Capitolo tre

Conosciamo il coronavirus

Il coronavirus si chiama così quasi per sbaglio. Un po’ come le costellazioni, che in alcuni (rari) casi somigliano davvero al nome che è stato loro attribuito. L’Orsa Maggiore non sembra affatto un’Orsa, ma è anche chiamata Grande Carro, e con questa immagine in effetti ha qualche somiglianza. Infatti guardando le sette stelle che la compongono si intravede – con po’ di fantasia – la forma del telaio di un carretto col manico. Eppure è solo un’illusione data dalla prospettiva, lo stesso trucco che sfrutta chi si fa scattare una foto mentre finge di tenere sul palmo della mano la Torre di Pisa, o la Tour Eiffel, o di tenere il sole chiuso in un barattolo. Per effetto prospettico, oggetti che si trovano su piani diversi appaiono schiacciati come se giacessero tutti sullo spesso piano. Questo è anche il caso del coronavirus.

Il coronavirus è così chiamato perché la sua forma vista al microscopio ricorda una corona, magari di spine. Ma non al microscopio ottico, quello di Pasteur e delle scatole del Piccolo Chimico, perché la luce non riesce a individuarlo e a mostrarcelo. Per osservarlo serve un microscopio molto più potente, quello elettronico, che riesce a vedere perfino piccoli aggregati di atomi. Però al microscopio elettronico non appare la vera forma del virus, bensì la sua sezione. E, in sezione, il coronavirus sembra proprio un cerchio con delle escrescenze, che ricorda una corona. In realtà, come abbiamo visto nelle ricostruzioni (artistiche) tridimensionali, il coronavirus è una sfera con delle protuberanze, quindi somiglia più a una mazza ferrata medioevale, che alla corona di un re. E naturalmente non è affatto colorato come ce lo mostrano: non potendo riflettere la luce, non ha alcun colore.

Per capire quanto sia piccolo un coronavirus, e un virus in generale, immaginate che ne abbia uno sulla camicia e che mi scattino una fotografia ad altissima definizione, così alta che si possa ingrandire a piacere, senza che l’immagine si sgrani. La domanda è: se immaginiamo di ingrandirla sempre di più, sempre di più, sempre di più, finché il coronavirus abbia raggiunto le dimensioni di un palloncino di gomma, in questa enorme gigantografia, quanto sarei diventato alto io? Ovvero, nella scala in cui un coronavirus sia grande come un palloncino, il mio metro e ottanta di altezza a quanto corrisponderebbe? È una domanda che ho fatto ai conduttori dei programmi televisivi a cui ho partecipato in questo periodo. Alcuni azzardavano «quanto un grattacielo», «quanto una montagna», uno che si sentiva particolarmente audace «quanto l’altezza delle stratosfera» (ovvero 40 chilometri). Voi conoscete la risposta? Pensateci un attimo.

La dimensione effettiva del coronavirus è un decimillesimo di millimetro (la millesima parte della sezione di un capello). Quando il virus ha raggiunto 30 centimetri di diametro, significa che è stato ingrandito 3 milioni di volte. Quindi anche io sarei alto 3 milioni di volte la mia altezza di partenza: 3 milioni di volte un metro e ottanta fa circa seimila chilometri, ovvero poco meno del raggio della terra. E siccome la circonferenza ci ricordiamo tutti che misura 2π per il raggio (cioè circa sei volte il raggio), io con sette passi potrei fare il giro del mondo!

Ora che lo abbiamo inquadrato bene, vediamo come è fatto in dettaglio.

Il coronavirus è uno di quelli che vanno in giro ben coperti. I virus più dimessi hanno solo il guscio che contiene il corredo genetico. I più sofisticati, invece, hanno uno strato esterno che racchiude a sua volta il guscio. Immaginate una noce. Quando è ancora attaccata all’albero, è contenuta in un involucro verde e morbido, il mallo, che si apre e lascia cadere la noce. Il coronavirus è fatto in modo analogo. L’involucro è composto principalmente di materia grassa, una membrana lipidica. Questo è il suo tallone di Achille, che può essere sfruttato a nostro vantaggio e su cui ritornerò nel capitolo della disinfezione.

Dall’involucro esterno fuoriescono le spine, che sono lo strumento con cui il virus inganna le cellule che vuole infettare. Grazie a queste escrescenze, infatti, il virus aggancia la cellula bersaglio e la convince ad aprirgli la porta. Il trucco è vecchio come il mondo, far finta di essere qualcun altro. In natura esistono innumerevoli esempi di prede che si camuffano per sfuggire ai predatori, ma anche di predatori che ricorrono all’inganno per circuire le loro prede. La rana pescatrice prende il nome dal suo tipico modo di predazione: ha un filamento che le spunta dalla testa, sporge sopra gli occhi e termina con un’appendice apparentemente carnosa. Quando il pesce ignaro si avvicina, scambiandola per un vermetto, la rana pescatrice fa un balzo e lo inghiotte. In altri casi non è la vista, il senso che viene ingannato: alcuni insetti chiamati reduvidi si cibano di ragni. Entrano nella ragnatela e iniziano ad agitarla, simulando le contorsioni di una preda catturata. Il ragno arriva pregustando il banchetto ma, dalla lista dei commensali, finisce sul menù.

Il coronavirus sfrutta invece una forma di «mimetismo chimico». Anche questo esiste in natura, lo usano i ragni del genere Mastophora, che cacciano le falene e hanno elaborato una strategia alternativa a quella di tessere la tela. Emettono infatti sostanze chimiche affini ai feromoni secreti dalla femmina di falena. Il maschio, attirato, si avvicina per l’accoppiamento ed è sopraffatto dal ragno. Anche nel mondo vegetale si verificano casi analoghi, non per la predazione, ma per l’impollinazione. Alcuni fiori, ad esempio certe specie di orchidee, rilasciano effluvi attraenti per i maschi delle api che, sedotti, si posano all’interno del calice del fiore e vengono ricoperti di polline.

La tecnica del coronavirus per entrare nella cellula attraversandone la parete esterna consiste nel fingere che le sue protuberanze siano una particolare proteina necessaria al metabolismo della cellula stessa.

Quando il coronavirus si avvicina a una cellula polmonare, alcune delle sue spine vengono agganciate dai recettori presenti sulla superficie cellulare. Il meccanismo ricorda quello del velcro. Da una parte ci sono i ganci, dall’altra i cappi. Se un gancio si avvicina alla parte ricoperta di cappi, resta impigliato. La connessione delle spine del coronavirus coi recettori della parete cellulare è un fenomeno simile, ma causato, anziché da un’affinità meccanica, da un’affinità chimica, ovvero dall’affinità dei recettori cellulari con la proteina che è contraffatta dalla spina...

Dopo la fase di agganciamento e riconoscimento il coronavirus, scambiato per la proteina desiderata, viene ammesso all’interno della cellula attraverso un’apertura nella parete che la cellula stessa provvede a praticare. Il virus a questo punto è come il Cavallo di Troia, per il quale è fatta appositamente una breccia nelle mura difensive, con l’ulteriore vantaggio di non dover vincere l’opposizione di Laocoonte o ricorrere all’intervento di Sinone.

Una volta dentro la cellula, come dal Cavallo uscivano guerrieri, dal coronavirus esce il materiale genetico che, come abbiamo visto, prende il controllo del macchinario di replicazione della cellula e la costringe a produrre migliaia di esemplari identici al virus originale, come una fotocopiatrice impazzita. A questo punto lo sciame dei guastatori invade l’organismo, per continuare il proprio ciclo infettivo. Alla cellula, ingannata e lesa, non resta altro che fare come gli antichi samurai in circostanze simili: harakiri, che in questo caso viene detto «apoptosi».