corso diverso, e Luciana e tutti i suoi compagni, tranne la zia partita già prima, furono irresistibilmente attratti da una nuova atmosfera.
Dal diario d'Ottilia
Nel mondo, ognuno lo si prende per il ruolo che dichiara; ma bisogna pur che dichiari un ruolo. Si sopportano le persone moleste meglio di quanto si tollerino le insignificanti.
Si può imporre tutto alla società, salvo ciò che ha una conseguenza.
Quando sono gli altri a venire da noi, non li conosciamo; siamo noi che dobbiamo andare da loro, per imparare chi stano .
Trovo quasi naturale che si critichi chi ci fa visita, e che, appena sia lontano, se ne diano giudizi non proprio benevoli: abbiamo, per così dire, il diritto di misurarlo col nostro metro. Persino gli uomini giudiziosi ed equi non s'astengono, in tal caso, da aspre censure.
Quando invece si va noi dagli altri, e li si vede nel loro ambiente, nelle loro abitudini, nella loro necessaria e inevitabile condizione di vita, come agiscono sul mondo esterno o vi s'adattano, allora bisogna essere stolti e malvagi per trovare ridicolo ciò che, per più d'un aspetto, dovrebbe apparirci degno di stima.
Ciò che chiamiamo correttezza e buona educazione, serve ad ottenere quanto, diversamente, è da ottenersi solo con la forza, o magari neppure con essa.
La compagnia delle donne è il naturale elemento della buona educazione.
Come può il carattere, la personalità individuale, adattarsi all'educazione?
Mediante l'educazione dovrebbe anzitutto essere valorizzata la personalità. Ognuno desidera l'originalità, solo non deve riuscire molesta.
Nella vita come in società, più di tutti è avvantaggiato il militare che abbia un'educazione.
I rozzi guerrieri almeno non escono dal loro tipo, e siccome sotto la forza si cela, il più delle volte, la bonomia, al bisogno ci s'intende anche con loro.
Niente è più molesto di un borghese grossolano. Proprio da lui ci si potrebbe attendere finezza, dal momento che non ha da fare con cose materiali.
Vivendo con persone molto sensibili alle convenienze, soffriamo per loro quando capita qualcosa che non deve. Io patisco per Carlotta, e insieme a lei, se qualcuno si dondola sulla sedia, ciò che detesta incredibilmente.
Nessuno entrerebbe con gli occhiali sul naso nell'intimità d'un salotto, se sapesse che a noi donne passa subito la voglia di guardarlo e di conversare con lui.
La confidenza che subentra al rispetto, è sempre ridicola. Nessuno deporrebbe il cappello appena fatti i suoi saluti, se sapesse come ciò torna comico.
Non c'è segno esteriore di cortesia, che non abbia una profonda ragione morale. Educazione vera sarebbe quella che insieme fornisse l'uno e l'altra.
Il contegno è uno specchio in cui ognuno mostra la sua immagine.
Esiste una cortesia del cuore, ed è imparentata all'amore. Nasce da essa la più spontanea cortesia del contegno esteriore.
Dipendere perché lo si vuole, è la condizione più bella: e sarebbe impossibile senz'amore!
Non siamo mai tanto lontani dai nostri desideri, come quando c'immaginiamo di possedere la cosa desiderata.
Nessuno è più schiavo di colui che si considera libero senza esserlo.
Basta che uno si dichiari libero, e subito avverte la costrizione. Se osa riconoscere la costrizione, ecco che si sente libero.
Contro le doti grandi di un altro, non c'è salvezza che nell'amore.
Spettacolo insopportabile, un uomo eccezionale dei cui meriti si vantano gli sciocchi.
Non v'è eroe, si dice, per il suo cameriere. Ma questo semplicemente perché l'eroe può venire riconosciuto solo dall'eroe. Il cameriere, del resto, saprà probabilmente apprezzare i suoi pari.
Non c'è maggior consolazione per la mediocrità, del fatto che il genio non sia immortale.
I più grandi uomini sono sempre legati al loro secolo da una debolezza.
Gli uomini li si tiene solitamente per più pericolosi di quanto non siano.
I folli e le persone intelligenti ugualmente sono innocui. I mezzi matti e i mezzi savi, questi sono i più pericolosi.
Per sfuggire al mondo, non c'è mezzo più sicuro dell'arte; e niente è meglio dell'arte, per tenersi in contatto col mondo.
Persino nel momento della più grande felicità o del più grande dolore, abbiamo bisogno dell'artista.
L'arte s'occupa del difficile e del buono.
Veder trattato il difficile con facilità, ci dà il senso dell'impossibile.
Le difficoltà aumentano via via che ci s'avvicina alla meta.
Seminare non è faticoso come raccogliere.
Se da quella visita Carlotta aveva avuto parecchio disturbo, ne era stata risarcita imparando a comprendere pienamente sua figlia; e s'era rivelata preziosa, in ciò, la sua conoscenza del mondo. Non incontrava un carattere del genere per la prima volta, sebbene di bizzarri a tal punto non ne avesse ancora mai trovati. Ma sapeva dall'esperienza che persone simili, ammaestrate dalla vita, da certi avvenimenti, dall'aver figli, possono diventare, in età matura, amabili e simpatiche, giacché il loro egoismo s'attenua e l'impegno disordinato prende una direzione precisa. Carlotta, come madre, riusciva ad apprezzare manifestazioni che ad altri sarebbero magari apparse sgradevoli: s'addice ai genitori di sperare laddove gli estranei vogliono solo godere, o almeno non essere molestati.
Tuttavia, dopo la partenza della figlia, toccò a Carlotta una strana sorpresa: Luciana aveva lasciato di sé cattiva nomea, ma non per quanto c'era da biasimare nel suo comportamento, bensì per ciò che di lodevole vi si sarebbe potuto trovare. Sembrava si fosse preso a norma, non soltanto d'essere allegra con le persone allegre, ma triste con quelle tristi, e qualche volta, così per esercitare il suo spirito di contraddizione, d'infastidire gli allegri e rallegrare i tristi. Quando entrava in una casa, s'informava dei malati e dei valetudinari, che non potessero apparire in società. Li andava a trovare nelle loro camere, faceva il dottore, e somministrava a tutti energici rimedi della farmacia da viaggio che portava sempre con sé in carrozza; simili cure, poi, è facile immaginare, riuscivano o no come voleva il caso.
In questa sua opera di benefattrice era spietata, e non c'era verso d'indurla a ragionare, perché era fermamente convinta di essere nel giusto. Un intervento, però, le fallì, anche sul piano morale, e fu questo che diede parecchi pensieri a Carlotta per le conseguenze che ebbe e per il gran parlare che seguì; Ottilia, che aveva avuto parte nella faccenda, dovette riferirgliela con precisione, punto per punto.
Una delle ragazze d'una ragguardevole famiglia aveva avuto la sventura di causare la morte d'un fratellino, e non riusciva a riprendersi né a darsi pace. Stava sempre in camera sua, a lavorare in silenzio, e anche la vista dei suoi la sopportava soltanto se venivano uno alla volta; perché, se erano in parecchi, subito sospettava che stessero a far commenti su di lei e sul suo stato. Con uno solo, invece, si mostrava normalissima, e conversava per ore intere.
Luciana ne aveva sentito parlare, e s'era subito ripromessa, entrando in quella casa, d'operare una sorta di miracolo e di restituire la ragazza alla vita. Si comportò con più cautela del solito, seppe introdursi da sola sino alla malata, e a quanto si poté intendere, guadagnarsene la confidenza con la musica. Ma proprio in ultimo sbagliò. Volendo far colpo, una sera, portò d'improvviso in mezzo alla compagnia più assortita e brillante, quella creatura bella ed esangue che credeva ormai abbastanza preparata; e il tentativo sarebbe anche riuscito, se la gente, curiosa e incerta, non avesse reagito nel modo meno opportuno, facendo cerchio intorno alla malata e poi sfuggendola e mettendola in imbarazzo e agitazione a forza di bisbigliare e di confabulare. La tempra sensibile di lei non poté sopportarlo. Scappò via con grida terribili, che parevano esprimere orrore per un mostro che la minacciasse. Tutti si dispersero spaventati, e Ottilia fu tra coloro che riaccompagnarono in camera sua la fanciulla svenuta.
Intanto Luciana, come al solito, aveva sottoposto la compagnia a una violenta requisitoria, senza per nulla riflettere che la colpa era tutta sua, e senza che questo ed altri insuccessi valessero a distoglierla dalla sua condotta.
Da quel giorno le condizioni della ragazza s'erano fatte preoccupanti, e anzi il male s'era tanto aggravato che i genitori non avevano più potuto tenere in casa l'infelice, e avevano dovuto ricoverarla in un istituto. A Carlotta non restò che cercar di lenire in qualche modo il dolore causato da sua figlia, usando riguardi particolari ai congiunti della malata. La cosa aveva impressionato profondamente Ottilia: tanto più le dispiaceva per quella povera ragazza in quanto era convinta - e non lo nascose neanche a Carlotta, - che con un trattamento appropriato si sarebbe potuto guarirla.
Siccome poi, quando si rievoca il passato, solitamente si citano gli episodi spiacevoli piuttosto che i piacevoli, saltò fuori, mentre parlavano, il piccolo malinteso che aveva incrinato i rapporti tra Ottilia e l'architetto, la sera che costui non aveva voluto mostrare la sua raccolta, benché cortesemente richiestone. Quel rifiuto le era sempre rimasto sul cuore, e non sapeva nemmeno lei perché. Ma aveva tutte le ragioni: ciò che chiede una ragazza come Ottilia, un giovane come l'architetto non dovrebbe negarlo. La volta, però, che Ottilia gliene mosse per caso un blando rimprovero, egli seppe addurre giustificazioni abbastanza valide.
“Se sapesse,” le fece, “con quanta rozzezza persino le persone istruite trattano le più preziose opere d'arte, mi perdonerebbe di non aver dato le mie in pasto alla gente. Non c'è uno che tenga le medaglie per il bordo, palpano il conio più fino, il fondo più nitido, fanno scorrere tra il pollice e l'indice i pezzi più pregiati, come fosse la maniera d'accertarne il valore artistico. Senza pensare che un foglio di formato grande va preso con entrambe le mani, abbrancano con una sola l'incisione inestimabile o il disegno insostituibile, né più né meno come farebbe con una gazzetta un politicante presuntuoso, che già con quello sgualcirne la carta lasci intendere il suo giudizio sugli avvenimenti mondiali. Nessuno considera che, se appena venti persone, una dopo l'altra, trattassero così un'opera d'arte, alla ventunesima resterebbe ben poco da vedere.”
“Ma io l'ho mai posta in simile imbarazzo?” chiese Ottilia. “Ho forse, inavvedutamente, danneggiato i suoi tesori?”
“Mai, mai!” rispose l'architetto. “Lei non potrebbe: il bel garbo le è innato.”
“Comunque,” osservò Ottilia, “non sarebbe male, in futuro, che nel galateo, dopo i capitoli sulle buone maniere a tavola, ne inserissero un altro, e con tutti i particolari, su come ci si deve comportare nei musei e con le collezioni.”
“Certamente,” concluse l'architetto, “che allora i custodi e i collezionisti mostrerebbero più di buon grado le loro rarità.”
Ottilia gli aveva perdonato da un pezzo. Ma poiché sembrava assai toccato dal rimprovero e continuava ad assicurare che volentieri esibiva le sue cose, che volentieri s'adoperava per gli amici, intese d'avere ferito il suo animo delicato, e si sentì in debito verso di lui. Di conseguenza non fu in grado d'opporre un rifiuto deciso a una preghiera che egli le rivolse dopo quei discorsi, sebbene, interrogata rapidamente se stessa, non riuscisse a vedere come le fosse possibile esaudire i suoi desideri.
La faccenda andò così. Che Ottilia, per la gelosia di Luciana, fosse rimasta esclusa dai quadri viventi, all'architetto era molto dispiaciuto; che Carlotta, per ragioni di salute, avesse assistito solo saltuariamente a quelle brillanti iniziative della compagnia, pure lo aveva notato con rammarico; a questo punto, non voleva andarsene senza dimostrare anche in tal maniera la sua gratitudine, organizzando, cioè, in onore dell'una e per distrarre l'altra, uno spettacolo ben più bello dei precedenti. Forse, e lui non ne era conscio, c'era pure un altro motivo: gli rincresceva di lasciare quella casa, quella famiglia, gli pareva proprio impossibile separarsi dagli occhi d'Ottilia, dagli sguardi tranquilli e amici che erano stati, negli ultimi tempi, pressocché tutta la sua vita.
S'avvicinavano le feste di Natale, e tutto d'un tratto gli fu chiaro che i quadri viventi, con le varie figure, erano derivati, in realtà, dal presepio, la pia rappresentazione che si dedica, in quel tempo santo, alla Madre divina e al Bambino, colti nella loro apparente umiltà, mentre li venerano dapprima i pastori e poi subito i re.
Aveva indagato col massimo impegno come fosse da realizzarsi un quadro del genere. Un bambino, bello e fresco, s'era trovato; pastori e pastore neanche mancavano; ma senza Ottilia, non c'era da pensarci. Il giovane l'aveva elevata, in cuor suo, a Madre di Dio, e se rifiutava, per lui non c'era dubbio che il progetto sarebbe andato a monte. Ottilia, un po' imbarazzata per la proposta, lo mandò da Carlotta. Costei diede il permesso volentieri, e fu anche merito suo se poterono essere affettuosamente superate le esitazioni d'Ottilia ad arrogarsi quella figura sacra. L'architetto lavorò giorno e notte affinché tutto fosse pronto per la sera della vigilia.
Giorno e notte, nel vero senso della parola. Era già di pochi bisogni, e la presenza d'Ottilia sembrava risarcirlo di qualsiasi privazione. Lavorando per lei era come non dovesse dormire, non dovesse cibarsi. Tutto fu quindi a punto e in ordine, quella sera, per lo spettacolo solenne. Era anche riuscito a procurare diversi strumenti a fiato, bene intonati, che eseguirono un preludio e crearono l'opportuna atmosfera. Quando s'alzò il sipario, Carlotta restò stupefatta. Il quadro che le appariva, l'avevano già riprodotto tante volte nel mondo, che non c'era da aspettarsene un'impressione nuova. Eppure in quel caso la realtà, interpretata a mo' di pittura, offriva vantaggi peculiari. L'intero ambiente era immerso nella notte piuttosto che nel crepuscolo, ma non c'era dettaglio ai margini che non risultasse ben visibile. L'idea straordinaria che tutta la luce venga dal Bambino, l'artista l'aveva realizzata grazie ad un ingegnoso apparato d'illuminazione nascosto dalle figure in primo piano, che erano in ombra e appena rischiarate da lato. Intorno, fanciulle e ragazzi in allegria, i nitidi volti incendiati dal basso, con straordinario risalto. Né mancavano gli angeli, con il loro splendore offuscato da quello divino, con i corpi eterei quasi pesanti e opachi in confronto a quello insieme celeste e umano.
Il Bambino s'era addormentato, per fortuna, in una posa graziosissima, di modo che nulla turbava la contemplazione, e lo sguardo poté indugiare su chi pareva la Madre, in atto di sollevare un velo con dolcezza infinita per mostrare il suo tesoro nascosto. Per un istante, allora, il quadro fu come immobile, fisso. E fu come il popolo attorno, gli occhi abbagliati e l'anima stupefatta, subito dopo prendesse a muoversi, dapprima distogliendo la vista ferita, poi ancora guardando, con curiosità e letizia, e mostrando meraviglia e gioia anziché estasi e venerazione; reazioni che pure non erano state trascurate, e si potevano ritrovare espresse da certi personaggi più anziani.
Ma la figura d'Ottilia, l'atteggiamento, il viso, lo sguardo, superavano tutto ciò che un pittore abbia mai rappresentato. Un conoscitore d'arte, nella sua sensibilità, avrebbe temuto che qualcosa potesse anche solo spostarsi, dubitando che dopo tornasse a piacergli altrettanto. Malauguratamente non c'era là nessuno in grado d'intendere appieno tale effetto. Solo l'architetto che, in veste di pastore, alto e snello, guardava da lato sopra le teste degli inginocchiati, seppe godere sommamente il quadro, quantunque non si trovasse nel punto giusto. E chi potrebbe descrivere il volto di colei che era appena stata scelta a regina del cielo? L'umiltà più pura stava in quei lineamenti, e il senso d'una modestia gentilissima di fronte ad un onore grande e immeritato, ad una felicità incomprensibile, smisurata: tanto vi trovavano espressione e sentimenti personali d'Ottilia, quanto vi si rispecchiava l'idea che si faceva del ruolo che stava rappresentando.
Carlotta godette del bel quadro, ma fu soprattutto il Bambino a colpirla. Gli occhi le si riempirono di lacrime, e le venne alla mente, vivissima, la speranza di tener presto in grembo una creaturina simile.
Per concedere un po' di riposo agli attori e per variare lo spettacolo, avevano abbassato il sipario. L'artista s'era proposto di trasformare la scena notturna, piena d'umiltà, in un'altra diurna, gloriosa, e aveva quindi apprestato un'illuminazione copiosissima da tutti i lati, che venne accesa durante l'intervallo.
Nella sua situazione come di teatro, Ottilia era rimasta sino a quel punto assai tranquilla, giacché nessuno assisteva al pio travestimento, se si eccettua Carlotta e pochi della casa. Fu dunque piuttosto colpita, quando apprese, nell'intervallo, che era arrivato un forestiero, ricevuto cortesemente in salone da Carlotta. Chi fosse, non seppero dirglielo. E lei s'accontentò, per non dare molestia. Il sipario fu alzato, ecco una vista sorprendente per gli spettatori: il quadro era tutto in luce, e invece delle ombre eliminate, restavano solo i colori, che davano, scelti con abilità, un senso di gradevole armonia. Uno sguardo sotto le lunghe ciglia, e notò, seduta accanto a Carlotta, una figura maschile. Non la riconobbe, ma le parve d'udire la voce dell'assistente del collegio. Una strana sensazione la colse. Quante cose erano avvenute, da quando non aveva più sentito la voce di quel bravo insegnante! Come al guizzo d'un lampo, gioie e dolori le sfilarono rapidi innanzi all'anima, e le venne da chiedersi: “Potresti dirgli e confessargli tutto? Sei ben poco degna d'apparirgli in questa veste sacra; e come si stupirà di vederti travestita, lui che ti ha sempre vista naturale!” Sentimento e riflessione, istantanei, contrastavano in lei. Il cuore era angustiato, e gli occhi pieni di lacrime, mentre si faceva forza a restare là immobile, quasi in effigie. E come fu lieta, quando il bimbetto prese a muoversi, e l'artista si vide costretto a dare il segnale che calassero il sipario!
Se ai sentimenti d'Ottilia s'era aggiunta, da ultimo, anche la pena di non poter correre incontro a un buon amico, ora il suo imbarazzo era ancora più grande. Doveva andargli incontro così, in un abito, in un'acconciatura tanto singolare? O doveva cambiarsi? Non indugiò nella scelta, si cambiò, e cercò intanto di controllarsi, di calmarsi. Quando, nelle vesti consuete, poté finalmente salutare l'ospite, era di nuovo in perfetta armonia con se stessa.
In quanto s'augurava ogni bene per chi lo aveva protetto e favorito, l'architetto era lieto, dovendo ormai lasciare le signore, di saperle in compagnia del bravo assistente; ma se pensava alla simpatia dimostratagli, gli riusciva un po' doloroso vedersi sostituito così presto e in modo così valido, anzi perfetto, come pareva alla sua modestia. Aveva indugiato ancora, ma a questo punto si sentì quasi spinto via: almeno non sarebhe stato presente a ciò che, una volta lontano, avrebbe pur dovuto accettare.
Gran conforto a simili malinconie gli venne, al momento di partire, da un regalo delle signore: un panciotto di maglia, al quale le aveva vedute sferruzzare lungamente, invidiando tra sé e sé il fortunato cui lo destinavano. Un dono del genere è il più gradevole che possa toccare a un uomo affezionato e devoto, giacché, mentre rievoca il gioco instancabile delle belle dita, costui non potrà non lusingarsi che anche il cuore, in così incessante lavorio, abbia avuto qualche parte.
Le signore avevano ora un nuovo ospite, assai caro, che desideravano si trovasse a suo agio. Il sesso muliebre serba un suo interesse interiore, immutabile, da cui nulla al mondo può distoglierle; esteriormente, nei rapporti sociali, si lasciano invece guidare volentieri e senza difficoltà dall'uomo del quale s'occupano al momento; e così, col rifiuto e col consenso, ostinandosi e cedendo, tengono di fatto quel governo cui nessun uomo, nel mondo civile, osa sottrarsi.
Se l'architetto s'era sbizzarrito a mostrare le proprie capacità e ad impegnarle per lo svago e gli scopi delle amiche, se lavoro e divertimento erano stati organizzati in quello spirito e con quei propositi, in breve la presenza dell'assistente portò ad un nuovo sistema di vita. La sua gran dote era parlar bene, e conversando sapeva trattare dei rapporti umani, specie in quanto riguardassero l'educazione dei giovani. In tal modo nacque un certo contrasto con gli usi e le pratiche di prima, tanto più che non sempre l'assistente era d'accordo su ciò che era stata, in precedenza, la loro occupazione esclusiva.
Del quadro vivente che lo aveva accolto all'arrivo, non parlò per nulla. Ma quando, soddisfatte, lo portarono a vedere la chiesa, la cappella e le opere relative, non poté nascondere, al proposito, la sua opinione, le sue idee. “Personalmente,” disse, “quest'accostamento, questa mescolanza di sacro e profano, non mi andranno mai a genio, né mi andrà mai a genio che s'impieghino edifici determinati, e si consacrino e s'abbelliscano, per custodire e alimentare soltanto in essi il sentimento religioso. Nessun ambiente, neppure il più scialbo, deve turbare in noi il senso del divino, che ci accompagna ovunque e può trasformare ogni luogo in tempio. Vorrei, magari, che si celebrasse il servizio divino dove si pranza, nel salone dove si conversa, si gioca, si danza. Ciò che di più alto e pregevole sta nell'uomo, non ha forma, e bisogna guardarsi dal dargliene una che non sia il nobile agire.”
Carlotta, che già conosceva in generale i suoi principi e in breve se li era resi familiari, lo avviò subito ad un'attività congeniale, e gli fece sfilare innanzi, nel salone, i piccoli giardinieri, che poco prima, partendo, aveva passato in rivista anche l'architetto; nelle uniformi allegre e pulite, coi movimenti ben regolati e la loro spontanea vivacità, erano uno spettacolo. L'assistente li esaminò in un certo modo, e prestissimo, con qualche domanda e qualche discorsetto, seppe accertare il carattere e le capacità di ciascuno; in meno di un'ora, senza darsene l'aria, aveva impartito un ottimo insegnamento, e conseguito risultati notevoli.
“Ma come fa?” gli disse Carlotta, mentre i ragazzi uscivano. “Sono stata ben attenta: non erano che cose notissime, e tuttavia io non avrei saputo nemmeno da che parte cominciare per esporle così alla svelta e in ordine, con tutte quelle domande e risposte.”
“Forse si dovrebbero tenere i segreti del proprio mestiere,” replicò l'assistente. “Ma non posso nasconderle una regola semplicissima, grazie alla quale si ottengono risultati come questi, e anche migliori. Prenda un argomento, una materia, un concetto, che dir si voglia: non lo perda mai di vista e lo analizzi per bene nei suoi vari aspetti, ed ecco che le riuscirà facile, discorrendo con un gruppo di ragazzi, intendere quanto d'esso costoro abbiano già assimilato, e quanto resti da penetrare o da proporre. Siano pure improprie le risposte che le daranno, divaghino pure: ma se le sue repliche li riporteranno al filo del discorso, se non si lascerà sviare, alla fine i ragazzi dovranno pensare, ragionare e convincersi, alla maniera voluta da chi insegna. L'errore più grande è di farsi trascinare dagli allievi fuori dell'argomento, di non tenersi fissi a ciò che si sta trattando. Provi anche lei, appena sia il caso, e lo troverà molto divertente.”
“Questa è bella!” esclamò Carlotta. “Allora la buona pedagogia è proprio l'opposto della buona educazione. In società non si deve insistere su nulla, mentre la norma fondamentale, quando s'insegna, sarebbe reprimere qualsiasi distrazione.”
“Varietà senza distrazione, sarebbe il più bel motto per la scuola e per la vita, se solo fosse facile durare in quest'encomiabile equilibrio!” rispose l'assistente, e voleva continuare, ma Carlotta lo esortò ad osservare ancora i ragazzi, che in quel momento stavano sfilando festosi per la corte. Egli approvò che s'abituassero i ragazzi all'uniforme. “Gli uomini,” disse, “dovrebbero portare l'uniforme sin da giovani, per avvezzarsi ad operare insieme, a confondersi tra i loro simili, ad ubbidire in massa e a lavorare collettivamente. L'uniforme, quale che sia, favorisce poi un certo senso militare e un contegno più sobrio e rigoroso: i ragazzi nascono tutti già soldati, basta guardare come giocano, battaglie, assalti, scalate.”
“Però non avrà da ridire,” fece Carlotta, “se io non vesto le mie ragazze tutte uguali. Quando gliele presenterò, spero che le piacerà quell'assortimento di colori.”
“Questo lo trovo giustissimo,” rispose. “Le donne devono andar vestite diversamente: ciascuna alla sua maniera, per imparare che cosa le sta bene davvero e le si addice. E c'è un motivo più importante, il fatto cioé che sono destinate a stare tutta la vita sole, e ad agire da sole.”
“Mi sembra un paradosso,” ribatté Carlotta. “Ma se non viviamo quasi mai per noi stesse!”
“Altro che!” replicò l'assistente. “In rapporto alle altre donne, è proprio così. Consideriamo una donna nel ruolo d'amante, di moglie, di padrona di casa e di madre: sempre è sola, e sola vuol restare. Persino le frivole. Ogni donna esclude l'altra, per natura: giacché a ciascuna si richiede quanto è compito dell'intero suo sesso. Per gli uomini, è diverso. Un uomo cerca l'altro; se non lo trovasse, se lo fabbricherebbe. Ma una donna potrebbe vivere un'eternità senza pensare a procurarsi una sua simile.”
“Basta dire la verità in modo strano,” fece Carlotta, “e alla fine anche lo strano sembra vero. Delle sue osservazioni prenderemo ciò che hanno di buono, ma continueremo a stare insieme, donne con donne, e anche ad operare insieme, per non concedere agli uomini troppi vantaggi su di noi. Anzi, lei non ce ne vorrà, se per il futuro saremo tanto più soddisfatte vedendo i signori uomini non andar troppo d'accordo tra loro.”
Col massimo scrupolo quel giovane intelligente s'informò poi dei metodi d'Ottilia nel trattare con le sue piccole allieve, ed espresse al proposito un parere senz'altro positivo. “Fa molto bene,” disse, “ad istruirle solo in cose d'utilità immediata. L'amore per la pulizia spinge i bambini a badare con gioia a se stessi, e una volta che li si è portati a fare ciò che devono con soddisfazione e orgoglio, si è a campo vinto.”
Notò inoltre, con compiacimento, che non s'era mai lavorato per bella mostra, ma sempre per ragioni interiori e in vista di necessità impellenti. “Poche parole,” esclamò, “e si potrebbe dar fondo a tutta questa materia dell'educazione, se qualcuno avesse orecchie per udire!”
“Perché non prova con me?” gli chiese Ottilia, gentile.
“Volentieri!” rispose. “Ma non deve tradirmi. I ragazzi, prepararli come servitori, e le ragazze ad essere buone madri: andrebbe tutto per il giusto verso.”
“Madri, sì,” replicò Ottilia, “questo le femmine possono accettarlo, giacché devono pur imparare a reggere la casa, anche se non avranno figli. Ma quanto a fare i servitori, i nostri giovanotti si tengono per molto meglio, ed è facile vedere che ciascuno di loro si crede più adatto a comandare.”
“Appunto perciò non dobbiamo dirglielo,” concluse l'assistente. Ci si fanno delle illusioni inoltrandosi nella vita, ma la vita non le autorizza. Quanti acconsentirebbero spontaneamente a ciò che, alla fine, dovranno subire? Ma lasciamo questi pensieri, che adesso son fuori luogo!
“La considero fortunata, perché può usare con le sue allieve un metodo che va bene. Se le più piccine giocano con le bambole e cuciono qualche straccetto per vestirle, se le sorelle maggiori provvedono alle minori e la casa si serve e s'aiuta da sé, il passo che resta per entrare nella vita, dopo, non è grande, e una ragazza così trova in casa del marito ciò che ha lasciato dai genitori.
“Ma con le classi colte, è più complicato. Dobbiamo tener conto soprattutto di relazioni sociali, più elevate, più delicate, più fini. Quelli come me, quindi, devono educare pensando alla riuscita esteriore; è necessario, inevitabile, e non sarebbe neanche male, se non si oltrepassasse la misura: preparando gli allievi per una vasta cerchia sociale, avviene infatti facilmente che li si porti fuori d'ogni limite e che si perda di vista proprio quanto richiede la loro intima natura. In ciò consiste, lo si raggiunga o lo si manchi, il compito dell'educatore.
“Per tante cose che insegniamo alle nostre allieve, in collegio, mi dispiace, perché so per esperienza che serviranno ben poco in avvenire. Quanto si getta, quanto cade subito in oblio, appena una ragazza si trova nella condizione di padrona di casa, di madre!
“Eppure, posto che mi son dato a questo mestiere, non so rinunciare a un pio desiderio: che un giorno mi riesca, insieme ad una brava collaboratrice, di far imparare alle mie allieve soltanto ciò di cui avranno bisogno quando entreranno, ormai autonome, nel loro campo d'attività; che io possa dire a me stesso: sotto quest'aspetto, la loro educazione è completa. Certo ne segue poi sempre un'altra, impartitaci, quasi ad ogni anno della nostra vita, se non da noi medesimi, almeno dalle circostanze.”
Come sembrò vera ad Ottilia l'osservazione! Quanto le aveva insegnato, l'anno prima, una passione imprevista! E quali prove si vedeva innanzi, solo che guardasse un po' in là, nell'immediato futuro!
Non a caso il giovanotto aveva accennato a un aiuto, a una moglie: pur con ogni discrezione, non poteva mancare d'alludere, così alla lontana, alle sue intenzioni; certe circostanze e certi fatti, poi, lo avevano incoraggiato, nell'occasione di quella visita, a tentare qualche passo verso la meta.
La direttrice del collegio era attempata, e già da parecchio s'era messa a cercare tra i suoi aiutanti una persona da prendersi accanto; alla fine aveva proposto all'assistente, che a buon diritto godeva della sua fiducia, d'associarsi a lei nella conduzione dell'istituto, e di lavorarvi come in un'impresa propria; alla sua morte le sarebbe succeduto in qualità d'erede e unico proprietario. Punto fondamentale, che si trovasse una moglie adatta. In segreto, il giovane aveva Ottilia davanti agli occhi e in cuore; ma erano sorti dei dubbi, in parte dissipati da eventi favorevoli. Luciana aveva lasciato il collegio, Ottilia poteva tornarvi più agevolmente; della storia con Eduardo, s'era sentito parlare, ma la si era presa, come capita, con indifferenza, anzi, poteva favorire il rientro d'Ottilia. Tuttavia non si sarebbe venuti a una decisione, non si sarebbe fatto alcun passo, senza lo stimolo, anche qui, d'una visita inaspettata: davvero che l'apparire di persone importanti non lascia mai, in qualsiasi ambiente, di portare i suoi frutti!
Il conte e la baronessa, che tante volte - giacché quasi tutti hanno il pensiero dell'educazione dei figli - s'erano sentiti consultare in merito ai vari collegi, s'erano proposti di conoscere specialmente quello, del quale si diceva così bene, e nella loro nuova situazione ormai potevano venire a visitarlo insieme. Ma la baronessa mirava anche ad un altro scopo. Durante l'ultimo soggiorno da Carlotta, aveva discusso con costei, punto per punto, la questione d'Eduardo e Ottilia, insistendo a più riprese perché si allontanasse Ottilia e cercando d'incoraggiare per questa via Carlotta, ancora timorosa delle minacce d'Eduardo. Avevano esaminato le soluzioni possibili, e a proposito del collegio, era venuta fuori anche la simpatia dell'assistente per la ragazza; di modo che, a maggior ragione, la baronessa s'era decisa alla visita in programma.
Arriva, fa conoscenza dell'assistente, vedono l'istituto e si parla d'Ottilia. Anche il conte ne discorre volentieri, dopo averla conosciuta meglio, l'ultima volta al castello. Gli si era avvicinata, s'era anzi sentita attratta verso di lui, parendole di vedere e d'intendere, nella sua conversazione tanto colta, ciò che aveva sino allora ignorato. E come in presenza d'Eduardo dimenticava il mondo, ecco che con il conte il mondo diventava desiderabile. Ogni attrazione è reciproca. Il conte aveva simpatia per Ottilia, e la considerava come una figliola. Anche qui, per la seconda volta, e assai peggio della prima, la baronessa se la trovava sulla propria strada. Chissà cosa avrebbe tramato contro di lei, ai tempi in cui la passione era più impetuosa! Adesso le bastava renderla innocua alle mogli, trovandole un marito.
Senza parere, ma con efficacia, convinse abilmente il giovane a voler arrivare sino al castello, avvicinandosi deciso alla realizzazione dei progetti e dei desideri dei quali non le aveva fatto mistero.
D'accordo con la direttrice, egli intraprese quindi il suo viaggio, e aveva in cuore le più belle speranze. Ottilia non era mal disposta verso di lui, lo sapeva, e anche se tra loro c'era una certa disuguaglianza sociale, con la mentalità moderna si poteva tranquillamente ignorarla; la baronessa, del resto, gli aveva lasciato intendere che la ragazza, in definitiva, era povera. Essere parente d'una famiglia ricca, si suol dire, non giova a nessuno: fosse il più gran patrimonio, ci si farebbe scrupolo di sottrarre una somma rilevante a coloro che, per parentela più prossima, sembrano avere maggiori diritti alla proprietà. Certo è strano che del privilegio di disporre degli averi anche dopo la morte, raramente si faccia uso a vantaggio delle persone più care, e che invece ne siano favoriti, forse per riguardo al ceppo familiare, solo quelli cui le sostanze toccherebbero comunque, indipendentemente dalla volontà del proprietario.
Sentiva, viaggiando, d'essere perfettamente pari a Ottilia. La buona accoglienza che ebbe, aumentò le speranze. È vero che Ottilia con lui non era spontanea come una volta: ma era più matura, più formata, e se si vuole, più disinvolta di quando lui l'aveva conosciuta. Gli sottoposero con fiducia molte faccende, specie quelle pertinenti la sua professione. Ma quando cercava d'avvicinarsi al suo scopo, sempre lo frenava un certo intimo ritegno.
Una volta, però, Carlotta gli diede lo spunto, dicendogli, in presenza d'Ottilia: “Bene, ora che ha esaminato tutti i tesori del mio regno, come trova Ottilia? Può parlare anche se c'è lei.”
L'assistente allora spiegò, con acume e senza ricercatezze, che trovava Ottilia assai cambiata, e in meglio: più disinvolta, più socievole, e come si capiva dagli atti piuttosto che dalle parole, più sicura nel valutare le cose del mondo; lui credeva, però, che le avrebbe giovato parecchio tornare ancora un po' in collegio, per appropriarsi con metodo, a fondo, in modo definitivo, di ciò che il mondo offre solo a pezzi e bocconi, generando confusione anziché appagare, e sovente quand'è già tardi. Non voleva dilungarsi troppo su questo: Ottilia sapeva benissimo da sé che lezioni coerenti aveva dovuto lasciare a suo tempo.
Ottilia non poteva negarlo; ma non poteva confessare quello che provava a tali parole, perché non sapeva spiegarselo lei stessa. Niente al mondo le pareva incoerente, se pensava all'uomo che amava; senza di lui, non capiva che coerenza potesse mai esserci.
Carlotta rispose alla proposta con prudente cordialità. Disse che tanto lei quanto Ottilia desideravano da un pezzo il ritorno in collegio, ma che ora la presenza e l'aiuto d'una amica così cara, per lei era indispensabile; in seguito non si sarebbe opposta, sempre che Ottilia fosse rimasta dell'idea di tornare laggiù per finire gli studi iniziati e completare la formazione interrotta.
L'assistente accolse con gioia la promessa; Ottilia non poté obiettare nulla, benché solo al pensiero le venisse da rabbrividire. Carlotta, invece, pensava a guadagnar tempo; sperava che anzitutto Eduardo, una volta padre felice e ritrovato se stesso, si sarebbe ripresentato; dopo di che, ne era convinta, tutto si sarebbe sistemato, e anche per Ottilia si sarebbe provveduto in qualche maniera.
Dopo che si sono dette cose importanti, sulle quali ognuno ha da riflettere, viene di solito una pausa, non molto dissimile da un generale imbarazzo. Passeggiarono su e giù per il salone, l'assistente aprì dei libri, e gli venne a mano l'in-folio rimasto là dai tempi di Luciana. Quando vide che non c'erano altro che scimmie, lo richiuse subito. Ciò dovette però dar motivo a una conversazione, di cui troviamo traccia nel diario d'Ottilia.
Dal diario d'Ottilia
Come si può avere il coraggio di raffigurare con tanta cura quelle orrende scimmie? Si scade già a vederle come bestie; ma cedere al capriccio di cercare sotto questa maschera persone che si conoscono, è pura malvagità.
Ci vuol proprio una certa stravaganza per occuparsi volentieri di caricature e immagini grottesche. Devo ringraziare il nostro bravo assistente, se non ho avuto il tormento della storia naturale: con vermi e scarafaggi non ho mai potuto fare amicizia.
Adesso mi ha confessato che anche per lui è così. “Della natura,” ha detto, “non dovremmo conoscere altro che ciò che vive accanto a noi. Con gli alberi, che ci fioriscono intorno, e verdeggiano, danno frutti, con ogni cespuglio che sfioriamo passando, con ogni filo d'erba sul quale camminiamo, abbiamo un rapporto reale: essi sono, per noi, autentici compatrioti. Gli uccelli, che saltellano sui nostri rami e cantano tra le nostre foglie, ci appartengono, ci parlano sin da quando eravamo ragazzi, e noi ne impariamo la lingua. Una creatura esotica, strappata dal proprio ambiente - ci si deve chiedere - non fa un'impressione un po' penosa, che s'attenua soltanto con l'abitudine? Ci vuol già una vita variopinta e chiassosa, per sopportare intorno a sé scimmie, pappagalli e mori.”
A volte, quando mi prendevano la curiosità e il desiderio di simili cose avventurose, ho invidiato il viaggiatore, che meraviglie così le vede con altre meraviglie, tutte insieme nella vita quotidiana. Ma anche lui diventa un altro uomo. Nessuno cammina impunemente sotto le palme, e certamente le idee cambiano in un paese dove elefanti e tigri sono di casa.
Solo il naturalista merita stima, che sa descriverci e rappresentarci le cose più strane, esotiche, ciascuna nel suo luogo, nel suo ambiente, nell'elemento suo peculiare. Come mi piacerebbe sentire raccontare Humboldt, anche una volta sola!
Un gabinetto di storia naturale può apparirci come un sepolcro egizio, dove i diversi idoli - animali e piante - stanno tutt'intorno imbalsamati. S'addice a una casta sacerdotale occuparsene, in una penombra misteriosa; ma nell'istruzione corrente, nulla del genere dovrebbe intervenire, tanto più che in tal modo si corre il rischio di trascurare cose più concrete e importanti.
Un insegnante capace di commuoverci per un unico gesto di bontà, per un'unica bella poesia, fa più di un altro che ci proponga sterminate classificazioni, secondo la forma e il nome, di esseri naturali dei gradini più bassi: il risultato di tutto ciò, infatti, è qualcosa che sapevamo già, cioè che l'immagine dell'uomo è la sola che abbia somiglianza, nel modo più egregio, con quella di Dio.