EPILOGO

Passarono molti anni durante i quali Flavus divenne cittadino romano e raggiunse i più alti gradi dell’esercito, ma non riuscì mai a sapere dove fosse suo nipote Tumlich, il figlio di Arminius, né osò mai chiederlo. Seppe soltanto che Thusnelda era morta.

Pensò che un giorno o forse una notte sarebbe riapparso l’hermundur a indicargli la strada, ma attese invano. Forse era morto in combattimento nei frequenti scontri fra le tribù germaniche o forse era semplicemente scomparso; forse era solo uno spettro, una coscienza comune e misteriosa che aveva con suo fratello.

Fu un sogno a risvegliare la memoria di Flavus, un sogno in cui era solo in un luogo che non aveva mai visto prima, un edificio a forma di anello tutto di legno, con la voce di un ausiliario germanico che diceva: «È una scuola di gladiatori». Lui si girava da un’altra parte sentendo un rumore di galoppo, e vedeva un cavaliere biondo uscire dalla nebbia su uno stallone nero che soffiava dalle froge nubi di vapore. Poi il cavaliere spariva.

Richiamare quell’immagine era come guardarsi allo specchio per la prima volta. Era lui il cavaliere biondo sullo stallone nero e dunque era venuto il momento di ricongiungere la sua persona all’immagine del sogno.

Tornò una notte nel luogo segreto in cui aveva sepolto l’urna con le ceneri di suo fratello Arminius. La dissotterrò e la mise nella sacca che conteneva le sue cose personali per un lungo viaggio.

Passò prima dal quartier generale dell’armata del settentrione, sul far dell’alba, a salutare il centurione Marco Celio detto Tauro, scolpito su una tomba vuota, ma presente.

«Salve, centurione.»

«Buon viaggio, ragazzo.» Sentì risuonare dentro di sé una voce rauca. E mentre si allontanava gli pareva di udire una vecchia canzone legionaria che non gli era mai riuscito di imparare bene:

Miles meus contubernalis

Dic mihi cras quis erit vivus

Jacta pilum hostem neca

Miles sum, miles romanus.

Viaggiò per giorni e notti, instancabile, attraversò le Alpi dallo stesso valico da cui era transitato assieme ad Arminius e vide la vecchia che lo aveva curato con il suo unguento. Quanti anni aveva, cento? Scese verso il grande lago a meridione e pernottò nella mansio dove aveva incontrato Iole: dov’è Iole? Quale Iole? Una puttana? Non c’è mai stata qui alcuna Iole. Se per caso la vedete datele questo braccialetto, vi prego.

Aveva sorriso, l’oste.

La sua meta era Ravenna, il grande bacino dove era entrata l’Aquila Maris, l’immensa pentera che lo aveva riempito di stupore. Trovò la città avvolta in una fitta nebbia e sentì che si stava avvicinando all’immagine del sogno. Spronò il cavallo al galoppo e udì il rullo degli zoccoli, e come davanti a uno specchio si vide sbucare in un attimo dalla nebbia e sentì che doveva fermarsi.

Aveva davanti a sé l’edificio a forma di anello, tutto di legno.

Aspettò che facesse giorno.

Un servitore uscì da una delle arcate con una bisaccia a tracolla. Uno schiavo, forse, che andava al mercato. Prese dalla sella l’elmo e lo indossò.

«Vorrei sapere quando apre la scuola.»

«Nessuno può assistere agli allenamenti.»

«Io sì. Sono comandante della Ventesima legione e posso andare dove mi pare.»

«Chiedo perdono, legato. Certamente. Gli allenamenti cominciano dopo colazione. Puoi entrare quando vuoi. Parlerò io con il responsabile della scuola.»

Flavus attese un poco e approfittò di un locale che apriva poco distante per bere qualcosa di caldo. Quando il servo tornò con la spesa, prese la sacca dal cavallo e gli andò dietro.

Giunti all’ingresso della cavea, il servo gli indicò la via per il sesto ordine di sedili, il migliore, e lui andò a sedersi.

Nella tribuna di fronte apparvero dopo un poco il lanista, l’allenatore e, accanto a lui, il servo. Gli indicava l’ospite inatteso che sedeva tutto solo sul sesto ordine.

Si batterono tre coppie a eliminazione con armi da allenamento e alla fine ne rimase solo uno: il più bello, il più forte, il più violento.

«È lui» disse fra sé, «è uguale.»

Chiese al lanista di incontrare il ragazzo in privato.

«Non è in cessione, legato, neanche per un ufficiale del tuo rango.»

«Lo so» rispose Flavus.

Il lanista accennò con il capo e lo condusse in un ambiente delle palestre. Fece venire il ragazzo ancora coperto di polvere e di sudore. Chiuse la porta e se ne andò.

Flavus si tolse l’elmo mostrando la chioma bionda che gli aveva dato il nome e l’occhio sinistro coperto da una benda di cuoio. «Sono tuo zio Wulf-Flavus» disse mentre estraeva un cofanetto di avorio dalla sacca. «E qui ci sono le ceneri di tuo padre, Armin, il primo condottiero di tutti i Germani. Ha commesso molti errori, ma ha perso la vita per aver voluto la libertà e l’unità del suo paese e del suo popolo, e ti ha amato infinitamente pur senza averti mai visto. Non dimenticarlo finché vivi.»

Il giovane lo fissò con gli occhi lucidi, senza riuscire a proferire parola. Prese l’urna e la strinse al petto.

«Addio, ragazzo.»

«Addio, comandante.»

Flavus uscì con un groppo alla gola per la prima volta nella sua vita. Balzò sul suo stallone e lo lanciò al galoppo.

Sparì nella nebbia.