Capitolo cinque

Imparare dai maestri (della letteratura)

I nostri maggiori monumenti letterari in prosa sono il Decamerone di Giovanni Boccaccio e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, lettura obbligata per ogni studente della scuola media superiore. Sarà coincidenza o sarà la suggestione romanzesca che suscita una grande epidemia, sta di fatto che in entrambi la peste fa da sfondo alle rispettive narrazioni. Certo, la peste non è il coronavirus ma, come vedremo nel capitolo seguente, le epidemie si somigliano tutte sotto l’aspetto dell’insorgenza, della progressione, del declino e infine del termine del contagio. Quello che cambia sono solo due parametri: la trasmissibilità (o contagiosità) dell’infezione e la letalità della malattia.

La trasmissibilità è espressa dal numero di individui sani (ma non immuni) che, in media, vengono contagiati da un individuo malato, in assenza di precauzioni. Il coronavirus ha un coefficiente di trasmissibilità biologica (il famoso R0) stimato intorno a 2,5: quattro individui malati ne infettano in media dieci sani. Per fare un confronto, il morbillo – contagiosissimo – ha un coefficiente valutato tra 12 e 18 circa. Il coefficiente dell’influenza stagionale è invece la metà di quello del coronavirus.

La letalità, che non va assolutamente confusa con la mortalità, corrisponde al numero di morti tra coloro che si erano ammalati. La letalità ci dice quanto è grave una malattia, particolarmente una malattia infettiva, mentre la mortalità indica il numero di morti per una determinata malattia in rapporto alla popolazione complessiva di un certo paese. La mortalità in Cina è stata bassissima perché la popolazione è di quasi un miliardo e mezzo di persone, a fronte di circa 3000 decessi da coronavirus. In Italia, invece, la mortalità risulterà necessariamente più alta che in Cina, perché qui siamo poco più di sessanta milioni, cioè appena il 4% dei cinesi. Quindi, anche se avessimo lo stesso numero di decessi che in Cina, la mortalità cinese sarebbe il 4% della nostra. Diverso discorso va fatto per la letalità che, come abbiamo visto, si misura in rapporto al numero complessivo degli ammalati di una certa patologia.

Si è molto discusso sul motivo per cui questo valore risultasse più alto in Italia che in Cina. Ci possono essere varie spiegazioni, forse concomitanti. La prima è che l’età media in Italia è più alta che in Cina e l’età è un fattore che predispone a complicanze, perché generalmente il fisico di un giovane è più sano. Poi la percentuale viene calcolata come rapporto tra i decessi e il numero di positivi al test per il coronavirus (il tampone). Se i test non sono generalizzati, ma mirati solo a quella frazione della popolazione sospettata – per qualche motivo – di aver contratto la malattia, probabilmente molti contagiati sfuggiranno al controllo e, di conseguenza, risulterà che i malati siano in numero inferiore a quelli effettivi. Invece le cause del decesso sono quasi sempre certe. Il rapporto tra il numero (attendibile) dei decessi e il numero (sottostimato) dei malati fornirà così una percentuale più alta. Inoltre, la possibilità che il virus sia mutato, e quindi più aggressivo in Italia di quanto non fosse in Cina, non si può escludere del tutto, perché durante la replicazione il virus cambia un po’ alla volta e il capostipite non è mai esattamente uguale ai suoi discendenti. Tuttavia, i dati provenienti dagli altri paesi sono più vicini a quelli della Cina e quindi le due ipotesi precedenti sembrano più plausibili.

Premesso quali sono i due parametri rilevanti, ovvero la contagiosità e la letalità, l’evoluzione delle epidemie e le loro caratteristiche salienti sono universali e possono quindi essere confrontate. In particolare, possiamo istituire un parallelo tra l’epidemia attuale e quelle di peste descritte nel Decamerone e nei Promessi sposi.

La peste è una malattia infettiva di origine batterica trasmessa dal morso di pulci, parassiti di topi infetti, che fungevano da vettore. Una volta passato all’uomo, il batterio si propagava principalmente per contatto tra soggetti sani e soggetti malati. Il coronavirus invece è una malattia di natura virale e sembra ormai accertato che il contagio sia stato innescato dal contatto con un pipistrello infetto nel mercato di Wuhan. Passato dall’animale all’uomo, ha in seguito iniziato a trasmettersi da uomo a uomo per via respiratoria attraverso lo scambio di fluidi che avviene, ad esempio, con colpi di tosse e starnuti, proprio come succede con la comune influenza.

Indipendentemente dalla modalità di innesco del processo epidemico e dalla sua natura batterica o virale, l’epidemia si propaga seguendo una legge universale. Perfino la contagiosità e la letalità sono poco rilevanti: se sono alte, la progressione dell’epidemia è più veloce; se sono basse, è più lenta, ma le caratteristiche generali sono le stesse. È come avere due automobili, una di piccola e una di grande cilindrata, che percorrono la stessa strada. Quella di grande cilindrata sarà più potente e veloce, per cui coprirà il tragitto in un tempo inferiore. Però il percorso sarà lo stesso: incontreranno gli stessi semafori, le stesse stazioni di rifornimento, gli stessi viadotti.

Questo per quanto riguarda l’evoluzione spontanea dell’epidemia, cioè in assenza di mezzi di contrasto. Se esistessero un vaccino o farmaci specifici (antibiotici per i batteri e antivirali per i virus), l’epidemia potrebbe essere soffocata sul nascere. Ma in loro assenza l’epidemia evolve secondo le modalità che spiegherò nel capitolo seguente.

Quest’ultimo caso – la progressione incontrastata di un’epidemia – è proprio ciò che accomuna la peste di Boccaccio e Manzoni all’epidemia di coronavirus attuale. Ai tempi di Boccaccio, che narra fatti a lui contemporanei, e dei protagonisti del romanzo di Manzoni, ambientato nel triennio 1628-1630, non si conoscevano farmaci efficaci contro la peste. Disgraziatamente, nonostante gli enormi progressi della medicina e della biologia, ci troviamo oggi nella stessa condizione nei confronti del coronavirus: è una malattia nuova e al momento non esistono metodi di prevenzione o di cura.

E allora cosa si può fare? L’unico modo per prevenire, o almeno contenere, la diffusione del contagio è quello che ora viene definito «social distancing», tradotto pedissequamente con «distanziamento sociale»: ognuno a casina sua e, quando per un motivo qualunque ci incontriamo, niente baci o abbracci, ma solo saluti a distanza – ad almeno un metro e mezzo di distanza! –, cioè al di fuori della gittata delle goccioline che emettiamo normalmente durante la respirazione e che trasportano i virus.

Ma è davvero una novità?

Leggiamo l’introduzione alla giornata prima del Decamerone, in cui Boccaccio giustifica l’espediente da cui prende spunto il Decamerone stesso.

È il 1348, «quando nell’egregia città di Firenze, [...], pervenne la mortifera pestilenza». Una mattina, mentre l’epidemia infuria in città, al punto che Firenze si mostra «d’abitatori quasi vòta», sette giovani donne si ritrovarono «nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella» (e lì incontrarono tre giovani uomini).

La più grande e saggia di loro, Pampìnea, riunite le compagne, condivide una sua osservazione: le case e, di conseguenza, gli abitanti sono più «radi» nel contado che in città e quindi, per evitare il contatto, è opportuno trasferirsi lì. Pampinea propone il «social distancing» oltre sei secoli prima di Conte! Ma, allora come oggi, stare segregati è faticoso, per quanto necessario. I dieci ragazzi, non avendo Netflix, né Skype o YouTube, decidono di ingannare il tempo raccontandosi a turno dieci novelle al giorno, per dieci giorni. Ed ecco che nasce il Decamerone.

Circa trecento anni dopo, all’epoca di Renzo e Lucia, quali nuovi metodi erano stati escogitati per contrastare l’epidemia? Riprendiamo il venerabile «mattone» e cerchiamo di scoprirlo insieme.

Come inevitabile, la maggior parte dei personaggi principali contrae la peste. Vengono contagiati Renzo, Lucia, don Abbondio, Perpetua, fra Cristoforo, don Rodrigo, il conte Attilio, il Griso e tanti altri. Muoiono tutti, tranne don Abbondio, Renzo e Lucia. Più che un caso fortunato, una necessità narrativa per ribadire la propria fede in quella Provvidenza che conduce infallibilmente a sicuro porto. Senza lieto fine, niente morale dei Promessi sposi... Sì, ok, ma manca qualcuno. Agnese, la mamma amorevole di Lucia, e mamma adottiva di Renzo, dov’è? È l’unica, tra i personaggi maggiori, di cui si dice espressamente che si è salvata dall’infezione. E come ha fatto? Semplice, mentre la peste infuriava, e gli altri si esponevano al contagio, lei praticava il «social distancing». Stava a Pasturo, suo paese di origine, chiusa in casa a doppia mandata. E, su consiglio di Renzo, segue le prescrizioni del DPCM in ogni aspetto. Infatti quando Renzo la va a trovare, le sconsiglia di accoglierlo in casa, dal momento che lui è ormai immune, essendo guarito, ma potrebbe essere veicolo di infezione per lei, attraverso gli abiti, gli stessi che sono stati fatali al Griso quando ha frugato gli indumenti di don Rodrigo appestato, dopo averlo consegnato ai monatti. Renzo dice infatti ad Agnese: «Vengo da Milano; e, sentirete, sono proprio stato nel contagio fino agli occhi. È vero che mi son mutato tutto da capo a piedi; ma l’è una porcheria che s’attacca». Quindi le propone di parlare stando all’aperto, per non contaminare accidentalmente gli ambienti interni della casa: «Andiamo in qualche luogo all’aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo». E lì si abbracceranno? Manco per niente. «Agnese gl’indicò un orto ch’era dietro alla casa; e soggiunse: ’entrate lì, e vedrete che c’è due panche, l’una in faccia all’altra, che paion messe apposta. Io vengo subito’.» E così la cara vecchina scampa il contagio e accompagna i fidanzati, ormai sposi a Bergamo, dove, dopo tante calamità, il mandato di cattura, la guerra e la peste, finisce tutto a tarallucci e vino.

Ma gli spunti di riflessione che questi capolavori letterari ci offrono per decifrare lo stato attuale non sono finiti, possiamo trovarne molti altri. Al termine dell’epidemia, una volta cessati i contagi, resta un timore: e se il virus mutasse? Se, nel corso delle sue replicazioni, il coronavirus modificasse le sue caratteristiche? Lo sviluppo di un nuovo ceppo è un’ipotesi avanzata solo in età moderna dagli infettivologi? Leggiamo ancora il Decamerone. Boccaccio osserva che la peste di Firenze ha tratti diversi da quelli descritti dai medici gli anni precedenti, quando l’epidemia aveva investito i paesi dell’Est Europeo: «E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femmine parimente, o nell’anguinaia [l’inguine] o sotto le ditella [ascelle] certe enfiature [bubboni], delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo». Anche il batterio della peste era mutato. I sintomi delle due epidemie, quella orientale e quella occidentale, erano diversi, benché la malattia fosse quasi la stessa.

E cosa dire della fioritura di esperti che invadono oggi i social network, esponendo le loro stravaganti teorie, sentenziando sulle cause del contagio o prescrivendo le loro ricette e le loro terapie? Nihil sub sole novum. Un film già visto, dallo stesso Boccaccio, che lamenta proprio l’ignoranza di medici improvvisati, dei quali «senza avere alcuna dottrina di medicina avuta mai, era il numero divenuto grandissimo».

Ma, tornando al Manzoni, è nei Promessi sposi, è nei capitoli XXX, XXXI e XXXIV che rintracciamo molte altre curiose analogie con lo stato attuale. Ecco otto paralleli tra la situazione di Milano nel 1630 e quella di oggi, a Milano e altrove.

 

1. Il coronavirus è stato sottovalutato all’inizio. Si diceva che fosse una normale influenza, che non era il caso di fare tanto baccano, che sarebbe passato senza che quasi ce ne accorgessimo, che chi ne parlava alimentava timori ingiustificati ed era perfino passibile dell’accusa di procurato allarme. Poi, in pochi giorni, i governatori di tre regioni sono risultati positivi al test e le cose sono drasticamente cambiate. Proprio come allora: «Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccare persone più conosciute.»

 

2. E che dire delle «zone rosse», istituite per impedire alle persone di entrare e uscire dai luoghi infetti? Manzoni ci riferisce quello che riportava un grande archiatra, un luminare della medicina del suo tempo, Alessandro Tadino. Il Tribunale di Sanità, l’istituzione preposta alla tutela della salute pubblica, una specie del nostro Ministero della Salute, «si dispose [...] a prescriver le bullette, [i documenti, i decreti], per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato».

 

3. Poi c’è la questione dei costi ingenti dovuti sia alle necessità sanitarie, sia alla flessione dell’economia bloccata dalle misure di isolamento. Si dovranno continuare a pagare le tasse? Chi dovrà sostenere le spese? La risposta attuale è lo Stato. E a quel tempo invece? Cosa dice il Manzoni? »[...] le spese della peste dovevan essere a carico del fisco [...] non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera [...].»

 

4. E l’obbligo di dimora? Certo, i metodi di allora erano più drastici, ma il concetto non molto diverso. Gli ammalati devono restare a casa. A tutti i costi! «[...] il tribunale suddetto [...]affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate», ovvero sottoposte a quarantena.

 

5. Da Milano ci sono arrivate le immagini di gente che ancora si accalcava sulle sponde dei navigli, anche dopo che la notizia del contagio era stata divulgata. Negli stessi luoghi, circa quattrocento anni prima, altra gente si radunò per portare in processione le spoglie di san Carlo, il protettore di Milano contro la peste. Lo scopo quella volta non era la movida, ma in entrambi i casi l’assembramento ha il medesimo effetto, quello di favorire la trasmissione della malattia. Anche se non nelle stesse proporzioni, per nostra fortuna: «La processione passò per tutti i quartieri della città [...] Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto [il ricovero degli appestati], al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila.»

 

7. Durante l’epidemia, scarseggiando disinfettanti e mascherine, la cui produzione ordinaria non può soddisfare la grande richiesta improvvisa e sempre crescente, la gente si ingegna in modo fantasioso e a volte stravagante per pulire gli ambienti e per proteggersi. Nascono così i rimedi fai-da-te come aceto e bicarbonato mescolati per detergere a fondo! Peccato, però, che aceto e bicarbonato abbiano azioni antagoniste e, seppure presi separatamente avrebbero un qualche blando effetto sul virus, uniti si annullano a vicenda. E in mancanza di mascherine? Niente paura, usiamo la carta da forno, la carta oleata, la stoffa dei blue jeans e perfino ritagli del velo dell’abito da sposa (true story). I personaggi manzoniani non sono da meno: »pasticche odorose, o palle di metallo o di legno traforate, con dentro spugne inzuppate d’aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. Portavano alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po’ d’argento vivo, persuasi che avesse la virtù d’assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni».

 

8. In molti tendono a eccedere con le pur sacrosante norme di pulizia, non attenendosi ai consigli degli esperti. E così lavano forsennatamente mani, oggetti e superfici, trascurando il fatto che il virus non aleggia nell’aria e che, se non sono loro a portarlo dentro casa, non ci può arrivare da solo. Ma il timore di contaminazione è grande e si vedono insidie ovunque, sulla busta della spesa, sotto la suola delle scarpe, sugli abiti indossati. Intendiamoci, le giuste precauzioni sono doverose, ma non dovrebbero diventare paranoie. Come oggi, così il Manzoni riferisce in quale modo allora si cadde negli eccessi opposti, prima sottovalutando il pericolo e poi abbandonandosi al panico del contagio. La gente cominciò a nutrire paure ingiustificate, e per strada seguiva percorsi tortuosi «per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso buttate da quelle [le finestre] su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. Così l’ignoranza [...] aggiungeva ora angustie all’angustie, e dava falsi terrori, in compenso de’ ragionevoli e salutari che aveva levati da principio».

 

9. Stravaganti e visionari non mancano mai, ora come allora: quelli che cercano correlazioni occulte, che vogliono creare collegamenti audaci tra ambiti completamente estranei l’uno all’altro, quelli che capiscono ciò che a esperti e specialisti era sfuggito, perché li giudicano troppo miopi e ripiegati sulla loro scienza per saper allargare lo sguardo e cogliere il nesso intimo che unisce sfere solo apparentemente distanti. Come il perspicace don Ferrante, che aveva ben compreso la «vera cagione» della peste, dovuta certamente alla «fatale congiunzione di Saturno con Giove». Ogni precauzione per scansare il contagio, diceva, era vana, perché non avrebbe mai potuto «impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti!»

Credete che manchino i donferranti ai giorni nostri? E allora andate a leggere nei blog di quelli che hanno scoperto cosa accomuna davvero la provincia di Hubei, la Lombardia, la città di New York e gli altri posti dove divampa il contagio. È la presenza della rete di telefonia mobile 5G! Le onde elettromagnetiche emesse dalle antenne indeboliscono il sistema immunitario, rendendolo preda del virus. Almeno questi, a differenza di don Ferrante, hanno scientificamente identificato l’effetto virtuale che favorisce il contagio. Il segnale telefonico...

 

Ho riportato tutte queste similitudini letterarie non solo per concederci una digressione narrativa in un opuscolo tecnico, ma anche per ricordare a tutti noi che, in fondo, le reazioni dei singoli individui e della società sono simili nel corso della storia. Quindi abbiamo tanto da imparare rileggendo il nostro passato e, in questo caso particolare, per trovare l’accurata descrizione di un’epidemia, non dobbiamo neanche andare lontano, attingendo a Tucidide o Lucrezio (per quanto sia interessante e istruttivo). Quello che occorre ce l’abbiamo in casa. Basta recuperare i libri di testo principali della nostra prosa letteraria e, anche se non ci troveremo tutte le risposte, scorgeremo, come in uno specchio, il riflesso delle nostre angosce e delle nostre speranze.