XXVIII

Arminius proseguì verso il luogo segreto in cui incontrava Thusnelda e passò la notte con lei. Ma non fu solo una notte d’amore e di fuoco; fu anche una notte triste, benché il cielo fosse limpido e pieno di stelle. Le confidò le sue speranze e anche i timori che l’ostilità di Seghest gli procurava. Avrebbe voluto averlo dalla sua parte perché lo stimava e ne apprezzava la forza, il coraggio, l’ascendente che aveva sulla sua gente.

«A Teutoburgo tuo padre non c’era...»

«Lo so. Il popolo voleva assolutamente aderire alla coalizione, ma ha prevalso la sua volontà. È un uomo inflessibile.»

«Non puoi fare qualcosa per convincerlo?»

«Se lo incontrassi mi porterebbe via con sé e non ti vedrei mai più.»

«Sono tormentato dai dubbi. Dopo Teutoburgo pensavo che tutti i nostri popoli avrebbero aderito al mio progetto di unità per costruire una sola grande nazione. Ma mi accorgo soltanto adesso che di questa nazione non esiste nemmeno il nome. Io devo fare in modo che la nostra vittoria sia un inizio e non una fine. Però, se i Romani si fermeranno al Rhein verrà meno il motivo per stare uniti. Riprenderemo a combattere fra di noi.

Devo sapere che intenzioni hanno. Sto creando un sistema per conoscere ciò che fanno e ciò che pensano. Uomini che hanno occhi e orecchie dappertutto. L’ho imparato da loro.»

Non aveva finito di parlare che si udì il rumore di un galoppo che si avvicinava veloce. Uscì all’aperto ad accogliere l’uomo che balzava a terra.

«Germanico ha scatenato l’attacco oltre il Rhein.»

«Non è possibile. Le legioni sono ancora agitate dalle turbolenze della ribellione.»

«È successo tre notti fa. Germanico ha fatto loro capire che quello era il modo di riscattarsi e mostrare la loro fedeltà all’imperatore. Sono partiti dalle fortezze costruite o restaurate da Tiberio, quelle stesse che tu hai attaccato...»

«Senza successo... Vai avanti.»

«Sono piombati sui Marsi, che avevano appena celebrato la festa della primavera, e li hanno massacrati: uomini ancora mezzo ubriachi, vecchi, donne e bambini. Hanno devastato un territorio largo cinquanta miglia e ora stanno rientrando attraverso la foresta.»

«Bisogna attaccarli adesso, finché sono nel bosco. Andiamo.»

«La reazione è già in corso. Bructeri, Usipeti e Tubanti gli sono già addosso.»

«Deve essere un’altra Teutoburgo!» gridò Arminius, e ripartì con il messaggero senza aspettare un attimo.

Thusnelda li vide sparire in un lampo. Restò a guardare il cielo limpido e pieno di stelle con il cuore pesante.

Arrivarono all’alba a prendere contatto con i guerrieri delle tribù che avevano deciso di reagire e i capi tennero consiglio, ma senza invitare Arminius ad assumere il comando.

«Come pensate di portare l’attacco?» domandò.

Il capo usipete, un guerriero alto quasi cinque cubiti, con maglia di ferro, spada e scudo, rispose: «Li abbiamo attaccati in continuazione sui fianchi per fargli credere che quello sarà il nostro bersaglio, ma l’attacco vero sarà alle spalle, dove noi siamo molto più numerosi, e dopo che saranno entrati nella foresta».

«Bravo. Aspetta che siano spariti dentro la foresta» disse Arminius, «e poi colpisci con tutta la forza che hai.»

«So cosa devo fare» ribatté il capo usipete. Era chiaro che voleva la sua parte di gloria e cercava di riprodurre la vittoria di Teutoburgo. Ma i Romani non volevano una seconda Teutoburgo.

La Prima legione in testa alla colonna doveva tenere aperta la strada ed era preceduta da coorti di ausiliari e da reparti di cavalleria. La Ventunesima e la Quinta Alaudae proteggevano le salmerie da destra e da sinistra. La Ventesima era di retroguardia, seguita dalle truppe leggere degli alleati. Il capo usipete aspettò che l’intera colonna fosse entrata nella foresta e poi ordinò l’attacco.

Sotto l’urto di decine di migliaia di guerrieri, le fanterie alleate dei Romani cedettero e presero ad arretrare rovesciandosi addosso alla Ventesima in marcia. Sembrava che tutto procedesse bene per gli attaccanti, ma Arminius era preoccupato: qualcosa non andava, e la fretta di conquistare una facile quanto clamorosa vittoria aveva tradito il comandante germanico che aveva ordinato l’attacco troppo presto senza attendere che la colonna romana in marcia si immergesse completamente nella boscaglia.

In quel momento Germanico, che avanzava in testa, dovette essere avvertito di quello che stava succedendo in retroguardia perché tirò di lato le redini del cavallo e corse all’indietro a tutta velocità lungo il fianco sinistro della colonna prendendo personalmente il comando. «Ventesima!» gridò. «Fronte retro!», e la legione invertì con secco rumore metallico la direzione di marcia semplicemente ruotando su se stessa. Solo l’aquila sembrò volare dalla prima fila all’ultima, trasformandola nel fronte d’attacco. I legionari, guidati dal comandante supremo in persona, scatenarono un contrattacco durissimo contro i guerrieri germanici e li spinsero indietro fino allo scoperto. La Ventesima ebbe tutto lo spazio e il tempo per dispiegarsi su otto file per più di duemila piedi di fronte. I suoi legionari non erano più gli esausti, dissanguati combattenti di Teutoburgo, erano una valanga di ferro e di collera che in silenzio si rovesciava sul fronte nemico.

Arminius spinse Borr a tutta velocità per immergersi nella mischia, nel vortice di urla e di sangue che gli si stendeva davanti. Pensava così di infondere coraggio e furore nei guerrieri germanici, ma era troppo tardi per invertire il corso della giornata campale. Ci fu un momento in cui solo cento passi lo separavano da Germanico e poté udire distintamente la sua voce gridare: «Vendicate Teutoburgo!». Vide brillare sul suo petto un piccolo disco d’oro, lo stesso che portava bambino nel fregio di marmo e da adolescente nella palestra di Tauro. Per un istante, colpito in pieno da un raggio di sole, quasi lo accecò e Arminius prese quel lampo come un avvertimento degli dei. “Thor, aiutami!” pensò, prima di essere completamente circondato. Borr respirò odore di morte dalle froge dilatate, s’impennò come un pegaso ardente e si lanciò con un balzo oltre il cerchio dei nemici, portando in salvo il suo cavaliere.

A tarda notte Arminius tornò sul campo rischiarato dalla luna. Era coperto di biondi, pallidi corpi esanimi.

Nell’autunno, Germanico rientrò a Roma e attraversò in trionfo il foro portando i suoi bambini sul carro e prigionieri incatenati alle sue spalle tra due ali di popolo in delirio. Era come se fosse tornato il comandante Druso in carne e ossa. Ora il suo nome non era più semplicemente l’eredità del padre: era lo stemma di valore guadagnato sul campo. Germanico era l’eroe dell’Impero.

Il giorno dell’equinozio d’autunno Arminius incontrò l’hermundur nella grande radura presso il lago.

«È morta anche la figlia di Augusto» disse, «la bellissima Giulia. Lui aveva mostrato un poco di pietà spostandola dalla scabra isola nera a una decorosa residenza sullo stretto di Sicilia. Ma Tiberio, che a lungo aveva subito l’umiliazione dei suoi tradimenti, la fece rinchiudere in una sola stanza a morire di stenti, di rabbia e di solitudine.

Germanico sta preparando una nuova campagna ma tutto è circondato da gran segreto. Impossibile sapere quando e dove sarà. Addio.»

Sparì.

Arminius raggiunse Thusnelda nel talamo che aveva costruito con le sue mani e fra le sue braccia dimenticò tutti i pensieri angosciosi. Un abbraccio di fuoco, i corpi avvinti nello spasmo del desiderio, le immagini della festa della primavera, i suoi capelli intrecciati di fiori, l’apparizione di Freya dietro le palpebre soavi, le infinite immagini della loro passione incendiarono la loro mente e il cuore, li prostrarono alla fine in un languore estenuato.

«Sono incinta. Partorirò tuo figlio. Sarà un maschio come te.»

Arminius si alzò risplendendo nel chiarore lunare: «Come puoi dirlo?».

«Non sai che le fanciulle che vedono Freya dietro le palpebre il giorno della festa di primavera acquistano poteri divinatori?»

«Quando sarà?»

«Presto, all’inizio della primavera.»

«Non posso crederlo. Le tue parole hanno aperto l’oscurità dei miei pensieri. Mi trovo davanti alla sorgente della vita dopo aver dato la morte a migliaia. Il mio sguardo sarà la tua protezione; i battiti del mio cuore giungeranno fino a lui attraverso la tua pelle quando ti terrò stretta fra le braccia. Ti amerò anche oltre la morte.

Ora devo partire per costruire la forza dei Germani e innalzare un muro di lance contro gli invasori. Ogni istante e ogni pensiero saranno per te finché non ti rivedrò.»

Tre giorni dopo Thusnelda udì il nitrito di Borr e il rullare dei suoi zoccoli sul ponte di legno che superava il torrente. Non ebbe cuore di assistere alla partenza di Arminius sulla soglia della casa.

Arminius viaggiò per centinaia di miglia attraverso i boschi e lungo i fiumi, sulle colline boscose e lungo le interminabili sponde dell’Oceano chiamando a raccolta i Germani nell’imminenza di una nuova invasione. Finché una notte, mentre si avvicinava al guado sul fiume Visurgis sentì un rumore di galoppo sul tavolato del ponte: uno squadrone di Cherusci della sua guardia. Lo avevano inseguito di giorno e di notte raccogliendo notizie del suo passaggio.

«Brutte nuove, principe» disse il capo della guardia. «Seghest si è ripreso Thusnelda approfittando della tua assenza. Gli uomini di guardia si sono battuti ma sono stati trucidati. Qualcuno ti ha tradito. Difficile proteggere un segreto così grande per un tempo così lungo. Ora torna con noi. Nessuno può prevedere quando i Romani decideranno di attaccare.»

Arminius avvampò d’ira e di sdegno ma fu anche preso da una cupa disperazione: il solo pensiero che non avrebbe più rivisto la sua sposa gli spezzava il cuore. Tornò alla casa dei suoi avi nel territorio dei Cherusci e lì attese di avere altre notizie. Da quel luogo mandava in continuazione, a tutte le etnie germaniche, messaggi a voce come quelli che gli recapitava l’hermundur. Ma i suoi sforzi si concentravano sopra tutto sulla liberazione (così la considerava) di Thusnelda. Un giorno il suo informatore, il barcaiolo del Reno, gli diede un altro appuntamento al villaggio abbandonato. Lui si presentò scortato da un invisibile squadrone di cavalieri. Sapeva che i sicari di Seghest erano da tempo all’opera e che ora il suo riluttante suocero non si sarebbe fatto scrupoli.

Un lieve sciabordare annunciò l’arrivo del barcaiolo e Borr lo salutò con uno sbuffo. Arminius balzò a terra e si avvicinò con la mano all’impugnatura della spada:

«Che nuove?»

«Questa è una notizia che vale molto.»

«Hai sempre ricevuto quello che hai chiesto. Ma io non tratto queste cose. E adesso parla o me ne vado e non sarà un bene per te.»

Il barcaiolo parlò: «Germanico ha preparato una campagna estiva. Varcherà il Rhein prima del solstizio».

Arminius chinò il capo, scuro in volto.

«Troppo presto?» domandò il barcaiolo.

Arminius non gli diede ascolto. Balzò in groppa a Borr e si allontanò al galoppo.

La notizia passò di bocca in bocca fra i capi che aderivano alla coalizione con richiesta di massima segretezza. Arminius temeva che la concentrazione delle forze subisse un ritardo e comunque continuò a raccogliere informazioni anche da altre fonti ricevendo sempre conferma di un attacco romano in estate. Anche Thusnelda riuscì a fargli arrivare dei messaggi: «Tuo figlio sta per nascere: non può più aspettare di vedere suo padre. Sarà bellissimo e ti somiglierà. Penso a te ogni giorno e ogni notte. Devo incontrarti a ogni costo. Quale nome devo imporgli?».

«Tumlich» rispose Arminius. «È il nome di un mio avo, ancora venerato come un eroe fra i Cherusc.»

Cogliendo tutti di sorpresa, Germanico attraversò il Reno tre mesi prima del previsto con quattro legioni, seguito dal suo secondo in comando, un ufficiale di antichissima famiglia etrusca, Aulo Cecina, con altre quattro legioni e una quantità di ausiliari germanici e alleati di uguale numero della sponda sinistra del Reno. Un’armata enorme per una semplice rappresaglia, che peraltro contrastava con le intenzioni di Tiberio, e prima di lui di Augusto, di stabilire il confine sul Reno. Ma a quel punto Germanico era troppo popolare perché gli si potesse rifiutare quello che chiedeva.

Attaccò per primi i Catti, membri della coalizione che aveva preso parte al massacro di Teutoburgo, e li annientò, incendiò e rase al suolo la loro capitale Mattio, poi si ritirò sul Reno lasciando il genio a costruire ponti e strade per una occupazione stabile della Germania. Arminius cercò allora in ogni modo di creare una grande alleanza di tutte le tribù germaniche e di lanciare in guerra i suoi Cherusci, che però non poterono fare nulla contro l’armata di Cecina e dovettero ritirarsi.

Lo scontro fra Germanico e Arminius era ormai un duello serrato, alimentato da una passione bruciante e da una somiglianza che li accomunava per l’età, la forza, l’ambizione ma anche per la personalità e lo stato delle loro mogli. L’uno e l’altro erano innamorati di due bellissime donne, ambedue prese non solo da un amore sconfinato per il proprio uomo ma anche da un’ambizione potente; e tutte e due erano incinte, in procinto di partorire. Anche per questo Thusnelda non poteva più sopportare di essere la prigioniera di suo padre, e continuamente mandava messaggi ad Arminius perché venisse a liberarla. Aveva istruito una schiava affinché gli riferisse le sue parole e la ragazza era entrata a tale punto in quell’incarico da interpretare il ruolo della sua signora con straordinaria efficacia. Ne imitava perfino la voce: «Non posso più vivere un solo istante separata da te e attendo con ansia il momento in cui metterò nostro figlio fra le tue braccia».

Arminius aveva perciò incitato gli uomini della tribù di Seghest ad assediare la piazzaforte in cui il sovrano si era trincerato sperando di liberare Thusnelda e di prendere il totale controllo della sua gente. Ma Seghest aveva saputo che Germanico aveva attraversato il Reno con un’armata fortissima e già aveva battuto duramente i Catti e ora stava avanzando con due eserciti uno da lui guidato personalmente e l’altro al comando del suo luogotenente Aulo Cecina. Gli mandò quindi un messaggio chiedendo il suo immediato intervento per rompere l’assedio dei suoi nemici.

Germanico tenne consiglio.

Parlò per primo Lucio Asprenas, comandante delle guarnigioni del Reno: «Dobbiamo rispondere subito a questa richiesta. Se prendiamo la figlia di Seghest, incinta di Arminius, lo avremo fiaccato, se non distrutto. Nessuno come te può capire ciò che dico: immagina come ti sentiresti se la tua bellissima Agrippina, incinta al settimo mese, cadesse nelle mani di Arminius». Germanico aggrottò la fronte. «Tu conosci bene il “gioco del re” con i dadi. Chi prende la regina ha già in parte conquistato il re e vinto la partita.»

«Lucio ha ragione» replicò Quinto Florio, legato della Ventesima. «Prendiamo la ragazza e Arminius sarà nelle nostre mani.»

Germanico assentì e il giorno dopo deviò con l’esercito dall’obiettivo che aveva individuato per liberare Seghest dall’assedio. Gli assedianti si dileguarono e Seghest uscì circondato dai suoi amici e sostenitori, dalla sua famiglia e dalle sue donne. Era gigantesco e per l’occasione aveva indossato l’armatura più bella. E uscì anche la persona per cui Germanico aveva deviato dal suo cammino: Thusnelda. Ma Ingmar fu disgustato da quel comportamento e passò dalla parte del nipote aderendo alla coalizione.

La ragazza non disse una parola, non domandò nulla, non pianse. In un momento aveva perduto tutto tranne ciò che portava nel ventre e che guardava continuamente come un tesoro da custodire.

Un tribuno militare la prese in consegna, come se ci fosse stato un tacito accordo, dicendo: «Questa viene con noi». Thusnelda sputò in faccia a suo padre quando gli passò accanto. Germanico ordinò di trattarla con tutti i riguardi.

Molti del seguito di Seghest portarono al comando romano le spoglie dei caduti di Teutoburgo che avevano avuto in dono come bottino di guerra. Ora speravano che salvassero loro la vita.

Publio Celio, l’oste di Bononia che non si era mai separato dal seguito di Germanico, si mescolò a loro cercando fra quegli oggetti per vedere se ce ne fosse uno a lui famigliare e balbettando qualche parola della lingua indigena che aveva appreso. Inutilmente.

L’esercito proseguì poi nell’assalto ai territori di altre tribù germaniche incendiando i villaggi, distruggendo i raccolti e passando a fil di spada tutti gli uomini in grado di portare armi. Nella terra dei Bructeri trovarono già ogni cosa distrutta per opera degli stessi abitanti, ma scoprirono l’aquila della Diciannovesima legione sterminata a Teutoburgo. Il centurione anziano la lavò, la fece risplendere e la riconsegnò al comandante Germanico perché la inviasse a Roma.

Quando Arminius apprese che sua moglie era prigioniera di Germanico e che suo figlio sarebbe cresciuto schiavo dei Romani credette di impazzire, ma non si diede per vinto né inviò alcuno da Germanico a chiedere di riscattare la sposa, ben sapendo che la sua umiliazione avrebbe dato solo maggiore soddisfazione al condottiero romano. Radunò invece la sua gente e tenne un discorso infiammato: «Ecco l’eroe dell’Impero Romano che ha impegnato otto legioni per conquistare una donna sola, incinta e inerme. Io invece ho fatto inginocchiare tre comandanti di legione davanti a me e ho sterminato con i miei guerrieri i migliori soldati di Roma, uomo contro uomo, spada contro spada! Questa è la differenza fra un romano e un germanico!».

E per tutto il tempo che seguì non fece altro che percorrere il paese in lungo e in largo per unire tutti nell’unica impresa di cacciare l’invasore. Il suo sguardo era sempre quello, infiammato di passione, e le sue parole vibranti di entusiasmo per la libertà. Solo la notte, quando si abbandonava esausto su un improvvisato giaciglio, versava in silenzio lacrime cocenti per il suo amore perduto e per il figlio che non avrebbe mai visto.

Germanico passò poi con le sue truppe a devastare il territorio fra i fiumi Lipias e Amisia, nella regione prossima a Teutoburgo, dove dicevano che giacessero i resti insepolti di Varo e delle sue legioni.

«Non farlo, comandante» disse Asprenas quando capì che Germanico voleva condurre l’esercito sul campo di morte. «Non portare i tuoi soldati fra quei fantasmi inquieti. Il loro morale crollerà, molti prenderanno spavento...»

«No» rispose Germanico gelido, «al contrario. Diventeranno ancora più feroci e spietati, ansiosi di vendicare i loro compagni caduti e macellati come animali.»

Quando seppe dove si stava andando, Publio Celio cominciò a tremare. Da anni cercava notizie del fratello disperso in combattimento, da anni metteva da parte risparmi per il giorno in cui avrebbe viaggiato fino a quel luogo di sangue e costruito un monumento funebre in suo onore, ma ora che mancava poco avvertiva un dolore profondo e temeva di poter riconoscere i suoi resti e scoprire i segni di atroci torture che non avrebbe voluto vedere. Germanico lo osservava spesso perché in lui vedeva il semplice cittadino che conserva in cuore i valori di una civiltà. Notava come amasse comprare del vino dai commercianti per offrirlo ai soldati, dicendo che gli pareva così di versarne a suo fratello Marco.

«Publio Celio di Bononia» gli disse un giorno, «non temere. Daremo sepoltura ai nostri compagni e continueremo a combattere con rinnovato vigore per vendicarli e dare pace ai loro spiriti corrucciati. Nessuno oserà impedircelo. Magari ci provassero! Daremo la caccia ad Arminius finché non l’avremo preso e lo avremo strangolato come si fa con i criminali.»

Publio Celio ringraziò per il grande onore che il figlio del leggendario comandante Druso faceva a un semplice oste e si mise in marcia come fosse un soldato. Aveva perfino acquistato una spada che gli dondolava al fianco.

L’esercito imboccò la stessa strada che aveva percorso Varo sei anni prima, ma in testa avanzava Aulo Cecina con i suoi lanciando gli esploratori a cavallo, aprendo i passaggi nelle strettoie, costruendo ponti e passerelle sui ruscelli e sulle acque stagnanti, rimuovendo alberi caduti e massi trascinati da antichi torrenti. Quando finalmente Germanico arrivò nel passaggio fra il monte di roccia e la grande palude, trovò le legioni di Cecina schierate a destra e a sinistra del luogo del massacro. Riconobbe le trincee scavate in fretta e il vallo appena visibile del frettoloso campo del secondo giorno. L’intera estensione di quel terreno era coperta di scheletri che biancheggiavano al sole meridiano. Trentamila legionari ammutolirono: un silenzio di piombo calò sul campo di morte. Publio Celio si coprì il volto con le mani per non mostrare la sua disperazione, ma tenne la schiena dritta in onore di quei caduti. Poi si mise a cercare, correndo da un punto all’altro, fermandosi appena accanto agli scheletri dei fuggiaschi sparsi qua e là, ma indugiando a lungo sui gruppi numerosi che avevano tentato di resistere, perché lì doveva essere suo fratello. La morte e le spoliazioni avevano però denudato tutti i corpi dei caduti rendendoli irriconoscibili. Publio Celio non si arrendeva, frugava febbrile tra quelle ossa cercando qualcosa che potesse riconoscere, ma si rendeva conto che i corpi abbandonati erano divenuti preda degli animali selvaggi, che avevano lasciato i segni delle loro zanne sui miseri resti e mescolato le loro ossa a quelle dei nemici e degli animali da soma. Molti altri fra i legionari presenti avevano amici e parenti caduti in quei giorni maledetti, e vedere personalmente la scena del massacro li faceva tremare di orrore e di sdegno. Alcuni, armati di pale e picconi, seppellivano i corpi dispersi qua e là per la piana, senza sapere se stavano seppellendo le ossa dei loro congiunti e compagni o quelle di nemici trascinati all’inferno dall’ultima disperata resistenza dei legionari di Varo.

Dopo sei anni un esercito romano tornava a Teutoburgo guidato da un piccolo gruppo di superstiti a rendere l’onore della sepoltura ai compagni caduti. Ma l’orrore non sembrava mai avere fine: nella foresta furono trovati i crani dei centurioni e degli ufficiali superiori inchiodati ai tronchi degli alberi attraverso le occhiaie e gli scheletri di altri tagliati a pezzi sugli altari delle divinità germaniche.

Era giunta l’ora della pietà e dell’onore: a un ordine di Germanico arrivarono decine di carri trainati da muli su cui vennero caricati i resti di tre legioni annientate, per essere deposti in un unico luogo. Il comandante supremo gettò su di essi la prima zolla di terra e poi, uno per uno, legionari, centurioni, tribuni e legati gettarono una zolla su quelle ossa nude fino a coprirle.

Germanico indossò l’armatura da parata e il mantello rosso del comandante e fece un cenno al legato Asprenas. Le legioni si schierarono, reparto per reparto. Un gigantesco alfiere della Quinta Alaudae fece tre passi avanti a tutti e inalberò l’aquila della Diciannovesima appena recuperata. Il legato diede l’ordine di presentare le armi e ventimila spade furono sguainate.

Un altro ordine: «Percutite... scuta!».

E ventimila legionari cominciarono a colpire lo scudo con il gladio tutti assieme a ritmo di marcia. Un fragore assordante si levò dai reparti, un rombo di tuono echeggiò per la valle.

Cento colpi. Il tuono doveva percorrere la Germania intera.

Publio Celio restò per tutto il tempo irrigidito nel saluto militare con la spada protesa in avanti verso il tumulo ormai terminato: una verde collina che le piogge avrebbero irrorato con le lacrime del cielo.

Poi il silenzio che sempre accompagna la morte.