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All’inizio degli anni venti un gruppo di persone che si occupavano di filosofia, sociologia e teologia organizzò un convegno. La maggior parte di esse aveva cambiato confessione religiosa; non era la religione in sé ad accomunarle, ma il particolare accento posto sulla religione da poco acquisita. Queste persone erano scontente dell’idealismo ancora dominante nelle università. La filosofia le spinse a scegliere in nome della libertà e dell’autonomia, come già si dice in Kierkegaard, la «teologia positiva». A loro però non interessava tanto il dogma determinato, il contenuto di verità della rivelazione, quanto piuttosto l’atteggiamento religioso. Con suo lieve rammarico un amico, attratto allora da questa cerchia, non fu invitato.1 Gli si fece capire che non era abbastanza autentico. Egli infatti esitò davanti al salto kierkegaardiano nel sospetto che una religione evocata dal pensiero autonomo vi si dovesse poi subordinare, negando così quell’assolutezza che essa invece pretende di avere in base al suo concetto. Gli aderenti a questa cerchia erano intellettuali antintellettuali. L’esclusione di una persona che non professava nel modo in cui essi si riconoscevano, li confermò nel loro superiore accordo. Essi si attribuirono come eticità propria ciò di cui si fecero sostenitori spirituali, come se il seguire una dottrina d’argomento elevato elevasse il rango interiore di un uomo; come se nel Vangelo non fosse scritto nulla contro i farisei. -Ancora quarant’anni dopo un vescovo in pensione abbandonò la seduta di un’accademia evangelica perché uno dei relatori invitati mise in dubbio la possibilità della musica sacra oggi. Anch’egli si sentiva esonerato, o era stato messo in guardia, dall’entrare in relazione con quelle persone che non si conformano alle direttive; come se il pensiero critico non avesse alcun fondamento oggettivo, ma fosse errore soggettivo. Gli uomini come lui congiungono - secondo le parole di Borchardt - la tendenza a far valere la propria opinione con la paura di riflettervi su, come se non credessero del tutto a se stessi. Nell’astrazione di cui diffidano, ma che non può essere soppressa dai concetti, fiutano oggi come allora il pericolo di perdere ciò che chiamano il «concreto». La concretezza sembra a loro promessa dal sacrificio, anzitutto quello dell’intelletto. Gli eretici chiamarono questo gruppo di persone «gli autentici». Tutto ciò accadde molto tempo prima della pubblicazione di Essere e tempo. Avendo introdotto in quest’opera l’autenticità come tale, quella ontologico-esistenziale, quale parola chiave specificamente filosofica, Heidegger ha dato con vigore una forma filosofica a ciò che gli autentici sostengono su un piano meno teorico e in questo modo si è conquistato tutti coloro che hanno un vago interesse per l’autenticità. Grazie a lui i vincoli di tipo religiosoconfessionale divennero superflui. Il suo libro si distinse tra gli altri, perché in esso la direzione verso cui l’intellighenzia tendeva oscuramente prima del 1933 fu descritta come razionale e fu messa davanti agli occhi di tutti come un saldo vincolo. Certo l’accento teologico riecheggia debolmente ancor oggi in lui e in tutti coloro che imitarono il suo linguaggio. Infatti le brame teologiche di quegli anni si sono infiltrate nel linguaggio ben oltre la cerchia di coloro che allora si atteggiarono a élite. Nel frattempo però ciò che vi è di consacrato nel linguaggio degli autentici ha valore più per il culto dell’autenticità che per quello cristiano, anche quando gli autentici, per temporanea mancanza di altre autorità disponibili, si adeguano a quest’ultimo. Ancor prima di ogni contenuto particolare il loro linguaggio modella il pensiero in modo tale che esso si piega al fine della sottomissione, persino quando crede di fargli opposizione. L’autorità dell’assoluto viene deposta dall’autorità assolutizzata. Il fascismo non fu semplicemente quella congiura che pure fu, ma sorse entro una forte tendenza di sviluppo sociale. Il linguaggio gli concede asilo; in esso la sventura, che ancora cova sotto le ceneri, si manifesta come se fosse la salvezza.

In Germania si parla, e ancor più si scrive, un gergo dell’autenticità, simbolo del privilegio socializzato, nobile e familiare al tempo stesso: un dialetto quale linguaggio d’élite. Esso ha una diffusione che si estende dalla filosofia e dalla teologia, non solo delle accademie evangeliche, fino alla pedagogia, alla Volkshochschule2 e alle organizzazioni giovanili, per giungere al modo distinto di parlare degli esponenti del mondo economico e dell’amministrazione pubblica. Sebbene pretenda di sgorgare da una commozione umanamente profonda, il gergo si è nel frattempo standardizzato, come il mondo da esso negato solo a parole; ciò è dovuto in parte al suo successo di massa, in parte anche al fatto che determina automaticamente il suo messaggio tramite la sua sola costituzione, indipendentemente da quell’esperienza che dovrebbe animarlo. Esso dispone di un modesto numero di vocaboli che scattano da segnale. Tra questi «autenticità» non è quello preminente; esso piuttosto illumina l’etere in cui il gergo prospera e il modo di pensare che latentemente lo nutre. Per iniziare sono sufficienti i seguenti modelli: esistentivo, «decidendo», incarico, chiamata, incontro, colloquio genuino, asserzione, ciò che sta a cuore, vincolo; a questa lista si potrebbero aggiungere molti altri termini non terminologici di tono affine. Alcuni, come per esempio Anliegen («ciò che sta a cuore»), che è attestato nel vocabolario Grimm e che ancora Benjamin usava in modo acritico, hanno assunto una tonalità di questo tipo solo quando sono finiti in quel «campo di tensioni» (anche questa è un’espressione qui pertinente). Non si deve comunque redigere un index verborum prohibitorum, di sostantivi pregiati commerciabili, ma si deve seguire qual è la loro funzione linguistica nel gergo. Non tutte le sue parole sono sostantivi pregiati: esso talvolta raccoglie anche parole comuni, le tiene in alto e le bronza secondo l’usanza fascista, che mescola saggiamente ciò che è plebeo con ciò che è elitario. Poeti neoromantici imbevuti di raffinatezza quali George e Hofmannsthal non utilizzarono affatto il gergo nella loro prosa, come fecero invece alcuni dei loro divulgatori, ad esempio Gundolf. Le parole entrano a far parte del gergo solo attraverso la costellazione che esse negano, tramite il gesto della loro unicità. Ciò che la singola parola perde in magia le viene procurato, come per decreto, dall’alto. La trascendenza della singola parola è una seconda trascendenza consegnata già pronta dalla fabbrica: un aborto di quella perduta. Gli elementi irrigiditi del linguaggio empirico vengono manipolati come se fossero quelli di un linguaggio vero e rivelato; il continuo rapporto empirico con le parole sacre dà l’illusione, al parlante e all’ascoltatore, che esse siano fisicamente vicine. L’etere viene spruzzato meccanicamente; le parole tra loro sconnesse vengono lustrate, ma non trasformate. Ciò che il gergo chiama «connessione» conferisce loro il primato sulla connessione stessa. Il gergo, oggettivamente un sistema, usa la disorganizzazione come principio di organizzazione, la decomposizione del linguaggio nelle parole in sé. Alcune di esse, in costellazioni linguistiche differenti, possono essere utilizzate senza fare l’occhiolino al gergo; così «asserzione», quando si denota in senso stretto, nella gnoseologia, il senso dei giudizi predicativi; oppure «autentico» - certo già non senza precauzione - anche come aggettivo, quando l’essenziale è distinto dall’accidentale; e ancora «inautentico», quando si pensa a una frattura, all’espressione che non è immediatamente conforme al contenuto espresso: «trasmissioni radio della musica tradizionale, che era concepita nella categoria dell’esecuzione dal vivo, prendono la tonalità della sensazione del “come se”, dell’inautentico».3 In questo passo «inautentico» sta in funzione critica, come negazione determinata di un fatto illusorio. Invece il gergo recide la parola «autenticità», o il suo opposto, da ogni contesto razionale di questo tipo. - Certamente non si può obiettare a una ditta di aver usato la parola «commessa» (Auftrag),4 quando essa ne ha ricevuta una. Ma le possibilità di questo tipo non sono molte e sono astratte. Chi ne abusa punta su una teoria prettamente nominalista del linguaggio, secondo la quale le parole sono gettoni da gioco scambiabili, non toccate dalla storia. Questa tuttavia penetra in ogni parola e impedisce ad esse la riproduzione di quel presunto senso originario di cui il gergo va a caccia. Che cos’è gergo e che cosa no dipende dal fatto di scrivere la parola con un accento nel quale essa si ponga come trascendente rispetto al proprio significato; oppure dal fatto di dare peso alle singole parole a spese della proposizione, del giudizio, del pensato. Di conseguenza il carattere del gergo è del tutto formale: esso provvede affinché i suoi desiderata vengano avvertiti e accettati in gran parte tramite la loro esposizione, senza riguardo alcuno per il contenuto delle parole. Il gergo dirige l’elemento preconcettuale, mimetico, del linguaggio, per indurre effetti contestuali di suo gradimento. Con la parola «asserzione» in particolare si vuole dare l’illusione che all’ascoltatore venga partecipata insieme alla cosa anche l’esistenza del parlante e che sia essa a dar dignità alla cosa; senza l’esistenza del parlante - così fa capire il gergo -il discorso sarebbe già inautentico, il mero riguardo dell’espressione verso la cosa sarebbe già una caduta nel peccato. Questo formalismo è utile quando si vuole fare della demagogia. Chi sa parlare in gergo non ha bisogno di dire ciò che pensa e nemmeno di pensarlo in maniera determinata: il gergo pensa al posto suo e rende superfluo il pensare. Propriamente è fondamentale che sia l’uomo intero a parlare. Quando questo avviene, accade quel che lo stesso gergo in forma stilizzata chiama «l’evento». La comunicazione entra in funzione e reclamizza una verità di cui si dovrebbe invece sospettare a causa dell’immediato accordo collettivo. Lo stato d’animo del gergo ha qualcosa della serietà degli auguri, che cospira indifferentemente con ogni cosa purché sia consacrata.

Il fatto che le parole del gergo suonino, indipendentemente dal contesto e dal contenuto concettuale, come se dicessero una cosa più alta di quel che esse significano, si potrebbe designare con il termine «aura». Non a caso Benjamin ha introdotto questa espressione nello stesso momento in cui, in base alla sua particolare teoria, non si poteva più avere esperienza di ciò che questo termine significava per lui.5 Sacre senza contenuto sacro, gelide emanazioni, le parole chiave del gergo dell’autenticità sono forme di decadimento dell’aura. Questa si unisce a un relativismo che, all’interno del mondo disincantato, la rende disponibile, ovvero - come si direbbe nel moderno linguaggio paramilitare - «pronta all’impiego». La riprovazione perpetua della reificazione che il gergo rappresenta è reificata. Ad esso si addice la definizione di Wagner, rivolta contro l’arte brutta, secondo cui le scene a effetto sono in realtà effetti immotivati. Venuto meno lo Spirito Santo, si parla senza sapere perché. Il segreto suggerito e inesistente è però noto a tutti. Chi non lo conosce deve soltanto parlare come se lo conoscesse e come se fossero gli altri a non conoscerlo. La formula espressionista «ogni uomo è eletto», che si trova in un dramma di Paul Kornfeld, assassinato dai nazisti, si addice, dopo averne detratto il falso Dostoevskij, all’autocompiacimento ideologico di una piccola borghesia minacciata e umiliata dallo sviluppo sociale. Dal fatto di non aver tenuto il passo con quello sviluppo né materialmente né spiritualmente, essa fa discendere la sua dote: l’originarietà. Nietzsche non visse tanto a lungo da potersi nauseare del gergo dell’autenticità: esso è nel secolo xx la forma tedesca di «risentimento» par excellence. Ciò che Nietzsche intendeva dire con la frase «non c’è buon odore» avrebbe trovato solo in seguito la sua compiuta realizzazione nelle rare feste da bagno della vita integra:

 

La domenica incomincia già la sera del sabato. Quando l’artigiano ordina la sua officina, quando la casalinga ha reso tutta la casa lucente di pulizia e spazza persino la strada davanti alla casa, togliendo la sporcizia raccoltasi durante la settimana, quando infine viene fatto il bagno pure ai bambini, quando anche gli adulti, lavandosi accuratamente, si tolgono di dosso la polvere della settimana e il vestito nuovo è già pronto - quando tutte queste cose sono state sbrigate con compiutezza ed accortezza contadina, uno stato d’animo di riposo pervade gli uomini, rendendoli profondamente felici.6

 

Espressioni e situazioni di una vita quotidiana ormai quasi del tutto scomparsa si danno di continuo l’aria di essere autorizzate e protette da un assoluto di cui non si parla per rispetto. Mentre da persone smaliziate gli autentici evitano di richiamarsi alla rivelazione, da persone che non riescono a fare a meno dell’autorità organizzano invece l’Ascensione della parola oltre i confini di ciò che è fattuale, condizionato e contestabile, pronunziandola, ma anche stampandola, come se la benedizione celeste facesse immediatamente parte della sua stessa composizione. Il gergo deturpa ciò che vi è di più Alto, che potrebbe essere pensato e che non si lascia pensare,7 atteggiandosi come se l’avesse, in termini suoi, «già sempre». Il desideratum della filosofia, quel che le è esclusivamente proprio e in ragione del quale la rappresentazione (Darstellung) le è essenziale, è il motivo per cui tutte le sue parole dicono più di quanto ciascuna dice. Di ciò approfitta la tecnica del gergo. La trascendenza della verità rispetto al significato delle singole parole e dei giudizi viene aggiunta alle parole stesse come loro proprietà immutabile, mentre quel Più si costruisce solo nella costellazione, in forma mediata. Il linguaggio filosofico, in base al suo ideale, trascende ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pensiero. Esso trascende in forma dialettica, quando al suo interno la contraddizione di verità e pensiero diventa cosciente di sé e dunque padrona di sé. Il gergo si appropria di questa trascendenza per distruggerla rimettendola al proprio cicaleccio. Ciò che nelle parole va al di là del significato viene procurato loro fortuitamente una volta per sempre come espressione e la dialettica è interrotta: sia quella tra il contenuto e la parola, sia quella, interna al linguaggio, tra le singole parole e la loro relazione. Si vuole che la parola lasci intatto il suo significato sotto di sé, senza giudicarlo o pensarlo. Si vuole che la realtà di quel Più venga istituita in questo modo, quasi a scherno della speculazione mistica sul linguaggio che il gergo, irragionevolmente fiero della sua semplicità, si guarda bene dal ricordare. Nel gergo si perde la differenza tra quel Più, cercato a tentoni dal linguaggio, e il suo essere in sé. L’ipocrisia diventa l’a priori: si parla qui e ora il linguaggio quotidiano come se fosse quello sacro. Un linguaggio profano potrebbe avvicinarsi ad esso solo distanziandosi dal tono del sacro, non imitandolo. In ciò il gergo pecca in modo blasfemo. Quando riveste con l’aura le parole per l’empirico, esso applica uno strato così spesso di concetti filosofici generali e di idee, come quella dell’Essere, che la loro natura concettuale, la mediazione del soggetto pensante, scompare sotto la vernice: in questo modo esse seducono come la cosa più concreta. Trascendenza e concretezza si scambiano l’apparenza; l’equivocità è il medium di un contegno linguistico, che a livello filosofico condanna l’equivocità stessa.8

Ma la falsità può guardarsi allo specchio quando gonfia le situazioni. Un tale, che diede sue notizie dopo molto tempo, scrisse di non avere problemi esistenziali; fu necessario riflettere un attimo prima di capire che gli era stata garantita una sicurezza economica sufficiente. Un centro destinato alle discussioni internazionali, qualunque sia la loro utilità, si chiama «casa d’incontro»; il vistoso e solido edificio si trasforma in un luogo consacrato a causa di quelle riunioni che dovrebbero essere più che semplici discussioni per il fatto che avvengono tra uomini vivi ed esistenti; essi però discuterebbero comunque altrettanto bene e, fin quando non si uccidono, non possono fare altro che esistere. Prima di ogni contenuto deve avere importanza la relazione con l’altro; per questo scopo basta al gergo quel logoro ethos comunitario della Jugendbewegung 9 che censura quel che va oltre il naso di colui che parla e quel che oltrepassa le capacità di coloro che da poco tempo vengono chiamati partners. Il gergo doma l’engagement facendone un’istituzione stabile e rafforza inoltre l’autoconsiderazione dei parlanti più subalterni: essi conterebbero già qualcosa perché in loro parla «qualcuno», anche quando questo qualcuno non è «qualcuno». La sottintesa istruzione del gergo, secondo cui non è bene affaticare troppo il pensiero perché altrimenti si disturba la comunità, diventa per loro la garanzia di una superiore convalida. Viene omesso il fatto che è già il linguaggio stesso a negare, grazie alla sua universalità e oggettività, l’uomo intero, quel soggetto singolo che di fatto parla: a farne le spese è innanzitutto la determinazione modale degli individui. Atteggiandosi però come se fosse la persona intera a parlare e non il pensiero, il gergo, come modo di comunicazione «a portata di mano», dà l’illusione di essere immune dalla spersonalizzata comunicazione di massa; proprio questo lo raccomanda all’entusiastico accordo di tutti. Chi sta dietro le proprie parole nel modo mimato da esse è al riparo dal sospetto di fare quanto sta facendo: di parlare per altri e allo scopo di affibbiare loro qualcosa. A procurargli un alibi ci pensa la parola «asserzione», alla quale, come se non bastasse, è appeso l’attributo «genuina». Con il suo prestigio vuol fornire di nascosto a quel parlare per altri la solidità di un in sé. Dove tutto è comunicazione, l’asserzione sarebbe migliore della comunicazione stessa. Infatti l’uomo portato in cielo, che da non molto tempo in cielo ci va anche con quello che è stato chiamato «commando aereo», è per il gergo tanto ragion d’essere quanto destinatario dell’asserzione, senza che entrambe le cose si possano distinguere. Spesso è appiccicato alla parola «asserzione» anche l’attributo «valido»; e ciò, evidentemente, perché quell’esperienza enfatica che il termine «asserzione» rivendica non viene più compiuta da coloro che lo prediligono in ragione di quella rivendicazione. C’è bisogno di un amplificatore. La parola «asserzione» avanza la pretesa che le cose dette provengano dalla profondità del soggetto parlante e siano sottratte alla maledizione della comunicazione superficiale. Invece al tempo stesso la superficialità della comunicazione si camuffa da asserzione. In virtù della parola altisonante «asserzione», il fatto che un tale parli dovrebbe costituire di per sé un segno di verità, come se gli uomini non potessero essere presi dalla falsità o non potessero patire il martirio per cause assurde. Questa inversione fa dell’asserzione, non appena essa pretende di essere tale e ancor prima di ogni contenuto, una menzogna. A causa della sua affidabilità garantita dal soggetto, chi l’ascolta dovrebbe ricavarci qualcosa. Questo qualcosa è però preso in prestito dal mondo della merce; è lo stesso consumatore a richiedere che anche i prodotti culturali, contro il concetto che è loro proprio, si regolino su di lui. Questa intimidazione rivolta allo spirito domina silenziosamente l’intero clima del gergo. Il reale e inascoltato bisogno di aiuto deve essere soddisfatto dal mero spirito, consolando senza intervenire. I discorsi a vanvera sull’asserzione sono l’ideologia complementare al mutismo, a cui l’ordine costringe coloro che non possono niente contro di esso e le cui invocazioni sono perciò destinate a cadere nel vuoto. La critica che invece volge le spalle allo stato di cose fu screditata d’ufficio in Germania in quanto «priva di valore assertivo». Non da ultimo si colpisce con l’asserzione l’arte moderna; la sua riluttanza contro ogni senso tradizionalmente comunicabile viene disapprovata, come se ne fossero al di sopra, da gente il cui gusto estetico è anacronistico. Se si aggiunge all’asserzione l’attributo «valida», si può far passare ciò che di fatto ha validità e reca un timbro come munito di autorizzazione metafisica. La formula fa evitare la fatica di riflettere tanto sulla metafisica che essa si trascina con sé, quanto su ciò che viene asserito. Il concetto di asserzione compare in Heidegger nientemeno che come costituente del «Ci».10

La tesi presupposta dal gergo della relazione Io-Tu come luogo della verità denigra la sua oggettività come cosale e, senza dirlo, rimesta l’irrazionalismo. Come relazione di questo tipo, la comunicazione si trasforma in quella realtà metapsicologica che essa invece potrebbe essere soltanto per mezzo del momento di oggettività del comunicato; e alla fine a fondare la metafisica è proprio la stupidità. Da quando Martin Buber separò in Kierkegaard il concetto di esistenza dalla cristologia e gli diede la forma di un mero comportamento, prevale la tendenza a presentare il contenuto metafisico come legato alla cosiddetta relazione Io-Tu. Esso viene consegnato all’immediatezza della vita, la teologia viene fissata nelle determinazioni dell’immanenza, che a loro volta, ricordandosi di nuovo della teologia, vogliono trascendersi, virtualmente già come le parole del gergo. Con un gioco di prestigio si fa qui sparire nientemeno che la soglia tra la natura e il soprannaturale. Gli autentici di maggiore modestia levano solennemente gli occhi al cielo davanti alla morte, ma il loro contegno spirituale, innamorato del vivente, la sopprime. Dalla teologia viene rimosso quel pungiglione senza il quale la redenzione non poteva essere pensata. Secondo il concetto di redenzione, nessun elemento naturale permane immutato passando attraverso la morte, nessuna relazione da-uomo-a-uomo è qui e ora l’eternità e certo nessuna relazione da-uomo-a-Dio, grazie alla quale Gli si possa dare per così dire una pacca sulle spalle. Con una rovesciata analogia entis, l’esistenzialismo alla Buber ricava la propria trascendenza dal fatto che le relazioni spontanee tra gli uomini non sono riducibili a poli cosali. Esso resta quella filosofia vitalista da cui provenne dal punto di vista della storia della filosofia e a cui voltò le spalle: proietta la dinamica di ciò che è mortale nelle regioni dell’immortalità. E' così che la trascendenza viene avvicinata all’uomo. Nel gergo giungono a coincidere: esso è l’organo Wurlitzer dello spirito. Nel Mondo nuovo di Huxley è necessario che sia composta in gergo quella predica, incisa su nastro e riascoltabile a richiesta, che con molta verosimiglianza sociopsicologica riporta alla ragione con una suggestione programmata le masse in rivolta, nel caso in cui queste dovessero tornare a radunarsi. Come l’organo Wurlitzer volgarizza per scopi di réclame il vibrato - che una volta era il mezzo musicale dell’espressione soggettiva - sovrapponendolo meccanicamente al suono meccanicamente prodotto, così il gergo fornisce agli uomini i modelli di una esistenza umana che fu loro portata via dal lavoro asservito, se mai tracce di essa sono state realizzate. Heidegger ha contrapposto l’autenticità al «Si» e alla chiacchiera, senza lasciarsi ingannare dal fatto che non c’è un vero e proprio salto tra quelli che per lui sono solo due diversi tipi di esistenziali, visto che essi, in fondo, per la loro stessa dinamica trapassano l’uno nell’altro. Non ha però previsto che ciò che egli ha chiamato «autenticità», attraverso l’oggettivazione linguistica, diviene parte della stessa anonimità della società dello scambio, contro cui Essere e tempo insorgeva. Il gergo, che nella fenomenologia heideggeriana della chiacchiera meritò un posto d’onore, qualifica gli adepti, secondo la loro opinione, come persone per bene e di animo nobile, proprio come allontana il sospetto ancor sempre vivo di sradicamento.

In quelle categorie professionali che eseguono, come si suol dire, lavoro intellettuale e che però contemporaneamente non godono di autonomia e di indipendenza oppure sono economicamente deboli, il gergo è una malattia professionale. Presso tali gruppi il gergo assolve, oltre alla sua generica funzione sociale, una funzione specifica. La loro formazione e la loro coscienza non sono in grado di stare al passo con quello spirito di cui si occupano in base alla divisione sociale del lavoro. Per mezzo del gergo essi vorrebbero recuperare la distanza e raccomandarsi tanto come compartecipi della cultura più raffinata - ai loro occhi i fondi di magazzino finiscono per sembrare alla moda - quanto come individui dotati di natura propria: i più ingenui tra loro non sono ancora stanchi di chiamarla, con espressione tratta dal mondo artigianale, da cui il gergo prese in prestito non poche cose, «nota personale». Gli stereotipi del gergo assicurano una commozione soggettiva e sembrano garantire che non si faccia ciò che invece si fa quando ci si riempie la bocca di essi: si bela con il gregge; ci si sarebbe riusciti da sé, da individui assolutamente liberi. L’atteggiamento formale d’autonomia ne sostituisce il contenuto. Battezzato retoricamente «vincolo», il contenuto viene preso in prestito eteronomamente. Ciò che la pseudoindividualizzazione procura nell’industria culturale, il gergo lo procura tra coloro che la disprezzano. In Germania esso è il sintomo di una semicultura in progresso, fatta quasi apposta per coloro che si sentono condannati storicamente o perlomeno in declino, ma che davanti ai loro pari e a se stessi si fanno passare per una élite interiore. Il suo peso non è da sottovalutare perché soltanto un ristretto gruppo di persone lo scrive. Un gran numero di uomini in carne e ossa lo parla, da quello studente che nell’esame si dilunga sul tema dell’incontro genuino, sino all’addetto stampa di un vescovo, che domanda: «Crede lei che Dio parli solo alla ragione?» Il loro discorso è solo apparentemente spontaneo. Nelle discussioni teologiche degli studenti descritte nel Doktor Faustus - vera e propria cantina di Auerbach del 1945 - Thomas Mann, che non aveva quasi più occasione di osservare gli usi del tedesco moderno, ne intuì con precisa ironia la maggior parte; certo già prima del 1933 vi erano modelli pertinenti, ma solo dopo la guerra, quando il linguaggio nazionalsocialista divenne sgradito, il gergo è diventato onnipresente. Da allora regna tra la lingua scritta e quella parlata la più profonda influenza reciproca; si potrà così leggere gergo stampato che imita inequivocabilmente quelle voci della radio, le quali a loro volta provengono dagli scritti dell’autenticità. Mediatezza e immediatezza si mediano reciprocamente a tal punto da far rabbrividire; poiché quest’ultima viene preparata artificialmente, il mediato è diventato la caricatura del naturale. Il gergo non distingue più tra comunità primarie e secondarie; neanche tra partiti. Questi sviluppi hanno una loro base reale. La «cultura da impiegati» diagnosticata da Kracauer nel 1930 - quella sovrastruttura istituzionale e psicologica che allora fece credere ai proletari dal colletto bianco, minacciati dal crollo incombente, che contavano qualcosa e che li legò così alle briglie borghesi - è diventata nel frattempo, complice una congiuntura favorevole, l’ideologia universale di una società che, illudendosi di essere composta da una moltitudine omogenea di individui di ceto medio, ne cerca la conferma in un linguaggio unitario al quale, per scopi di narcisismo collettivo, il gergo dell’autenticità è ben accetto; non solo a coloro che lo parlano, ma allo spirito oggettivo. Mediante un’individuazione d’origine borghese timbrata dall’universale il gergo manifesta che l’universale è affidabile: il suono conformisticamente ricercato delle parole sembra quello stesso della persona. Il vantaggio più importante è il certificato di buona condotta. La voce che risuona in questo modo sottoscrive comunque un contratto sociale, qualunque cosa essa dica. Il rispetto nei confronti di quell’esistente che sarebbe più che meramente esistente sconfigge ogni insubordinazione. Viene dato a intendere che ciò che si fa evento è così profondo che il linguaggio sconsacrerebbe ciò che dice, se lo dicesse. Le mani candide si rifiutano di cambiare qualcosa nei rapporti di dominio e di proprietà in vigore; il suono delle parole rende tutto questo spregevole, come Heidegger il meramente ontico. Chi blatera in gergo è una persona affidabile; lo si porta all’occhiello al posto dei distintivi di partito, per ora malvisti. Il solo tono di voce gronda di positività, senza aver bisogno per questo di abbassarsi a parteggiare per ciò che è già sin troppo compromesso; si sfugge persino al sospetto socializzato da molto tempo di fare ideologia. Nel gergo sverna felicemente il bipolarismo tra pensiero costruttivo e distruttivo, con cui il fascismo liquidò il pensiero critico. Protetto dal doppio senso di «positivo», che può significare «esistente», «dato», ma anche «degno di affermazione», il solo fatto di esistere diventa di per sé merito di una cosa.11 Positivo e negativo vengono oggettivati al di qua della viva esperienza, come se essi valessero prima di ogni considerazione, come se non fosse solo il pensiero a determinare ciò che è positivo o negativo e come se il percorso di tale determinazione non fosse quello stesso della negazione. Il gergo secolarizza la disponibilità dei tedeschi a riconoscere immediatamente come degno di affermazione un rapporto dato con la religione, anche se la loro religione è dissolta e ne è stata capita la falsità. La non diminuita irrazionalità della società razionale incoraggia a eleggere la religione come scopo in sé, senza riguardo per il suo contenuto, come mera disposizione interiore e infine come carattere individuale, a spese della religione stessa. E' sufficiente essere credenti: non importa ciò a cui si crede. Una tale irrazionalità ha una funzione coesiva. Il gergo dell’autenticità la eredita in modo puerile, sul modello di quelle antologie latine che lodano l’amor patrio in sé, i viri patrìae amantes, anche se la rispettiva patria nasconde le infamie più gravi. Ulrich Sonnemann ha descritto il fenomeno come

 

l’incapacità di liberarsi da un perbenismo che difende a tutti i costi «l’ordine», persino quell’ordine «al cui interno tutte queste cose non sono in ordine». Che genere di cose? Secondo la logica della frase dovrebbe trattarsi di cose solo accidentali, invece sono cose estremamente essenziali: «sfoghi velenosi», «tabù oppressivi», «insincerità», «risentimento», '«isteria nascosta da tutte le parti». Che cosa resta allora dell’ordine? Evi-identemente, questo dovrebbe ancora essere prodotto.12

 

Questo perbenismo equivale ad avere una prevenzione; l'affermativo, il salutare raddoppia il bando della sventura. Il gergo induce a quel positivo atteggiamento verso la vita proprio del piccolo borghese e che si riscontra negli avvisi matrimoniali; rinnova con maggiori pretese le numerose manifestazioni che vogliono rendere gradevole agli uomini una vita, che a loro altrimenti ripugnerebbe e di cui non si sentono all’altezza. Che la religione, passata nel soggetto, si sia trasformata in religiosità è dovuto al corso storico. Ma le cellule morte di religiosità all’interno della realtà secolare diventano veleno. L’antica forza di cui, secondo Nietzsche, tutto si nutre, invece di entrare senza riserve nel profano, si conserva irriflessa e sublima a virtù la limitazione che indietreggia davanti alla riflessione.

Nel tesser le lodi della positività si trovano d’accordo tutti coloro che sanno parlare in gergo, da Jaspers in giù. Solo l’accorto Heidegger evita una troppo aperta affermazione fine a se stessa e adempie il suo dovere indirettamente per mezzo di toni di compassata genuinità. Jaspers invece scrive a chiare lettere: «In realtà il mondo è solo per chi vive di un positivo che si ha sempre solo per mezzo di un vincolo.» E poi aggiunge: «Solo chi liberamente sceglie il proprio vincolo è immune dall’entrare disperatamente in conflitto con se stesso.»13 Certo la sua filosofia dell’esistenza si è scelta come protettore un Max Weber orgogliosamente fiero di non nutrire illusioni. Jaspers però se la intende con la religione, non importa quale, purché ci sia, giacché concederebbe o costituirebbe il vincolo necessario. Se essa sia compatibile con l’immagine di una filosofia capace di andare da sé, di cui egli si riserva il privilegio, è cosa che non lo preoccupa:

 

Chi è fedele alla trascendenza nella forma di una simile fede non dovrebbe mai essere attaccato, nella misura in cui non diviene intollerante. Infatti si può solo distruggere in chi ha fede; egli può essere forse aperto al filosofare e rischiare anche di portare il peso di un dubbio non eliminabile dall’esistenza umana, ma ha pur sempre la positività di un essere in forma storica, come punto di partenza e criterio di misura che lo riportano insostituibilmente a sé. Di questa possibilità noi non parliamo.14

 

Quando il pensiero autonomo si riteneva ancora in grado di realizzarsi nell’uomo, non usava tanti riguardi. Nel frattempo i filosofi, soffrendo sempre meno di filosofia, hanno sempre meno remore a spifferare il segreto che i notabili, come le Norne,15 cercano di tenere nascosto. Otto Friedrich Bollnow scrive:

 

Perciò sembra abbastanza significativo che nella poesia, soprattutto nella lirica degli ultimi anni, cominci a delinearsi, dopo tutte le esperienze di terrore, una nuova voglia di dir di sì all’Essere, una gioiosa e grata adesione alla propria esistenza di uomo, cosi com’è, e al mondo, cosi come le viene incontro. In modo particolare devono essere qui brevemente menzionati due di questi poeti: Rilke e Bergengruen. L’ultimo volume di poesie di Bergengruen, Die heile Welt (München 1950), si chiude con la confessione: «L’esperienza di dolore fu passeggera. E il mio orecchio non percepì altro che canti di lode» (p. 272). Si tratta dunque di un sentimento di grata adesione all’Esserci. E Bergengruen non è certamente un poeta del quale si possa dire che è di facile ottimismo. In questo sentimento di profonda gratitudine egli è molto vicino a Rilke, che al termine del suo cammino può pure dire: «Tutto respira e ringrazia. O voi affanni della notte, come scompariste senza traccia. »16

 

Il volume di Bergengruen è solo di pochi anni più recente del periodo in cui gli ebrei, non ancora del tutto uccisi dal gas, venivano gettati vivi nel fuoco dove riprendevano coscienza e gridavano. Il poeta, del quale certo non si potrebbe dire che è di facile ottimismo, e il pedagogo filosofeggiante che lo interpreta non percepirono altro che canti di lode. «In via preliminare noi chiamiamo “animo rasserenato” questo stato interno dell’uomo e ne risulta il compito di ricercarne l’essenza rispetto alle sue possibilità.»17 Per questo compito, che al cospetto del terrore nazista non è riconciliante neanche per la sua comicità, Bollnow ha trovato il migliore di tutti i nomi possibili: «religiosità ontologica».18 L’assonanza con la «religiosità tedesca»19 è certo solo casuale. Una volta che la si sia ottenuta, nulla più ostacolerà una «positiva relazione al mondo e alla vita» e «un lavoro costruttivo per il superamento dell’esistenzialismo».20 Dopo aver detratto gli orpelli esistenziali, resta la raccomandazione di seguire le usanze religiose, private di ogni contenuto religioso; il fatto che, come oggetti delle tradizioni popolari, le forme del culto sopravvivano come gusci vuoti al proprio mistero non viene capito, ma difeso con l’aiuto del gergo. Viene umiliato non solo il pensiero, ma anche la religione, che una volta prometteva agli uomini la beatitudine eterna, mentre l’autenticità si contenta rassegnata di un «mondo in ultima analisi integro».21 «Allo scopo di avere in seguito una comoda distinzione terminologica, noi distinguiamo queste due forme come la speranza contenutisticamente determinata e quella contenutisticamente indeterminata o anche, brevemente, come la speranza relativa a quella assoluta.»22 Questo modo meschino di dividere i concetti si prende cura dell’assistenza esistenziale. A seconda che un gregario al quale non interessa molto la propria causa e che per di più se ne vanta come segno della sua capacità di entusiasmo si qualifichi come loto brow, middle brow oppure high brow,23 il suo concetto della vita integra può essere: la salute dell’anima, la vita retta, una enclave sociale non ancora dominata dall’industrialismo o anche semplicemente regioni dove non si è ancora sentito parlare di Nietzsche e dell’illuminismo, oppure ancora situazioni in cui si osservano i costumi e le ragazze conservano la loro verginità sino al matrimonio. Certo, contro lo slogan «stare al sicuro» non si può giocare quello altrettanto logoro di «vita pericolosa»; chi, nel mondo del terrore, non vorrebbe vivere senza angoscia? Ma, in quanto esistenziale, lo stare al sicuro si trasforma da realtà anelata e non concessa in una realtà presente qui ed ora, indipendentemente da ciò che la impedisce. A lasciare il segno nell’espressione disonorata «stare al sicuro» è questo: la reminiscenza di ciò che è recintato e delimitato con sicurezza è legata a quel momento di ottusa particolarità che di per sé riproduce la sventura, di fronte alla quale nessuno è al sicuro. Una patria vi sarà soltanto, quando essa si sarà alienata da questa particolarità, quando si sarà tolta come universale. Se la sensazione di stare al sicuro mette radici, essa finisce per scambiare un momento di ristoro con la vita. Come il paesaggio diventa più brutto davanti a chi, ammirandolo, dice: «che bello!» e così lo rovina, così accade alle usanze, alle abitudini e alle istituzioni che vendono se stesse a caro prezzo sottolineando la propria ingenuità piuttosto che cambiarla. Il rapporto Kogon,24 secondo cui le peggiori atrocità nei campi di concentramento sono state compiute dai figli minori dei contadini, condanna ogni discorso sullo stare al sicuro; i rapporti agrari, che costituiscono il suo modello, spingono i figli diseredati nella barbarie. Senza eccezione la logica del gergo contrabbanda la limitazione - ossia, in ultima analisi, situazioni di indigenza materiale - come positività e opera per il loro perpetuarsi nell’istante in cui, secondo il grado di sviluppo delle forze umane, tale limitazione non dovrebbe più essere reale. Lo spirito, che fa di tale limitazione una cosa, si mette a servizio come lacchè del male.

Nei gradi più alti della gerarchia degli autentici vengono comunque offerte anche cose negative.25 Heidegger si appropria persino del concetto di distruzione, penalizzato nei gradi inferiori, con le sue funeste implicazioni di angoscia, cura e morte; Jaspers a volte proclama il contrario dello «stare al sicuro» di Bollnow: «Oggi la filosofia è la sola possibilità per colui che sa di non stare al sicuro.»26 Ma come quei pupazzi che stanno sempre in piedi, il positivo ogni volta si rialza. Il pericolo, il rischio, il porsi-in-gioco e tutti i brividi relativi non sono da prendere sul serio; già a una donna della cerchia dei protoautentici, che allora disse che nei reconditi dell’inferno di Dostoevskij risplende di nuovo la luce della redenzione, fu risposto che in questo caso l’inferno assomiglierebbe ad un breve tunnel ferroviario. Gli autentici più in vista parlano malvolentieri della redenzione, come del resto anche il signor parroco; preferiscono mietere sulla terra bruciata. Essi non sono meno furbi di quella psicologia sociale che osservava che i giudizi negativi, qualunque sia il loro contenuto, hanno migliori prospettive di conferma rispetto a quelli positivi.27 Il nichilismo diventa una farsa, un mero metodo, come una volta era già avvenuto per il dubbio cartesiano. La domanda - uno degli strumenti preferiti dal gergo - deve suonare tanto più radicale, quanto maggiore è la lealtà con cui essa si orienta su un tipo di risposta che può esser tutto tranne che radicale. A questo proposito ecco un esempio tipico tratto da Jaspers:

 

La filosofia dell’esistenza andrebbe perduta immediatamente, se essa credesse ancora una volta di sapere che cos’è l’uomo. Essa offrirebbe di nuovo elementi per indagare la vita umana e animale nei suoi tipi, e diventerebbe di nuovo antropologia, psicologia, sociologia. Il suo senso è possibile solo se resta infondata nella sua oggettività. Essa risveglia ciò che non sa; chiarifica e scuote, ma non fissa nulla. Per l’uomo che è in cammino, essa è l’espressione attraverso la quale egli mantiene la propria direzione, il mezzo per conservargli i suoi attimi migliori, per realizzarli tramite la propria vita (...) Il chiarimento esistenziale non conduce ad alcun risultato, poiché resta senza oggetto.28

 

Appunto. Vengono suonate le dolenti note: nessuna risposta sarebbe abbastanza seria, ciascuna di esse, qualunque ne sia il contenuto, verrebbe respinta come oggettivazione. Ma l’effetto dell’intransigenza spietata è amichevole; le anime candide non si legano mai: il mondo è infatti troppo dinamico. Il vecchio motivo protestante della fede incomprensibile fondata nel soggetto, trasformandosi da Lessing a Kierkegaard nel pathos dell’esistenza contro una realtà irrigidita e resa estranea al soggetto stesso, si allea strategicamente con la critica della scienza positiva, nella quale, secondo la tesi di Kierkegaard, il soggetto è lasciato fuori. La domanda radicale diviene la sua stessa sostanza a spese di ogni risposta: rischio senza pericolo. Soltanto la distinzione in base alla competenza personale e alla categoria di reddito può ancora determinare se un tale ha l’aspetto di chi sta al sicuro oppure no: anche coloro che non stanno al sicuro non hanno nulla da temere, non appena si uniscono al coro. Ciò consente brani come questi, tratti da Tre tesi di fondo sulla televisione di Heinz Schwitzke:

 

Tutt’altra cosa è la predica. Qui un oratore ecclesiastico, in un unico e mai mutato primo piano per più di dieci minuti, professava il suo credo a partire dalla propria esperienza, esistentivamente. E in conseguenza della notevole capacità umana di persuasione da lui emanata, non solo la sua parola, testimoniata dalla presenza della sua immagine, diventava completamente degna di fede, ma l’ascoltatore dimenticava del tutto perfino le intermediazioni tecniche e si formava davanti allo schermo del televisore tra i casuali spettatori, come in chiesa, una specie di comunità, che si sentiva posta immediatamente di fronte all’oratore e che avvertiva di essere legata per suo tramite all’oggetto della sua predica, la parola di Dio. Per questo sorprendente fenomeno non v’è nessun’altra interpretazione che quella secondo cui tutto dipende in primo luogo dall’oratore, da quell’uomo che è tanto coraggioso e autorevole da stare sulla breccia con il suo intero essere e la sua esistenza e da servire solo ciò che egli testimonia e gli ascoltatori con i quali sa di essere legato.29

 

Questo che è stato mandato in onda è un commercial dell’autenticità. La «parola» del parroco - come se quella sua e quella di Dio fossero immediatamente la stessa - non viene testimoniata affatto dalla «presenza della sua immagine»; piuttosto la credibilità delle sue affermazioni viene sorretta dal suo comportamento che ispira fiducia. Quando all’apparire del parroco si dimenticano le intermediazioni tecniche, il gergo dell’autenticità, che se ne rallegra, può riconoscersi nella filosofia del «come se»: per mezzo dell’allestimento televisivo si simula il «qui e ora» di un’azione di culto, che è eliminato dall’onnipresenza delle immagini televisive. Il modo esistentivo in cui il parroco professa a partire dalla sua esperienza, «in un mai mutato primo piano», non è invece altro che il fatto ovvio in se stesso che il parroco, non avendo altra scelta, comparve fisicamente sul teleschermo e forse riuscì simpatico ad alcuni. Che egli abbia formato una comunità è tutto da dimostrare. Dal linguaggio militare è tratto il modo di dire che egli sarebbe dovuto stare sulla breccia con tutto il suo essere e la sua esistenza. Tuttavia il predicatore che recita al televisore, cosa per cui la chiesa gli sta stretta, non ha nulla da temere: né il contraddittorio esterno, né le pene interiori. Se egli, stretto fra riflettori e microfoni, dovesse subire momenti di contestazione, il gergo avrebbe pronta una lode ulteriore per la sua esistenzialità. Con un tratto di penna, l’usufrutto del negativo viene devoluto alla positività: la negatività positiva funge da scaldacuore. Le parole nere, non diversamente da quelle biancopulite della domenica di Bollnow, sono numinose, così vicine all’esultanza, come lo è sempre stata la tromba spaventosa. Il gergo usa tanto il doppio senso della parola «positivo» quanto quello della parola «metafisica», a seconda che si preferisca il Nulla oppure l’Essere. La parola «metafisica» designa, da un lato, la trattazione di temi metafisici, anche se il contenuto metafisico viene contestato; dall’altro, la dottrina affermativa del mondo soprasensibile secondo il modello platonico. In questa oscillazione il bisogno metafisico, quella condizione dello spirito che si manifestò ben presto nel trattato di Novalis Sulla cristianità o Europa e che il giovane Lukàcs30 chiamò «spaesamento trascendentale», è ridotto a bene culturale. La liberazione teologica del numinoso dal dogma ossificato costituì involontariamente, a partire da Kierkegaard, anche un momento della sua secolarizzazione. L’insaziabile purificazione del divino dal mito, che ama fremere nel gesto del domandare sgomento, consegna il divino alla maniera dell’eresia mistica a chi si mette in una qualche relazione con esso. Poiché si vuole che il contenuto stia solo nella relazione - l’altro polo della quale, inteso come «l’assolutamente Diverso», si sottrae a ogni determinazione che accusa di reificazione - rinasce sorprendentemente la teologia liberale. La demitologizzazione completamente realizzata riduce la trascendenza all’astrazione, al concetto. Contro la volontà degli oscurantisti trionfa sul loro stesso terreno l’illuminismo che essi incolpano. Ma nel medesimo movimento dello spirito la violenza inconsapevole e autoaffermativa del soggetto, in tutta la teologia dialettica, evoca ancora una volta il mito: il concetto sommo di questa teologia, l’assolutamente Diverso, è cieco.31 Contro voglia si festeggiano i vincoli, piuttosto che gettarsi in quella speculazione che, sola, permetterebbe a coloro che pongono la domanda radicale di giustificarli. Gli uni hanno un rapporto confuso con la speculazione. Si ha bisogno di essa perché si vuole essere profondi e la si evita perché intellettualistica. Si preferirebbe riservarla ai guru. Gli altri, da un lato, giungono al punto di confessare di non avere un «suolo»,32 pur di dare rilievo ai rimedi offerti che dovrebbero avere effetto nel pericolo estremo, anche se immaginario; dall’altro lato, colpiscono il pensiero che non ha un suolo, non appena esso si rifiuta di dare innanzitutto sostegno con il suo atteggiamento ai vincoli, ai quali l’autenticità può rinunciare tanto poco quanto il film all 'happy end. Se l' happy end manca, con gli autentici esistentivi c’è ben poco da ridere, persino per lo stesso esistenzialismo:

 

Solo su questo sfondo si distingue l’intera grandezza dell’etica esistenziale. Essa realizza ancora una volta, sul terreno del moderno relativismo storico, un comportamento morale risoluto. Ma così si dà anche il pericolo che si esprime nella possibilità di un avventurismo esisten-tivo. Resosi del tutto libero da ogni condizionamento dogmatico, privo della fermezza poggiante sulla fedeltà, l’avventuriero gode il rischio della sua azione come lo stimolo ultimo e più sublime. Proprio nell’incondizionatezza dell’azione legata all’attimo l’esistenzialista è esposto in modo particolare alla tentazione dell’incostanza e dell’infedeltà.33

 

Tutte queste parole traggono dal linguaggio al quale vengono sottratte l’aroma della presenza in carne e ossa, del non metaforico; nel gergo però vengono spiritualizzate di nascosto. In questo modo sfuggono ai pericoli, di cui si vantano. Quanto più intenzionalmente il gergo santifica la sua quotidianità, quasi a scherno della richiesta kierkegaardiana dell’unità del sublime e dell’ordinario, tanto più torbidamente deve confondere il letterale con il metaforico:

 

A questo significato fondamentale dell’abitare per l’intera esistenza umana mira anche l’osservazione finale di Heidegger, con la quale egli si ricollega a quella che è una delle grandi difficoltà del nostro tempo, la mancanza di appartamenti: «la vera miseria dell’abitare - sono le sue parole - non consiste solo nella mancanza di appartamenti», nonostante che anch’essa non sia effettivamente da prendere alla leggera. Dietro di essa se ne nasconde invece un’altra, più grave: l’uomo ha perduto la sua essenza propria e perciò non trova pace. «La vera miseria dell’abitare sta nel fatto che i mortali (...) devono ancora imparare ad abitare. » Imparare ad abitare però significa: comprendere la necessità che l’uomo, di fronte a ciò che lo minaccia, si procuri un rifugio e vi si stabilisca con animo rasserenato. Ma, in senso inverso, la possibilità di questa sistemazione è collegata a sua volta in modo preoccupante con la reperibilità di un appartamento.34

 

L’esistenza di un rifugio dove stare al sicuro viene dedotta semplicemente dalla necessità che l’uomo se ne «procuri» uno. Il lapsus linguistico nel meccanismo senza contraddizioni del gergo svela, in una sorta di coazione a confessare, che lo stare al sicuro ontologico è meramente posto. Ciò che però si rivela, giocando con la mancanza di appartamenti, è cosa ben più seria che la posa di gravità esistentiva: è la latente paura della disoccupazione, che i membri dei paesi capitalisti avanzati hanno persino nei periodi gloriosi di piena occupazione e che viene respinta amministrativamente e quindi inchiodata nell’iperuranio platonico. Poiché tutti sanno di poter essere superflui, in base al grado di sviluppo della tecnica e sino a quando si produce per la produzione, ciascuno sente il ricavato del proprio lavoro come una forma larvata di sussidio di disoccupazione, fatto derivare senza motivo e con possibilità di revoca dall’intero prodotto sociale a favore della conservazione dello status quo.35 In linea di principio chi non riceve la tessera dell’annona potrebbe essere mandato via domani; la migrazione dei popoli, avviata già una volta dai dittatori verso i campi di Auschwitz, potrebbe riprendere. L’angoscia, così diligentemente distinta dalla paura intramondana ed empirica, non ha affatto bisogno di essere un esistenziale. In quanto angoscia storica, essa è indice del fatto che coloro che sono aggiogati ad una società socializzata ma profondamente contraddittoria si sentono costantemente minacciati da essa, che pure li mantiene, senza essere mai in grado di percepire concretamente nei particolari la minaccia del sistema. Il declassato invece, che sa che cosa gli è permesso prendere, ha nel «nuovo stare al sicuro» un motivo di insolente esaltazione. Da un lato egli non ha niente da perdere; dall’altro il mondo amministrato rispetta ancora la struttura di compromesso della società borghese, nella misura in cui retrocede nel proprio interesse davanti alla soluzione estrema, la liquidazione dei suoi membri, e dispone momentaneamente nei grandi piani economici dei mezzi per la proroga. E' così che «l’assistenza esistenziale» di cui parla Jaspers viene a coincidere con l’assistenza sociale, la grazia amministrata. Da un punto di vista sociale, alla base della reinterpretazione della completa negatività in positività per mezzo del gergo si deve sospettare quel tipo di certezza coercitiva che è tipico della coscienza impaurita. Perfino la sofferenza per la perdita di senso, che è scontata e che da tempo si è trasformata in formula meccanica, non è semplicemente quella causata dal vuoto sorto attraverso l’intero movimento dell’illuminismo, come preferiscono descriverla gli oscurantisti di maggiori pretese. Esistono resoconti sul taedium vitae che risalgono già alle epoche della più incontestata religione di Stato; ai padri della Chiesa il tedio della vita era tanto noto quanto a coloro che riportano nel gergo il giudizio di Nietzsche sul moderno nichilismo e immaginano quindi di essere al di sopra tanto di Nietzsche quanto di un nichilismo, il cui concetto nietzschiano essi hanno capovolto. Sul piano sociale la percezione della mancanza di senso è una reazione all’estesa abolizione del lavoro in condizioni di perdurante mancanza di libertà sociale. Il tempo libero dei soggetti non concede loro la libertà, in cui essi segretamente sperano, e li incatena al sempre uguale, all’apparato di produzione, anche quando quest’ultimo li manda in ferie. Essi sono costretti a confrontare la libertà concessa con quella palesemente possibile e diventano tanto più confusi, quanto meno la facciata chiusa della coscienza, che ricalca quella della società, fa passare l’immagine della libertà possibile. Allo stesso tempo nella percezione della mancanza di senso viene assimilata dalla coscienza la forma tardoborghese del pericolo reale, la permanente minaccia della fine. Essa rigira ciò che le fa paura in modo tale che esso sembra esserle congenito e attenua così l’incommensurabilità della minaccia rispetto alla possibilità umana d’esperirla. Il fatto che il senso, qualunque esso sia, si mostri dappertutto impotente contro la sventura; che dal senso non si possa ricavare nulla e che la sua enunciazione forse incrementi persino la sventura stessa, viene registrato come mancanza di contenuto metafisico oppure, di preferenza, come mancanza di un vincolo sociale di tipo religioso. Ciò che vi è di menzognero nell’inversione operata da un certo tipo di critica della cultura, con la quale fa coro regolarmente il pathos contratto degli autentici, si può vedere nel fatto che epoche passate, le quali, secondo i gusti, vanno dal Biedermaier sino a quella dei Pelasgi, assumono l’aspetto di epoche il cui senso sarebbe tuttora presente, secondo la tendenza a rimettere politicamente e socialmente l’orologio all’indietro, a porre fine, attraverso misure amministrative dei racket più potenti, alla dinamica inerente a una società che appare ancora troppo aperta. Poiché la sua forma attuale non può attendersi nulla di buono da questa dinamica, essa non può comprendere che la cura che essa offre è lo stesso male di cui ha timore. Tutto ciò si acutizza in Heidegger: con astuzia egli associa all’invocazione dell’incorruttibile candore non romantico la promessa di un mezzo di salvezza, che poi però non si può interpretare in altro modo che come quello stesso candore. L’eroe di Mahagonny si univa alla protesta contro il mondo in cui non vi è niente a cui ci si possa tenere; a ciò, in Heidegger come nel Brecht dei Lehrstücke, segue la proclamazione dell’ordine costrittivo come salvezza. La mancanza di punti fermi è il riflesso speculare del suo opposto, della illibertà: solo perché l’autodeterminazione dell’umanità è fallita, essa andò in cerca di una determinazione esterna, sicuramente dispensata dal movimento dialettico. La condizione antropologica del cosiddetto vuoto umano, che per effetti di contrasto gli autentici sono soliti tratteggiare come una pur dolorosa invariante del mondo disincantato, potrebbe essere cambiata, la richiesta di un senso riempiente potrebbe essere placata, non appena si abbandonasse la rinuncia: non certo tramite l’iniezione di un senso spirituale oppure tramite la sua sostituzione con le sole parole. Lo stato sociale di cose addestra gli uomini essenzialmente a riprodursi e tale coazione si prolunga nella loro psicologia non appena si indebolisce esternamente. Per mezzo dell’autoconservazione gonfiata a totalità quel che comunque si è si trasforma in ciò che è ancora da raggiungere. Se scomparisse questo controsenso, verrebbe meno forse anche l’apparire del non senso: la nullità del soggetto asserita con fervore, che è il rovescio di quello stato di cose in cui ciascuno dà importanza solo a se stesso. Dal momento che non fu mai creato un pensiero metafisico che non sia stato una costellazione di elementi tratti dal mondo dell’esperienza, la metafisica non fa altro che svalutare le sue esperienze portanti, sublimandole nel dolore metafisico e scindendole dal dolore reale che le provocò. Contro la coscienza di questo dolore si dirige tutto l’odio del gergo. Marx e i pregiudizi razziali vengono messi sullo stesso piano:

 

Marxismo, psicoanalisi e teoria della razza sono oggi i più diffusi occultamenti dell’uomo. La brutalità diretta dell’odio e dell’elogio, nei modi in cui si è affermata nell’uomo, trova espressione in esse: nel marxismo il modo in cui la massa vuole diventare comunità; nella psicoanalisi il modo in cui cerca il mero soddisfacimento fisico; nella teoria della razza il modo in cui desidera essere migliore delle altre (...) Senza sociologia non si può fare alcuna politica. Senza psicologia nessuno riesce a vederci chiaro nei suoi rapporti con sé e con gli altri. Senza antropologia andrebbe perduta la coscienza delle origini oscure di ciò in cui noi siamo dati a noi stessi (...) Nessuna sociologia può dirmi che destino io voglio, nessuna psicologia può chiarirmi che cosa io sono; l’essere autentico dell’uomo non può essere allevato come una razza. Dappertutto vi sono i limiti di ciò che può essere programmato e fatto (...) Infatti il marxismo, la psicoanalisi, la teoria della razza hanno proprietà distruttive loro particolari. Il marxismo e la psicoanalisi intendono smascherare tutta l’esistenza spirituale: come sovrastruttura oppure come sublimazione di istinti rimossi; ciò che poi si continua a chiamare cultura avrebbe la forma di una nevrosi ossessiva. La teoria della razza causa una concezione della storia che è senza speranza; attraverso una selezione negativa di quella migliore si rovinerebbe ben presto l’esser-uomo autentico; oppure sarebbe proprio dell’uomo produrre nel processo di mescolanza delle razze le massime possibilità per consentire, finita la mescolanza nel giro di pochi secoli, che i suoi resti vivano eternamente una esistenza media smidollata. Tutti e tre gli indirizzi sono adatti a distruggere ciò che per l’uomo sembra aver valore. Essi sono anzitutto la rovina di ogni incondizionato, poiché in quanto discipline del sapere si trasformano in quel falso incondizionato che riconosce ogni altra cosa come condizionata. Non solo la divinità deve cadere, ma anche ogni forma di fede filosofica. La realtà somma come quella più volgare viene etichettata con la stessa terminologia per marciare diritto verso il nulla.36

Dall’alto in basso viene riconosciuta all’inizio l’utilità pratica delle discipline illuministe, affinché poi l’indignazione per la loro brama di distruggere impedisca con tanta più efficacia di riflettere sul contenuto di verità delle loro critiche. Il fervido cordoglio per quell’oblio essenziale che sarebbe l’oblio dell’Essere nasconde il fatto che è l'essente ciò che si vorrebbe dimenticare più di ogni altra cosa. A tutto ciò è già stata data una risposta anticipata nell ’Enrico il verde di Gottfried Keller:

 

C’è un detto che dice che non si dovrebbe soltanto demolire, ma anche sapere costruire; un luogo comune, questo, costantemente addotto da persone alla buona e superficiali, quando si deve affrontare il fastidio di un’attività di riordino. Questo detto è appropriato quando si concorda superficialmente su qualcosa o la si nega, perché si segue una irragionevole inclinazione; ma altrimenti è incomprensibile. Infatti non sempre si demolisce per poi di nuovo ricostruire; al contrario, si demolisce con vera sollecitudine per ottenere spazio libero per luce e aria, che pervadono da soli ogni luogo quando un oggetto ingombrante è stato portato via. Quando si guarda in faccia alle cose e le si tratta con sincerità, niente è negativo, ma tutto è positivo, per usare questa espressione di comodo.37

 

I primi militanti nazisti se la passavano quindi meglio: a loro bastava solo, senza espressioni di comodo, inculcare a colpi di randelli» il senso del destino e dell’uomo nordico in coloro che dubitavano. Comunque il gergo stava già a loro disposizione:

 

L’estremo incremento di tutte le attività che caratterizza il nostro tempo e la tensione di tutte le forze creative, in modo particolare i grandi fatti politici come tali, hanno portato questo fenomeno nella sua autenticità e nella sua manifesta originarietà per così dire davanti agli occhi della filosofia, che lo ha ripreso come un dato di fatto della massima rilevanza filosofica per lasciarsi condurre dal contenuto e dalla problematica di esso ad una comprensione pura e completa dell’uomo e del mondo (...) L’esistenza umana non è senza senso: questa è la dichiarazione categorica con la quale questa stessa esistenza va incontro alla filosofia della vita, per affermarsi di fronte ad essa e contro di essa (...) Dire di sì al destino e tuttavia negarlo, patirlo e tuttavia dominarlo, cioè guardarlo in faccia e confrontarsi con esso: questo è il contegno di una vera umanità. Questo contegno corrisponde all’immagine ideale dell’uomo, quale rappresentazione, incondizionatamente valida e sottratta ad ogni «vincolo temporale», di nient’altro che dell’essenza dell’uomo, ed esso determina insieme e unitamente a ciò il senso genuino e profondo del destino, quel senso che non ha niente a che vedere con il fatalismo e per il quale proprio l’uomo tedesco è libero; per l’uomo di sangue nordico questo senso acquista un contenuto profondamente religioso e fonda ciò che per quest’uomo si chiama legame del destino e fede nel destino.38

 

Il linguaggio usa la parola «senso» sia in sede gnoseologica per l’innocuo oggetto intenzionale di Husserl, sia per qualcosa che è giustificato come sensato, come quando si parla di «senso della storia». Che l’individuale fattuale abbia senso solo nella misura in cui in esso appare l’intero, ossia anzitutto il sistema della società; che i fatti isolati siano sempre più di ciò che essi sono immediatamente - tutto ciò resta vero, anche quando un tale senso è un assurdo. La domanda sul senso quale domanda su ciò che qualcosa è autenticamente e su ciò che in esso è nascosto spazza via però quella sul diritto di quel qualcosa, spesso senza che lo si osservi e perciò in modo tanto più brusco; essa fa dell’analisi del significato una norma non solo per i segni, ma anche per il designato. Il linguaggio come sistema di segni, per il solo fatto di esistere, trasforma in anticipo tutto in ciò che è socialmente preformato e difende in tal modo la società in base alla sua sola forma logica, ancor prima di ogni contenuto. Contro di ciò si impunta la riflessione; il gergo invece si fa portare dalla corrente e, insieme alle formazioni regressive della coscienza, desidererebbe più di ogni altra cosa rafforzarla. Il positivismo di indirizzo semantico ha ripetutamente osservato da un punto di vista logico la frattura storica (geschichtlicher Bruch) tra il linguaggio e ciò che viene espresso. Le forme linguistiche, in quanto oggettivate - e solo attraverso l’oggettivazione esse diventano forme - sopravvissero a ciò per cui esse una volta stavano e anche al suo contesto. Il fatto completamente demitologizzato cadrebbe al di fuori del linguaggio; tramite il solo opinare esso, se commisurato all’idolo della sua mera datità, diventa già Altro. Che senza linguaggio non vi siano fatti resta la spina nella carne, ma anche il tema, del positivismo, e rivela il residuo ostinatamente mitico del linguaggio come tale. A ragione la matematica è il modello del pensiero positivista: anche come sistema alinguistico di segni. In senso inverso l’arcaico duro a morire diviene fruttuoso nel linguaggio solo laddove il linguaggio si oppone criticamente ad esso; diviene invece un’illusione mortale quando è lo stesso linguaggio a confermarlo e a rafforzarlo. Il gergo condivide con il positivismo un’immagine rozza dell’arcaicità del linguaggio; entrambi non si curano del momento dialettico, e cioè del fatto che il linguaggio coinvolto nel progredire della demitologizzazione al tempo stesso si svincola dalle sue origini magiche come Altro da sé. Trascurando questo fatto, si permette la valorizzazione sociale dell’anacronismo linguistico. Il gergo glorifica semplicisticamente quell’antichità del linguaggio che i positivisti, altrettanto semplicisticamente, desiderano espungere insieme ad ogni espressione. La inadeguatezza del linguaggio rispetto alla società razionalizzata non induce gli autentici a stimolarlo verso ciò che gli spetta aumentandone l’acume, ma a sfruttarlo. A loro non sfugge che non è possibile parlare senza arcaismo alcuno; ciò che però i positivisti deplorano come residuo, essi lo eternizzano come benedizione. L’ostacolo che il linguaggio pone davanti all’espressione della pienezza di un’esperienza presente diventa per loro un altare. Visto che è insuperabile, rappresenta per ciò stesso l’onnipotenza e l’insolubilità di ciò che si sedimentò nel linguaggio. Ma l’arcaicità si vendica del gergo, la cui avidità nei suoi confronti viola la distanza. Essa viene oggettivata per la seconda volta; in essa si ripete ciò che comunque accadde storicamente ai linguaggi. L’aureola, nella quale le parole vengono avvolte come arance nella carta velina, mette sotto la propria regia la mitologia del linguaggio, come se non si credesse del tutto alla loro forza radiante; addizionate con colorante, sono le stesse parole a dover parlare, prive di quella relazione al pensato che le dovrebbe cambiare e quindi, ogni volta, anche demitologizzare. Mitologia del linguaggio e reificazione si confondono con l’aspetto antimitologico e razionale del linguaggio. Il gergo diviene praticabile sull’intera scala, dalla predica sino alla réclame, con il cui stile il gergo mostra sorprendenti somiglianze nel medium concettuale. Le parole del gergo e parole come Jägermeister (guardacaccia), alte Klosterfrau (vecchia monaca di clausura), Schänke (mescita) sono dello stesso tipo. Viene sfruttata la promessa di felicità legata a quel che ha fatto il suo tempo; si cava sangue a realtà che a posteriori luccicano di concretezza solo perché sono scomparse. Le parole inchiodate senza vita e riverniciate di uno strato isolante che luccica ricordano, perlomeno in base alle loro funzioni, i gettoni da gioco positivisti; adatte per qualsivoglia effetto contestuale, non si curano del pathos della unicità, che esse si arrogano e che proviene dal mercato, dove ciò che è raro ha un valore di scambio.

Con la garanzia di conferire a qualsiasi prezzo un senso all’esistente, l’antico astio antisofista penetra nella cosiddetta società di massa. Esso domina la tradizione ufficiale della filosofia, a partire dalla vittoria di Platone e di Aristotele sulla sinistra socratica; ciò che non si piegava alla sua volontà fu deviato in impotenti correnti sotterranee. Solo il positivismo più recente ha ridato onore ai temi sofisti alleandosi con la scienza. Il gergo gli si oppone. Senza pensarci molto riferisce il giudizio della tradizione. L’onta dei sofisti combattuti da Platone era che essi non combattevano contro la menzogna per cambiare la società degli schiavi, ma rendevano sospetta la verità, per attrezzare il pensiero in favore del sussistente. Il loro tipo di distruzione era già della stessa natura del concetto di ideologia totale. Platone poté fare dei sofisti alla Gorgia la caricatura da clown perché il pensiero, non più appesantito dalla conoscenza reale e, in ultima analisi, dalla natura dell’oggetto, trasforma in farsa il momento ludico che gli è essenziale, spettro della mimesi combattuta da tutto l’illuminismo.39 L’antisofistica tuttavia sfrutta la comprensione di tali deformità del pensiero lasciato libero, per denigrare il pensiero attraverso il pensiero stesso, cosa che Nietzsche rimproverava a Kant, che già parla del «raziocinare» nello stesso tono autoritario in cui poi Hegel parla del Raisonnieren. Nell’antisofistica di moda confluiscono torbidamente la necessaria critica alla ragione strumentale scissa e un’oscura difesa delle istituzioni contro il pensiero. Il gergo - sottoprodotto della stessa modernità con cui è in rapporti di inimicizia - cerca di riparare se stesso e le istituzioni realmente distruttive dal sospetto di distruggere, imputando ad altri gruppi, perlopiù anticonservatori, come intellettualismo peccaminoso ciò che è invece riposto nel suo particolare e non ingenuo principio di riflessione. Demagogicamente il gergo usa il carattere ambivalente dell’antisofistica. Se è falsa una coscienza che dall’esterno - in termini hegeliani, senza essere nella cosa - si pone al di sopra di essa e la tratta dall’alto in basso, altrettanto ideologica diviene la critica nell’istante in cui, autolegittimata, dà ad intendere che il pensiero necessita di un «suolo». Il dogma, oltrepassato dalla dialettica hegeliana, secondo cui il pensiero per essere vero avrebbe bisogno di un principio primo e indubitabile, esercita nel gergo dell’autenticità un terrore tanto più forte, quanto maggiore è quell’aria di sufficienza con cui esso insedia il suo principio primo all’esterno di ogni connessione di concetti. L’antisofistica nello stadio finale della mitologia prefabbricata è un’irrigidita filosofia dell’origine. Il gergo registra la ricaduta della metafisica risorta in uno stadio predialettico come ritorno alle madri:40 «Quando tutto è reciso, resta solo la radice. La radice, cioè l’origine, da cui siamo cresciuti e che noi avevamo dimenticato nell’intrico di opinioni, abitudini, schemi di comprensione.»41 E ancora in Ragione ed esistenza si legge:

 

Solo cosi la vera forza dell’uomo potrebbe essere realizzata. La potenza dell’incondizionato in lui, sperimentata in ogni possibilità di lotta e di domanda, non avrebbe più bisogno della suggestione, dell’odio, del piacere della crudeltà per divenire attiva, né di ubriacarsi di grandi parole e di dogmi non compresi per credere in sé, e cosi solo diventerebbe veramente rigorosa, dura e imparziale. Solo in questo modo gli autoinganni possono sparire, senza che l’uomo stesso perisca con il perire delle sue menzogne vitali. Solo così, senza veli, si manifesterebbe dal profondo il fondamento genuino.42

 

Con la sofistica, contro cui essi imprecano e la cui arbitrarietà persiste nei loro progetti filosofici, invece di esser posta sotto controllo, gli autentici hanno in comune la loro tesi preferita secondo cui tutto dipende solo dall’uomo, ossia la sentenza, riesumata con insperata unzione, che l’uomo è misura di tutte le cose. Ma il modello sociale che essi si sono scelti come spauracchio è proprio come allora la libertà di spostamento cittadina, che favorì una volta l’emancipazione del pensiero. Però a ben vedere, nella società borghese totalmente razionalizzata, la mobilità delle persone e dello spirito non è tanto una minaccia per quei gruppi che risiedono nello stesso luogo da lunga data e che comunque nei paesi altamente industrializzati sono quasi scomparsi, quanto piuttosto una sfida alla perdurante irrazionalità dell’intero sistema, che farebbe volentieri piazza pulita di quei resti delle forme di vita acquisite durante il liberalismo che ancora continuano a vegetare. Per questo motivo il gergo deve difendere, come se fossero imperiture, forme sociali destinate a tramontare e inconciliabili con il grado attuale delle forze produttive. Se esso salisse senza esitazioni sulle barricate per difendere il sussistente, la società dello scambio, si impegnerebbe per ciò stesso non solo per qualcosa che anche i suoi fedeli disprezzano molto ma, date le circostanze, proprio per quella razionalità che la società dello scambio promette senza mantenere e attraverso cui potrebbe essere tolta. La forma borghese della razionalità ha bisogno da sempre di supplementi irrazionali per restare ciò che essa è: un’ininterrotta mancanza di equità avallata dal diritto. Una tale irrazionalità entro la realtà razionale è il clima aziendale dell’autenticità. Quest’ultima può far leva sul fatto che per lunghi periodi di tempo sia la mobilità reale che quella metaforica - aspetti fondamentali dell’uguaglianza borghese -apparvero sempre come ingiustizie agli occhi di coloro che faticavano a tenere il passo. Essi percepirono il progresso della società come una condanna: il ricordo indotto dalla loro sofferenza fa fermentare l’autenticità insieme al suo gergo. Le sue bolle fanno scomparire il vero motivo della sofferenza, che consiste in un determinato stato sociale di cose. Infatti le vittime prescelte dell’astio contro la mobilità sono già state condannate nel momento in cui la sfera della circolazione venne fusa con quella della produzione. Solo per questo motivo hanno tanto successo gli sforzi del gergo di trasformare il rancore di chi ha una residenza stabile, di chi è taciturno, in una specie di giudizio morale-metafisico di annientamento su colui che sa parlare: perché questo giudizio, in linea di principio, è già stato pronunciato e in Germania è già stato eseguito su tantissimi; perché l’atteggiamento di chi ha radici genuine sta dalla parte dei vincitori storici. E' questa la sostanza della autenticità, la fonte sacra della sua forza. L’esser di poche parole e il non parlare del tutto sono il migliore contrappunto della chiacchiera esistenziale ed esistentiva: l’ordine al quale essa mira ricorre anch’esso all’inespressività dei segni e dei comandi. In felice accordo con i suoi consumatori, il gergo riempie i vuoti creati dalla decomposizione socialmente necessaria del linguaggio. Le persone socialmente modeste hanno pochi conoscenti; esse si sentono a disagio quando si trovano insieme a persone che non conoscono già, e il loro rancore trasforma questo disagio in virtù. Non da ultimo il gergo ricorda qualcosa dei modi bruschi di un portiere di un hotel di montagna che, rivolgendosi agli ospiti come se fossero intrusi, acquistava così la loro fiducia. Nel frattempo, in relazione alla staticità sociale che sta di nuovo aumentando, sulla parola che una volta si dava un gran da fare per convincere finisce per cadere un riverbero di umanità. Se la filosofia riconducesse quelle esperienze che si depositarono nel gergo nella forma capovolta di essenze decotte e di possibilità d’Essere alla società, da cui ebbero invero origine - se la parola «origine» deve pur significare qualcosa - essa verrebbe allora a capo dell’opposizione di mobilità e stabilità, di mancanza di suolo e autenticità: riconoscerebbe entrambi come momenti della stessa colpevole totalità nella quale commercianti ed eroi hanno bisogno reciproco. Il liberalismo - dal quale nacque l’industria culturale, sulle cui forme di riflessione il gergo dell’autenticità si indigna e una delle quali è esso stesso - fu il progenitore del fascismo, che lo calpestò assieme ai suoi tardi sostenitori. Certo, l’assassinio di ciò che oggi riecheggia nel gergo è incomparabilmente più grave dell’apparenza illusoria di mobilità, il cui principio è incompatibile con quello del potere immediato.